foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

 Dr Antonio Giangrande  

                                      

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

http://www.megghy.com/immagini/animated/bobine/bandes-10.gif INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA

80x80 LIBRI: HTML - EBOOK - BOOK - GOOGLE BOOKS

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

GIUDICANTI, INGIUDICATI !!!

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

 INDRO MONTANELLI CONTRO I MAGISTRATI

 

IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.

 

VIOLENZA ED OMERTA' IN CARCERE. TUTTI I CUCCHI D'ITALIA

 

LA POLITICA, I MAGISTRATI E LA LINGUA ITALIANA

 

CASO BERLUSCONI. TUTTE LE ACCUSE DEL CSM AD ANTONIO ESPOSITO

 

 ETICA E LEGALITA': I MAGISTRATI INELEGGIBILI  IN POLITICA

 

TOGHE CORROTTE E FALLIMENTI TRUCCATI

 

TRIBUNALI: USURA E FALLIMENTI TRUCCATI

 

 LA MAFIA DEI MAGISTRATI CORROTTI: PM E GIUDICI CIVILI E PENALI

 

LA MAFIA DEGLI AVVOCATI

 

 RIFORMA ORDINAMENTO FORENSE.

LA CASTA DEI VECCHI AVVOCATI SI TUTELA IN PARLAMENTO

 

Essere Avvocati, privilegi per pochi. Abilitazione truccata e lotta di potere.

 

GIUDICI AMMINISTRATIVI

MAGISTRATI POLITICIZZATI

 

COSI' SI DIVENTA NOTAI

COSI' SI DIVENTA MAGISTRATI

COSI' SI DIVENTA AVVOCATI

COSI' SI DIVENTA PROFESSORI

 

MAGISTRATI, LA GIUSTIZIA: ROBA LORO

AVVOCATI CONTRO MAGISTRATI


LEGULEI ED IMPUNITA'

SOMMARIO

INTRODUZIONE.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

RESPONSABILITA' ED IRRESPONSABILITA'.

LA IRRESPONSABILITA' DEI CITTADINI.

LA IRRESPONSABILITA' DELLE ISTITUZIONI.

LA IRRESPONSABILITA' DEGLI AVVOCATI.

LA IRRESPONSABILITA' DEGLI IMMIGRATI. 

LA IRRESPONSABILITA' DEI BUROCRATI.

G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.

AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO. ESAME DI AVVOCATO: 17 ANNI PER DIRE BASTA!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

GIORNALISTI: ZERBINI DEI MAGISTRATI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

CITTADINI. MANIFESTARE E DEVASTARE. IMPUNITA’ CERTA.

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.

BERLUSCONI ASSOLTO? COLPA DEL GIUDICE!

FASCICOLI CHE SPARISCONO. UFFICIO GIUDIZIARIO: NON C'E' POSTA PER TE!

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

I SUPERDURI DELLE CARCERI: I GOM.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.

COME SI DIVENTA MAGISTRATI: CHIEDETELO AD ANTONIO DI PIETRO.

CORSI E RICORSI STORICI: QUANDO LE COSE IN ITALIA NON CAMBIANO MAI.

IL GARANTISMO E’ DI SINISTRA, MA DA LORO E’ RINNEGATO.

LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI E LE RIFORME TRUFFA.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAGISTRATI PEGGIO DEI POLITICI. IL CSM DEI RACCOMANDATI ED I MAGISTRATI DIVENUTI TALI COL TRUCCO.

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

FINANZA E GIUSTIZIA.

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI. I GIORNALISTI DI SINISTRA: VOCE DELLA VERITA’? L’ESPRESSO E L’OSSESSIONE PER SILVIO BERLUSCONI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

ISTITUZIONI CONTRO. LA CASSAZIONE ACCUSA LA CORTE COSTITUZIONALE DI INSABBIARE.

ANCHE IL CSM INSABBIA.

I MAGISTRATI FANNO IMPUNEMENTE QUEL CHE CAZZO VOGLIONO!

LATINA OGGI, UCCISO DALLA MALAGIUSTIZIA.

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI. 

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI E DEI PAVIDI.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

AVVOCATI MAFIOSI O AVVOCATI DELLA MAFIA?

SPRECHI: NON SOLO PARLAMENTARI. IL POZZO SENZA FONDO DELLO STATO.

AVVOCATI: CHI E’ CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO. RIFORMA FORENSE E DEONTOLOGICA.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

COME I MAGISTRATI DI SINISTRA SON DIVENTATI PARTITO DI SINISTRA.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA LEGA MASSONICA.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.

IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.

TOGHE SCATENATE.

CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

CHI E' ANTONIO ESPOSITO.

ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

AVVOCATI: DIAMO I NUMERI?

BASTA CON LA TIRITERA DEI TROPPI AVVOCATI IN ITALIA.

FUGA DALLA PROFESSIONE.

PROFESSIONISTI SENZA DIGNITA’.

AVVOCATI PERMALOSI E TRAFFICHINI. STRANO MODO DI FARE LOBBY.

GLI AVVOCATI SONO UNA CASTA: PUNTO E BASTA!

I MAGISTRATI SONO UNA CASTA!

SERVIZI PUBBLICI E SPESA PUBBLICA: SACRIFICI, MA NON PER TUTTI.

PARLIAMO DELLE TOGHE IN FERIE.

VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA, LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.

TUTTI DENTRO: IL GIUDICE CHIARA SCHETTINI.

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

AZIONE PENALE. E' VERAMENTE OBBLIGATORIA?

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

MAGISTRATI SOTTO INCHIESTA.

MAGISTRATI INDIPENDENTI?

IL PARTITO DEI GIUDICI.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI. L’IMPUNITA’ DEI MAGISTRATI.

PRIVILEGI E POTERE. PER CHI SUONA LA CAMPANA?

MAI DIRE CSM.

I FLOP GIUDIZIARI ED I PALADINI DELLA GIUSTIZIA.

LA LOBBY DELL'INCHIESTA FACILE.

DALLA TOGA ALLA POLTRONA E VICEVERSA.

TOGHE ROSSE E TOGHE NERE. UN DISCORSO SU VISITE FISCALI E SEGRETO ISTRUTTORIO.

MAGISTRATI MAFIOSI?

SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?

GIUDICI O MEDICI?

GIUDICI OD AVVOCATI?

TOGHE BOCCACCESCHE.

TOGHE CON LE GONNE.

PARLIAMO DELLA CORTE DEI CONTI.

PARLIAMO DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA.

PARLIAMO DEI GIUDICI DI PACE.

SFATIAMO UN TABU’ E ROMPIAMO L’OMERTA’. PARLIAMO PURE DEI MAGISTRATI TOGATI.

GLI AVVOCATI

CONTRORIFORMA FORENSE CONTRO I GIOVANI. AVVOCATURA: ROBA LORO IN PARLAMENTO. ALBI ED ORDINI DI STAMPO FASCISTA REITERATI DA LIBERALI E COMUNISTI.

QUANDO A FARE LE LEGGI SONO I NONNI CORPORATIVI IN PARLAMENTO. IMPEDIMENTO ALL’ACCESSO IN AVVOCATURA CON ESAME (TRUCCATO) E AGGRAVATO, CONSEGUITO IN ITALIA E RESISTENZA CONTRO L’ABILITAZIONE ESTERA.

CONCORSI TRUCCATI E LOBBING.

CHI DIFENDE I CLIENTI DAI LORO DIFENSORI ?!?

I MAGISTRATI 

MAGISTRATI. SE QUESTI MERITANO RISPETTO.....

I MAGISTRATI GIUDICATI DA UN MAGISTRATO.

MAGISTRATI PERMALOSI.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO.

LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.

PARLI MALE DEI MAGISTRATI? GIORNALISTI CONDANNATI. IL CASO MULE' ED IL CASO SQUERI.

RECORD DI QUERELE PER I MAGISTRATI.

TAR E CONSIGLIO DI STATO: PRIVILEGI E CONCORSI TRUCCATI. MAI DIRE MAFIA, MAFIOSO E MAFIOSITA’.

IN CHE MANI SIAMO? MAGISTRATI MAFIOSI.

PARLIAMO DI USURA E DI FALLIMENTI TRUCCATI?

PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA.

PARLIAMO DI TOGHE INCRITICABILI.

PARLIAMO DI TOGHE INFAMI E FALSE.

PARLIAMO DELL’INTIMIDAZIONE DEI MAGISTRATI CHE CAUSA CENSURA ED OMERTA’?

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI?

CORSI E RICORSI STORICI. INNOCENTI IN CARCERE, MAGISTRATI COLPEVOLI IN LIBERTA'.

PROFESSIONE: IMPUNITI.

Diaz, un processo italiano.

CORSI E RICORSI STORICI: QUANDO LE COSE IN ITALIA NON CAMBIANO MAI.

SE IL GIUDICE NON E' AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO.

L'ALTRA CASTA. ECCO LE TOGHE MULTISTIPENDIO.

ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.

E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA: "NON SOPPORTAVO PIU' L'IDIOZIA DI TROPPI COLLEGHI.

MAGISTRATURA: LOTTA ALL’ILLEGALITA’, LOTTA DI POTERE, O POTERE DI INTIMIDAZIONE PER L’ESERCIZIO DEL POTERE POLITICO?!?

MAI PARLAR MALE DELLE TOGHE.

COME SI STRIZZA LA MAGISTRATURA: RACCOMANDAZIONI A IOSA. CONCORSI ILLEGITTIMI. PROMOZIONI POLITICHE. FAMILISMO ESASPERATO. E PRESSIONI DELLA MASSONERIA.

CORTE COSTITUZIONALE E CONSIGLIO DI STATO: ORGANI DI GARANZIA ??

PROCESSO AI MAGISTRATI: LA CASTA DELLE CASTE. SCARSA PRODUTTIVITA' E MERITO NON PREMIATO. E PER LE POLTRONE BLOCCANO LA GIUSTIZIA.

TOGHE MASSONICHE.

TOGHE ASSENTEISTE.

TOGHE PAZZE.

TOGHE CORPORATIVE.

OMESSE LE INFORMATIVE AL CSM CONCERNENTI I PROCEDIMENTI PENALI A CARICO DI MAGISTRATI.

8 ANNI PER LE MOTIVAZIONI: IL CSM NON SOSPENDE PINATTO.

IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.

LA POLIZZA ASSICURATIVA:  DI 145, 50 EURO ANNUE.

CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: I MAGISTRATI RESPONSABILI ANCHE PER COLPA SEMPLICE.

TOGHE MAFIOSE, EVERSIVE E SOVVERSIVE.

TOGHE ROTTE. MAGISTRATURA, UN'ALTRA CASTA.

TOGHE ROSSE.

TOGHE CANTERINE. TOGHE CHE RIVELANO SEGRETI D'UFFICIO.

PRIVILEGI, SEGRETI E CONCORSI TRUCCATI

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Roma, un uomo rischia 10 anni di carcere per aver rubato 22 pigne: "usò violenza sul pino", scrive “Libero Quotidiano”. La giustizia italiana non finisce mai di stupire. In un paese dove i processi durano anni e dove la pena è tutt’altro che una certezza delle volte i magistrati si accaniscono per delle sciocchezze. È quello che sta succedendo a Roma, dove dal 2012 sta andando avanti un processo che vede imputato un uomo per aver rubato 22 pigne da un albero nel giardino comunale in via Libero Leonardi, nel quartiere romano di Torre Maura. E già qui sembrerebbe assurdo, ma se si vanno a spulciare le motivazioni e le accuse la situazione diventa addirittura surreale. Come riporta il Corriere di Roma Dorel Bancila, questo il nome del romeno 57enne, rischia da 3 a 10 anni per furto aggravato. Aggravato certo, ma da cosa? Ebbene, dal fatto che secondo la procura Bancila avrebbe “usato violenza sul pino staccando la pigna”. Ora, viene spontaneo chiedersi come avrebbe potuto staccare i frutti senza commettere “violenza”, ma andiamo oltre. Seconda aggravante è che il furto è stato commesso in uno spazio di “pubblica utilità” come il parco pubblico. Sono proprio queste due circostanze, per quanto la prima sia assurda, a creare una sorta di vizio di forma e a impedire al magistrato di applicare il principio della tenuità del danno. Dello stesso avviso è anche l’avvocato romano Francesco Caroleo Grimaldi, secondo cui “La contestazione delle circostanze appare esagerata visto il basso valore patrimoniale di una pigna”.

Il fatto – Il calvario di Bancila è iniziato la mattina del 29 settembre del 2012, quando l’uomo ha cominciato a raccogliere le pigne nel parco dove gli alberi erano stati piantati da poco. La mietitura prosegue finché non arrivano due vigili urbani, intervenuti sul posto dopo la denuncia di un passante. I vigili quindi prima identificano l’uomo e poi sequestrano le 22 pigne. Tre anni dunque che va avanti un processo che sarebbe esilarante se non fosse che si stanno sprecando dei soldi pubblici e del tempo che i funzionari dello stato farebbero bene a impiegare in modo più produttivo.

Il precedente dell’oleandro – Non è la prima volta che accade un fatto simile. Nel 2011 un etiope fu processato, e poi prosciolto dopo un lungo processo, per aver strappato il ramo di un oleandro da regalare alla sua fidanzata. Anche allora il rischio era di scontare tre anni in carcere.

Villa Greppi: serata per parlare di giustizia. Ospiti due magistrati, Brambilla e Galoppi, scrive Alice Zerbinate su "Casate On Line". Un incontro sul tema della giustizia, bisogno insito nella natura umana, e sulle sue declinazioni nella società contemporanea. Questi gli argomenti al centro della serata di venerdì 15 maggio 2015 al granaio di Villa Greppi, un appuntamento promosso dalla Fondazione Costruiamo il futuro, moderato dal giornalista de “Il Giornale” Stefano Zurlo, al quale sono intervenuti ospiti di rilievo nel panorama giuridico italiano: il magistrato di sorveglianza Guido Brambilla, autore del libro “Itinerari di giustizia”, presentato nel corso dell’incontro, e il consigliere superiore della magistratura Claudio Galoppi, originario peraltro di Oggiono. “Ad oggi lo stato della giustizia in Italia è complicato sul versante civile ed amministrativo, per la durata dei processi e per il generale malfunzionamento. Una situazione che si ripercuote anche a livello economico limitando gli investimenti stranieri nel nostro paese” ha introdotto Zurlo, che ha poi proseguito, presentando alcune teorie esposte da Brambilla in “Itinerari della giustizia”. “Nel libro si parte dal concetto generale di giustizia, e dal diritto come strumento essenziale per capirla. La giustizia è vista come esigenza profonda dell’uomo ma, ad un certo punto dell’evoluzione umana, il diritto si è sconnesso da essa, diventando uno strumento di potere” ha dichiarato. La parola quindi a Brambilla. “Dopo diversi incarichi nella magistratura in tutta Italia, da una dozzina di anni sono magistrato di sorveglianza a Milano. Un lavoro che mi ha portato ad interfacciarmi con tutti quegli altri operatori che si occupano dei detenuti, e con i detenuti stessi. Da questa esperienza è nata l’esigenza di immaginare un’amministrazione della giustizia diversa dalle precedenti” ha spiegato. Per arrivare a questo punto, però, era prima necessario indagare a fondo sul concetto di giustizia in generale, che è un’esigenza costitutiva dell’uomo, un bisogno di completamento: dare a ciascuno ciò che lo fa essere sé stesso. Il tutto seguendo un ordine che, per Brambilla, trascende l’uomo, seguendo leggi eterne. “Non riconoscere questo Mistero, significa dare uno strumento troppo grande nelle mani dell’uomo” ha infatti affermato il magistrato, passando poi ad esempi concreti della presunta prevaricazione umana sull’ordine superiore, come ad esempio relativamente alla questione dell’eutanasia. Intervenuto quindi Galoppi, il quale ha sottolineato che, tra i problemi della giustizia italiana, fondamentale è l’assenza di un’identità culturale, sostituita da un’inclinazione politica che cambia al variare dei governi. “Personalmente, faccio parte della magistratura indipendente, corrente vicina al centro destra. Ritengo infatti che alcune priorità culturali della magistratura si riconoscono in questa forma di aggregazione. E’ proprio questa l’emergenza dell’attuale momento storico: l’assenza di un’identità culturale, un sistema che non ha coerenza al suo interno, una realtà più ampia entro cui far ricondurre il pensiero delle persone. Senza un quadro di riferimento, i “diritti” si moltiplicano” ha sostenuto Galoppi. Posizione confermata anche dallo stesso Brambilla: “Non è un problema che riguarda solo gli addetti ai lavori. Il diritto è responsabilità di tutti, e ci tocca da vicino come persone nell’educazione dei figli, nel rapporto con gli altri e via dicendo”. Ampio spazio è stato poi dato al tema della pena, partendo dalla storia di una terrorista delle BR. Condannata all’ergastolo, con 30 anni già scontati, per due omicidi, il magistrato ha sostenuto che, la sua persona, non è definita da quei delitti, c’è molto di più. Quindi, la necessità di un percorso di lavoro sulla persona, che vada oltre la sola detenzione, senza congelare l’individuo alle azioni che ha compiuto, evitando però anche l’eccessivo buonismo. “Chi ha commesso uno sbaglio, deve essere condannato. Nella mia esperienza mi è capitato che alcuni soggetti mi facessero presente la propria necessità di avere paletti, obblighi, per non ricadere nei propri sbagli. L’obiettivo della detenzione e della pena in generale deve essere la rieducazione. Io mi sento più tranquillo se la gente cambia, perché diventa esempio anche per gli altri” ha concluso il magistrato.

Se la giustizia si trasforma in uno strumento di potere. Il magistrato Guido Brambilla accusa la propria categoria in un pamphlet coraggioso che spiega tutti i limiti, anche filosofici, dei nostri tribunali e dei nostri giudici..., scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Il paziente è stato visitato infinite volte. I troppi fascicoli. I processi che non finiscono mai. Le sentenze sul filo della politica. Ma forse una vera diagnosi della malattia non è mai stata fatta; o meglio tutte le spiegazioni e le polemiche hanno ridotto l'angolo visuale sui mali, e che mali, della giustizia italiana. Oggi, in un saggio affascinante e controcorrente, Guido Brambilla, magistrato al tribunale di sorveglianza di Milano, critica senza peli sulla lingua e senza alcun riflesso corporativo la categoria cui appartiene. Ma nel volume Itinerari della giustizia (Guerini e Associati, pagg. 144, euro 14,50; prefazione di Eugenio Borgna) si sforza anche di andare in profondità, cercando le cause ultime dei guasti al crocevia fra filosofia, religione, diritto. Pagine spiazzanti, ancor di più se si pensa che a scriverle è un magistrato di rito ambrosiano. Ma Brambilla non si preoccupa di compiere un delitto di lesa maestà, non ama i toni retorici e scortica tante certezze. La giustizia, ci spiega, si è separata dal diritto che è diventato di fatto uno strumento di potere. E il diritto, a sua volta, ha divorziato dall'esperienza. Come si vede, la riflessione, vertiginosa, spazia avanti e indietro lungo i secoli e diventa una riflessione sulla crisi dell'uomo occidentale: il malato, ecco la conclusione antropologica cui il giudice approda, è l'uomo e non solo il giudice. Potrebbe sembrare un tema bellissimo e dotto, buono per qualche convegno fra tecnici della materia ed esperti vari, ma Brambilla non si ferma all'affresco generale. No, seguendo la lezione di don Giussani, prova, sia pure per grandi linee, a mettere in collegamento il tema di fondo con la realtà quotidiana, il cielo con la terra, il generale con il particolare. E arriva a prendersela con il buonismo dei suoi colleghi che giustificano a volte il comportamento criminale o lo trasformano in una sorta di malattia, di devianza psichiatrica o di deficit che toccherà alla scienza disinnescare e incasellare. E invece in questo modo, secondo il magistrato, si dimentica la responsabilità di chi delinque, si cancella la libertà della persona, si perde per strada, per dirla tutta, la dimensione non simbolica ma assolutamente reale del peccato originale. Il giudice, o meglio l'uomo che dovrebbe amministrare la giustizia, ha oggi un'idea incerta di cosa sia il Bene. E questo perché ancora prima non sa bene come declinare parole altisonanti e irrimediabilmente astratte, anzi straniere, come ragione e verità. Si ritorna così al punto di partenza. La ragione: «Non è più una finestra spalancata sulla realtà ma un criterio di misura della medesima, un'elaborazione di concetti finalizzati a una sua manipolazione». E ancora, a cascata: «Il diritto non è più strumento di una giustizia da ricercare nell'oggettività di un ordine, ma è il diritto del soggetto, il mio diritto». Siamo così ad un altro punto concreto e infiammato della crisi dei nostri tempi: la proliferazione incontrollabile dei diritti. Con leggi e sentenze che si attorcigliano e si contraddicono sui diritti dei gay, delle lesbiche, dei malati terminali, delle donne che vogliono affittare l'utero, degli animali e via elencando in un elenco interminabile e sempre più affannoso. Brambilla, che con molto coraggio e un pizzico di temerarietà è partito da lontano, addirittura dai tornanti che segnano il passaggio dal Medio Evo all'epoca moderna, coglie così un altro aspetto del labirinto contemporaneo: la riduzione della ragione porta a smarrire un'unità di misura comune. E allora il metro del diritto si allunga e si accorcia passando da un tribunale all'altro, da un giudice all'altro, da una città all'altra. E quello che sostiene il primo giudice può essere smentito dalla corte d'appello e poi ancora sconfessato dalla cassazione in un estenuante balletto senza fine. E forse senza soluzioni a portata di mano: nei giorni scorsi nel corso di un dibattito organizzato a Monticello Brianza dal centro culturale Charles Peguy Claudio Galoppi, a sua volta magistrato e membro del Csm, ha dato ragione a Brambilla e ha osservato che la «definizione dei dritti è il tema dei temi sul tappeto della giustizia oggi». Un'analisi sorprendente e ancora una volta non scontata per chi ha trascorso anni e anni sulla frontiera del conflitto fra giustizia e politica, fra berlusconismo e antiberlusconismo, fra giustizialismo e garantismo. Sia chiaro: Brambilla non è un nostalgico del passato che fu, non vagheggia ritorni impossibili alla società premoderna e non sogna una qualche restaurazione, come i Borbone nel periodo napoleonico. Sa però che bisogna ricomporre l'uomo per ricomporre, almeno in prospettiva, la grande frattura dentro la giustizia. L'esatto opposto di quel che si continua a fare con le forbici dello scetticismo: ritagliare e sminuzzare e ritagliare ancora i troppi coriandoli di un puzzle ormai diviso in migliaia di frammenti non più accostabili l'uno all'altro. L'autore, al termine di un percorso alto e difficile ci disegna una propria mappa: «La giustizia è dare a ciascuno ciò che lo fa essere veramente se stesso». Poi, appoggiandosi a Paolo Vi, ci offre un'altra immagine: «La giustizia è la misura minima della carità». Di questi tempi ci accontenteremmo di molto meno.

Nomina scrutatori e rappresentanti di lista: voto di scambio?

Lo scandalo dei voti di scambio: 30 euro ai ragazzi per 3 giorni di presenza ai seggi. Voto di scambio a destra, ma son peggio i permessi elettorali retribuiti dallo Stato alla sinistra.

Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

La verità è che in politica ci sono sempre gli interessi personali ad essere interessati e per quegli interessi si vota e per nient’altro.

Gli scrutatori sono nominati dagli amministratori, a cui render conto con i voti propri e dei parenti, ma sono pagati dallo stato: voto di scambio?

I rappresentanti di lista sono nominati dai candidati, a cui render conto con i voti propri e dei parenti. A sinistra sono numerosi. Fanno calca. Sono operai od impiegati che non hanno avuto nessuna difficoltà a trovare il loro impiego, grazie ai sindacati. I rappresentanti di lista di sinistra alle sezioni dei seggi elettorali li vedi a piantonare ed a controllare, spesso a disturbare ed a contestare. Si sentono anime pure. Additano come venduti i ragazzi dei partiti avversari, che prendono in totale 30 euro per 3 giorni di impegno ai seggi.

A sinistra parlano di volontariato politico. Ma è veramente così? 

Al lavoratore con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla L. n. 53/90, e dell’art. 1 della legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti, quindi remunerata.

Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori della scuola impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 L. 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.

Hai visto le anime pure di sinistra? Prendono 10 volte la regalia dei 30 euro dati ai ragazzi dei partiti avversari, eppure parlano.

Il vero voto di scambio è quello loro: dello pseudo volontariato elettorale della sinistra.

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Chi sventola cappi finisce impiccato sui suoi patiboli. Il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso. È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'intolleranza, scrive Arturo Diaconale su “Il Giornale”. A differenza di quanto ha sostenuto Raffaele Cantone non trovo per nulla meritoria la decisione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi di emettere liste di proscrizione di presunti «impresentabili» alla vigilia delle elezioni regionali di domenica prossima. E, sempre a differenza di quanto affermato dal presidente dell'autorità Anticorruzione non considero soltanto «pericoloso» che a dare patenti di presentabilità sia una autorità politica e non una autorità giudiziaria. In realtà il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso (ma Cantone si rende conto della contraddittorietà delle sue affermazioni?). È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'arbitrio, della prevaricazione, dell'intolleranza. In una parola verso il trionfo di un giacobinismo terroristico incompatibile con il sistema democratico e funzionale ad ogni tipo di avventura autoritaria. La Costituzione stabilisce che la linea della presentabilità o meno di un cittadino nella vita pubblica è fissata dalla presunzione d'innocenza. Se si è condannati in via definitiva si è «impresentabili». Prima di questa condanna si continua ad essere titolari dei diritti civili e politici. Ma questa linea, che è quella della verità giudiziaria, è stata superata da tempo. L'egemonia giustizialista degli ultimi vent'anni l'ha ridotta a reperto archeologico, da considerare abrogata di fatto dalla Carta costituzionale. Ad essa è stata sostituita prima quella della incensurabilità delle persone. Che stabilisce la presentabilità o meno a seconda se si sia incensurati o no a prescindere dalla gravità dei reati. Una linea che è sempre legata alla «verità giudiziaria». E, successivamente, quella della eticità e della moralità del comportamento delle persone. Linea che supera il confine fissato dai giudizi della magistratura, che comunque debbono rispondere ai criteri della equanimità, della terzietà, dell'oggettività, e stabilisce che la presentabilità debba discendere dal giudizio etico e morale dato da una opinione pubblica normalmente influenzata dal circuito mediatico-giudiziario. Con la presentabilità dipendente da un giudizio etico e morale siamo già ampiamente fuori del perimetro costituzionale. Ma con la scelta della commissione Antimafia di stilare liste di proscrizione si compie un salto più lungo e decisivo. Si stabilisce che la linea della presentabilità è data dalla verità politica. Una verità che non risponde mai ai valori ma sempre alle convenienze. Che per definizione non può mai essere equanime, terza, oggettiva ma sempre di parte. Che dipende da maggioranze variabili, occasionali, aleatorie. E che, soprattutto, viene regolarmente imposta da chi urla più forte e sventola più minacciosamente cappi, forche e manette per suggestionare una opinione pubblica naturalmente portata, in tempi di crisi, a scaricare le sue paure e tensioni sui facili capri espiatori. È dai tempi di Gesù e Barabba che la verità politica provoca aberrazioni. Rosy Bindi, che si dice cattolica, dovrebbe ricordarlo. E chi lo ha dimenticato dentro la commissione Antimafia in nome di un giacobinismo strumentale e da operetta non solo dovrebbe tenerlo a mente ma anche non dimenticare mai che a lungo andare i giacobini intolleranti finiscono con salire sui patiboli da loro stessi impiantati. I puri hanno sempre in sorte di trovare i più puri che li epurano!

Una legge contro la proscrizione, scrive Maddalena Tulanti su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Brutta giornata ieri per i candidati presidenti alla regione Puglia. Rosi Bindi, presidente della commissione antimafia, ha reso noto (per la verità nel suo staff dicono che c’è stata la solita fuga di notizie) i nomi dei candidati pugliesi che sarebbe stato meglio non mettere in lista, i cosiddetti “ impresentabili”, e sono stati dolori per Emiliano, Schittulli e Poli Bortone. Ne sono stati individuati 4, due sono schierati nel movimento di Schittulli, 1 per Poli Bortone e 1 per Emiliano. I soliti malpensanti si sono chiesti come mai sono usciti solo i nomi dei candidati pugliesi e qualcuno addirittura ha lasciato intendere che dopo la sparata di Emiliano contro la presidente Bindi di qualche giorno fa era il minimo che il quasi governatore si potesse aspettare. Noi non ci crediamo, riportiamo il pettegolezzo solo per far comprendere quanto il clima si stia avvelenando mano a mano che ci avviciniamo alla giornata del voto. I nomi degli “impresentabili” li avrete letti nelle cronache, evitiamo di farli di nuovo e non a caso. A noi le liste dei cattivi non sono mai piaciute, nemmeno a scuola quando la maestra ci chiedeva di farlo mentre lei si assentava. Come quelle di proscrizione, queste liste sono sempre fatte a fin di bene, per mantenere o un ripristinare l’ordine costituito, e abbiamo imparato da tempo quanto inferno può nascondersi dietro a un bisogno di paradiso. Detto questo, non è che ci piaccia che le liste, quelle elettorali stavolta, siano formate senza badare a chi ci fa parte, contando soprattutto sulla “quantità” dei voti che un candidato/una candidata è capace di portare invece che sulla “qualità” di quello che egli/ella rappresenta. Che si fa allora? Si fa finta di niente o si accetta il disonore pubblico? Non si può fare finta di niente, è evidente. Se la commissione antimafia si è messa a spulciare ogni lista presentata in tutte le regioni in cui si vota è probabile che il sospetto che si eleggano persone colluse con poteri criminali o semplicemente che hanno avuto a che fare con la legge, esiste eccome. Quindi ben venga la ricerca delle pecore nere. Ma non per questo si deve agire con l’accetta. Siamo di fronte a un equilibrio delicatissimo, da una parte c’è il diritto a essere considerato una persona perbene fino all’ultimo grado di giudizio; dall’altro bisogna garantire a chi si reca alle urne la certezza che su nessuna delle persone scese in campo possa essere sollevato un dubbio di nessun genere. Insomma se ne esce in un unico modo, attraverso la legge. Si cambino le regole, si decida chi può essere candidato e chi no in maniera più severa. E poi solo silenzio.

Le liste di proscrizione. La bomba illegale della Bindi sulle elezioni amministrative 2015, scrive Magazine Donna. Con una scelta che dire grottesca è poco, Rosy Bindi e la sua commissione parlamentare antimafia venerdì 29 maggio 2015 – a quarantotto ore dalle elezioni regionali – compileranno una lista di proscrizione elencando i politici inseriti in lista dai vari partiti e accettati dagli organi di controllo che invece sarebbero «impresentabili» in base a un fragile codice di buona condotta. La Bindi e i suoi avrebbero dovuto rendere nota quella lista ieri, ma hanno litigato un bel po’ in ufficio di presidenza e dopo ore hanno offerto due sole sentenze: in Liguria nessun candidato è risultato «impresentabile», e in Puglia invece ce ne sarebbero 4, rigorosamente bipartisan: Giovanni Copertino (Forza Italia, circoscrizione Bari); Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano, circoscrizione Bari); Massimiliano Oggiano (Oltre con Fitto, Schittulli presidente, circoscrizione Brindisi) e Enzo Palmisano (Movimento politico per Schittulli, area popolare, circoscrizione Brindisi). I soli quattro nomi apparsi nella prima bozza della lista di proscrizione fan ben capire come l’operazione sia squisitamente politica, probabilmente mira a Matteo Renzi e ai suoi candidati (la Bindi fa parte della minoranza del Pd), e di tecnico abbia ben poco. Tutti e quattro i candidati pugliesi ritenuti «impresentabili» hanno effettivamente avuto problemi con la giustizia in passato. Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali. Siccome la legge c’è, e viene applicata, la Bindi e l’ufficio di presidenza dell’antimafia sanno benissimo che qualsiasi candidato bolleranno come «impresentabile» venerdì prossimo (con un pessimo servizio anche agli elettori, visto che glielo dicono a cose ormai fatte), non lo sarà affatto: per la con-testatissima e dura legge vigente, saranno tutti sia presentabili che eleggibili. Senza stare a girare troppo intorno, c’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale: perchè mai Renzi ha accettato quella candidatura e si è speso addirittura a fare campagna elettorale per un candidato-fantasma? Questa è l’unica domanda lecita che si potrebbe fare, tutto il resto fa parte di un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. E per fortuna è così, visto il tipino peperino. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione: i presidenti delle Camere dovrebbero intervenire e fermare quello che sembra più che altro un regolamento di conti interno ai vari partiti politici. Si può giudicare «politicamente» impresentabili dei candidati anche incensurati, o che abbiano su di loro il sospetto di una inchiesta allo stato iniziale. Questa è scelta legittima se fatta in una polemica politica, in un editoriale, in una battaglia giornalistica. Non da una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone che fa diventare «impresentabile» qualcuno il reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, si faceva prima a buttare via tutte le liste e rinviare le regionali a migliore occasione…

Precedenti da far rabbrividire, scrive Mattia su "Butta". Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. (art. 49 della costituzione italiana). Mi sa che questa cosa degli impresentabili sia un po’ sfuggita di mano. Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto. Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi. Ma fin tanto che è la parola di alcuni privati cittadini, per quanto scorretta, tale rimane. Dove hanno perso la testa è stato alla commissione anti mafia. Dicono che entro venerdì usciranno con una lista di candidati impresentabili. Ohi, non sto parlando di privati cittadini, ma di una istituzione. Un pezzo del parlamento che si riunisce e fa la lista dei candidati che sono degni e dei candidati che sono non degni. Una roba da far rabbrividire i capezzoli. Ah, ma dicono, le indicazioni non sono vincolanti! E ci mancherebbe altro. Figuriamoci se un organo politico come un pezzo di parlamento avesse il diritto di decidere di espellere dalle liste chi non gli garba. Eh, però – aggiungono – si limitano ad applicare il codice di autoregolamentazione dei partiti. Che però ha il valore legale di un peto. I partiti (o meglio, alcuni partiti) possono anche trovarsi un pomeriggio sotto un albero e fare un pinchi suee decidendo di non candidare chi si trova in certe condizioni. Ma  tutto il resto del paese non è tenuto a rispettarlo. Se i partiti vogliono che chi si trova nelle condizioni di Caio non sia candidabile approvino una legge in parlamento che dice proprio questo. Quando sarà legge dello Stato tutti saremo obbligati a rispettarla, ma finché rimane un pinchi suee dei partiti no. Forse non percepite la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, una istituzione, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni. Oggi fanno la lista di proscrizione in base al loro patto tra partiti (senza valore giuridico), domani si allargheranno e diranno che sono impresentabili quelli che hanno fatto un provino per il Grande Fratello o che nella vita fanno gli operai. Se ci fosse un presidente della repubblica degno di questo nome avrebbe già preso il telefono, avrebbe chiamato la Bindi e le avrebbe detto “senti Rosaria, adesso tu prendi un quaderno, penna e calamaio e scrivi 500 volte l’art. 49 della costituzione. Poi quando hai finito me lo porti al colle e mi prometti di non fare più certe stronzate, ok? Piesse: e non dico niente su quello che dovrebbe fare la Boldrini perché quella mi sa che la costituzione non l’ha neanche mai letta.

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

RESPONSABILITA' ED IRRESPONSABILITA'.

All'origine di ogni forma di corruzione. Responsabilità, ma dov’è finita? Si domanda Donatella Di Cesare su “Il Corriere della Sera”. Oggi nessuno vuole più rispondere di nulla ma chi scarica sugli altri ogni fardello nei fatti si dichiara sostituibile e superfluo. «Non ne rispondo io — mi spiace». «Che si assuma la responsabilità chi di dovere!». «Sarà il caso di passare la palla ad altri». Quante volte al giorno capita di ascoltare frasi del genere? O persino di pronunciarle? Sfuggire alla responsabilità è una prassi diffusa nella vita privata come nella sfera pubblica. Dai piccoli gesti della quotidianità ai rapporti affettivi, dai legami sociali all’agire politico: non c’è ambito che non sia pervaso da una rinuncia sistematica alle risposte che ciascuno è chiamato a dare. E la rinuncia finisce per volgersi in vera abdicazione là dove le responsabilità aumentano. Gli esempi sono molteplici: l’insegnante acquiescente che chiude gli occhi sulla prepotente bullaggine dell’allievo; il giornalista che sceglie sbrigativamente la parola più comoda o passa sotto silenzio quel che dovrebbe dire a gran voce; il magistrato che strizza l’occhio agli imputati, proscioglie quando dovrebbe condannare, allunga i tempi del processo fino alla prescrizione; il medico che tratta il paziente come un corpo malato, tra disattenzione e volontà di lucro; il politico che, mentre dovrebbe sollevare lo sguardo verso il bene comune, è chino sul proprio tornaconto. La rinuncia ad assumere le proprie responsabilità erode ogni relazione, corrode la comunità. La corruzione nasce da qui. È un fenomeno etico, prima ancora che politico. Questo non vuol dire né diluirne la portata né ampliarne pericolosamente i confini. Ma non sarà mai possibile vederne con chiarezza gli effetti devastanti, se non si risale a quel luogo in cui la corruzione affiora. Ed è là dove il legame con l’altro si deteriora, dove chi dovrebbe rispondere preferisce sottrarsi. L’io si deresponsabilizza. Chiamato in causa, non si assume l’onere della decisione, e aggira l’impegno, evade l’obbligo che lo lega agli altri. Così apre una falla, una incrinatura. E mentre una crepa si aggiunge alla precedente, la comunità, inevitabilmente, si sgretola. La corruzione non sta solo nelle mazzette — simbolo del disfacimento che prevale, dell’integrità che viene meno. Una comunità corrotta è quella i cui membri non rispondono di sé e non rispondono agli altri. La leggerezza inebriante di cui si compiace l’io deresponsabilizzato è a ben guardare una trappola. Chi ha eluso il fardello della responsabilità, crede di averla fatta franca. Si prepara a schivare così tutti i fardelli a cui andrà incontro. L’onore senza l’onere diventa il suo stile di vita. Ma ogni volta che l’io abdica, che lascia agli altri la responsabilità a cui era stato chiamato, crede, e fa credere, di essere sostituibile. «Perché mai dovrei risponderne proprio io? Che se la veda qualcun altro!». Può darsi che il «qualcun altro» che viene dopo si comporti in modo analogo — in un continuo rinvio, un incessante riversarsi a vicenda pesi e obblighi. Eppure nessuno è sostituibile. La responsabilità che incombe su di me, in questo momento, non può essere ceduta. Se la cedo, non solo apro una falla, ma accetto l’idea che qualcuno potrebbe rimpiazzarmi. Mentre nessuno, mai, può farlo. L’io deresponsabilizzato ammette invece di essere sostituibile, avvalora la sconcertante ipotesi della propria superfluità. Si crede in genere che la responsabilità sia un gesto ulteriore di un soggetto autonomo e sovrano. Nella sua superba priorità questo soggetto, privo di vincoli, detterebbe legge a se stesso. Ma che cosa sarebbe l’io senza l’altro che sempre lo precede? Il mondo non è cominciato con me. Prima di me c’è sempre l’altro che mi convoca, mi interroga, e a cui sono chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria — valutando se dire sì o no. Ma semplicemente volgendomi verso chi mi chiama. Prima ancora di ogni possibilità di scelta, perché è nella torsione verso l’altro che l’io si costituisce. Rispondo, dunque sono. Senza la responsabilità, l’io non esisterebbe neppure. La mia esistenza si coagula ogni volta nell’obbligo che mi vincola all’altro. Se eludo l’obbligo, gli effetti ricadono sul mio stesso esistere. La leggerezza inebriante si rivela inconsistenza angosciosa. E quel detestabile io, che pretendeva di essere soggetto assoluto, rischia di restare tragicamente intrappolato nella sua errata idea di libertà astratta, senza più via d’uscita. I filosofi non hanno mai parlato tanto di «responsabilità» come in questi ultimi decenni. Con Emmanuel Lévinas e con Hans Jonas la responsabilità è diventata, anzi, uno dei temi più discussi nel dibattito contemporaneo. Il che non sorprende. Perché viviamo nell’epoca di una crescente deresponsabilizzazione. La complessità del mondo globale, la rilevanza assunta dalla scienza che, malgrado i progressi compiuti, appare sempre più incapace di offrire un orientamento e dar conto delle sue stesse scelte, la specializzazione estrema e il connesso ruolo dell’«esperto», al quale viene spesso lasciata la parola ultima, la frantumazione della responsabilità, che impedisce di scorgere le ripercussioni dei propri gesti: tutto ciò ha contribuito a privare i più della possibilità di decidere e di agire. È la razionalizzazione tecnica della vita a influire, però, in modo determinante. Dove trionfa la tecnica viene meno la responsabilità. Non solo perché l’essere umano è diventato «antiquato» rispetto ai suoi stessi prodotti, costretto — come ha sostenuto Günther Anders — a rincorrerli disperatamente, nel tentativo vano di sincronizzarsi alla loro disumana rapidità. Ma anche perché l’ingranaggio della tecnica stravolge il rapporto tra mezzi e fini, nel senso che potenzia i mezzi e fa perdere di vista i fini, sia quelli individuali, sia quelli comuni, che rendono coesa una comunità. Si è in grado di fare molte più cose, ma non si sa bene a che scopo. Così, mentre si moltiplicano le etiche applicate, dalla bioetica all’«etica degli affari», volte non di rado a rassicurare l’opinione pubblica sulla moralità di un settore, ad esempio quello delle imprese, mentre dunque l’etica può diventare a sua volta fonte di profitto, la «responsabilità» resta la terra incognita di questa tarda modernità, la stessa che abita un pianeta devastato, dove nulla sembra ci sia ancora da scoprire. La responsabilità è infatti rispetto sia per gli altri, sia per quell’altro che sono le cose del mondo. Da quando gli esseri umani sono diventati più pericolosi per la natura, di quanto la natura fosse per loro, si rende necessaria un’etica che risponda all’esigenza di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile. Sono responsabile non solo verso l’altro che sempre mi precede, ma anche verso l’altro che viene dopo di me. E guardando al suo futuro non dovrei allora mai mancare di chiedermi se anche il più piccolo dei miei gesti non avrà ricadute su di lui. Proprio quello che non mi riguarda richiede la mia attenzione. Solo io sono responsabile — sta qui la suprema dignità umana.

LA IRRESPONSABILITA' DEI CITTADINI.

Non volevo fare la prof, scrive Mariangela Galatea Vaglio su “L’Espresso”. Gite scolastiche: renderle "obbligatorie" per i docenti non serve. In gita (chiamiamole così per capirci, il nome reale sarebbe "viaggio di istruzione") succede da sempre un po' di tutto. E' inutile far finta di non vedere, o non voler vedere. Gli alunni, anche i più calmi e tranquilli, in gita si trasformano: aspettata tutto l'anno, viene vissuta come una valvola di sfogo, ed in quei due o tre giorni si concentrano  le aspettative di mesi e mesi. Cosa che nel migliore dei casi si risolve in qualche simpatica ragazzata; nel peggiore, e la cronaca degli ultimi giorni lo dimostra, può diventare una occasione per atti di bullismo e di nonnismo nei confronti dei più deboli ed indifesi del gruppo,. Azioni cui gli insegnanti faticano a mettere in freno perché, in gita, nessuno, diciamolo sinceramente, è in grado davvero di controllare cosa può succedere. La visita di istruzione è una importante esperienza didattica: serve a responsabilizzare gli alunni ed a farli crescere. Per alcuni, prima ancora che essere una occasione di visitare posti che non hanno mai visto, è più che altro la prima esperienza che consente loro di farlo "da soli": senza i genitori a risolvere problemi e a coccolarli, in un gruppo di pari dove devono imparare ad affrontare le prima piccole pratiche difficoltà della vita. Un momento formativo ancora prima che culturale, necessario, anche se sembra difficile da credere, per una generazione di ragazzi che a 10 anni in molti casi ha visto già gran parte del mondo. Ma lo ha fatto in famiglia ed in maniera iperprotetta, e così alle volte anche i più apparentemente smaliziati, lasciati a salire su un pullman da soli o a sistemarsi in una camera d'albergo, si perdono come davanti all'ignoto. Nata dunque come una opportunità di approfondimento e di crescita personale, la gita però si sta trasformando in un incubo, soprattutto per i docenti accompagnatori. Perché gli alunni che vengono in gita, specie quelli delle superiori, sono incontrollabili. Poco abituati in famiglia ad avere regole certe, faticano a capire che se ci si muove in gruppo queste sono necessarie e vanno rispettate, per quanto possano sembrare alle volte assurde. Inoltre la "gita", proprio per il fatto che si è fuori dal consueto ambiente scolastico standard, di per sé è spiazzante, anche per i docenti. Che devono tenere sotto controllo troppe cose e troppe persone in uno scenario che essi stessi conoscono poco, per cui è facile che possa sfuggire qualcosa, o che la sorveglianza diventi più lasca. Più passano gli anni, più il numero di docenti che decide di non dare la disponibilità ad accompagnare le classi in gita sale. Faccio parte anche io della categoria, e per molti e fondati motivi. Il primo è quello di essermi resa conto di non poter garantire ai miei alunni ciò che mi viene richiesto dalla legge. Quando si è in gita, il docente accompagnatore è tenuto alla sorveglianza, sempre e comunque. Si è uno ogni 15 alunni, ma gli alunni sono esseri umani e vivono 24 ore al giorno, come tutti. Il che vuol dire, in soldoni, che io docente, dovrei garantire 24 o 48 ore di sorveglianza continua e ininterrotta sui 15 fanciulli che mi sono affidati. Qualsiasi cosa capiti loro, se inciampano sul marciapiede, attraversano senza guardare all'improvviso la strada,  se fanno a botte, se si tirano gavettoni e organizzano scherzi stupidi ma letali, tutto ciò cade sotto la mia diretta responsabilità, e posso essere perseguita penalmente e civilmente per i danni che possono subire. Ora io confesso, molto sinceramente: non sono in grado di farlo. Sono un essere umano anche io:  durante il giorno ho fame, sonno e anche qualche momento in cui l'attenzione cade. Non me la sento di prendermi questa responsabilità, specie se poi i ragazzi che mi sono affidati sono alunni che già in classe sono difficili da tenere sotto controllo. Qualunque genitore penso si sia reso conto da solo che spesso persino i figli che ha allevato lui hanno, quando sono fuori e con lui, dei tiri inaspettati: ecco, io dovrei portare in giro per il mondo ragazzi che non ho nemmeno allevato io e che spesso e volentieri non sono neppure molto lesti ad obbedire agli ordini che devo dare per garantire la loro sicurezza. E non ho nessuna intenzione, un domani, di ritrovarmi a processo perché Pierino della 3B alle due di notte, dopo che lo avevo mandato in camera sua, si è arrampicato sul cornicione ed è caduto di sotto, o perché ha organizzato uno "scherzo" nei bagni ai danni del compagno e lo ha picchiato mentre io, in perfetta buona fede, perlustravo il corridoio del piano di sopra. L'ipotesi quindi ventilata oggi, di rendere per il personale docente obbligatorio l'accompagnare i ragazzi in gita, non è una soluzione. E il problema non è neppure quello di "pagarci di più". Una diaria maggiorata (o meglio, una diaria qualsiasi, visto che oggi non ne percepiamo in pratica nessuna) non basta a limitare l'ansia che l'idea della gita suscita in molti docenti, per i possibili rivolti legali. Che non sono neppure solo quelli penali, ma anche lo stress e le polemiche che poi tocca affrontare per provvedimenti e sanzioni presi e comminati ai ragazzi nel corso della gita o subito dopo, a seguito di loro comportamenti poco consoni. Non siamo cattivi, noi docenti che ci rifiutiamo, e neppure poco motivati. E' che semplicemente ci rendiamo conto che non siamo in grado di dare ai nostri alunni un servizio di qualità in quei giorni in cui li portiamo in giro, perché la normativa pretende da noi ciò che non si può pretendere da un essere umano. Più che parlare di imporre obblighi o di elargire mance, bisognerebbe riflettere su questo. Tutti. Seriamente.

LA IRRESPONSABILITA' DELLE ISTITUZIONI.

Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi? ». « Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia,dove però il gip ha archiviato.

LA IRRESPONSABILITA' DEGLI AVVOCATI.

Esame di Stato. Come si diventa avvocato? Copiando!

La risposta di un esperto, qual è il Dr Antonio Giangrande, scrittore che sul tema ha scritto “Concorsopoli ed Esamoli” e “L’Esame di Avvocato”.

Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset è entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.

Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.

Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.

Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).

Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione.

Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.

Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.

Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari)  ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano.

Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.

Quel di cui si parla è all’ordine del giorno, ma tutti fanno finta di niente.

Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta.  Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”.

Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del  dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare».

Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”.

Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise".

Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.

Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).

UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO OD UN ESAME DI STATO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO COME ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!

Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

LA IRRESPONSABILITA' DEGLI IMMIGRATI.

Le ragazzine zingare: "Facciamo mille euro al giorno e se muori tu non ci importa". Due zingare a Mattino 5: "Perché dovrei andare a lavorare? Sto meglio a rubare: faccio mille euro al giorno". E non si curano della polizia: "Ci lasciano andare perché siamo minorenni", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Matteo Salvini propone il pugno duro, la sinistra e il Vaticano indignati gridano allo scandalo. Intanto i rom, in Italia, fanno il bello e il cattivo tempo: non si fanno problemi a rubare, infrangere le leggi e, all'occorrenza, pure a rubare. Due ragazzine di 13 e 15 anni si sono lasciate intervistare dalle telecamere di Mattino 5, la trasmissione in onda su Canale 5, e hanno raccontato come si guadagnano da vivere: "Rubiamo sulla metropolitana di Roma e facciamo anche mille euro al giorno. Perché dobbiamo vergognarci? Noi guardiamo solo al nostro bene. Se, poi, tu muori non importa... sono cose della vita". Un racconto choc che fa inorridire la gente onesta e che smonta il buonismo della sinistra. Sono circa 180mila i rom e sinti presenti in Italia. Di questi 40mila vivono in condizioni di disagio abitativo, cioè nei cosiddetti "campi nomadi", e in passato sono stati identificati come una "emergenza nazionale". Quest'emergenza nazionale la sinistra non l'ha mai voluta risolvere. E, appena diventa tema di discussione, taccia di razzismo e xenofobia chiunque proponga anche qualsiasi soluzione. Così è successo oggi a Salvini che ha proposto di "radere al suolo tutti i campi" obbligando i rom a "comprare o affittare un appartamento" come fanno tutti i cittadini. "È assolutamente un falso mito quello che diceche i rom sono contenti di stare nei campi - ha replicato il presidente della Camera, Laura Boldrini - questa è veramente una sciocchezza, basta parlare con chiunque vive in queste condizioni per sapere che non è vero". In realtà basta dare un'occhiata al servizio di Mattino 5 per capire che la Boldrini non ha ragione. Una ha 15 anni, l'altra 13. Parlano liberamente davanti alle telecamere di Canale 5. Si informano addirittura dove andrà in onda il servizio: "Mi metto su gli occhiali da sole - dice - così sembro più sexy". Disinibite, insomma. Non si fanno alcun problema a dire quello che fanno tutto il giorno: rubare. "Rubiamo sulla metropolitana e non ce ne vergogniamo. Perché mai dobbiamo vergognarci? Rubare è una cosa bella". Le due ragazze vengono dalla Bosnia e abitano in un campo nomadi della Capitale. "Ci hanno insegnato a rubato sin da piccole e non ci fanno paura i poliziotti - ammettono - ci arrestano, ci mandano via ma noi torniamo sempre a rubare". Poi spiegano: "I poliziotti ci hanno fermate tante volte: ci prendono, ci portano alla Questura, ci fanno le foto, ci prendono le impronte, ci fanno tutte 'ste cazzate e poi ci rilasciano perché siamo minorenni". Le due ragazzine non hanno alcuna remora. Non si pentono nemmeno dinnanzi alle vecchiette che vivono della pensione. "E se poi la vecchietta rimane senza soldi?", chiede la giornalista. "Non me ne frega, tanto dopo muore... sono cose della vita - replica, pronta, la ragazzina - non mi dispiace: sto bene io, mi prendo i soldi e sto a posto". Per questo motivo alle due non passa nemmeno per l'anticamera del cervello di andare a scuola per poi cercare un lavoro. "Al lavoro in un mese faccio mille euro - spiega - adesso faccio mille euro in un giorno. Quindi sto meglio a rubare". Poi, prima di concludere l'intervista a Mattino 5, le due ragazzine spiegano cosa ci fanno con tutti quei soldi: "Andiamo a comprarci i vestiti coi nostri ragazzi, andiamo al cinema, andiamo a divertirci... compriamo un po' di erba".

LA IRRESPONSABILITA' DEI BUROCRATI.

L’assessore ex magistrato: “A Roma la burocrazia è più corrotta dei politici”. Parla Alfonso Sabella, entrato in giunta dopo Mafia Capitale: “Da tre mesi annullo gare e invio segnalazioni in Procura”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Va direttamente al cuore del problema, Alfonso Sabella: «Ho trovato un sistema alterato di assegnazione delle commesse pubbliche con profonde e antiche radici». Quando è arrivato a Roma come assessore alla Legalità, il 23 dicembre scorso, il ciclone di Mafia capitale era già passato per il Campidoglio facendo morti e feriti. Grande fiuto investigativo quand’era magistrato negli anni delle stragi mafiose a Palermo, nel palmarès le catture di Luchino Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e la bassa macelleria delle stragi dei Corleonesi, Sabella è stato scelto dal sindaco Marino per un compito delicato. 

Assessore, cosa ha trovato al Campidoglio?

«Una macchina amministrativa totalmente fuori controllo. Paradossalmente ai miei tempi a Palermo le carte erano tutte al loro posto, voglio dire veniva garantita una loro regolarità formale. A Roma no. Da tre mesi e passa sto firmando una serie di richieste di annullamento di gare in autotutela. Quando mi sono insediato, ho trovato un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze». 

Questo cosa significa?

«Sia chiaro, volendo si può truccare anche la gara pubblica però questo dato dimostra l’esistenza di una patologia e occorre intervenire. La patologia è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla. Aggiungo che anche la politica sana di un’amministrazione come quella Marino ha avuto difficoltà a controllare questa burocrazia».

Se dovesse qualificare questa patologia, insomma analizzare quello che non va, come sintetizzerebbe la situazione?

«La maxitangente Enimont fu un maxi finanziamento illegale della politica. Oggi dobbiamo parlare di microtangenti ai burocrati e di briciole ai politici. E preciso che il ceto politico amministrativo potrebbe anche non essere oliato con le tangenti perché in realtà le sue scelte e decisioni si fermano alla politica di indirizzo. Chi decide tutto sono i burocrati, i dirigenti comunali».

Lei come si sta muovendo?

«Con una direttiva di giunta, ho azzerato la possibilità di attivare le somme urgenze e gli affidamenti diretti. E ho dettato le regole per le procedure negoziate per ridurle all’osso e in ogni caso renderle trasparenti come una casa di vetro».

Lei è arrivato al Campidoglio dopo la retata del procuratore Pignatone su Mafia capitale. Cosa ha trovato, al di là delle macerie?

«Una mafia che come la lama calda di un coltello aveva tagliato in due del burro senza trovare la minima resistenza. Una mafia che, nel periodo della giunta Alemanno, aveva occupato i settori delle politiche sociali e dell’ambiente del Campidoglio, Insomma, rifiuti e immigrazione».

Dunque un cancro circoscritto?

«No. Non è che gli altri settori fossero sani, i fenomeni corruttivi purtroppo sono diffusi. Ho la prova della distorsione della procedura a favore di determinate ditte, non delle mazzette».

Ma girano mazzette al Comune di Roma?

«Spetta alla Procura di Roma accertarlo, per quanto mi riguarda ho già segnalato e continuo quasi ogni giorno a inviare denunce alla Procura su queste “distorsioni” diffuse».

Da palermitano, qual è la differenza tra la mafia siciliana, Cosa nostra, e Mafia capitale?

«Questa romana non usa i kalashnikov come i Corleonesi ma la mazzetta e non controlla il territorio di Roma strada per strada, quartiere per quartiere. Ha occupato alcuni spazi delle istituzioni. Quando sono arrivato in Campidoglio, i mafiosi erano scappati o comunque si erano clandestinizzati. Le fragilità del sistema sono rimaste intatte».

Tutto questo che ricadute ha sulla cittadinanza?

«La corruzione e la distorsione delle procedure hanno un costo in termini di qualità e quantità di servizi garantiti ai cittadini».

G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.

7 aprile 2015. G8 Genova, Corte Strasburgo condanna l'Italia: "Alla Diaz fu tortura, ma colpevoli impuniti. La polizia non collaborò per identificare gli agenti". La censura al nostro paese per non aver promulgato una legge sul reato specifico, la cui assenza dall'ordinamento ha consentito ai responsabili del pestaggio di evitare qualsiasi sanzione. Il sindacato Siap: "Verdetto esagerato", scrive “La Repubblica. Quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per il pestaggio subìto da uno dei manifestanti (l'autore del ricorso) durante il G8 di Genova , ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. "Questo risultato - scrivono i giudici - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". All'origine del procedimento c'era il ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto che all'epoca aveva 62 anni e che rimase vittima del violento pestaggio da parte della polizia durante l'irruzione nella sede del Genova Social Forum. L'uomo, il 21 luglio 2001, era il più anziano dei manifestanti presenti nella scuola Diaz a Genova. Gli agenti lo sorpresero mentre dormiva, gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole durante i pestaggi. Nel ricorso, portato avanti dagli avvocati Nicolò e Natalia Paoletti, Joachim Lau e Dario Rossi, Cestaro afferma che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell'ordine tanto da dover essere operato e subire ancora oggi le conseguenze delle percosse subite. Sostiene inoltre che le persone colpevoli di quanto ha subìto avrebbero dovuto essere punite adeguatamente, ma che questo non è mai accaduto perché le leggi italiane non prevedono il reato di tortura o reati altrettanto gravi. I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo dove recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La Corte di Strasburgo ha stabilito dunque che il trattamento che è stato inflitto al ricorrente deve essere considerato come "tortura". Ma nella sentenza i giudici sono andati oltre, affermando che se i responsabili non sono mai stati puniti è soprattutto a causa dell'inadeguatezza delle leggi italiane, che quindi devono essere cambiate. La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti è dipesa, accusano poi i giudici, "in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia". Nella sentenza si sottolinea quindi che la mancata considerazione di determinati fatti come reati non permette, anche in prospettiva, allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell'ordine. In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, "aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello", la Corte parla di "assenza di ogni nesso di causalità" fra la condotta dell'uomo e l'utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell'irruzione nella scuola e di maltrattamenti "inflitti in maniera totalmente gratuita" e qualificabili come "tortura"; reato per il quale non può essere prevista quella prescrizione che ha salvato anche i pochi responsabili delle violenze di quei giorni finiti sotto processo. L'azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti. L'Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro. "I soldi non risarciscono il male che è stato fatto. E' vero, è un primo passo quello di oggi, ma mi sentirò davvero risarcito solo quando lo Stato introdurrà il reato di tortura", è stato il commento di Cestaro dopo la lettura della sentenza. "Oggi ho 75 anni, ma non cancellerò mai l'orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l'orrore con il volto dello Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi. Il reato di tortura deve essere introdotto nel nostro ordinamento". La proposta di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura è all'esame del Parlamento da quasi due anni: approvata dal senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla camera dove il 23 marzo scorso è approdata in aula per la discussione generale. L'esame dovrebbe riprendere in settimana, dopo l'ok alla riforma del terzo settore, con i tempi contingentati e quindi certi e rapidi. Ma il testo, già modificato dalla Commissione giustizia di Montecitorio, dovrà tornare al Senato. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani sui fatti avvenuti a Genova dopo il G8 non sono ancora finite. Davanti ai giudici di Strasburgo pendono altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto. La Corte non ha ancora deciso ufficialmente quando emetterà le sentenze, ma fonti di Strasburgo affermano che non tarderanno molto ad arrivare.

Giuliani: ''Condanna positiva ma anche rabbia: la Corte bocciò nostro ricorso''.

Secondo il Sap, il Sindacato autonomo di polizia, "Diaz non è stata sicuramente una bella parentesi, ma parlare di tortura mi sembra eccessivo". Il segretario nazionale del Sap, Gianni Tonell, ha poi aggiunto: "In Italia la normativa c'è già ed è ampiamente presente ha aggiunto -  il problema è che non è stata ancora qualificata come tale perché si cerca di far passare un manifesto ideologico contro le forze dell'ordine".

La sentenza di Strasburgo è stata commentata anche da Patrizio Gonnella, presidente dell'Associazione Antigone : "C'è una giustizia a Strasburgo. L'Italia condannata per le brutalità e le torture della Diaz che, finalmente in Europa e solo in Europa, possono essere chiamate tortura. In Italia questo non si può fare perché manca il reato nel codice penale. Un fatto vergognoso e gravissimo, lo avevamo detto più volte. Fra l'altro c'è un nostro ricorso analogo pendente a Strasburgo per le violenze nel carcere di Asti dove, ugualmente, la Corte ha rinunciato a punire in mancanza del reato. Speriamo che questa sentenza renda rapida la discussione parlamentare e ci porti ad una legge che sia fatta presto e bene, cioè in coerenza con il testo delle Nazioni Unite".

Secondo Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova, l'associazione che riunisce i familiari delle vittime dei pestaggi durante il G8, la sentenza rappresenta un "risarcimento morale":  "Si tratta di un precedente ottimo. Un precedente che ci dà una risarcimento morale per le torture avvenute".

Diaz, il pm: "ci presero per pazzi". Il sindaco: "impuniti i colpevoli". Giuliano Giuliani: "Confermate le brutture dello stato italiano", scrive “la Repubblica”. "Quando abbiamo detto che c'erano stati casi di tortura siamo stati presi per pazzi e noi avevamo solo citato i principi della corte europea di giustizia". Lo ha detto Enrico Zucca che sostenne l'accusa nei processi per i fatti della Diaz. "Questi fatti sono gravissimi per l'Italia perchè hanno visto coinvolti i vertici delle forze di polizia che hanno ricevuto in questi anni attestazioni di stima e solidarietà come se non fossero stati coinvolti da questi fatti e mi rifiuto di credere che non abbiano funzionari migliori di quelli che sono stati condannati", ha aggiunto. Il sostituto procuratore generale Enrico Zucca ha proseguito: "Il quadro è molto desolante perché la gran parte dei fatti degli abusi non è stata perseguita. Bisogna riuscire a prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all'interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni fatte dopo la sentenza definitiva dall'allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Lui fece delle scuse, ma parlando di pochi errori di singoli senza riflettere sulla vastità del fenomeno". "La tortura - ha detto Zucca - è l'abuso di autorità di chi la commette. L'ha detto la Cassazione, lo dice la Corte di Strasburgo". "La notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 abbiamo tutti vissuto una pagina oscura nella recente storia italiana. Non posso non esprimere il mio rammarico per gli eventi accaduti presso la scuola Diaz-Pertini di Genova, eventi che oggi la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha espressamente qualificato come atti di tortura. Il mio primo pensiero va al signor Cestaro e a tutti coloro che come lui quella notte furono torturati.". L'ha dichiarato all'Ansa Nicolò Paoletti, l'avvocato che ha rappresentato Arnaldo Cestaro alla Corte di Strasburgo. Il legale sottolinea anche l'altro motivo che rende così importante la sentenza Cestaro. "La Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia anche per non aver previsto nel proprio ordinamento disposizioni penali adeguate a sanzionare efficacemente gli atti di tortura commessi nel caso di specie e a fungere da deterrente necessario per prevenire simili violazioni in futuro" afferma Paoletti. "L'assenza del reato di tortura in Italia nonostante gli obblighi internazionali assunti, in particolare con la ratifica della Convenzione di New York del 1984, è assolutamente deplorevole", conclude il legale di Cestaro. "La sentenza della Corte di Strasburgo riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e per questa ragione lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli". Lo ha detto il sindaco di Genova, Marco Doria, secondo il quale si tratta di una "sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente. La Città di Genova, che è stato teatro di quelle violenze, la accoglie come fatto di verità e di giustizia"."Uno stato democratico non può ignorare il reato di tortura e non deve mai tollerare  che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell'uomo", ha osservato Doria secondo il quale "questa è una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello stato secondo i principi della Costituzione". "Finalmente la Corte europea ha determinato ancora una volta le brutture commesse dallo Stato italiano. Già la sentenza di Cassazione su Bolzaneto aveva stabilito che lì c'erano state torture ma questo povero paese non ha una legge sulla tortura come gli altri paesi civili e quindi non si è fatto nulla". Lo ha detto all'ANSA Giuliano Giuliani, papà di Carlo, ucciso da un carabiniere durante gli scontri in piazza a Genova durante il G8 del 2001."Per anni la Diaz era stata considerata una perquisizione legittima e a Bolzaneto si distribuivano cioccolatini e caramelle" ha aggiunto Giuliano Giuliani. "Fu la sentenza di secondo grado che diede un giudizio negativo, ma fino al 2010 il giudizio che veniva fuori dalle aule di tribunale, dal potere politico e dalla grande informazione era che si trattava di una perquisizione, non di una macelleria messicana, come un poliziotto che vi partecipò alla fine ammise". "Chissà se l'attuale governo troverà il tempo di occuparsi di queste cose che riguardano la dignità del Paese" ha detto ancora Giuliano Giuliani. "La Diaz fu tra l'altro un effetto delle pressioni dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro - ha aggiunto Giuliani - come scrive anche la Cassazione. Le sue pressioni per fare recuperare credibilità alla polizia dopo la morte di Carlo e gli scontri portarono alla Diaz". Giuliani ricorda: "la condanna in Italia per la Diaz non è tanto per la macelleria in sé ma per il falso che venne commesso inducendo l'ispettore e l'agente a introdurre le due bottiglie molotov nella scuola. I poveretti che presero le botte rischiarono anche 14 anni di carcere per terrorismo per le due molotov che i poliziotti misero nella scuola di nascosto". "Mi indigna una cosa - ha concluso Giuliani -: che la prova regina di quel falso è un filmato di 5,5 secondi che li fa vedere fuori dalla scuola con il sacchetto con le due molotov. 5,5 secondi di video sono serviti per condannare i più alti capi della polizia ma ore di video sulla morte di Carlo non sono serviti a smentire l'imbroglio sullo sparo deviato". "La sentenza di oggi descrive quello che tutti sapevano e tutti sanno in tutto il mondo, cioè che in quei giorni c'è stata una gravissima violazione dei diritti umani con l'irruzione alla Diaz e le torture" ma "a 15 anni di distanza da quei fatti non c'è ancora una legge sulle torture in Italia, non è stato messo il numero identificativo sui caschi dei poliziotti come avviene in altri paesi europei e soprattutto lo stato, le istituzioni non hanno neanche chiesto scusa ai giovani che sono stati massacrati e alle loro famiglie". Lo ha dichiarato Antonio Bruno, capogruppo della federazione della sinistra nel consiglio comunale di Genova e membro del Comitato Verità e giustizia per Genova. "Purtroppo -ha sottolineato Bruno- sono passati quasi 15 anni e con queste battaglie siamo invecchiati ma vedere riconosciuto ad un livello così alto quello che tutti sapevano è sicuramente un fatto positivo. Noi non vogliamo vedere la gente in carcere ma i responsabili di fatto -ha ricordato l'esponente del Comitato - non hanno avuto al momento nessun tipo di misura cautelativa, anzi molti sono stati anche promossi. Questo -ha concluso- dice molto su come la democrazia in Italia abbia avuto un decadimento".

Tortura, 30 anni di omissioni e ritardi. La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale. Come prevede una Convenzione Onu del 1984. Ma finora il Parlamento ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni. E il provvedimento ora all'esame della Camera è assai lontano dal testo delle Nazioni Unite, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. La “macelleria messicana”, come il vice questore aggiunto Michelangelo Fournier definì l’irruzione alla scuola Diaz, “deve essere qualificata come tortura”. E l’Italia dev’essere condannata non solo per le lesioni subite da Arnaldo Cestaro, che quella notte del 21 luglio 2001 riportò la rottura di dieci costole, un braccio e una gamba. Ma anche perché, a trent’anni di distanza, il nostro Paese non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale, contrariamente a quanto prevede un’apposita Convenzione dell’Onu. Una “omissione” che di fatto non esclude la possibilità che casi del genere possano ripetersi. Nessuna divergenza di vedute: è una pronuncia all’unanimità quella con cui la Corte di giustizia europea ha previsto 45 mila euro di risarcimento nei confronti di Cestaro, il più anziano delle vittime di violenze alla Diaz nei giorni caldi del G8 di Genova. Un calvario che - fra le numerose operazioni subite e gli strascichi che le manganellate della polizia hanno lasciato - ancora fa sentire i suoi effetti su quest’uomo che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Una sentenza che crea un precedente e spalanca le porte agli altri ricorsi pendenti davanti alla Corte di Strasburgo (solo per la Diaz sono 30 in tutto). Ma che colpisce soprattutto per le sue motivazioni. Nel mirino dei giudici finisce infatti anche l’inadeguatezza della nostra legislazione: nel 1984 l’Italia firmò la Convenzione di New York, che fu ratificata dal Parlamento quattro anni dopo con l’impegno a introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento. Solo che da allora ogni tentativo è miseramente fallito. Così Giuliano Giuliani, il papà di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso il 21 luglio del 2001 in piazza Alimonda durante gli scontri di piazza tra manifestanti e forze dell'ordine nell'ambito del G8 di Genova, commenta la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo che oggi ha condannato l'Italia stabilendo che quanto compiuto dalle forze dell'ordine durante l'irruzione nella scuola Diaz il 21 luglio del 2001 "deve essere qualificato come tortura"intervista di Lucia Tironi. In tempi recenti anche l’Universal periodical review - ovvero l’esame periodico della situazione dei diritti umani negli Stati membri dell’Onu, effettuato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite - è tornato alla carica con l’ennesima “raccomandazione”. Ma non è cambiato nulla. E anche la proposta di legge approvata dal Senato oltre un anno fa (attualmente all’esame della Camera) è lontana rispetto al testo della Convenzione. A ripercorrere la storia di questi tentativi fallimentari, in filigrana si leggono tutte le resistenze con cui ampi settori della classe politica italiana hanno sempre affrontato questo tema. Come se punire un agente che si spinge troppo in là non fosse anche nell'interesse delle stesse forze dell'ordine. La prima proposta per introdurre il reato di tortura risale al lontano 1989. Ma non se ne fa nulla. Tre anni dopo, nel 1992, è il governo Amato a prendere in mano la situazione con un disegno di legge relativamente light: la tortura è prevista come semplice aggravante dei reati colposi contro la persona commessi da un pubblico ufficiale. Eppure il Parlamento non inizia nemmeno l’esame del provvedimento. E la storia si ripete a ogni legislatura: dal 1996 a oggi l'Espresso ha censito ben 66 proposte di legge sulla tortura, ma la maggior parte non ha neppure iniziato l'iter parlamentare. Nel 2006 la svolta sembra arrivare davvero: a fine anno la Camera approva in prima lettura un testo unificato ma al Senato la risicata maggioranza che sostiene il secondo governo Prodi non ha i numeri per l'approvazione e la norma naufraga pochi mesi dopo a Palazzo Madama. Scena identica nel 2012, col governo Monti: dopo anni di inerzia stavolta è il Senato ad approvare  un ddl (in gran parte analogo a quello attualmente in Parlamento) solo che la legislatura finisce e alla fine il provvedimento non viene approvato nemmeno in prima lettura. Salvo imprevisti, ora potrebbe essere la volta buona per mettere la parola fine a questa querelle decennale. Almeno formalmente, perché l’ennesimo disegno di legge approvato al Senato e adesso all’esame di Montecitorio introduce sì il reato di tortura ma lo fa restare un reato comune. Insomma, è imputabile a qualunque cittadino (che può essere punito da 4 a 10 anni). Inoltre, diversamente da vari altri Paesi europei, le pene previste per le forze dell’ordine sono relativamente blande: in Italia si va da 5 a 12 anni, contro i 15 della Francia. Nel Regno Unito - dove la legge esiste dal 1988 - è addirittura previsto l’ergastolo. Nella prima versione, poi modificata alla Camera, il testo prevedeva perfino la reiterazione di “violenze o minacce gravi” per qualificare il reato di tortura. Come dire, essere picchiati brutalmente una sola volta non era ritenuto sufficiente. E pensare che per arrivare a questo mezzo risultato le resistenze sono state comunque durissime. Il disegno di legge, nato dalla fusione di sei diverse proposte dei partiti (Pd, Pdl, M5S, Sel e Gal) è rimasto fermo quasi un anno e mezzo prima di essere discusso: a ottobre 2013, in appena tre mesi, la commissione Giustizia aveva sfornato il testo, che però è arrivato in Aula solo a gennaio 2014 perché il governo Letta per evitare spaccature aveva deciso di accantonare tutti i temi “divisivi”. Come sui diritti civili. E la stessa scena si è ripetuta alla Camera, dove ci sono voluti altri dieci mesi prima che la commissione Giustizia desse al testo il via libera. Adesso il provvedimento è all'esame dell’Aula di Montecitorio. Si è iniziato ad affrontare il tema lo scorso 23 marzo, poi più nulla. Ma l’introduzione del reato di tortura non è l’unica battaglia interminabile. Un destino assai simile lo può vantare infatti anche l’introduzione del codice identificativo sui caschi delle forze dell'ordine, pensato per sanzionare gli agenti che si rendono protagonisti di episodi di violenze nelle manifestazioni come avviene in molti altri Paesi europei. Dopo un lungo e travagliato iter il disegno di legge (risultato di una mediazione fra tre ddl presentati da Pd e Sel), doveva arrivare in discussione al Senato proprio in questi giorni. Ma un paio di settimane fa il ministro dell’Interno Angelino Alfano - su pressing dei sindacati di polizia, che vedono l’identificazione come una sorta di misura punitiva - ha chiesto in commissione Affari costituzionali di rinviare. Questa la spiegazione fornita: non serve parlarne adesso, perché il governo a breve presenterà un progetto di legge sulla sicurezza urbana e il tema sarà affrontato in quella sede. La proposta di Alfano, grazie anche ai voti determinanti del Pd, è stata approvata. E adesso il rischio è di rimandare tutto alle calende greche, come ha detto esplicitamente il forzista Maurizio Gasparri: «Di fatto il governo ha archiviato il provvedimento».

Perché in Italia chi tortura, sia un agente o un privato cittadino, non può essere giudicato per tortura. La sentenza di Strasburgo sulla Diaz ci condanna a quel che sapevamo già: il reato di tortura (invocato, evocato e promesso dai politici) non esiste ancora, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. L’ultima volta che se n’è parlato davvero fu alla fine di febbraio del 2008. Per forza di cose, non si poteva fare altrimenti. Anche solo per associazione di idee. Quella era tortura. «Riguardo alle giornate del 20 e 21 luglio 2001 citeremo in particolare il taglio di capelli imposto con la forza a Taline Ender, il capo spinto nella tazza del water a Ester Percivati, lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, le ustioni multiple con sigaretta sul dorso del piede a Carlos Balado, picchiato ripetutamente sui genitali, il terribile pestaggio di Mohamed Tabbach, persona con arto artificiale, l’etichettatura sulla guancia, come un marchio, per i ragazzi arrestati della Diaz al momento del loro arrivo, la sofferenza di Anna Kutschau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella subìta all’interno della scuola non è neppure in grado di deglutire...». La requisitoria del pubblico ministero al termine del processo sulle violenze avvenute alla caserma di Bolzaneto, che fu il luogo dove vennero portati i ragazzi arrestati durante l’irruzione alla scuola Diaz, ebbe l’effetto di una secchiata di acqua gelida. Vittorio Ranieri Miniati, un magistrato timido, poco incline alla ribalta, quasi piangeva nel leggere quell’elenco di atrocità. Fece una lista della spesa di esseri umani ai quali era stata negata ogni dignità. Picchiati, malmenati, seviziati. Costretti a strisciare per la caserma gridando che Che Guevara era un bastardo comunista, viva il Duce, viva Hitler. Con le ragazze minacciate di stupro “Entro stasera con voi faremo come in Kosovo”, come le foto dei figli piccoli stracciate davanti alle madre, “Tanto non li rivedrai più”. Quel lungo elenco ebbe l’effetto temporaneo di smuovere qualcosa nella pancia del Paese, almeno nella sua opinione pubblica. Se all’indignazione del momento fossero seguiti i fatti, forse oggi non saremmo additati dalla Corte di Strasburgo alla stregua di un Paese sub-sahariano. Ci saremmo risparmiati l’ennesima brutta figura. Fino a quel momento i processi sui fatti del G8 del 2001 erano stati seguiti in una sorta di sbadiglio collettivo. Interessavano a pochi, soltanto alle vittime, a chi c’era, una parte importante della generazione dei ventenni-trentenni di allora che di quelle giornate ha fatto lo spartiacque della propria esistenza, e agli addetti ai lavori. La ragione non andava cercata soltanto nella lunghezza dei processi, che a sette anni da quei giorni tragici ancora navigavano al primo grado di giudizio. Forse c’era dell’altro, c’è sempre stato dell’altro. C’era quella lista della spesa, dettagliata, verificata in ogni possibile modo. Gli abomini compiuti alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto da uomini in divisa sono sempre risultati disturbanti, indigeribili per una democrazia che voglia dirsi tale. Provocavano disagio al solo pensiero. Meglio tenerli lontani, dividersi in fazioni invece che affrontare quel che era accaduto. La realtà dei fatti echeggiata in un’aula di tribunale ebbe se non altro l’effetto di svegliare una classe politica, di indurre a un moto di indignazione. Quel processo era come un film del quale si conosceva il finale. E non era certo un happy end. I difensori degli imputati ostentavano una certa disinvoltura, perché sapevano che per i loro assistiti sarebbe stata una passeggiata. Ogni fatto era stato confermato nella sua gravità. Peccato mancasse il reato giusto. L’ordinamento giuridico italiano non prevedeva di chiamare le cose con il loro nome: tortura. Al suo posto i pubblici ministeri si dovettero arrampicare su decine e decine di ipotesi alternative, quasi tutte destinate alla prescrizione. Certo, abbiamo l’articolo 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile, ogni violenza fisica e morale “sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” deve essere punita. Ma non c’è scritto come, in che modo. Non c’è mai quella parola. Nel 1988 l’Italia ratificò la Convenzione dei diritti umani contro la tortura, ma si dimenticò di adeguare il codice penale. Da noi chi tortura, sia un funzionario di Polizia che un privato cittadino, non può essere giudicato per tortura. Bisogna farci intorno un lungo giro di parole e di codicilli. Ma dopo quelle requisitorie, sembrò quasi che finalmente qualcosa di stesse per muovere, dopo sette diversi disegni di legge che negli ultimi vent’anni avrebbero dovuto adeguare l’Italia agli standard internazionali. In un profluvio di promesse, l’approvazione del reato di tortura sembrava all’ordine del giorno, oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuro. E infatti eccoci qui. Anche il sentimento comune su un argomento discusso e lacerante come il G8 di Genova è andato più veloce. A tanti anni di distanza, sulla Diaz esiste una memoria ormai condivisa, a prescindere da come una la pensa su quei giorni del 2001. Fu una schifezza, una macelleria messicana, per dirla con le parole di uno degli ufficiali di Polizia condannati. «Non c’è emergenza che possa giustificare quel che è accaduto» scrissero i giudici che pure furono costretti a dichiarare prescritti i reati. «L’offesa alla dignità di uomini, la compromissione dei diritti delle persone, quasi sempre spaventate e terrorizzate, a prescindere dal loro comportamento precedente». Nell’anno di grazia 2015 il reato di tortura, invocato, evocato, promesso a ogni battito di cronaca, in Italia non esiste ancora. La sentenza di Strasburgo ci condanna a quel che sapevamo già. Abbiamo una classe politica che si costerna, si indigna, si impegna, cavalca l’onda dell’emotività, e poi non appena quest’ultima è passata, torna subito a fare finta di niente.

Una sentenza che brucia forte, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Ieri la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il reato di tortura condotta dallo Stato. Il riferimento è ai fatti di Genova del 2001, ma la condanna è molto più vasta. Dice che abbiamo leggi medievali, che vanno cambiate ma nessuno si decide a cambiarle, ed è sulla base di quelle leggi che non è stato possibile punire i responsabili del massacro di Genova, e -sempre sulla base di quelle leggi – la polizia ha la possibilità di tornare a torturare, e in effetti ci sono stati dopo Genova – Cucchi, Aldovrandi, Bianzino, Uva, Bifolco… – molti casi noti di tortura e chissà quanti restati segreti. La sentenza della Corte Europea getta un ombra di vergogna sul nostro paese. E soprattutto sui giorni infernali del luglio 2001 a Genova. La polizia e i carabinieri si scatenarono, uccisero un ragazzo, ne ferirono centinaia, la maggior parte giovanissimi, inermi, pacifici. La città per tre giorni fu in mano a un terrore poliziesco che fu definito (da un poliziotto pentito) ”macelleria messicana, e dal moderato leader dei ds, massimo D’Alema ”notte cilena”. Sembrava di stare in America latina. Nessuna istituzione reagiva, nessun partito, nessuno cercava di fermare la furia di Stato. E’ stata la pagina più nera scritta dal governo Berlusconi nei circa dieci anni nei quali è stato al potere (alternandosi con Prodi). La sinistra non glielo ha mai rinfacciato, perché non gli sembrava così grave. La sinistra, in questi vent’anni, si è occupata molto di più delle avventure amorose di Berlusconi. E, in buona fede, ha creduto che a rovinare l’immagine dell’Italia sia stata Ruby, e non la ferocia dei poliziotti della mattanza di Genova. Del resto la sinistra – il partito dei Ds, più precisamente – si schierò contro il movimento no-global in quelle giornate, e addirittura, dopo l’uccisione da parte dei carabinieri di Carlo Giuliani – 23 anni, abbattuto a revolverate – ritirò l’adesione al corteo del giorno dopo. Fu un corteo oceanico: giovani, sindacalisti della Fiom, moltissimi cattolici, preti suore:ma la Cgil e i Ds non c’erano e il segretario dei Ds (che era Fassino) se la prendeva coi black block, non con la polizia. E neppure se la prendeva col vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, ex- fascista, che in quei giorni ebbe un rigurgito della sua vecchia ideologia e si piazzò in caserma, a Genova, a guidare personalmente la polizia scatenata. Non è stato mai chiaro del tutto chi e perché volle quella vergogna poliziesca. La polizia stessa, i carabinieri, gli ex-fascisti di Fini, Berlusconi in persona, l’America che partecipava al G8 col suo presidente Bush? Mistero. Certo è che i tempi erano molto aspri in Italia. Qualche mese prima, in marzo, quando il governo Berlusconi ancora non c’era e al governo c’era l’Ulivo di Prodi e il ministero dell’Interno era Enzo Bianco, della Margherita, a Napoli era successo qualcosa di molto simile a quello che poi successe a Genova. I no-global furono chiusi in piazza Plebiscito, fu resa loro impossibile la fuga, e poi furono bastonati per ore. Molti furono portati poi in caserma e bastonati ancora, torturati come a Genova. Genova provocò un sussulto, in Italia, che durò più o meno un mese. In Parlamento la sinistra si arrabbiò un po’. Poi finì tutto: il movimento no- global, che era un movimento politico, di alternativa, fu sostituito dai Girotondi, un movimento molto vasto, in mano alla magistratura e ai giornali (soprattutto Repubblica). Il movimento dei girotondi spazzò via i temi politici posti dai no-global e concentrò l’attenzione dell’opposizione sulle questioni giudiziarie di Berlusconi. Nessuno chiese le dimissioni di Berlusconi per la mattanza di Genova – né tantomeno di Fini – ma per il Lodo Alfano…La Corte Europea, con una quindicina d’anni di ritardo, si è pronunciata. E lo ha fatto sulla base di un ricorso presentato da un singolo cittadino, Arnaldo Cestaro, che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Cestaro, quella notte del 22 luglio, stava dormendo tranquillo all’interno della scuola Diaz – chiusa per le vacanze estive – che era stata concessa all’organizzazione del contro-G8 per ospitare i ”forestieri”. Il contro-G8 era stato convocato da un gran numero di movimenti no global, pacifisti, sindacali e cattolici, per contestare la riunione del G8 (cioè dei capi di Stato delle grandi potenze) che si teneva, appunto a Genova, e che doveva stabilire come i giganti del mercato privato avrebbero dovuto guidare e incanalare la ”globalizzazione”. Il contro-G8 durò una settimana, ma raggiunse il suo momento più forte negli ultimi tre giorni, quando tenne tre grandi manifestazioni. Cestaro – dicevamo – quella sera dormiva tranquillo, anche perché ormai le manifestazioni erano finite, erano state oceaniche, e nonostante le defezioni dei partiti di sinistra e le provocazioni della polizia, avevano avuto un clamoroso successo anche internazionale. Tutti i giornali del mondo ne parlavano. La mattina dopo era prevista la smobilitazione. Ma Cestaro, nel cuore della notte, venne svegliato all’improvviso dai rumori di gente che cercava di sfondare la porta. Lui pensò ai black block che rompevano le palle. Invece la porta venne giù ed entrarono centinaia di poliziotti scatenati, e armati fino ai denti, che iniziarono a massacrare a bastonate chiunque trovavano nelle aule. A lui gli ruppero subito un braccio, poi una gamba, poi lo colpirono in testa, e lui sentiva le urla dei ragazzini, affogati dal sangue, che chiamavano la mamma, in italiano, in inglese, in danese… Durò almeno un ’ora e mezzo. A nessuno da fuori fu permesso di intervenire. Poi trascinarono i prigionieri per strada, chi in ambulanza chi sul cellulare. E chi era in grado di camminare fu portato in questura o a Bolzaneto. Alla caserma degli orrori. E li le torture proseguirono, furono atroci, lunghissime, aiutate anche da medici vigliacchi. Fu l’orgia del sadismo di stato. Quasi nessuno ha pagato. Le vittime, invece, non sono mai riuscite a liberarsi da quell’incubo, hanno avuto, quasi tutte, danni permanenti, fisici o psichici. La sentenza della Corte Europea adesso ci impone di approvare la legge che istituisce il reato di tortura. Però, oltre alle forze di polizia, ci sono parecchie altre forze, anche in Parlamento, che sono contrarie. Il reato di tortura, tra le migliaia di reati che ogni giorno politici e magistrati riescono a inventarsi, è uno dei pochissimi che limita il potere dello Stato e non i diritti dei cittadini. Dve essere questo il motivo per il quale sarà molto difficile farlo approvare. P.S. Cestaro ha ottenuto un risarcimento di 45 mila euro Non è un granché: gli hanno rovinato la vecchiaia e lo pagano con una cifra modesta. Ora però è possibile che centinaia di altre vittime delle torture di Genova presentino il ricorso. E sicuramente vinceranno. Speriamo. Chi non è stato a Genova in quei giorni non può nemmeno immaginarsi cosa successe. Chi c’è stato non si è mai dimenticato di quel clima di follia. A ripensarci viene in mente che magari non è vero che le cose, in Italia, vadano sempre peggio. Oggi, probabilmente, una mostruosità come Genova non si potrebbe più ripetere. La polizia di oggi non è quella di quel luglio. Meno male, no?

Ora torturano i poliziotti. Italia condannata per l'irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. Ma tutti dimenticano che per 3 giorni le vittime degli scontri furono le forze dell'ordine, scrive Alessandro Sallusti su Il Giornale”. La Corte di Strasburgo per i diritti dell'uomo ha sentenziato che la polizia italiana ha compiuto atti di tortura contro i manifestanti del G8 di Genova che la sera del 21 luglio 2001 si rifugiarono dentro le mura della scuola Diaz. È vero che lo Stato deve comportarsi sempre e comunque a norma di legge, ma è anche vero che in quelle ore a Genova era in corso una vera e propria guerra contro lo Stato e contro la comunità internazionale che l'Italia stava ospitando. Cinquemila criminali provenienti da mezzo mondo si erano mescolati a una folla di manifestanti complice e avevano messo a ferro fuoco la città, attentato alla vita di poliziotti, carabinieri e civili, devastato attività commerciali. La reazione delle forze dell'ordine, una volta ripreso il controllo del campo di battaglia, fu sicuramente dura e molti uomini in divisa l'hanno già pagata personalmente, a differenza del livello politico che ovviamente si dileguò, a partire dall'allora vicepremier Gianfranco Fini presente sul posto per coordinare gli interventi. Ma scambiare i carnefici (i manifestanti) per vittime e le vittime (i poliziotti) per assassini e torturatori è davvero troppo. Io lo dico chiaro: non mi vergogno della polizia e dei carabinieri che operarono a Genova per difendere lo Stato di diritto dalla furia di criminali comuni, loro sì, torturatori impuniti delle nostre città e delle nostre libertà. Prima di bollare come indegne le forze dell'ordine italiane, la Corte di Strasburgo dovrebbe dichiarare fuorilegge le bande paraterroristiche di black bloc, e i loro cugini no global (pacifisti a senso unico), viste in azione a Genova, Roma, in Val Susa e più di recente sulle linee dell'alta velocità ferroviaria. E prima che il Parlamento italiano introduca - come sta per fare - il reato di «tortura» per limitare la possibilità di contrasto delle forze dell'ordine, è bene riflettere. Credo che nessuno di noi si senta minacciato da uomini in divisa. Semmai lo Stato ci tortura lasciando mano libera ai magistrati (vedi la carcerazione preventiva per estorcere confessioni), abbandonandoci in balia della sua burocrazia, aizzando contro di noi il mostro fiscale ingiusto e ricattatore. Tutte caste intoccabili a prescindere dai reati che commettono. Reati che sono molto più pericolosi e frequenti di quelli delle forze dell'ordine. I cittadini inermi siamo noi tutti, non chi va in piazza con passamontagna, spranghe e molotov e poi fa il santarellino in Europa.

Torture alla Diaz. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia, scrive Patrizio Gonella su “L’Espresso”. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia. A quattordici anni dalle brutalità della Diaz è arrivata la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Come già aveva scritto nero su bianco la Corte di Cassazione in Italia non si può punire per tortura in quanto manca il crimine. Così i giudici di Strasburgo ci hanno condannato per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante ma anche perché a causa dell’assenza del delitto nel nostro codice in Italia vi è l’impunità per torturatori. Nei prossimi giorni la Camera discuterà la proposta di legge approvata oramai molti mesi fa al Senato. Non è il migliore dei testi. E’ incoerente rispetto al dettato Onu, eppure bastava tradurre dieci righe dall’inglese in italiano. Alla scuola Diaz e al carcere illegale di Bolzaneto si è ritenuto che si potesse instaurare uno stato di eccezione. Il film Diaz di Daniele Vicari ha il merito di avere fatto conoscere a molti giovani di oggi, che nel 2001 erano poco più che bambini, cosa accadde a Genova in quei giorni. Una vergogna nazionale. Uno Stato che non si è costituito parte civile nei procedimenti penali a Genova nei casi Diaz e Bolzaneto, ad Asti per le violenze in carcere, a Roma nel caso della morte di Stefano Cucchi, a Ferrara nel caso Aldrovandi, a Lecce nel caso Saturno etc. etc.. Non solo. Gli imputati in questi procedimenti penali hanno spesso fatto passi in avanti nella carriera nel corso del processo, o quanto meno non hanno subito alcuna sanzione disciplinare. Il messaggio è in questi casi devastante. E’ un messaggio inequivocabile di legittimazione e incentivazione alla perpetrazione di pratiche illegali di tortura. Un messaggio che serve a segnare la forza del potere punitivo incontenibile rispetto a ogni anelito illusorio e ingenuo di legalità democratica. Se queste sono le reazioni dei vertici istituzionali – solidarietà pubblica oppure impunità per i torturatori – di conseguenza non si può ragionevolmente e correttamente sostenere che la tortura sia una questione di mele marce. La tortura non è mai una questione di mele marce salvo non venga incrinato quello spirito di corpo che dal basso arriva sino all’alto e che si propaga dal singolo poliziotto sino alle più alte cariche istituzionali. La tortura e i torturatori si insinuano là dove trovano spazio e terreno fertile, là dove il sistema consenta che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato imprescrittibile che la punisca, anche una amministrazione dello Stato disposta a sanzionare in tutte le sedi i presunti torturatori. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non sia ispirato al machismo ma alla prevenzione sociale. Richiede infine la rinuncia allo spirito di corpo e la dismissione  di squadre e corpi speciali. Il crimine, anche quello più spietato, lo si deve sconfiggere nella legalità e con gli strumenti ordinari del diritto.

Morti di botte, il filo rosso. Da Stefano Cucchi a Giuseppe Uva, fino ad Aldo Bianzino: le difficilissime inchieste per stabilire la verità sulle persone che in Italia vengono arrestate e non escono vive dagli interrogatori, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”. Luigi Manconi insegna sociologia dei fenomeni politici presso l'Università Iulm di Milano. È stato senatore e sottosegretario alla giustizia e garante per i diritti delle persone private della libertà per il Comune di Roma. È presidente dell'associazione 'A Buon Diritto'. Ha scritto, con Valentina Calderone, 'Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri' (Il Saggiatore 2011). Cucchi, lo ricordiamo tutti, era un ragazzo romano morto il 22 ottobre del 2009, dopo essere finito in carcere per alcuni grammi di hashish. Ma il suo, purtroppo, non è stato un caso isolato. Manconi si occupa anche della vicenda di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato fermato e interrogato dai carabinieri a Varese; e di Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, trovato morto il 14 ottobre in una cella di isolamento del carcere di Perugia.

Cucchi, Uva, Bianzino. Tre morti misteriose accomunate dal fatto di essere avvenute in seguito ad arresti da parte delle forze dell'ordine, tre vicende ancora non chiarite. Ci sono novità?

«Ce ne sono, di positive e di negative, in tutti e tre i casi».

Da dove cominciamo?

«Cominciamo da una notizia positiva in relazione alla vicenda di Giuseppe Uva, morto a giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato in stato di ebbrezza dai carabinieri. Lo scorso 23 aprile il Tribunale di Varese ha assolto il medico che fino a oggi era l'unico incriminato per la morte di Uva».

Perché questa è una novità positiva?

«Il pubblico ministero aveva accusato due medici del reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese di aver somministrato ad Uva degli psicofarmaci incompatibili con il suo stato etilico: il primo era stato prosciolto, e con l'assoluzione del secondo il giudice ha disposto l'invio degli atti alla Procura affinché le responsabilità di quella morte vengano cercate altrove».

Dove, precisamente?

«Nella caserma dei carabinieri, nel corso di quella notte, nel tempo intercorso tra il fermo e il trasferimento al pronto soccorso dell'ospedale. In quella caserma, dalle tre del mattino fino all'alba, erano presenti non solo i carabinieri, ma anche alcuni appartenenti alla Polizia di Stato lì convenuti».

Necessità di ulteriori approfondimenti, insomma.

«Assolutamente sì. Del resto secondo i familiari e secondo noi non ha avuto luogo alcuna indagine seria, al punto che Alberto Biggiogero, l'altro fermato insieme a Uva che afferma di aver sentito dalla sala d'attesa in cui si trovava le urla strazianti dell'amico, e che presentò a tale proposito un circostanziato esposto in Procura, non è mai stato sentito in quattro anni».

Mai?

«Neanche una volta. Si tratta quindi di una novità positiva, perché l'invio degli atti alla Procura affinché svolga le opportune indagini vale a sancire - secondo il mio punto di vista - il fatto che fino a ora quelle indagini non sono state svolte, e che il fascicolo contro ignoti aperto all'epoca dei fatti non è stato seguito in alcun modo».

Con quale caso andiamo avanti?

«Con quello di Stefano Cucchi, per cui la Corte d'Assise di Roma ha chiesto una nuova perizia».

Per stabilire cosa?

«Per rispondere all'interrogativo che, da parte dei familiari di Stefano e da parte nostra, si continua a porre e al quale finora la Procura ha dato risposta negativa: c'è una relazione tra le lesioni per cui sono stati imputati tre agenti della Polizia Penitenziaria e la morte di Stefano? Perché fino ad oggi ci si è occupati soltanto delle circostanze immediatamente precedenti il decesso: l'abbandono, la mancata assistenza, l'insufficienza delle terapie? Ma è di tutta evidenza che senza le percosse Stefano Cucchi non sarebbe stato trasferito all'ospedale Sandro Pertini, non si sarebbe trovato in quello stato di prostrazione fisica e psichica e non sarebbe stato sottoposto all'isolamento che ha dovuto subire».

La richiesta di nuova perizia, quindi, è senz'altro una novità positiva.

«Sì, ma ce n'è anche un'altra di segno opposto. Il funzionario responsabile del trasferimento di Stefano Cucchi al Sandro Pertini, che aveva scelto il rito abbreviato e che era stato condannato in primo grado per abuso d'ufficio e favoreggiamento, è stato assolto in appello perché il fatto non sussiste».

E questo cosa significa?

«Significa che a vari livelli viene smontato il circuito che noi avevamo pazientemente ricostruito: avvenuto il pestaggio e constatata la grave condizione fisica di Cucchi, scatta un meccanismo finalizzato ad allontanarlo ed isolarlo attraverso una serie di mosse convergenti. Lo spostamento al Sandro Pertini, l'isolamento dai familiari che cercano per sei giorni di vederlo e di parlare con lui senza riuscirci: vengono rinviati di ufficio in ufficio, finché il padre ottiene il permesso di accedere al Pertini quando Stefano è già morto da qualche ora».

Uno scenario agghiacciante…

«Che si protrae anche nelle ore successive: basti dire che la prima informazione sulla morte di Cucchi giunta alla famiglia consiste in una visita dei carabinieri alla madre: la invitano a porre nel girello la nipotina che ha in braccio, la fanno sedere e le chiedono di firmare dei fogli su cui c'è la comunicazione dell'orario in cui avverrà l'autopsia. L'autopsia di una persona, il figlio, che fino a quel momento lei riteneva ancora viva».

E sulla vicenda di Aldo Bianzino?

«Solo novità negative, purtroppo. Anche se, nonostante la totale iniquità dell'esito finale, dalle udienze a cui è seguita la condanna di un agente della Polizia Penitenziaria per omesso soccorso emerge che certamente quella notte le cose andarono in modo contrario alla legge. Con particolari addirittura inquietanti».

Ad esempio?

«In una delle ultime udienze un consulente di parte ha dimostrato che per anni nell'attribuire la morte di Bianzino a cause naturali si è partiti da un falso: l'aneurisma cui è stata attribuita la causa del decesso è stato evidenziato, per tutto questo tempo, da un cerchio rosso tracciato su una foto della lastra del cervello di Bianzino. In quella lastra, però, non c'era alcuna traccia dell'aneurisma».

Sembra incredibile.

«Eppure è documentato in modo incontrovertibile, ma non ha cambiato l'iter del processo perché in quella sede si giudicava solo l'omissione di soccorso».

Facendo un passo indietro, cosa unisce queste tre storie, al di là dei particolari che caratterizzano ognuna di esse?

«Certamente il fatto che uomini e apparati dello Stato che avevano in custodia dei cittadini, e che avrebbero dovuto considerare sacra la loro incolumità, hanno violato l'habeas corpus e il principio fondamentale della tutela dell'integrità fisica dell'individuo nelle loro mani. Come del resto avviene per altre decine, per non dire centinaia, di casi dei quali si parla molto poco».

Uno per tutti?

«La vicenda di Luciano Isidoro Diaz, che nel 2009 viene fermato per un controllo stradale e, a seguito del pestaggio subito, perde la vista totalmente ad un occhio e parzialmente all'altro. Un mese fa un carabiniere viene condannato a due anni e tre mesi per lesioni gravi, con l'aggravante di averle commesse nella sua qualità di esponente delle forze dell'ordine: ma altri carabinieri sono sotto processo con l'accusa di aver falsificato atti e verbali per insabbiare la vicenda. Inoltre la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere per altri militari, che dunque dovranno rispondere delle violenze di quella notte».

Anche in questo caso le violenza sarebbero avvenute in caserma?

«Sia in caserma che fuori. Diaz ha avuto la forza di denunciare l'accaduto e di andare avanti, anche lui con il sostegno dell'associazione 'A buon diritto' e degli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa».

Un percorso difficile?

«Sì, perché c'è sempre una spessa cortina di nebbia che si oppone all'accertamento della verità quando in fatti del genere sono coinvolti rappresentanti delle forze dell'ordine: mentre sarebbe interesse di tutti mettere in luce quei comportamenti e sanzionarli. Perché il disonore di un certo numero di elementi, non così irrisorio, non finisca per ricadere in modo indiscriminato sull'intera categoria».

AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.

Amanda e Raffaele assolti per non aver commesso il fatto. Buona Giustizia Atto uno, scrive “Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. La Cassazione ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher e tutti i media salgono sulla barca del vincitore. Solo l'opinione pubblica, che ancora non ha capito come funziona il pregiudizio mediatico e quanto siano pronti i giornalisti a cambiare rotta pur di navigare in favore di vento, ha il dente avvelenato e chiede ancora la forca per i due ragazzi. Alle casalinghe di Voghera questa assoluzione resterà in gola, perché convinte dai guaiti di quei cagnolini che si accucciano sugli zerbini della procura in attesa di notizie colpevoliste da abbaiare sui video. E pensare che bastava fare due più due per capire che tutto era sbagliato, che tutto era solo l'enorme bluff di una procura che senza attendere gli esiti delle analisi tecniche aveva appoggiato troppo presto la sua lunga mano su due studenti che cercavano di aiutarli. Dopo sette anni e mezzo finalmente si chiude in maniera seria uno dei tanti capitoli di giustizia ridicola che sta infestando il nostro Paese, dove troppi magistrati pescano un colpevole e gli costruiscono addosso una gabbia di cartone, dipinta di color ferro, e usufruendo dell'aiuto mediatico convincono il popolo che la loro logica scadente è la migliore. Ma non è così, non può essere che la verità sia illogica e questa sarà una sentenza che servirà a mettere in riga i troppi magistrati che si sentono potenti e invincibili. Da ora in avanti, dice la Cassazione con questa assoluzione, chi inventerà storielle senza avere in mano nulla di serio, pur di mandare in carcere l'imputato preferito, non verrà coperto, ma lasciato solo a gestire il dopo sentenza. In quel frangente sarebbe il caso che qualche giornalista pubblicizzasse gli errori dei magistrati, così da non permettere che possano far carriera nonostante abbiano dimostrato di sbagliare grossolanamente... perché ancora il sistema non è pronto a decidere cosa farne della sua costola che si incrina. Infatti in questo caso, se non ci saranno giornalisti a criticare, il dopo cosa prevede? Nulla di nulla. E' chiaro che Rudy Guede è l'unico plausibile assassino, anche se è stato condannato perché ha partecipato all'omicidio e non per averlo commesso. Fra pochi mesi, alla faccia di tutti, sarà ugualmente libero di girare fra noi perché nessuna giustizia potrà cambiare le carte ormai cristallizzate. I procuratori non avranno conseguenze perché, come gli oncologi, sono liberi di seguire il loro istinto investigativo e, quindi, di sbagliare a discapito della vita altrui. I tecnici che hanno periziato non contano più niente, nessuno andrà da loro a chiedere il motivo per cui hanno lavorato in maniera scadente o scritto cose poco vere. I poliziotti presenti all'interrogatorio della Knox, che hanno anche visto una sensitiva assistere agli interrogatori, non dovranno neppure giustificarsi. Hanno fatto il loro lavoro. Sono militari: qualcuno più alto in grado ordina e loro ubbidiscono senza fiatare. Questa è la regola. Chi della sentenza si lamenterà è la parte civile che, purtroppo in questo caso come in altri, invece di restare al centro o cercare di fare indagini proprie senza lasciarsi influenzare dalle carte di chi vuole arrivare a una condanna, si adagia a corpo morto alla procura che mai le fornirà notizie o informative contrarie alla propria tesi colpevolista. La procura ha detto che più persone hanno ucciso Meredith, quindi la famiglia Kercher si aspetta che più persone vengano condannate. Poco importa come e con quali motivazioni. Poco importa se per un gioco erotico o perché Guede non ha voluto pulire il bagno. La condanna è ciò che vuole l'accusa e, di conseguenza, ciò che vuole la parte civile. Che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema è facile da capire, che ci sia da lavorare per dividere le carriere dei magistrati e per modificare certe congiunture (parte civile-procura) che ora lavorano in coppia anche. Perché le teste se lavorano in gruppo non ragionano in maniera autonoma... e la giustizia per funzionare al meglio ha bisogno di poca amicizia fra le parti.

Sotto a chi tocca. Oggi in carcere ci sono Veronica, Sabrina, Massimo e tanti altri, ma se il sistema giustizia non cambia domani l'inferno potrebbe toccare anche a noi... Il dottor Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, durante la "stagione storica" che tutti conosciamo col nome "mani pulite" - usò lo strumento che ancora utilizzano tanti procuratori per intimorire gli indagati e ottenere confessioni: la custodia cautelare in carcere. Detto questo, però, tempo dopo fu lui uno dei magistrati che, nonostante la legge gli consenta l'uso di tale strumento di tortura, fece autocritica dicendo che non sempre quanto dallo Stato è considerato legittimo è anche necessario e opportuno. Onore a lui, anche per quanto ha dichiarato dopo la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Non ha peli sulla lingua il dottor Norbio e non si è fatto scrupolo di dire che: "Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare, dev'essere buttato fuori dalla magistratura". Fatta questa premessa, parliamo di chi ha spedito in carcere persone che si proclamano innocenti nonostante gli indizi non siano sufficienti a suffragare un sequestro di stato. Ne parliamo perché troppo spesso capita di trovare persone mandate in carcere da magistrati che sbandierano una ricostruzione ad hoc, ma poco credibile, basata su indizi e perizie che solo all'apparenza sembrano concordare. Massimo Bossetti, ad esempio, è in carcere esclusivamente per colpa di uno strano Dna che non solo non doveva trovarsi su un cadavere esposto alle intemperie nei tre mesi invernali, ma che contiene anche stranezze non propriamente spiegabili. Il resto, gli indizi a contorno che escono dalla procura e tanto vengono pubblicizzati ogni volta che la difesa cala una buona carta o ha un appuntamento con un giudice, sono fronzoli sistemati a modo e adattati in un secondo tempo. D'altronde, la nuova moda adottata da molte procure moderne consiste nell'arrestare il colpevole predestinato prima di svolgere indagini. Indagini che si portano avanti ad personam in un secondo tempo, quando è facile adattarle al predestinato di turno (ma anche a qualsiasi altra persona). E' indagando a posteriori che si può smazzare il mazzo e cambiare in corso d'opera le carte già sistemate sul tavolo. Come si è fatto con Sabrina Misseri, arrestata perché coinvolta da suo padre in un delitto colposo avvenuto in garage mentre lui dormiva sulla sdraio in cucina. Questa ricostruzione "convincente" è stata avallata da un Gip e cristallizzata dai giudici in un incidente probatorio durato dieci ore. Peccato per la giustizia con la G maiuscola che tanti mesi dopo Sabrina Misseri sia stata rinviata a giudizio e processata per un assassinio avvenuto in cucina mentre il padre, che nella nuova ricostruzione non dormiva più sulla sdraio, si trovava in garage. Ma come? E la ricostruzione convincente avvallata da tanti giudici? Chissà che fine ha fatto. E non è l'unica anomalia, visto che per confermare la ricostruzione accusatoria si è usato il sogno che chi frequentava il fiorista conosceva da ottobre 2010. Sogno che è entrato in scena - e diventato irreale realtà - solo ad aprile 2011 quando Anna Pisanò - che girava per Avetrana col registratore fornitole dai carabinieri autorizzati dalla procura - decise finalmente di firmare un verbale con tanto di nome e cognome del sognatore. In poche parole, pare che le procure abbiano imparato bene quel gioco di prestigio in cui i fazzoletti colorati entrano nel cilindro per poi uscirne trasformati in mazzi di fiori. L'ultima vittima di questa nuova procedura è senza dubbio Veronica Panarello, probabilmente arrestata e spedita in carcere perché convinti di ottenere una rapida confessione (così da chiudere in velocità un caso mediatico troppo invadente). Contro di lei non c'è un Dna degradato, ci sono una serie di filmati, alcuni degradati, che riportano orari sballati. Solo quelli, nulla di più. Eppure son bastati per convincere un procuratore a far arrestare la madre di Loris e a far scrivere ai giudici che si tratta di una assassina immonda, altamente pericolosa che potrebbe reiterare il reato, scappare dall'Italia o inquinare le indagini. Cappero che filmati esaustivi hanno in procura! Che abbiano filmato l'assassinio? Ad Avetrana nei tre mesi successivi all'arresto di Sabrina Misseri si modificarono le testimonianze della prima ora. Testimonianze concordanti. Ad esempio, si spinse sulla coppia di fidanzati che videro Sarah per strada alle 14.30 - e cronologicamente questo era un orario molto compatibile con quello da subito fornito dalla famiglia Scazzi e dalla badante rumena che avevano parlato, e firmato a verbale, di un'uscita da casa a ridosso proprio delle 14.30 - affinché cambiassero l'ora dell'avvistamento. E lo stesso trattamento si riservò ad altri. Cosicché le indagini postume all'arresto di Sabrina Misseri riuscirono nel miracolo di limare quella mezzora che impediva la ricostruzione colpevolista. Tutti sappiamo che gli aggiustamenti ci furono, perché fu proprio un testimone a dichiarare in televisione che i nuovi orari li aveva ricostruiti assieme e grazie ai procuratori. E su questa affermazione è meglio stendere un velo pietoso. A Santa Croce Camerina si sta cercando di fare la stessa cosa? Probabile, dato che un agente della municipale aveva da subito dichiarato di aver visto Veronica Pannarello e la sua auto passare a pochi metri dalla scuola sulle otto e trenta o poco più. La sua testimonianza era concordante al 100% con quanto dichiarato dalla stessa Panarello, ma già nella richiesta d'arresto i procuratori scrissero che al secondo e terzo interrogatorio la persona in questione aveva modificato la sua versione non mostrandosi più sicura come all'inizio. Però il motivo di quella insicurezza è facile da capire, dato che di certo chi l'ha interrogata le ha sbandierato in faccia una nuova verità fatta di telecamere e filmati che parevano smentirla. Ma, c'è da chiedersi, quei filmati saranno davvero sicuri o saranno sicuri come quel testimone che inizialmente alla procura di Palermo non volevano vedere neppure in fotografia e finì per essere utilizzato dalla procura di Caltanisetta? Quello che Ilda Bocassini e altri bollarono a bugiardo cronico e che invece, grazie anche al procuratore Petralia, che ora segue in prima persona il caso dell'omicidio di Loris Stival ma che al tempo lavorava a Caltanisetta, diventò la bocca della verità in grado di far condannare delle persone all'ergastolo (dopo 16 anni di carcere liberate con tante scuse nel 2011) e di depistare tutta l'indagine sulla strage di via D'Amelio? Il pentito non pentito ma pentito si chiama Vincenzo Scarantino e per tutti era un criminaletto da strapazzo a cui piaceva violentare commesse (e aveva una moglie e tre fidanzati trans) che poco ci azzeccava con la mafia. Per tutti... ma non per alcuni procuratori e per chi si occupava delle indagini. Procuratori, uno proprio Carmelo Petralia, che si avvalsero delle indagini di un pool di poliziotti che a causa del loro modo di indagare stanno subendo un processo che li vede accusati di aver costruito prove false (ancora il processo non è concluso, ma vedrete che saranno tutti assolti) e costretto il pentito non pentito (e i suoi amici) a fare dichiarazioni false. Fra questi, certamente lo ricorderete perché venticinque giorni prima della scomparsa di Yara Gambirasio divenne Questore di Bergamo e fu lui a seguire le indagini sulla scomparsa e sulla morte della ragazzina di Brembate Sopra, un giovane Vincenzo Ricciardi affiancato, al tempo, da un altrettanto giovane Mario Bo. Quest'ultimo, diventato poi dirigente della squadra mobile in quel di Gorizia, è finito a processo per "falso". Processo che in questi giorni è alle ultime battute e che ha posto fine alla sua carriera. C'è da dire che anche la carriera di Vicenzo Ricciardi poteva interrompersi pochi mesi fa, quando fu indagato e rischiò di finire a processo. Insomma, come la giri la giri siamo sempre alle solite. Sempre a chiederci a cosa e a chi dobbiamo credere. A chiederci se le indagini sono sempre genuine oppure...Dobbiamo quindi credere ad occhi chiusi a un procuratore che fa di tutto per chiudere velocemente un "caso spinoso" (d'altronde lo ha fatto anche quando si è fidato del pool investigativo di La Barbera e delle parole estorte a Vincenzo Scarantino), o dobbiamo credere a una madre a cui hanno ucciso un figlio e che nonostante i mesi trascorsi in carcere continua a proclamarsi innocente? Veronica potrebbe essere colpevole? Se qualcuno porterà prove "genuine" tutti ci crederemo. Per il momento continuiamo a chiederci il motivo per cui sia in carcere. Esiste davvero un motivo... oppure è reclusa a causa di un sistema giustizia che si avvolge e si chiude in se stesso e invece di vagliare al meglio gli indizi, a favore e contro, si protegge isolando la difesa e adeguandosi alle conclusioni di chi ha indagato e della procura? La domanda è logica, perché gli esempi che portano a questa conclusione sono tanti dato che in tanti casi i Gip e i giudici si sono appiattiti alle procure. Inseriamo la mano nel sacchetto degli errori giudiziari e prendiamone uno a caso. Parliamo del grossolano sbaglio di valutazione di uno stimato magistrato che tante importanti inchieste sta portando avanti negli ultimi anni. La dottoressa Assunta Cocomello che opera in stimate istituzioni romane. Fu lei nel 2011 a chiedere il rinvio a giudizio di Josè Alberto Cadena Ruiz per aver ucciso, nel dicembre 2008 - secondo la sua procura durante un rapporto sessuale estremo - Graciela Carbo Flores. Lo chiese nonostante José avesse un alibi. Mentre Graciela moriva lui era dall'altra parte di Roma, a trenta chilometri da lei, con tre amiche che inizialmente testimoniarono in suo favore. Poi due ebbero paura e si defilarono. Ne restò una che ribadì sempre la stessa storia...Ma, ormai s'è capito, poco importano i testimoni che forniscono alibi quando una procura ha un disegno chiaro in mente (come dimostrano le condanne di tanti testimoni della difesa). Così la sua amica da testimone a favore diventò parte attiva del crimine e fu incriminata per favoreggiamento. José era già in carcere al momento della richiesta di rinvio a giudizio, nonostante la logica non volesse un'incriminazione perché la situazione che aveva generato la morte, il rapporto sessuale estremo ipotizzato dalla procura, non esisteva proprio. Infatti gli accertamenti provarono che Graciela non aveva avuto alcun rapporto sessuale prima di morire. E questa sicurezza toglieva valore alla ricostruzione della procura e avrebbe dovuto impedire un qualsiasi arresto. Così si cambiò leggermente il movente, e si insinuò che ci fossero screzi fra José e Graciela. Ma Graciela aveva una malattia cronica che l'obbligava a recarsi spesso in ospedale, e in fondo non era difficile capire che la povera donna era morta di morte naturale a causa del complicarsi della malattia e che i leggeri segni sul collo erano riferibili al foulard che sempre indossava aderente (come testimoniato da quelli che la conoscevano). Infatti, "morte naturale" fu la diagnosi che si fece al ritrovamento del cadavere (constatata anche dalla Polizia Scientifica). Il problema nacque dopo, quando un perito incaricato dalla dottoressa, unico fra tanti, sbagliando clamorosamente scrisse che la donna era stata strangolata. Vabbé, dirà il lettore, una svista del genere sarebbe stata semplice da smontare per la difesa. Quando uno sbaglio è clamoroso è facile da smentire. Per cui, se nonostante tutte le garanzie che esistono in Italia l'imputato non fu scarcerato, significa che in fondo in fondo qualcosa di criminale aveva fatto. Che la difesa non aveva nulla (che servisse a scagionarlo) da portare a discolpa ai giudici. Nessun magistrato metterebbe in carcere una persona incensurata senza averne motivo. Ecco il ragionamento che fa la gente quando viene a sapere di un arresto. Il luogo comune vuole che chi finisce in carcere qualcosa abbia commesso di sicuro. E' un ragionamento che a priori non è sbagliato perché si fonda sul fatto che le indagini e gli accertamenti non sono in mano a una sola persona o una sola istituzione. Infatti, la giustizia pretende che a indagare siano le forze dell'ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza ecc...) che poi devono riferire a un procuratore  (quello di turno al momento del crimine) che ordina nuove indagini e si affida a suoi periti (anche esterni) e dopo aver trovato e vagliato prove o indizi ipotizza una ricostruzione del crimine e presenta una richiesta di arresto al Gip - che solo dopo aver a sua volta verificato la logicità del quadro accusatorio e delle prove portate dal procuratore decide se arrestare oppure no. Insomma, un indagato non va mai in carcere per colpa di un singolo. E se ad andare in carcere è un innocente, significa che c'è stato un concorso di colpa che ha coinvolto molte "persone perbene e stimate". Compreso quel giudice che alle persone stimate ha creduto a prescindere dalla logica che hanno usato nelle indagini e nelle ricostruzioni. Per questo sui media si può leggere, a fronte di un omicidio che non c'è stato, che una coppia di amanti diabolici è stata finalmente arrestata. Per tornare al povero José Alberto, anche in quell'occasione il Gip si adeguò alle conclusioni colpevoliste della procura. E a lui si adeguarono i giudici del tribunale del riesame, cui il difensore portò tutto ciò che serviva per scarcerare il proprio assistito. Tribunale del riesame che invece di scarcerare José - perché come dicevano tanti periti non c'era alcun omicidio ma si trattava di una morte naturale - si complimentò per il lavoro certosino svolto sia dalla procura che dal Gip e decise che l'imputato era un essere immondo, un assassino altamente pericoloso che avrebbe potuto sia inquinare le prove, sia reiterare il reato, sia fuggire all'estero. Solo nel 2013 - nel frattempo l'imputato aveva trascorso due anni e mezzo in carcere - un giudice si attivò per scarcerarlo in quanto, scrisse nelle motivazioni, "il fatto non sussiste dato che non ci fu alcun omicidio". E la Procura, che nel frattempo aveva cambiato i procuratori, neppure impugnò la sentenza tanto era pacifico e chiaro che José Alberto non fosse un assassino. E tutto finì così, senza neppure le scuse di chi aveva imbastito un quadro accusatorio immaginario né quelle di chi quel quadro ridicolo lo aveva accettato chiudendo un innocente in cella per due anni e mezzo. No problem José, chiedi (un rimborso milionario allo stato italiano) e ti sarà dato... tanto i sudditi del Bel Paese pagano volentieri per gli errori dei loro magistrati e dopo aver pagato continuano ad essere contenti e a sproloquiare contro chiunque venga arrestato e contro chiunque chieda siano rispettate le giuste regole. Lo fanno quando leggono i giornali, quando ascoltano gli opinionisti e gli pseudo criminologi televisivi lavorare pro' procura e di fronte a milioni di telespettatori accusare di omicidio, senza avere alcuna prova in mano, chi si dichiara innocente. In fondo José, il tuo è solo uno dei tanti errori giudiziari che capitano giornalmente in Italia a causa di "qualche persona stimabile". In fondo tu alla fin fine hai trovato un giudice capace e grazie a lui sei restato in carcere "solo" trenta mesi... tu dall'inferno ne sei fuori José, pensa a chi ci è appena entrato o a chi ci vive da anni e non sa se mai ne uscirà...

RAFFAELE E' STATO AIUTATO DAL SIGNORE IDDIO!

Raffaele Sollecito in chiesa in attesa della sentenza: le mani giunte e gli occhi al cielo. Delle immagini inedite che mostrano Raffaele Sollecito poco prima della sentenza con cui la Cassazione lo ha definitivamente assolto, insieme ad Amanda Knox, per l'omicidio di Meredith Kercher. Dopo un'odissea durata otto anni, di cui quattro spesi in carcere, Raffaele può riprendere la sua vita da uomo libero. E poco prima di scoprire quale sarebbe stato il suo destino, come mostrano questi scatti proposti da Diva e Donna, Raffaele si era rifugiato in una chiesa, a Roma, per pregare in attesa della sentenza. In una delle immagini lo si vede pregare, solo, su una panca. L'espressione del volto è tesissima: da lì a poche ore Sollecito sarebbe potuto finire in carcere. Rischiava una condanna pesantissima, che lo avrebbe costretto al carcere fino a 56 anni. Ma le sue preghiere, con gli occhi al cielo e le mani giunte, sono state esaudite. Assolto.

OSSESSIONE AMANDA.

Ossessione Amanda. È sospettata di aver ucciso Meredith. Eppure ha scatenato la fantasia e la morbosità mediatica. Con schiere di fan. Il parere di uno psichiatra, scrive Enrico Arosio su “L’Espresso”. L'Angelo Demone e l'Uomo Nero. Il truce feuilleton multimediale di Perugia si semplifica e si complica al tempo stesso. L'Uomo Nero ora è il secondo, il Rudy Hermann Guede, 21 anni, ivoriano, arrestato in Germania; mentre il primo, Diya 'Patrick' Lumumba, nelle stesse ore ha ottenuto la scarcerazione dal magistrato. Ma l'omicidio di Perugia, il crudo omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, è ancora tutto da chiarire. E Amanda Knox (ma il cognome pochi lo ricordano), la sospettata principale (finora) non ha finito di stupire, turbare, emozionare tanti giovani italiani. Addirittura di affascinarli. Lo testimoniano i messaggi di simpatia e ammirazione per lei, l'americanina bionda dal viso angelico, ma anche bugiarda ed esibizionista, che girano da giorni nell'immenso frullatore di Internet. E pensiamo allo strano delitto di Parigi compiuto pochi giorni dopo da una ragazza inglese di buona famiglia, che ravviserebbe elementi di emulazione della vicenda di Perugia. È normale o abnorme il fascino di Amanda presso quella parte di pubblico che ne segue la vicenda giorno dopo giorno, come ipnotizzato? Lo abbiamo chiesto a uno psicoanalista e psichiatra molto navigato, Giorgio Abraham, che vive ed esercita a Ginevra.

Dottor Abraham, da dove scaturisce questo fascino ambiguo di Amanda?

"Per rispondere vorrei partire dal concetto di dipendenza. Emotional addiction, dipendenza dalle emozioni. O anche: le emozioni come droga. Questa è una chiave per provare a capire".

Le emozioni come droga?

"Di droga classica a Perugia ne è circolata parecchia, tra i protagonisti della vicenda. La droga viene assunta per provare sensazioni. Ma qui entra in campo qualcos'altro, la droga da emozioni: è una ricerca sempre più diffusa, nel sesso, nel gioco d'azzardo, negli sport estremi. Ho avuto in terapia non solo soggetti con varie forme di dipendenza sessuale, ma anche patiti del bungee-jumping che mi dicevano che la botta di adrenalina del salto nel vuoto è molto più forte della miglior pratica sessuale. Ecco, anche a Perugia è in gioco la droga da emozioni. Emozioni negative: paura, violenza. Ma anche la colpevolezza è una droga potente. Molto più dell'euforia".

La colpevolezza una droga? Per i protagonisti o per il pubblico che segue?

"Buona domanda. Intanto dico questo: Amanda che dà la colpa al Lumumba, che mente alla polizia, che cambia versione, confonde le acque, non è così distante dall'infanticida che si mette alla ricerca del cadavere insieme ai soccorritori. Amanda sembra giocare con la colpevolezza: vera o presunta, o solo complicità. È qualcosa che ricorda il delitto di Cogne, o la scomparsa della bambina inglese in Portogallo. E il pubblico italiano, in parte, partecipa a questo gioco eccitante. C'è forte ambiguità, in Amanda, in come si contraddice. E poi i vent'anni, la droga, gli amici, le notti. Il tutto tiene viva l'attenzione".

Il fascino del male? È questo che ci turba?

"Il fascino del male, o la sua banalità".

Perché Amanda ha ammiratori? Viene in mente Pietro Maso, il ragazzo veronese che aveva ucciso i genitori e sin da subito ricevette lettere d'amore in carcere.

"I messaggi che le arrivano credo siano di due tipi. I primi dicono: povera Amanda, ti credo, sei un angelo, non puoi essere stata tu, sei vittima dell'errore giudiziario. I secondi: sei eroica, sei figlia del nostro tempo, hai la forza di sopportare la colpa, il male che hai inflitto. L'idea di colpevolezza è la droga emozionale che eccita chi le invia la sua solidarietà".

Non è aberrante?

"Forse. Ma meno raro di quanto si pensi, quando c'entra la sessualità".

Cioè?

"Se guardo alla mia pratica clinica, un quadro sessuologico frequente è la donna che si lamenta della propria scarsa reattività sessuale. E che a volte racconta che solo fantasie violente, come l'essere presa con forza da uno sconosciuto di notte e costretta a pratiche estreme, la portino a vera eccitazione. Al tempo stesso vive queste fantasie con disagio, ecco perché ricorre al terapeuta. La forte dose di paura, insieme alla rabbia di non poter reagire, è moneta corrente per un sessuologo. Questo per dire come fantasie e paure non siano rarità, né aberrazioni".

Qui parliamo di ragazzi di vent'anni appena. Vorremmo associarli alla freschezza, alla gioia, alla scoperta.

"Ma a vent'anni, l'età di Amanda, Meredith, Rudy, Raffaele, c'è molta confusione sessuale. Più di prima. Una volta c'era la proibizione a fungere da stimolante. Oggi il consumismo sessuale, l'apparente facilità di appagamento porta ad alzare sempre più l'asticella. Vale già per gli adolescenti, dove si registrano nuovi livelli di violenza e crudeltà, individuali e di gruppo".

Qual è l'archetipo, l'Angelo Demone? Un amico di Meredith, la vittima, ha definito così Amanda: "Sembrava una ragazza normale, ma sotto sotto si capiva che era una selvaggia".

"Eh, stiamo attenti, stiamo attenti agli angeli".

Che cosa vuole dire?

"Pensiamo alla Principessa Diana. Al suo culto post mortem. Ma ricordiamo che è morta insieme al suo amante in un incidente stradale; sul quale peraltro si sono espressi dubbi, l'omicidio, i servizi segreti, eccetera. C'è la testimonianza del soccorritore che le tenne la mano, le ultime parole, My God, my God. È per paura che invoca Dio, o per colpa?".

Tornando ad Amanda...

"Il viso d'angelo di Amanda è un po' il viso di Perugia, città graziosa, civile, città della gioventù, del dialogo, dell'amicizia. Ma è un viso che cela sottofondi tumultuosi. Amanda appare ambigua come l'Angelo Caduto, più che il Demone, e l'Angelo Caduto è Lucifero...".

Ed ecco servito il romanzo popolare, il noir postmoderno. C'è pure l'Uomo Nero, l'antagonista su cui scaricare la colpa. Prima Lumumba, poi Rudy.

"Dare la colpa all'Uomo Nero: facile, lei dice?".

Facile provarci. Erika e Omar, a Novi Ligure, diedero la colpa agli albanesi. La Franzoni, a Cogne, prima al matto del paese, poi alla vicina montanara.

"Certo anche l'Uomo Nero è un archetipo. Per noi. La conosciamo fin da bambini, la paura dell'Uomo Nero. Poi magari è peggio la donna bianca. Qui a Perugia lo vedremo. Prima sembrava lo zairese, ora tocca all'ivoriano. Cosa facevano tutti intorno ad Amanda quella notte, oltre alla povera vittima?".

Dottor Abraham, alla fine che giudizio dà del voyeurismo del pubblico in questo caso così spinoso?

"Penso che da un lato questo attaccamento sia una reazione, diciamo così, malsana: la partecipazione corale a un delitto, o addirittura l'attrazione per chi vi ha partecipato. Dall'altro può essere una reazione utile. Noi assistiamo alla crudeltà altrui, loro recitano, noi stiamo in platea. Ne siamo fuori, ne siamo salvaguardati, vediamo dove porta la cattiveria. È un dramma dell'Homo connectus, immerso in un flusso continuo di immagini. Un grande delitto è anche una forma di teatro pubblico. Un gioco collettivo".

I media esagerano? Hanno una colpa? O fanno solo il loro dovere, in quest'epoca dell'Homo connectus?

"Non vorrei rispondere con un giudizio morale, ma con un giudizio, come posso dire, estetico".

Davvero?

"Ma sì. Io dico che i media devono fare rumore, è nella loro natura. Cronache esagerate, troppo morbose possono infine rivelarsi grottesche, e quindi dannose per gli stessi media. Una cosa lenta, raffinata, raccontata anche a lungo, può intrattenere meglio, e dare un vantaggio".

Lei è un bel cinico, dottor Abraham.

"Forse sono solo realista".

L'attrice che interpreta Amanda Knox: "Io, solidale con Meredith". L'attrice Genevieve Gaunt: "Non sono un giudice per biasimare Amanda Knox, il personaggio che rappresento. Ma provo grande empatia per Meredith", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Amanda Knox contro Amanda Knox. L'attrice che interpreta la ragazza americana accusata dell'omicidio di Meredith Kercher nel film "The Face of an Angel" confessa di provare "grande empatia" nei confronti della famiglia della studentessa inglese massacrata a Perugia nel novembre di otto anni fa. La bella Genevieve Gaunt, nata nel 1991, è stata fra le protagoniste del film di Michael Winterbottom, uscito nelle sale l'anno scorso. L'attrice ha spiegato di aver accettato la parte nella speranza che il film possa ricordare agli spettatori la tragica fine di Meredith, dopo anni in cui i media si sono concentrati, a suo dire, solo sulle vicende giudiziarie di Amanda. "Questo è un film in memoria di Meredith. Penso che la gente dovrebbe ricordare la sua innocenza e la sua speranza - e dovrebbe evitare di essere attratta verso la violenza gratuita.Penso anche che le persone possano essere trascinate in un processo per omicidio per le ragioni sbagliate." La Gaunt, d'altro canto, ha puntualizzato di essere "un'attrice e non un giudice", aggiugendo di non avere intenzione di biasimare in alcun modo il personaggio che si è trovata ad interpretare. Eppure l'empatia, la solidarietà, della Gaunt è andata d'istinto a Metz.

LA VERSIONE DI AMANDA

La versione di Amanda, scrive Clizia Gurrado su “Il Giornale”. Può una recensione teatrale delineare il profilo psicologico di chi l’ha scritta? Quando possiamo parlare di  bocciatura premeditata? E’ opportuno cimentarsi in indagini preliminari e possedere mansioni specifiche di laboratorio per attestare l’onestà di chi stronca un attore o ne osanna un altro? Si possono fare comparazioni balistiche tra repliche e debutti? Tutto questo per introdurre lo scoop del giorno: ho scoperto una nuova firma nel vasto panorama dei critici e delle penne teatrali online e cartacee. Non so se indovinerete il suo nome facilmente perché oggi di teatro scrivono un po’ tutti. Ma in questo caso sto parlando di una collega che scrive senza sviste, lapsus ed errori grossolani e che per mia fortuna lo fa dall’altra parte del mondo, per la precisione nella lontana West Seattle. Così la temuta concorrenza è eliminata in partenza. Ci siete arrivati?  Non ancora? Coraggio, vi sollecito a rispondere in fretta.  Sto parlando di Amanda Knox. Sappiamo che oggi conduce una vita normale, è di nuovo innamorata, è una collaboratrice freelance del West Seattle Herald e ha frequentato una scuola di scrittura creativa a Washington. Non dimentichiamo che è anche l’autrice del best-seller Waiting to be heard, il memoir che ha visto le stampe nel 2013. Per me è stata una sorpresa, non sapevo che si occupasse di teatro. Così ho voluto leggere subito le sue recensioni. Non per niente sono una persona incredibilmente curiosa. Andate anche voi a questo indirizzo http://www.westseattleherald. com.  e nello spazio “search” digitate il nome e il cognome della fanciulla americana. Confesso di aver letto i testi di Amanda con un occhio particolare, come se fossi alla ricerca di un indizio, di una traccia di dna, di reperti  biologici. Ho iniziato controllando alcune prove organiche su un avverbio, su un sostantivo, poi ho notato un accento forse spostato dalla scena grammaticale originale. Ho controllato la data del decesso di un’interrogativa, campioni di virgole e di punti esclamativi. Devo dire che ho visto subito il buongiorno, già dalle prime righe. Amanda descrive con precisione scenografie e ambienti, si sofferma sui particolari, analizza con cura i testi, parla degli attori e dei personaggi con competenza, virgoletta dichiarazioni di interpreti e autori, non ritratta mai i giudizi, riesce a essere spiritosa e anche onesta (“durante una lezione puo’ capitare di addormentarsi…” scrive nella recensione dello spettacolo Chinglish che ha visto qualche settimana fa – “if you’re going to slip and fall, as we all inevitably do sometimes…….”), ma non so cosa scriverebbe di uno spettacolo annullato all’ultimo minuto senza rinvio. Adesso poi che è stata giudicata “not guilty” e che ha avuto una condannata solo per calunnia, sono sicura che le sue recensioni saranno giudicate ancora più autentiche e credibili: nessuno dubiterebbe della sua presenza alla replica di una commedia o di un monologo all’Arts West Theater, anche quando invece se ne sta pigramente sul divano di casa col fidanzato come, ahime, fanno molti nel nostro paese, che scrivono di teatro senza vedere gli spettacoli.  E senza avere un fidanzato o fidanzata. C’e solo un problema: se fossi uno spettatore congolese, a Seattle per lavoro o per turismo, non vorrei avere un posto in platea vicino alla Knox.

Amanda Knox dopo la sentenza: "Grido la mia innocenza da anni". In un'intervista a Chi ringrazia chi ha creduto in lei. "Non me l'aspettavo, ma ho atteso tanto questo momento", scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. La sentenza definitiva è arrivata pochi giorni fa: Amanda Knox non è colpevole per l'omicidio di Meredith Kercher, trovata morta a Perugia nel 2007. E la giovane americana, in una intervista a Chi, non nasconde di essere sollevata dalla decisione della corte. "Non me l'aspettavo - ammette -, ma l'ho sognato tante volte". E ringrazia chi ha creduto in lei, "quando tutti erano contro" e la pensavano colpevole dell'omicidio. Sul numero del settimanale anche un'intervista a Raffaele Sollecito, accusato come lei per la morte di Meredith. "La prima cosa che voglio fare è andare in questura a chiedere che mi restituiscano il passaporto", ha detto l'uomo. Il documento gli era stato ritirato quando si temeva che potesse darsi alla latitanza. Anche se lui ribadisce: "Io da Santo Domingo e dalla Svezia sono tornato per presentarmi al processo. Il sospetto che fuggissi faceva comodo".

RAFFAELE SOLLECITO: NON CHIAMATEMI MAI PIU' ASSASSINO.

Raffaele Sollecito ai giornalisti: «Non chiamatemi mai più assassino». La conferenza stampa con gli avvocati, a Roma: «Questa sentenza doveva finire così, ora ritorno alla vita normale». L’avvocato Bongiorno: «Valutiamo richiesta danni», scrive “Il Corriere della Sera”. «Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato: senza il loro supporto non avrei avuto la forza di arrivare fino a qui. Ringrazio in particolare mio padre, i miei avvocati e i miei familiari». Dopo l’assoluzione per il delitto di Meredith Kercher, Raffaele Sollecito ha parlato con i giornalisti durante una conferenza stampa a Roma. «Mi sento come un sequestrato tornato alla libertà», ha detto. «Il mio sequestro è stato insopportabile. Sono stato additato come un assassino senza uno straccio di prova. La mia famiglia è stata fatta a pezzi, sbriciolata. Non è vero che non mi aspettavo questa sentenza: questa vicenda doveva finire così». Adesso, ha detto il ragazzo, «Non accetterò più di essere definito “assassino” e sono pronto a tutelare la mia immagine nelle sedi opportune», ha avvertito, raccomandando ai cronisti: «Attenetevi ai fatti, massima cautela». «Ora valuteremo la richiesta di risarcimento». Nei prossimi giorni «valuteremo la richiesta di risarcimento» ha annunciato l’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno. «Non ci sono sentimenti di vendetta nel suo animo», ha aggiunto. «Aspetteremo le motivazioni. Non frusteremo chi ha sbagliato. Vedremo se ci sono stati degli errori e che iniziative intraprendere. La responsabilità civile - ha concluso - è un istituto serio, che non va esercitato con lo spirito di vendetta». «Il momento più bello che ha messo fine a un incubo è stata la chiamata di mia sorella dopo la lettura della sentenza. È stato veramente l’inizio di una nuova vita, il ritorno alla mia normale esistenza e alla possibilità di vivere come un ragazzo della mia età senza più questo fardello che mi impediva di fare progetti e sogni», ha detto Sollecito. «Ho una lista infinita di momenti brutti, sette anni e cinque mesi sono un tempo infinito», ha aggiunto Raffaele, ricordando come «il momento più brutto è stato il mio arresto». «Avevo dato l’allarme io», ha proseguito. «Per me è stato surreale essere incolpato di un delitto così atroce senza avere colpe. La certezza della mia innocenza mi ha consentito di sperare nella giustizia e che mi avrebbe dato ragione. Dopo questa conferenza stampa non voglio più parlare di atti processuali», ha aggiunto poi. Tra me e Amanda solo affetto: così Sollecito ha definito il rapporto che lo legava alla ragazza di Seattle cno lui accusata di aver ucciso la Kercher. «Anche lei ha festeggiato con la famiglia - ha raccontato ancora Raffaele durante la conferenza stampa - e la telefonata si è chiusa con tanti auguri reciproci per la nostra nuova vita». Sollecito ha poi concluso: «Non so se ci vedremo in futuro, ma non ho questo desiderio imperterrito di vederla. La nostra è rimasta un amicizia come tantissime altre e sulla nostra relazione non c’è alcun alone cupo, come è stato detto da molti». Domenica Raffaele e Amanda si sono sentiti brevemente al telefono, dopo un anno di silenzio. «Ci siamo parlati al telefono per qualche minuto», ha detto Sollecito al Sun. «È stato bello sentirla anche se per la maggior parte della telefonata abbiamo pianto. È stato un grande sollievo», ha ammesso ancora il giovane pugliese al tabloid londinese. «Perché tanto odio nei miei confronti?» «Non dimentico», ha detto Raffaele, «che nelle carte processuali ho trovato offese gravissime nei confronti dei miei familiari, ancora oggi mi chiedo il perché di tanto odio. Ho avuto paura perché ho percepito un fortissimo livore nei miei riguardi. Il disprezzo non me lo so spiegare. Ho percepito un sentimento di odio verso me e verso la mia famiglia». Parlando dell’unica persona condannata per il delitto, Sollecito ha detto: «Rudy Guede non lo conosco affatto e quindi non ho nulla da dire su di lui». «C’è una persona che sa come sono andate le cose, perché il delitto è avvenuto per mano di Rudy Guede che è stato condannato con una pena bassissima», ha aggiunto l’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori. «È giusto che faccia sapere cosa è successo, lo deve soprattutto alla famiglia di Meredith». E sulla famiglia di Meredith, SOllecito ha aggiunto: «Mi dispiace tantissimo che la famiglia di Meredith sia delusa e dispiaciuta da questa sentenza ma questa volta la verità processuale coincide con la verità dei fatti. Io non ho nulla a che fare con quel delitto, non avevo nessun motivo per nutrire astio verso Meredith e per rendermi partecipe di un delitto tanto orribile. Spero che loro riconoscano la verità dei fatti». Sollecito ha infine concluso: «Forse scriverò un libro, ora voglio dimenticare. Questa ferita non si rimarginerà mai purtroppo. Ringrazio i giudici che mi hanno risarcito di tante sofferenze, la ferita non smetterà mai di sanguinare, non si cicatrizzerà mai. Sono completamente estraneo a tutta questa vicenda».

Sollecito: «Voglio mezzo milione. Io Forrest Gump? Ha fatto grandi cose». La pm di Perugia: Raffaele e Amanda unici indiziati. I coniugi Kercher sotto choc: «Ma almeno è finita», scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Cinquecentosedicimila euro. È questa la somma che gli avvocati di Raffaele Sollecito chiederanno per l’«ingiusta detenzione». Il giorno dopo l’assoluzione disposta dalla Cassazione, Raffaele è a casa, in Puglia, e nel primo pomeriggio passeggia in riva al mare con la fidanzata Greta Menegaldo, che negli ultimi due anni gli è stata sempre vicina: «Quello che è accaduto a me non deve accadere più a nessuno - dice Raffaele - perché combattere contro una montagna di falsità è inimmaginabile dall’esterno. In questi otto anni ho combattuto senza mai arrendermi ma via via che abbattevo le accuse, altre ne nascevano... Un incubo». Venerdì ha lasciato Roma senza aspettare la sentenza: «Ma non stavo scappando, come si può anche solo pensarlo? Avevo dieci poliziotti con me e poi in questa storia ho sempre messo la faccia, non sono mai fuggito». Uno dei suoi legali, Giulia Bongiorno, l’ha paragonato a Forrest Gump: «È vero che era un ingenuo - sorride lui - ma di certo ha fatto grandi cose...». L’emozione per l’assoluzione è stata immensa: «Sono ancora disorientato, non è facile, sono stati anni duri». Ha sentito Amanda al telefono, in mattinata, ma preferisce non parlarne: adesso, per lui, c’è una nuova vita. Forse andrà all’estero a lavorare, in ogni caso da uomo libero. Sull’ipotesi del risarcimento, invece, si lavora allo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, dove infatti è già stato identificato «il tetto» stabilito per «i casi gravi come questo», oltre mezzo milione appunto. L’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori, sostiene però che la richiesta sarà più alta: «Non c’è solo l’ingiusta detenzione perché ci sono ben altri danni, qui c’è la vita spezzata a Raffaele e la distruzione di un’intera famiglia dal punto di vista morale, materiale e d’immagine. Sarà una cifra a molti zeri». La sentenza che a Raffaele ha «restituito la vita», ha lasciato «sotto choc» la famiglia Kercher. La sorella di Mez, Stephanie, al telefono con il legale Francesco Maresca spiega, almeno in parte, cos’hanno rappresentato gli ultimi otto anni: «Da un certo punto di vista il fatto che il processo si sia chiuso va bene, perché ogni udienza per noi era una ferita al cuore, ogni tappa processuale ha rappresentato per la nostra famiglia il riaprirsi di ferite dolorosissime, e in questo senso il giudizio finale, sia pure per noi con un esito devastante, rappresenta anche un punto fermo». Da Perugia, però, arriva l’incredulità di Manuela Comodi, che ha affiancato il pm Giuliano Mignini nel secondo grado: «Gli unici due indiziati rimangono Amanda e Raffaele perché sulla scena del delitto, oltre loro e Rudy, non c’è traccia di nessun altro. La Cassazione ha smentito se stessa...».

Greta, che ha creduto in Sollecito: «Chi critica non sa di cosa parla». La fidanzata di Raffaele: «Sul web mi attaccano, il mondo reale è molto diverso». Si sono incontrati in aereo, lei hostess lui passeggero. La famiglia la sostiene, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”.

L’amore, a volte, richiede coraggio.

«Per me il momento più difficile è stato sicuramente l’ultima settimana prima della sentenza, sono stata davvero molto in ansia».

Infatti venerdì, qualche ora prima della sentenza della Cassazione, lei Raffaele e la famiglia di lui siete andati via da Roma e siete tornati in Puglia.

«A proposito di momenti difficili, certo: le ultime ore prima della sentenza sono state le peggiori. Però io ci ho sempre creduto, ho sempre saputo che sarebbe finita così...».

Greta, scusi: però non deve essere stato facile. Ha conosciuto Raffaele Sollecito nel 2013 e da allora, per lei, ci sono state anche molte critiche.

«Ci sono tante persone che mi hanno criticata sui social network, ma dopo un po’ di tempo mi sono accorta che sono persone a cui piace vomitare veleno solo per il gusto di farlo».

Le hanno fatto male?

«No, queste persone non hanno alcuna idea delle cose di cui parlano, proprio non ne sanno niente: per questo, sinceramente, non ho mai dato loro alcun peso».

Si sono incontrati a diecimila metri d’altezza, Greta Menegaldo, 32 anni, e Raffaele Sollecito, assolto (definitivamente) venerdì dalla Corte di Cassazione dall’accusa di essere, insieme con l’americana Amanda Knox, l’assassino di Meredith Kercher, nel 2007 a Perugia: lei era in aereo per lavorare come hostess, lui era a bordo come passeggero. Una volta scesi a terra, Greta ha creduto in Raffaele - che da lì a pochi mesi sarebbe stato condannato a venticinque anni dalla Corte d’appello di Firenze, e sul quale pesava già la precedente sentenza della Cassazione - e l’ha fatto in un modo che, forse, ha poco a che vedere con la ragione: senza mai dubitare. I settimanali, per Greta, hanno usato quasi sempre tre aggettivi: «Bella, discreta, elegante». Di certo è una ragazza riservata, perché in questi anni di cupa notorietà non ha mai parlato. Se è finita nelle foto delle udienze, quindi, è per un motivo diverso dal protagonismo: semplicemente, era accanto a Raffaele. Lo è stata in ogni momento, quelli belli come la laurea in Ingegneria informatica e quelli drammatici come la condanna di Firenze a venticinque anni e, negli ultimi mesi, l’attesa della Cassazione. È una trevigiana di Ponte di Piave, con un diploma al liceo linguistico di Oderzo, un lavoro da hostess all’aeroporto di Venezia e, soprattutto, con una solida famiglia alle spalle. Che, in questo amore - per un ragazzo che, tecnicamente parlando, fino a venerdì è stato considerato «un assassino» - l’ha sempre difesa e sostenuta. Sia chiaro, lei non ha mai nascosto la sua storia con Raffaele: a Oderzo, dove lei vive, i due hanno sempre passeggiato mano nella mano. A testa alta, nonostante tutto. Anche se, soprattutto in Italia, il fronte «colpevolista» è stato di gran lunga più compatto di quello innocentista: anche perché, forse, Amanda Knox e Raffaele Sollecito prima di venerdì erano stati assolti una sola volta, nell’appello di Perugia del 2011. Per il resto, cioè per quasi otto anni, c’erano state solamente condanne.

Ha ragione chi dice che per amore di Raffaele lei abbia, in qualche modo, sfidato il mondo? Anche il mondo di una certa provincia italiana, dell’opinione pubblica e, appunto, dei social network...

«Non penso di averlo sfidato, ma semplicemente perché credo che il mondo sia molto diverso da quello che ho conosciuto con le critiche sui social network».

Lei cosa chiede, adesso, alla vita?

«Voglio solamente godermi questi momenti di felicità, di gioia e di vita nuova».

Come sta? E con Raffaele avete progetti per il futuro?

Non risponde, inizialmente. Poi invia un altro sms.

«Sono felicissima».

CHE RAZZA DI INDAGINI...

Le indagini in Italia non le sa fare più nessuno, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista. Edoardo Mori, magistrato in pensione dopo essere stato prima giudice istruttore, poi gip e infine al tribunale della libertà e che adesso gestisce il sito earmi.it dove raccoglie, fra l’altro, errori e orrori delle indagini scientifiche, dice: «I pm che chiedono una perizia alla Scientifica o al Ris sono come quelli che sulla salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino». Marco Morin, fra i maggiori esperti mondiali di balistica: «A volte sono più fondate le ipotesi investigative elaborate dai poliziotti della Digos delle perizie prodotte dai loro colleghi della Scientifica». Giuseppe Fortuni, docente di Medicina legale a Bologna con quattro decenni di esperienza sul campo: «Nonostante tutte le tecniche scientifiche d’indagine si trovano meno colpevoli di prima». Già. Il clamore suscitato dalla sentenza di assoluzione di Amanda e Raffaele non è solo un risvolto della canea giustizialista che vuole il sangue, a ogni costo. È, piuttosto, lo sgomento di lasciare impunito un delitto, di lasciare una vittima senza una qualche giustizia. È una sconfitta dell’accusa, più che una vittoria della difesa, e la differenza non è da poco: non sono innocenti, sono non condannabili. I giudici dichiarano che sulla base delle prove raccolte non sono in grado di accertare una verità. Ovviamente, hanno fatto bene, in questo caso, a scegliere di non condannare senza la certezza di un giudizio. E hanno fatto male a chiudere ogni possibilità di revisione del processo. Per deciderlo, tutto dev’essere ormai così compromesso da non lasciare speranza di accertare alcunché. Come è stato possibile che in otto anni di processi nessuno si fosse reso conto che le prove valevano meno di niente? Viene da pensare, a esempio, che la condanna di Alberto Stasi – anche lui in un’altalena di sentenze – per l’omicidio di Chiara Poggi sia basato su una raccolta di prove ancora più labili di quelle che non sono bastate a condannare Amanda e Raffaele. Viene da pensare che le polemiche su Bossetti e il caso Yara siano ben più che un pregiudizio innocentista o antimagistratura. Viene da pensare che l’aleatorietà del giudizio – «la Cassazione che smentisce se stessa», come è stato detto per Knox e Sollecito – dipenda troppo dalla casualità del giudice cui sei affidato. Dai caratteri del giudice cui sei affidato. Questa però non è la perfettibilità umana dell’indagare e del giudicare. Questo è un pasticcio. L’abilità e la competenza giuridica, la capacità e l’acume di un avvocato come di un pubblico ministero fanno certo la differenza: questo è il principio per cui si dovrebbe garantire a ogni cittadino di avere un’adeguata difesa e non consentirla solo a chi può permettersi di pagare i principi del Foro e i migliori periti. Ci eravamo convinti però – ci avevano convinti però – col nuovo processo e il dibattimento e queste cose qua che tutta la giurisprudenza del mondo, tutta la sapienza giuridica venisse sempre più ancorata al rigore della prova scientifica. Che non fossimo ancora al tempo del processo Bebawi, quando marito e moglie si accusarono l’uno contro l’altra di avere ucciso l’amante di lei e la giuria incapace di dire chi fosse stato davvero il colpevole – se lui, lei o insieme – li mandò assolti entrambi. Due colpevoli di troppo – scrisse Oriana Fallaci. Non ce la bevevamo più, pensavamo. Due colpevoli di troppo sono diventati pure Amanda e Raffaele – uno c’è, è Rudy Guede, nella nuova figura di reato del «concorso da solo». Un colpevole basta e avanza, evidentemente. Non c’entra niente l’abbuffata di telefilm e fiction in cui le squadre dei forensic, la polizia scientifica, con un capello ritrovato in un sifone di lavello o una scheggia d’un faro d’automobile, risalgono all’assassino e al complotto che sta preparando una strage. Fiction, certo. C’entra solo che dalla fisiognomica di Lombroso, che pure nella sua orribile deformazione puntava a rendere scientifica la criminologia, pensavamo di avere fatto dei passi avanti nella tecnologia e nelle tecniche, nell’analisi di una scena del crimine, nella raccolta delle prove. Invece, così non è. Le figure chiave nella soluzione dei delitti rimangono il pentito e l’intercettazione. Ma pentito e intercettazione sono figure ricorrenti nelle associazioni criminali, non nei delitti “qualunque”. Pentito e intercettazione sono elementi “passivi” di un’indagine, e non a caso estremamente problematici. Il pentito confessa le cose più turpi, che servono all’indagine del magistrato, per i suoi scopi, che possono essere una pena ridotta, un cambio di identità, la distruzione di un clan nemico, una qualche vendetta. L’intercettazione, a parte tutte le questioni legate alla loro legittimità e ai loro abusi, ha limiti evidenti: si conversa, si cazzeggia, uno può ingigantire una cosa, per mille motivi, per darsi peso, per pavoneggiarsi, per incutere timore o rispetto, oppure minimizzarli, uno può dire una cosa solo per vedere l’effetto che fa sull’interlocutore, e così via. L’intercettazione non prova un bel niente, proprio come un pentito non prova un bel niente. Non sono fatti inoppugnabili, incontrovertibili, anzi sono sempre reversibili. Nella lotta alle cosche e ai clan, spesso possono consentire chiavi di lettura, possono servire a incrociare dati, a sovrapporre cose apparentemente lontane, proprio perché ci si trova di fronte fenomeni complessi e segreti. Non è così per gli omicidi. Il carattere “passivo” degli elementi-chiave di questi anni – intercettazioni e pentiti – ha finito col produrre una sorta di pigrizia intellettuale nelle indagini, una sorta di “pigrizia investigativa”.

Se si ripercorrono alcuni dei casi più clamorosi e controversi della cronaca “nera” di questi anni, si rimane sconcertati dalla mole di errori nelle indagini. Ora sembra che il Dna risolva tutto, e investigatori e giudici si siano “impigriti”, convinti di avere in mano lo strumento risolutivo. Il Dna è uno straordinario strumento di indagine, ma solo se si seguono rigorose metodologie, dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile. A esempio, nel caso Anna Maria Franzoni e del delitto di Cogne si susseguirono oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto ma solo dopo che per casa c’era stato un gran viavai di persone. Ancora nel caso di Cogne, le indagini non hanno mai portato al ritrovamento dell’arma del delitto. Si è ipotizzato che si trattasse di un mestolo di rame, di una piccozza da montagna, di un pentolino del tipo usato per bollire il latte o di altri oggetti, ma non è mai stata raggiunta alcuna certezza. L’arma del delitto, malgrado le approfondite ricerche non è mai stata trovata. Il professor Carlo Torre, cui era stata affidata inizialmente dalla famiglia Lorenzi la consulenza medico-legale passò diversi giorni nel laboratorio dell’Istituto di Anatomia di Torino per studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue avessero potuto macchiare il pigiama azzurro ritrovato sul letto del piccolo Samuele. Per concludere, che – contrariamente a quanto sostenuto nelle indagini, che ipotizzavano se lo fosse sfilato dopo il delitto – l’assassino non poteva indossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell’indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. E così non era.

Nel caso di Marta Russo i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo.

Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l’ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l’assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c’è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l’ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero – tra i quali un capitano del Ris – espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l’azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l’autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia.

Garlasco: nel settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una “relazione preliminare” che contiene l’accertamento sui pedali di una bicicletta di Alberto Stasi: è stato individuato un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima, secondo il Ris di Parma. Su quei pedali c’è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche il Pubblico Ministero incaricato dell’indagine, che, sulla base di quella relazione, dispone il fermo di Stasi. È il 24 settembre del 2007, quaranta giorni dopo il delitto. Il giorno seguente, il reparto scientifico dell’Arma manda una “nota tecnica” sugli esami del giorno prima: i risultati sono stati comunicati «senza procedere a ulteriori accertamenti». Un giorno dopo la consegna della relazione tecnica la posizione del Ris si fa più sfumata: il profilo genetico relativo alla vittima è solo «con elevata probabilità riconducibile a sangue». Passano altri due giorni e il 27 settembre il consulente tecnico della difesa di Stasi invia le sue osservazioni alla Procura: le analisi del Ris non dimostrano la presenza di emoglobina, quindi non si può parlare di sangue. Il gip considera “insufficienti” gli indizi raccolti e scarcera Stasi. Come si sa, i vari processi hanno poi finito per condannare definitivamente Stasi, e la bicicletta e i suoi pedali – forse non quella, forse non quelli – sono risultati poi determinanti. Più sconcertante era stato il fatto che una settimana dopo il delitto la salma di Chiara Poggi fosse stata inaspettatamente riesumata. I tecnici della scientifica devono obbligatoriamente prendere le impronte digitali sul cadavere per effettuare l’esclusione con quelle raccolte sulla scena del crimine. Era però successo che nei momenti immediatamente successivi alla scoperta del delitto nessuno lo aveva fatto.

E parliamo adesso di uno dei casi più recenti e ancora aperti, l’uccisione di Yara Gambirasio e l’accusa nei confronti di Massimo Bossetti. Il Dna che ha portato in carcere Bossetti è stato estratto dal Ris da una traccia mista scoperta sugli slip di Yara. È una traccia mista, perciò va separata: da una parte Yara, dall’altra Ignoto 1. Gli esperti stimano che quella traccia sia composta per quattro quinti dal materiale biologico (forse sangue) di Ignoto 1 e solo per un quinto dal sangue di Yara. Succede però che il perito nominato dal pubblico ministero scopre e certifica che le proporzioni sono invertite: quella traccia sono per quattro quinti di Yara e solo per un quinto di Ignoto 1. Forse non cambia nulla per Bossetti. Il Ris ha proceduto con l’estrazione del Dna nucleare, quello che individua con la massima precisione solo un individuo nel mondo e quel Dna nucleare, estratto dagli slip di Yara, combacia con quello di Massimo Bossetti. È lui Ignoto 1. Viene però esaminato e riesaminato il Dna mitocondriale, quello cioè che trasmette all’individuo le informazioni genetiche da parte materna. E qui, misteriosamente, Bossetti scompare. Anzi, compare proprio un’altra persona, mai individuata. Chi è? Il problema vero è un’altra scoperta del perito del pubblico ministero: l’originaria traccia di Dna nucleare che ha portato all’identificazione di Massimo Bossetti sembra esaurita. Quindi, posto che Bossetti non compare nel Dna mitocondriale estratto dalla traccia degli slip, resta in piedi la prova del Dna nucleare. Se si volesse ripeterla in sede processuale non sarebbe però piùpossibile. E questo, per Bossetti, può cambiare le cose.

Non sono un esperto di giudiziaria, non ho mai letto una sola carta processuale dei casi riportati, e mi sono limitato a riprodurre quanto spulciato nelle cronache, il che andrebbe di sicuro tarato. Peraltro qui non si vuole dare la croce addosso a nessuno. Ci sono stati tanti casi in cui le perizie sono state determinanti per accertare la verità. Basta però qui riportare le parole dell’ex generale Luciano Garofano, a lungo responsabile del Ris di Parma, e “volto noto” di tante trasmissioni televisive: «La polizia giudiziaria ha fatto passi di gigante nella tecnica del sopralluogo e negli esami di laboratorio ma molto resta da fare. Sulla scena del crimine dovrebbero andare solo specialisti puri che non abbiamo». Suona come una responsabile constatazione, piuttosto che una voce dal sen fuggita. E allora perché non li rifondiamo questi laboratori, perché non li formiamo meglio questi esperti, questi tecnici, questi periti? Perché consideriamo ogni perizia come fosse una pistola fumante e non qualcosa che va analizzato, considerato, soppesato, riscontrato attraverso altri mezzi di investigazione? Perché si è talmente impigrita l’indagine, affidandosi esclusivamente a elementi tecnici la cui ponderabilità è quasi sempre controversa? Cosa fanno i pubblici ministeri, i passacarte dei laboratori scientifici? Cosa fanno i pubblici ministeri, per sapere della salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino? Io credo sia questo il vero problema. La sentenza Knox-Sollecito a me non dà alcun sollievo: qualcuno deve dare conto a Meredith Kercher.

PROCESSO AL PROCESSO!

Omicidio Meredith, processo al processo. Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l’assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. Meredith Kercher Per l’omicidio di Meredith Kercher c’è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui. Costoro non sono, e non potranno mai essere, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, assolti definitivamente qualche giorno fa dalla Cassazione. Conclusione che ha seminato sconcerto nell’opinione pubblica, come sempre più spesso accade quando ci si addentra nei meandri del sistema processuale italiano. Per la storia, Raffaele e Amanda sono due bei ragazzi dal volto pulito finalmente liberati da un’assurda persecuzione. Agli occhi di qualche commentatore la condanna di un giovane nero, e per di più “difficile”, ha avuto il sapore di una beffarda palingesi di quella che un tempo si chiamava “giustizia di classe”. Si rinnovano interrogativi ricorrenti: com’è possibile che gli stessi imputati siano due volte assolti e due condannati? Era necessario farlo, questo processo, visto l’esito? Torna a risuonare il mantra più diffuso nel contemporaneo: chi paga? Qualche precisazione, anche se impopolare, è doverosa, da parte del tecnico. Qui nessuno era stato colto in flagrante con la pistola fumante. Il processo era indiziario. Vale a dire che mancava la prova certa, ma c’erano argomenti da collegare insieme per arrivare alla ricostruzione del fatto. Elementi che la legge vuole “gravi, univoci e concordanti”, chiedendo al giudice di esaminarli e valutarli. In questa attività, tipicamente interpretativa, sono possibili esiti difformi. Prendiamo la prova scientifica, snodo ormai cruciale di ogni vicenda criminale. Inizialmente, consulenti e periti del pm e del giudice per le indagini preliminari non erano affatto certi che il delitto fosse stato commesso da più persone, ritenendo possibile l’esistenza di un solo assassino. Altri consulenti - e giudici - propenderanno per l’ipotesi del delitto collettivo, ma la prima considerazione resta agli atti. Ed è, come tutto, materia d’interpretazione. Materia scientifica d’interpretazione. Tocca rassegnarsi: è la scienza in sé a costituire materia opinabile, e la dialettica processuale sembra ideata da una mente perversa che gode ad amplificare i contrasti, lungi dal sanarli. Gli esperti possono comparire in un processo come consulenti di parte o del giudice. Nel primo caso, sono ontologicamente chiamati a portare acqua al mulino di una delle tesi contrapposte. In un processo accusatorio, dunque di parti che godono di eguali facoltà e diritti, non è ammissibile accordare - in ipotesi - maggior fiducia al poliziotto o al carabiniere in quanto “rappresentanti dello Stato”, ma ogni argomento scientifico, da chiunque sia portato, deve essere attentamente vagliato, sia esso accolto o confutato. Nel secondo caso, i periti rispondono direttamente al giudice. E questo, se offre una garanzia aggiuntiva, liberando il campo da ogni sospetto (per quanto tendenzioso) sulla qualità dell’analisi offerta, dall’altro non mette al riparo da altri pericoli. O, per meglio dire, dal multiforme atteggiarsi dell’esperienza umana, anche nel campo del sapere scientifico. Gli esperti sono spesso di provenienza accademica. Si dividono per l’adesione all’una o all’altra metodologia d’indagine, per il riconoscersi o meno in una determinata scuola di pensiero. Nel caso di Perugia, gran parte del contrasto sul Dna, momento decisivo della vicenda, dipendeva, in ultima analisi, dal confronto/scontro fra genetisti su alcuni temi specifici che da anni alimentano il dibattito della comunità scientifica. Quando il Dna è poco, lo si definisce “Low copy number”, e per sottoporlo all’analisi (la “corsa elettroforetica”), occorre amplificarne il volume mediante il ricorso a reagenti chimici. Ma l’amplificazione può indurre risultati artefatti: la comparsa di dati inesistenti, la scomparsa di dati esistenti. Sino a che punto il materiale genetico può essere “stressato” senza che ciò comporti risultati del tutto inattendibili? E un risultato dubbio, come va interpretato? Come “non c’è prova che il Dna sia di Tizio”, secondo una certa opinione, molto autorevole, o come “non si può escludere che quel Dna sia di Tizio, pur non potendolo dire provato”, secondo un’altra opinione, altrettanto autorevole? Quali procedure adottare per garantire che nelle fasi di prelevamento, custodia, esame dei reperti non si verifichino contaminazioni? Un risultato ottenuto in violazione dei protocolli è da scartare, o è comunque valido, perché i protocolli non sono legge, e l’esperienza del perito deve prevalere su astratte regole ideate per qualche caso-limite? I consulenti del primo processo svolto a Perugia sostengono di aver trovato Dna misto di Amanda e della vittima su un coltello sequestrato, e Dna di Sollecito sul reggiseno della vittima. I periti nominati dalla Corte, nel processo di appello, censurano l’errata conservazione dei reperti, giudicano inattendibile il materiale genetico trovato sul reggiseno, escludono il Dna della vittima dal coltello. Primo annullamento della Cassazione. Nuovo appello, nuovi periti. I quali non possono ripetere l’analisi sulle tracce già esaminate del coltello per carenza di materiali genetici, ma valutano un’altra traccia, ignorata perché ritenuta troppo esigua dai precedenti periti, e l’attribuiscono alla sola Amanda. I giudici degradano il Dna misto Amanda/Meredith a indizio (prima era una prova piena), ma nella loro valutazione complessiva il Dna della cui conservazione si dubitava è comunque valido. L’ultima Cassazione - vedremo le motivazioni quando saranno disponibili - evidentemente non ha condiviso il ragionamento. La prova scientifica, insomma, lungi dal fornire certezze, rischia di produrre nebbia ancora più fitta. Accade in continuazione: non a caso negli Stati Uniti si stanno studiano protocolli imperativi, nel senso dell’adozione di linee-guida da rendere obbligatorie per l’uso della scienza nel processo. Dovremmo fare qualcosa di simile anche noi. E farlo presto. E che dire del movente? Indicato in un primo momento nella violenza sessuale, viene ricondotto, dall’ultima sentenza di condanna (quella annullata per sempre dalla Cassazione) a una lite progressivamente degenerata. Inutile dire che il tecnico sa bene come l’individuazione del movente non sia necessaria, quando c’è la prova della colpevolezza: all’uomo della strada questa constatazione appare un sofisma del quale diffidare. Su un punto, però, senso comune e tecnica concordano. È irrazionale che tre individui coinvolti nella medesima vicenda siano processati in due diverse sedi e con regole processuali diverse. È qui, in questa diversità, che si annida un baco profondo: finché non vi si metterà mano, l’irrazionalità del sistema risulterà ineliminabile. Rudy Guede ha scelto il rito abbreviato, e in cambio ha ottenuto uno sconto sulla pena. Nel processo contro di lui sono stati utilizzati materiali investigativi che non potevano essere spesi contro Knox e Sollecito: perché il processo abbreviato si fa sulla base delle indagini del pm, mentre nel processo ordinario la prova si forma in dibattimento. All’imputato, in sostanza, si offre un patto: tu accetti di essere giudicato “allo stato degli atti”, e in caso di condanna prendi meno anni. Nessuno, tanto meno il pm, può opporsi. Per giunta, finché il processo abbreviato dura, chi vi è assoggettato ha facoltà di non rispondere in quello contro gli eventuali coimputati. Sono le nostre regole. Sul piano astratto hanno una sostanziale nobiltà. Su quello concreto, contribuiscono a rendere la giustizia un affare tendenzialmente gnostico. Siamo stati molto criticati, per la vicenda di Perugia, specialmente dagli americani: una loro cittadina accusava di brutalità le nostre forze dell’ordine, la sentenza contro Guede appariva incomprensibile, i membri della giuria popolare non erano sequestrati durante il dibattimento - come avviene negli States - ma vivevano come liberi cittadini, godendo persino del diritto di leggere il giornale o guardare la Tv. Sistemi diversissimi, chiaro. Da quelle parti, quando un imputato vuole uno sconto di pena, si mette d’accordo con il pm e si impegna, con un contratto formale, ad accusare i complici. Da quelle parti, l’imputato o parla, sotto giuramento, o tace, ma una volta che abbia parlato, le sue dichiarazioni sono eterne e incancellabili. Da noi l’imputato è il signore del processo: decide se e quando parlare, ritrattare, mentire. Senza pagare dazio. Non c’è da entusiasmarsi per la giustizia contrattualistica all’americana, ma il nostro processo, così com’è, è una sorta di surreale macchina celibe, un modello indecifrabile. È accaduto, insomma, in questo caso, quanto si verifica sovente nei processi indiziari: alcuni giudici li hanno ritenuti, questi indizi, sufficienti a condannare, altri sono stati di diverso avviso. Niente che si discosti dalla fisiologia del sistema. Esistono valide alternative? In un regime democratico no. In passato si usava la tortura, ma è lecito dubitare che persino il più scatenato colpevolista la rimpianga. Del resto, più gradi di giudizio sono previsti proprio per evitare le conseguenze disastrose a cui porterebbe una decisione errata, o controversa, se ci si attenesse solo ad essa, senza possibilità di riesame. Ma si poteva evitare un giudizio così difficile e scivoloso, il cui esito è letto da molti come una sconfitta per la giustizia? Premesso che non si può pensare di processare soltanto chi confessi immediatamente (di solito, l’accusato si difende, è così che funziona), nel nostro sistema il pm ha l’obbligo di procedere e non può “scegliere” chi processare e per quali reati. Insegue un’ipotesi accusatoria e spetta poi ai giudici vagliarla. Ogni processo è una partita aperta che ruota intorno a un interrogativo di fondo: gli elementi offerti dall’accusa sono o no sufficienti alla condanna? Anche se si introducesse la discrezionalità dell’azione penale, i termini della questione non cambierebbero. Ci sarebbero sempre un’accusa e una difesa, e possibili esiti contraddittori del giudizio, perché quando il giudice condivide le prospettazioni dell’accusa, condanna, quando le confuta, assolve. Ma, si dice, oggi una famiglia colpita a morte non ha avuto giustizia. Eppure, per il delitto c’è un sicuro colpevole. Gli altri devono necessariamente essere i due imputati? Anche se nei loro confronti le prove non sono sufficienti? La vicenda si è trascinata per otto lunghi anni. Il nostro sistema processuale presenta indubbie falle, alcune delle quali sono emerse proprio in occasione di questo caso. Ma l’accertamento della verità è un percorso accidentato, dialettico, difficile, e in qualche caso impossibile. Sui tempi si potrà e si dovrà lavorare, ma dovremo avere tutti l’onestà intellettuale di spiegare all’uomo della strada che un omicidio vero non accetterà mai di farsi comprimere nei cinquanta minuti di un format tipo Csi.

IL DELITTO DI PERUGIA E LE FIGURACCE DEI MAGISTRATI.

Nella roulette giudiziaria è uscita la sentenza di assoluzione, ma nella girandola delle pronunce emesse nulla ci impedisce di pensare che poteva uscirne qualcosa di diverso per gli imputati. E’ solo questione culo. In Italia sei fortunato se trovi un Giudice con la G maiuscola. Ancor più importante è avere tanti, tanti di quei soldi che ti permettano di cercarlo. Per questo stiamo qui a parlarne in un certo modo. Se la sorte fosse cambiata, il senso delle parole e dei reportage dei pennivendoli sarebbero diversi.

Che grama vita affidarsi alla fortuna!

La Bongiorno: "La Cassazione ha avuto il coraggio di affermare che Raffaele è innocente". L'avvocato difensore del giovane commenta la sentenza di assoluzione in via definitiva, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "E' stata una battaglia durissima, Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita". Fuori dal palazzaccio parla del suo assistito che ancora non riesce a credere alla fine dell'incubo, dei giudici "preparati, che hanno studiato a fondo le carte e per questo lo hanno assolto". L'avvocato Giulia Bongiorno nella notte più lunga scioglie la tensione e allarga un sorriso dopo anni di carte, di prove e perizie contestate. Ha vinto la sua linea, la sua costanza.

Se l'aspettava?

"Sì, avevamo consegnato seicento pagine per spiegare gli errori della sentenza, di una realtà frantumata nel corso di anni di processi e resa ormai irriconoscibile dal vero. Ho sempre detto che se si studiavano le carte si sarebbe capita la verità. E i giudici erano molto preparati, si vedeva, hanno fatto relazioni puntuali e rigorose. Hanno avuto coraggio".

Hanno avuto coraggio i magistrati?

"Sì, il coraggio di andare a fondo, di rileggere il materiale, in fondo c'era un'altra sentenza di Cassazione da valutare. Il coraggio di andare oltre l'apparenza e l'opinione pubblica. Il coraggio di essere indipendenti".

Raffaele e Amanda assolti per sempre?

"Si, i giudici potevano annullare la sentenza e decidere di approfondire, invece hanno deciso di annullare senza rinvio: è come dire basta indagini, non c'è alcun coinvolgimento di Sollecito".

Ha parlato con Raffaele?

"L'ho sentito, ha capito che è andata bene, non i passaggi tecnici. Mi è sempre piaciuto, mi è piaciuto il modo in cui ha affrontato a testa alta i momenti duri e sono stati tanti in questi otto anni di indagini, 4 dei quali passati in carcere. E in questo tempo non l'avete mai sentito imprecare, insultare i giudici o la giustizia. Sempre rispettoso, pacato, anche per il suo carattere mi sembrava impossibile l'accusa. Certo, ha avuto la fortuna di avere accanto un padre straordinario pronto a sostenerlo. Sempre".

Cosa le ha detto?

"È come se non riuscissi ancora a crederci. Dopo otto anni, dopo essermi svegliato tutte le mattine con questa spina nel cuore mi sembra impossibile sia finita. Invece, ora per Raffaele è il momento di riprendersi la sua vita".

Delitto Meredith, ecco ciò che non torna, scrive Angela Di Pietro su “Il Tempo”. Chi è complice di Rudy? Chi inscenò la rapina e lanciò il sasso dall’interno? A Seattle esplodono i fuochi d'artificio, a Bisceglie si ringrazia come dopo un avvenuto ed inatteso miracolo. Amanda Knox si commuove e lancia un pensiero affettuoso all'«amica» Meredith Kercher, aggiungendo di essere stata fortunata a conoscerla. A fatica riesce a muovere le labbra per ringraziare chiunque l'abbia aiutata, con la mano poggiata sul cuore come a trattenere l'emozione. È' il suo avvocato a trovarle, le parole: «Amanda chiederà i danni per l'ingiusta reclusione». Potrebbe arrivare ad intascare cinquecentomila euro dallo Stato Italiano. Festeggiano anche gli organi di comunicazione, soprattutto quelli americani e inglesi. The Indipendent sottolinea come in passato Amanda sia stata «vittima di un aborto spontaneo della Giustizia italiana», il New York Times riserva ampio spazio all'assoluzione senza trovare motivi per non promuovere il sistema giudiziario italiano, questa volta. Dal canto suo Candace Dempsey, autrice del libro «Murder in Italy», parla di una «brillante mossa» da parte dell'Italia che a suo parere ha evitato una crisi diplomatica con gli Stati Uniti. L'euforia collettiva coinvolge anche Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che nel 2011 fece assolvere Amanda e Raffaele all'accusa di aver ammazzato la studentessa inglese Meredith Kercher. «Evidentemente - risponde a chi gli chiede un commento sugli esiti della Cassazione - avevamo ragione noi». Svanisce in questa ricostruzione narrativa proprio «Mez», la ventiduenne vittima dell'omicidio, come dissolta dalle increspature di uno slalom giudiziario in cui è risultata una minaccia incombente più che la vittima di una notte di follia, uccisa senza un movente. La sentenza della Corte di Cassazione sembra aver accontentato tutti (imputati, legali, una nazione così amata dall'Italia come gli Stati Uniti) ma la verità risulta più complessa di come appaia. Intanto perché la Giustizia italiana si è dimostrata ancora una volta incerta fino in fondo, rivelando titubanze imbarazzanti. Cinque dibattimenti ed otto anni di inchiesta non hanno detto né mai lo diranno, presumibilmente, chi abbia ucciso Meredith Kercher la notte tra il primo ed il due novembre 2007. I buchi neri restano e rendono solforosa la ricostruzione di un omicidio solo parzialmente risolto. Si parta dalla dichiarazione dell'avvocato dell'affranta famiglia Kercher, pochi minuti dopo la sentenza di assoluzione definitiva: «Non è stata evidentemente raggiunta la prova che inchiodasse Raffaele Sollecito e Amanda Knox - ha affermato Francesco Maresca - ma di fatto restano sconosciute le persone insieme alle quali Rudy Guede ha compiuto il delitto. Ricordo che lui è stato condannato per concorso in omicidio». Se, come ha ribadito il procuratore generale Pinelli nella sua requisitoria di martedì scorso, ad infierire su Meredith sono state tre persone, l'inchiesta si chiude con un punto interrogativo. Anzi due. Improbabile che si approfondirà perché sotto questo profilo l'avvocato Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito con l'efficacia che le viene riconosciuta, ha ragione: l'aspetto scientifico dell'indagine è stato caratterizzato da lapsus, ritardi, incongruenze. C'è poco da esultare dunque, perché di fatto c'è ancora in giro un assassino che se la spassa. O due assassini, se la dinamica omicidiaria è quella che sembra essere. La camera da letto in cui morì Meredith Kercher fu messa a soqquadro come se qualcuno volesse inscenare una rapina. Di più: un sasso ha rotto una finestra del casolare, ma dall'interno verso l'esterno. In altro modo non sarebbe stato possibile a causa della presenza di una serranda incrostata. Guede non ha confessato di aver simulato l'azione di un malintenzionato entrato per rubare ed uscito con un omicidio da aggiungere ai suoi reati. Non aveva motivi per negare la circostanza. E allora chi è stato? Resterà ancorata al porto dei misteri l'accusa che Amanda Knox rivolse al suo datore di lavoro, Patrick Lumumba, titolare di un bar. Lei lo accostò al delitto e la calunnia le è costata tre anni di condanna, confermata due giorni fa dalla Cassazione. Le ragioni per le quali l'americana cercò di incastrarlo non trovano risposta. Non è stato finora possibile chiarire all'opinione pubblica neanche uno dei tanti enigmi legati a questa storia: gli esiti delle indagini sul coltello sequestrato a Sollecito nel quale erano stati individuati i dna di Amanda e di Meredith sono stati sconfessati dalla Difesa. Un duello di perizie che avrà convinto pure i giudici, ma non ha dimostrato in maniera elementare agli italiani perché si sia arrivati al primo risultato e poi ai successivi. La cronaca di questo delitto si chiude in maniera definitiva senza dirci granché insomma. Meredith Kercher riposa nel cimitero di Croydon, alla periferia di Londra. Una mamma piange la propria figlia senza aver potuto conoscere la verità sulla sua morte: se dall'altra parte dell'oceano si accendono i fuochi d'artificio, una famiglia inglese continua a chiedere giustizia. Senza poter contare su una buona quantità di misericordia. In un quieto realismo, ci si rassegni ora ai libri autobiografici, ai film, al foklore mediatico, probabilmente al business che incornicia gli eventi, anche quelli così spiacevoli come l'omicidio di una brava ragazza.

«Amanda Knox e Raffaele Sollecito, le prove erano insufficienti». I dubbi di Gennaro Marasca, il giudice napoletano che ha presieduto il collegio di Cassazione che ha assolto i due imputati dell’omicidio di Meredith a Perugia, scrive Gianluca Abate su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Il giudice Gennaro Marasca. Uno come lui, uno che ha speso una carriera intera a stigmatizzare «i magistrati che parlano con i giornalisti» (l’ultima volta l’ha fatto nel consiglio direttivo della Cassazione, criticando il collega Antonio Esposito per l’intervista rilasciata dopo la condanna di Silvio Berlusconi), uno così non è certo magistrato da lasciarsi andare ad interviste dopo la sentenza che ha spaccato l’Italia mandando definitivamente assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Eppure, nonostante la ritrosia, quel giudice non ha potuto evitare le di telefonate di colleghi e amici napoletani, tutti in cerca (vanamente) di qualche dettaglio. E già, ché il presidente della quinta sezione della Cassazione che ha emesso la sentenza due giorni fa è un magistrato di Napoli, Gennaro Marasca, una delle toghe più conosciute in città. Lui, con il garbo di sempre, s’è limitato a rispondere a tutti che parlerà la sentenza, ma che molte cose già può dire il dispositivo emesso al termine del processo. Quello che ha assolto Amanda e Raffaele nella stessa identica maniera con la quale fu assolto l’ex senatore a vita Giulio Andreotti, cioè applicando il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale. C’è, in questa spiegazione di Marasca, gran parte delle ragioni della sentenza, dal momento che la norma stabilisce che «il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso». E, non a caso, al Palazzaccio di piazza Cavour a Roma si fa notare che raramente un articolo di legge viene indicato (come in questo caso) in un dispositivo di sentenza della Corte di Cassazione. E dire che Marasca, in quelle aule, neppure doveva arrivarci. Non per demeriti, beninteso (è considerato uno dei migliori giudici napoletani, e non a caso il 25 gennaio 2014 il procuratore di Nola Paolo Mancuso lo citò tra le «eccellenze» accanto a Carlo Alemi, Giuseppe Fusco e Nino Vacca), ma perché la sua aspirazione — quattro anni fa — era quella di essere nominato procuratore generale di Napoli. Fece anche regolare domanda al Csm, ma fu bocciata. Il motivo? Accadde che, nel Paese in cui i magistrati si rimettono la toga dopo aver fatto politica, il Consiglio superiore della magistratura decise di non nominarlo perché «non va trascurato — si leggeva nelle motivazioni della relazione — che Marasca ha ricoperto per più anni, dopo il 1994, l’incarico di assessore presso il Comune» all’epoca della giunta di Antonio Bassolino. Quella parentesi, oggi, è dimenticata. Marasca ha più volte ribadito che «quello in Cassazione è il lavoro che mi piace», anche perché — ha confidato ad alcuni colleghi — è quella la sede dove «cerchiamo di applicare il diritto a volte dimenticato nelle sedi locali». E, da magistrato navigato, Marasca ha saputo governare anche l’improvvisa popolarità in un’Italia divisa tra chi ha esultato per l’assoluzione di Amanda e Raffaele e chi invece ha contestato la decisione. Lui, a chi gli domandava se giustizia era stata fatta, ha risposto che un giudice deve basare la sua decisione sugli elementi processuali, e che quindi «giustizia è stata fatta sol perché abbiamo fatto il nostro mestiere». Certo, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di annullare la sentenza d’appello disponendo un nuovo processo, ma la «insufficienza delle prove» è stata giudicata «non colmabile» neppure successivamente. E dunque — ha spiegato il presidente ai colleghi — se quelli sono gli elementi, «che bisogno c’è di fare un altro processo?».

Il giudice che assolse Knox e Sollecito: "Io linciato dai colleghi". Pratilllo Hellmann: "Fui costretto a lasciare la magistratura. Per me solo sdegno", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "L’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Lo afferma a Repubblica, Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d’Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione. Pratilllo Hellmann spiega come "praticamente fui costretto a lasciare la magistratura. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia". "Panzane, certo, ma - prosegue - quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto - prosegue - che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".

Claudio Pratillo Hellmann: "Per avere assolto Amanda e Raffaele venni linciato anche dai magistrati". Parla l'uomo che nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele; da allora è in pensione, scrive Meo Ponte su “La Repubblica”. "L'Assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione.

Come mai lasciò la magistratura proprio dopo quel verdetto?

"Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un'ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l'inchiesta, avevano avallato l'accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".

Che cosa la convinse dell'innocenza di Amanda e Raffaele?

"Il fatto che l'indagine era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall'inizio. Tanto è vero che in primo momento fu arrestato Patrick Lumumba che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa. Ricordo che il collega Massimo Zanetti che presiedeva la Corte con me aprì la sua relazione dicendo che di certo c'era solo la morte di Meredith Kercher. Ordinammo le perizie che non erano state fatte durante il processo di primo grado e la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza. Era palese che il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l'arma del delitto, la lama non combaciava con la ferita. In più mi sono sempre chiesto perché dovevano per forza essere state tre persone ad uccidere la povera Meredith e veniva invece scartata a priori la possibilità che potesse essere stato soltanto Rudy Guede".

L'unico ora ad essere condannato per l'omicidio...

"E soprattutto l'unico a sapere che cosa è davvero accaduto quella notte in via Della Pergola e chi c'era con lui, se c'era qualcuno. Abbiamo provato a farglielo dire ma quando venne nella nostra aula, alla precisa domanda se riconoscesse Amanda e Raffaele lui rispose fumosamente che aveva sempre pensato che gli assassini fossero loro. E mi ha sempre sorpreso il riguardo con cui era stato trattato nonostante fosse l'unico la cui presenza sulla scena del crimine fosse indiscutibile".

Che cosa provò quando la Corte di Cassazione annullò la sua sentenza di assoluzione?

"Sgomento, soprattutto. La mia corte aveva cercato di capire davvero chi avesse ucciso Meredith, senza lasciarsi intrappolare dai pregiudizi o da tesi precostituite. Avevamo assolto quei due ragazzi perché il dibattimento aveva dimostrato che non c'erano prove della loro partecipazione al delitto. Naturalmente quella decisione rinfocolò la campagna diffamatoria nei miei confronti e ritornarono in circolo le voci che fossi stato assoldato dagli Stati Uniti per liberare Amanda".

E quando il secondo processo di appello a Firenze li condannò entrambi nuovamente?

"Rimasi perplesso. Non riuscivo a capire come avessero potuto farlo dato che dal dibattimento non era emerso nulla di nuovo. Avevano cambiato il movente ma si trattava ancora di una supposizione e non di un dato di fatto. Avevano ordinato anche lì una perizia scientifica sul coltello che aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra. Mi chiedo ancora come fecero ad arrivare ad una condanna".

Bella lezione della Cassazione, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così la Corte di Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox dall’omicidio della giovane Meredith Kercher, dopo circa otto anni di processi e sentenze. Soltanto gli sprovveduti – cioè coloro che non son provvisti di senso del diritto – possono restarne sorpresi, immaginando chissà quali contorsionismi giuridici. In realtà, la Cassazione ci ha impartito una lezione di prudenza giuridica – la quale, peraltro, non fa male nel nostro tempo caratterizzato da una eccessiva disinvoltura – ricordando a tutti appunto che quando si tratta di giudicare essere umani per delitti così gravi, ciò che occorre è la “iuris-prudentia”, vale a dire il senso del limite. Infatti, la cosa più importante del diritto, ciò che lo fa essere indispensabile per la coesistenza umana, non è tanto il comando – ciò che va fatto – quanto il divieto – ciò che non può mai essere permesso, vale a dire, appunto, il limite: in linea teorica, un codice di soli divieti sarebbe preferibile ad uno di soli comandi, perché è più importante vietare l’omicidio o di passare con il rosso, che imporre di pagare la tassa di circolazione (indipendentemente da ciò che si comandi o si vieti). Ebbene, la Cassazione ha mostrato come si possa e in che senso si debba rispettare il senso del limite, proprio annullando la sentenza di condanna emessa a carico dei due giovani e, soprattutto, evitando di rinviare ad altro giudice per la prosecuzione del processo. È come se la Corte avesse implicitamente detto che non è giuridicamente possibile processare sei o sette volte gli stessi imputati per lo stesso fatto, provocando una girandola inesplicabile di assoluzioni e condanne che si susseguono l’una dopo l’altra, ma prive di un senso riconoscibile e fondato. Proprio così. Qualcosa del genere accadde anni or sono con Adriano Sofri, assolto, condannato, poi ancora assolto e poi condannato in una sorta di capriccioso giuoco dell’oca durato per una dozzina di processi e alla fine del quale c’era una sola certezza: che cioè nessuno ci capiva più nulla. Nel senso che non si capiva più che ci fossero prove reali per condannare o per assolvere e che perciò, come è necessario fare, bisognava assolvere: cosa che allora non fu fatta e ne ebbero rimorso tutti, perfino coloro che si battevano per una condanna. Prova ne sia che si premurarono a trovare il sistema di metterlo fuori, ma con poco costrutto umano e giuridico: poco del primo, perché comunque una condanna assai dura ne colpiva l’anima e l’immagine pubblica; poco del secondo, perché la sollecitudine per consentirgli di star fuori dalle mura del carcere strideva con la pesantezza della pena inflitta. Oggi, invece e per fortuna, la Cassazione ha saputo porre un freno ad una simile deriva processuale, annullando la condanna dei due giovani senza alcun rinvio, cioè senza che si possa ancora rimestare quella che in senso proprio è soltanto aria fritta. In questa prospettiva, si comprende bene perché anni fa il governo Berlusconi aveva sancito la non appellabilità, da parte delle Procure, della sentenza di assoluzione di primo grado: perché se un collegio di giudici – anche uno soltanto – dichiara l’imputato innocente, anche se un altro collegio lo ritenesse colpevole, non per questo il dubbio residuo ne permetterebbe la condanna. Tuttavia, urgono anche altre brevi riflessioni. Bisogna chiedersi come siano state svolte nel caso in esame le investigazioni tecnologiche dei primi momenti: probabilmente male, malissimo, tanto da far revocare in dubbio i risultati conseguiti. Non solo. Da qualche anno a questa parte, si diffonde l’idea che le indagini tecnologiche siano autosufficienti, bastevoli a sé, capaci di far tutto comprendere e tutto giudicare. Che non sia così è sotto gli occhi di tutti: anche se non tutti lo ammettono, spesso gli esiti delle indagini scientifiche si presentano ambigui, suscettibili di letture diverse o contrapposte. Non sarebbe male allora usare la sana logica induttiva e deduttiva, vale a dire la capacità di ragionare quale antidoto contro gli stalli delle prove scientifiche. Bene allora ha fatto la Cassazione. Non semplicemente perché ha assolto Sollecito e la Knox. Ma perché ha mostrato che non li si poteva in alcun modo condannare.

Omicidio Meredith: «Inutile un altro processo su Amanda e Raffaele». La decisione all’unanimità in camera di consiglio «Prove troppo contraddittorie così un altro processo è inutile», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo processo non avrebbe potuto accertare la verità sul delitto di Meredith Kercher. Il «complesso probatorio era talmente contraddittorio» da rendere impossibile il superamento dei dubbi e delle incongruità. Per questo, dopo otto ore di discussione, i giudici della quinta sezione della corte di Cassazione, sono stati tutti d’accordo sull’annullamento della condanna a 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e a 25 anni per Raffaele «senza rinvio». «Assurdo», questa la linea condivisa, sarebbe stato «disporre un nuovo dibattimento potendo contare su indizi così labili». Il collegio presieduto da Gennaro Marasca ha anche ritenuto «non vincolante» la precedente sentenza della Cassazione che nel marzo di due anni fa aveva ordinato un nuovo giudizio, nella convinzione che la propria pronuncia dovesse valutare esclusivamente il verdetto raggiunto in appello a Firenze il 30 gennaio di un anno fa, quello per cui Amanda e Raffaele erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Si chiude dunque per sempre la possibilità di scoprire che cosa accadde davvero nella villetta di via della Pergola il primo novembre del 2007. L’unico responsabile rimane Rudy Guede, condannato a sedici anni di carcere e - dopo averne scontati quasi la metà - già pronto a chiedere permessi per il lavoro esterno. Otto lunghi anni non sono stati sufficienti a fare luce sui lati oscuri di una storia che rimane tuttora segnata da troppi misteri. E sono almeno quattro gli interrogativi rimasti insoluti, ai quali sembra ormai impossibile trovare delle risposte convincenti.

La stanza. La sera di quel giovedì Meredith torna a casa e con lei c’è sicuramente Rudy. Ma che cosa accade dopo? Secondo la sentenza di condanna dell’ivoriano, ci sono almeno due «concorrenti». I giudici della Cassazione il 26 dicembre del 2013 chiedono alla Corte d’assise d’appello di Firenze di individuarli e scrivono: «Bisogna porre rimedio, nella più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa operando un esame globale e unitario degli indizi», specificando poi la necessità di «sommare e integrare ogni indizio con gli altri». Poi aggiungono: «L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati sul luogo del delitto, ma eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede». Un obiettivo che evidentemente non è stato raggiunto. La perizia medico legale ha accertato che Meredith ha subito molestie sessuale ed è morta, dopo essere stata ferita con alcune coltellate, per un fendente sferrato alla gola. Nessuno, a questo punto, può dire se Rudy Guede abbia fatto tutto da solo o se invece qualcuno l’abbia aiutato a immobilizzare la ragazza inglese e le abbia poi inferto il colpo fatale.

L’arma. È certamente uno degli aspetti più controversi. L’arma del delitto viene individuata dai pubblici ministeri in un coltello sequestrato nella cucina a casa di Raffaele Sollecito. Le indagini genetiche trovano tracce del Dna di Amanda sulla lama e questo convince l’accusa che la giovane americana l’abbia usato per uccidere la sua coinquilina. Motivando la sentenza di condanna i giudici fiorentini scrivono però che «la vittima fu colpita con due coltelli». Secondo loro «l’arma che produsse la ferita sulla parte sinistra del collo e provocò la morte era impugnata da Amanda e si tratta del coltello sequestrato a casa di Raffaele», mentre le ferite sulla parte destra furono provocate da un «coltello più piccolo impugnato da Raffaele», ma nulla dicono sull’origine dell’arma, su dove fosse stata presa e, soprattutto, dove sia finita.

Il movente. I primi a parlare di «gioco erotico degenerato» come movente del delitto furono i pubblici ministeri, confortati dai diversi giudici che avevano confermato le tesi dell’accusa. L’ipotesi nata dalla certezza che Rudy avesse avuto un rapporto sessuale con Meredith - come dimostrato dall’autopsia - non era però supportata da ulteriori elementi e questo ha portato i giudici di Firenze a disegnare un diverso scenario. Nella sentenza di condanna emessa un anno fa si parlava di «progressiva aggressività» innescata da una lite, sfociata in una violenza sessuale e conclusa con l’omicidio, perché la vittima, che era stata «umiliata e prevaricata», alla fine «doveva essere messa in condizione di non denunciare». Una ricostruzione che la Cassazione ha giudicato ora - evidentemente - non sostenuta da alcuna prova.

Il memoriale. Afferma Amanda nel memoriale scritto in questura, cinque giorni dopo il delitto, e poi ritrattato: «Io e Patrick Lumumba (arrestato, ma poi scarcerato e prosciolto ndr) ci siamo incontrati intorno alle ore 21 e siamo andati a casa mia. Non ricordo precisamente se la mia amica Meredith fosse già in casa o se è giunta dopo, quello che posso dire è che Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie. Poi non ricordo più nulla, ho una grande confusione nella testa. Non ricordo se Meredith gridava e se sentii anche dei tonfi perché ero sconvolta, ma immaginavo cosa potesse essere successo. Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera, ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell’appartamento aperta». Amanda descrive il delitto, ma al posto di Rudy pone sulla scena del delitto Lumumba, anche lui giovane, ugandese, quindi di colore. Come mai? Possibile fosse soltanto una coincidenza? Certamente è questo l’interrogativo al quale nessuno è mai riuscito a dare una risposta convincente.

LE TAPPE DELLA VICENDA.

La notte tra il primo e il due novembre 2007, la studentessa inglese, Meredith Kercher, venne barbaramente uccisa nella sua abitazione di via della Pergola, a due passi dall'Università per Stranieri di Perugia, dove si trovava per seguire il progetto Erasmus, mai terminato. Il suo corpo senza vita venne trovato in camera da letto, in una pozza di sangue, accoltellata alla gola e coperta con un piumone. Per lo stesso delitto il giovane ivoriano, Rudy Guede, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale.

2 NOV. 2007 - Meredith Kercher, studentessa inglese di 22 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto, nella casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trovava per il progetto Erasmus. Meredith viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia.

6 NOV 2007 - la polizia ferma per l'omicidio la coinquilina di Mez, Amanda Knox, il fidanzato di questa ultima, Raffaele Sollecito e il musicista congolese Patrick Lumumba Diya. Lumumba è il datore di lavoro di Amanda. E' lei a indicarlo come l'autore del delitto. Amanda, americana, di Seattle, all'epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all'Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell'ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all'omicidio.

9 NOV 2007 - Il gip convalida i fermi.

11 NOV 2007 - Un docente svizzero racconta alla polizia di essere stato nel pub di Lumumba la sera del delitto e conferma l'alibi del musicista congolese.

15 NOV 2007 - Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.

19 NOV 2007 - Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D'Avorio è indicato come il quarto uomo. La polizia spicca un mandato di cattura internazionale.

20 NOV 2007 -  Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l'impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa. Si dichiara innocente.

6 DIC 2007 - Rudy è trasferito in Italia.

27 MAG 2008 - Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.

19 GIU 2008 - I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Knox, Sollecito e Guede per futili motivi.

16 SET 2008 - Inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, Paolo Micheli. Il gup dispone di procedere con rito abbreviato per Guede e lo condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale e rinvia a giudizio Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.

18 OTT 2008 - I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all'ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.

28 OTT 2008 - Il gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.

16 GEN 2009 - Inizia davanti alla Corte d'assise di Perugia il processo a Raffaele e Amanda.

18 NOV 2009 - Si apre davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il processo d'appello nei confronti di Rudy Guede.

5 DIC 2009 -  La corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Knox a 26 anni di carcere e Sollecito a 25. La Corte di assise, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni di carcere.

22 DIC 2009 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riduce da 30 anni a 16 anni la pena inflitta a Guede. Concesse le attenuanti generiche.

4 MAR 2010 - Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente "erotico, sessuale, violento".

22 MAR 2010 - Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Guede: "concorse pienamente", scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello, all'omicidio Kercher.

15 APR 2010 - I difensori di Sollecito depositato l'appello contro la sentenza di primo grado. Anche la procura di Perugia presenta appello contro la concessione delle attenuanti generiche agli imputati e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi.

17 APR 2010 - La difesa di Amanda Knox deposita l'appello e chiede nuove perizie.

7 MAG 2010 -  la difesa di Guede presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza della corte d'assise di appello di Perugia. - 24 NOV 2010: Si apre il processo davanti alla Corte d'assise d'appello di Perugia a Raffaele Sollecito ed Amanda Knox.

24 NOV 2010 - Si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele.

16 DIC 2010 - La Cassazione conferma i sedici anni di reclusione inflitti a Guede dalla Corte di appello, che diventa così definitiva..

18 DIC 2010 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riapre il dibattimento del processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox e dispone una nuova perizia super partes per le tracce genetiche sul coltello e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima quando venne uccisa. La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l'arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della Corte, "non sono attendibili".

29 GIU 2011 - I periti della Corte di assise di appello bocciano il lavoro svolto dalla polizia scientifica, definendo gli accertamenti tecnici "non attendibili", per il Dna attribuito a Meredith sul coltello e a Raffaele Sollecito sul gancetto di reggiseno. Gli esperti, inoltre, non escludono che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.

24 SET 2011 - La Procura generale chiede la condanna all'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

3 OTT 2011 -  La Corte di assise di appello di Perugia assolve Amanda e Raffaele dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Amanda scoppia in un pianto liberatorio e subito dopo l'assoluzione torna in America con la sua famiglia.

15 DIC 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia deposita le motivazioni della sentenza di assoluzione e parlano di mancanza di prova di colpevolezza. Secondo i giudici di secondo grado i "mattoni" su cui si è basata la condanna "sono venuti meno": c'e' una "insussistenza materiale" degli indizi, dalle tracce di Dna all'arma del delitto.

14 FEB 2012 - La procura generale e la famiglia di Meredith Kercher depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione.

19 LUG 2012 - La Cassazione fissa per il 25 marzo 2013 l'udienza per l'esame del ricorso.

25 MAR 2013 - Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità".

26 MAR 2013 - La Cassazione annulla con rinvio la sentenza di assoluzione di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di appello di Perugia. Conferma la condanna per calunnia ad Amanda. La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo.

30 SET 2013 - Il processo bis riprende davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze e riparte da capo, con difese e accuse che rappresentano, a partire dalla scena del delitto, le proprie arringhe. Sollecito, la Knox, così come i familiari di Meredith non sono presenti in aula.

26 NOV. 2013 -Il sostituto procuratore generale di Firenze, Alessandro Crini, chiede 30 anni di carcere per Amanda Knox e 26 anni per Raffaele Sollecito.

30 Gen 2014 - La Corte d'Assise di Appello di Firenze condanna a 28 anni e mezzo di carcere Amanda Knox e a 25 anni Raffaele Sollecito per il quale viene anche disposto il divieto di espatrio. Ad Amanda viene riconosciuta l'aggravante per il reato di calunnia nei confronti di Lumumba.

31 GEN 2014 - la polizia ritira il passaporto a Raffaele Sollecito in un albergo tra Udine e Tarvisio.

29 APR 2014 - la Corte d'Appello di Firenze deposita le motivazioni della sentenza.

16 GIU 2014 - i difensori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito depositano i ricorsi in Cassazione contro la condanna nei confronti dei loro assistiti da parte della Corte d'assise d'appello di Firenze. Le difese chiedono l'annullamento della sentenza di appello bis e, quindi, l'assoluzione per i due ex fidanzatini.

30 SET 2014 - La Corte di Cassazione fissa per il 25 marzo 2015 il nuovo processo per Sollecito e la Knox.

25 MAR 2015 - Si apre il processo in Cassazione davanti alla quinta sezione penale. Il pg Mario Pinelli, nella sua requisitoria, chiede di confermare le condanne di Amanda e Raffaele per l'omicidio di Meredith.

27 MARZO 2015 . La Sentenza definitiva di assoluzione per gli imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito per e l'omicidio di Meredith. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. 

IL MONDO RIDE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.

Mario Giordano su “Libero Quotidiano”: "Raffaele e Amanda assolti. Ora tutto il mondo ride della giustizia italiana". Condannati. Assolti. Rinviati. Condannati. Assolti. Ora provate voi a spiegare al mondo il gioco dell’oca della giustizia italiana, il Monopoli di vicolo stretto e largo assassino, dove le leggi sono come i dadi, basta un tiro sbagliato per ricominciare dal via o trovarti in prigione. Probabilità e imprevisti: provate voi a spiegare al mondo che ci guarda con un po’ di stupore che in questo disgraziato Paese se una ragazza viene uccisa in casa, nella civile e internazionale Perugia, ci vogliono otto anni e cinque processi per non sapere chi è stato. O, meglio, per condannare un ivoriano per concorso in omicidio senza però che abbia concorso con nessuno. Questo, infatti, è stato deciso dopo otto anni di indagini e perizie e requisitorie e arringhe e sentenze, costate chissà quanto: Rudy Guedé ha aiutato alcune persone a uccidere Meredith Kercher però queste persone non esistono. In quella maledetta stanza dunque era con altri, ma nello stesso tempo era da solo. Nemmeno Houdini riuscirebbe a tanto…Provate voi a spiegare agli stranieri che qui c’è una Corte suprema che prima respinge un’assoluzione, poi respinge una condanna e la trasforma in quell’assoluzione che aveva da poco respinto. Provate a spiegare che si tratta sempre della stessa Cassazione. Provate, in generale, a spiegare la logica surreale che esce dalle nostre aule di giustizia, dove si ricostruiscono delitti giocando a «indovina quale» e si scambiano moventi come figurine Panini. E quando a un certo punto ci si accorge che l’accusa (delitto a scopo sessuale) non regge alla prova del tribunale si cambiano le carte in tavola: macché sesso, hanno ucciso per una lite sulla pulizia domestica. Come se uno stupro e lo Spic&Span fossero all’incirca la stessa roba, «spogliati nuda» vale quanto «perché non hai passato Mastrolindo?», «ti strappo le mutande» è uguale a «passami il Dixan». Provate voi a spiegare al mondo che in Italia indagini e accuse si fanno così, un po’ alla carlona, e poi, se sei fortunato, dalla ruota del superenalotto ti escono l’avvocato bravo e il giudice giusto. Altrimenti resti in galera il resto della tua vita. Sia chiaro: Amanda e Raffaele sono innocenti, non ci sono dubbi, la sentenza è definitiva, e non si può che essere felici per il fatto che il loro incubo è finito, e possono tornare a vivere. Hanno pagato fin troppo per una cosa che non hanno commesso. Ma, di fronte alla legittima esultanza e di fronte alle altrettanto legittime richieste di risarcimento dei due ragazzi, non si può non pensare che mentre Amanda e Raffaele vincevano la loro partita, la nostra giustizia perdeva la sua. E la perdeva clamorosamente, collezionando una figuraccia planetaria, una specie di Caporetto togata, roba che al confronto Waterloo fu una marcia trionfale. Per carità: ci sono anche molte persone che escono bene da questo percorso a ostacoli nell’assurdo: per esempio Raffaele Sollecito che ha affrontato il processo a testa alta e con serietà, o gli avvocati difensori (non quello del povero Guede, purtroppo), e anche alcuni giudici, come quelli del primo appello, a Perugia, che avevano capito già tutto, o come quelli della Cassazione di ieri, che hanno dimostrato di essere scrupolosi fino all’ultimo, e pure coraggiosi. Ma nel complesso, ecco, in questa vicenda il nostro sistema giudiziario ha dimostrato di essere quello che è: un malato grave. E stavolta purtroppo (o per fortuna) l’ha dimostrato in mondovisione. Il caso, infatti, ha avuto una dimensione inevitabilmente internazionale: l’altro giorno l’americana Amanda stava sulla copertina di People negli Stati Uniti, l’attesa della sentenza sull’inglese Kercher era la terza notizia nei telegiornali britannici. Dall’estero, in questi giorni, avevano gli occhi puntati sul nostro tribunale. E dunque ora provate voi a spiegare all’estero come funziona la giustizia italiana. Provate a convincerli, con tutto ciò, che si possono ancora fidare, se devono venire a investire, o anche solo a fare un viaggio, se vogliono portare qui la famiglia o la loro impresa, possono star tranquilli. Provate voi a rassicurarli, persuadeteli che se nasce un contenzioso potranno far valere rapidamente i loro diritti, che non ci vorranno otto anni, cinque processi e magari un po’ di galera per aver riconosciute le proprie ragioni. Anzi, già che ci siete, consigliate loro subito lo studio dell’avvocato Bongiorno. E se non possono permetterselo, beh, dite loro di stare attenti a varcare i nostri confini…E poi provate a spiegare tutti gli assurdi paradossi che abbiamo visto in questo processo, il ginepraio delle sentenze, l’inchiesta fallata. Soprattutto provate a spiegare che una ragazza inglese venuta in Italia per studiare non avrà mai giustizia, provate a dire ai suoi genitori che ad ucciderla è stata uno che stava insieme ad altri ma che nello stesso tempo era anche da solo. Provate a spiegare che Rudy Guede ha agito in concorso, sì, ma in concorso con il nulla, con l’aria, con la sua ombra o forse con qualche fantasma, può darsi, in fondo era la notte di Halloween. Provate a spiegarglielo a loro, al resto del mondo, perché noi in fondo ci siamo abituati, purtroppo ormai ogni mostruosità giudiziaria ci passa sopra quasi fosse normale. Compreso il fatto che non ci siano mai responsabili. Provate voi a spiegarlo agli stranieri, dunque, che per questo infernale guazzabuglio diventato vergogna internazionale, alla fine non pagherà nessuno. A parte, ovviamente, i soliti contribuenti italiani.

Amanda e Raffaele assolti: figuraccia dei magistrati in mondovisione, scrive Andrea Asole su Quelsi. Dopo otto anni, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la vicenda dell’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata in circostanze ancora non troppo chiare a Perugia il 1 novembre 2007: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati definitivamente assolti. Unico condannato, Rudi Guede. Tralasciando le singole opinioni sulla veridicità dell’innocenza, che fioccano da ogni parte quando casi di cronaca giudiziaria come questo finiscono sotto i riflettori, il percorso che ha portato entrambi all’assoluzione risulta alquanto contorto. Riassumendo: Amanda e Raffaele sono stati condannati in primo grado e assolti in Appello. Si va in Cassazione e qui i giudici della Suprema Corte decidono che il processo d’appello va rifatto: si tiene dunque un nuovo appello e stavolta Amanda e Raffaele vengono condannati, 28 anni e mezzo per la ragazza di Seattle, 25 anni per il pugliese. Finita qui? Chiaramente no, c’è bisogno della Cassazione affinché la sentenza passi in giudicato. E ieri si è assistito a un nuovo totale ribaltamento delle sentenze precedenti: stavolta, Amanda e Raffaele sono assolti per non aver commesso il fatto, e non viene neppure disposto un nuovo processo d’appello. La vicenda viene finalmente chiusa dopo un totale di cinque sentenze, ognuna di esse discordante da quella che l’ha preceduta. Difficile non notare la grossa anomalia: come è possibile che ci siano state cinque sentenze che si contraddicano l’una con l’altra? Saranno emersi nuovi elementi in fase dibattimentale, si potrebbe pensare, e invece no: tutte e cinque le sentenze sono state emesse con lo stesso materiale probatorio. Come è possibile che gli stessi elementi conducano a esiti così discordanti tra loro? Ma soprattutto, poniamo il caso che il materiale in mano all’accusa fosse insufficiente: come è possibile che con un una insufficienza di prove si sia arrivati a due condanne, una più pesante dell’altra? Poniamo anche il caso contrario, cioè che quelle prove fossero sufficientemente corpose: se quello che avevano in mano gli inquirenti era più che sufficiente, come è stato possibile arrivare a tre assoluzioni tra cui quella definitiva? Evidentemente le presunte tracce dei due sul reggiseno di Meredith non erano la prova certa e definitiva che invece avevano spacciato per tale. Altra cosa di cui tenere conto: Rudi Guede, l’unico condannato per la vicenda, non avrebbe mai fatto il nome di Amanda e Raffaele né durante gli interrogatori né durante il processo. La magistratura italiana, nel suo complesso, ha insomma rimediato una sonora figuraccia, e, quel che è peggio stavolta davanti al mondo. Non dimentichiamo infatti la grande eco mediatica anche negli Stati Uniti, paese di Amanda, e in Gran Bretagna, paese di Meredith. Davanti al mondo, la magistratura ha fatto una figuraccia perché ha dimostrato tutte le falle della giustizia penale italiana e anche l’assurdità delle sue contraddizioni. Un figuraccia anche di fronte agli italiani, poiché ora, forti di sentenze contraddittorie, saranno in molti a ipotizzare una qualche influenza statunitense nel verdetto di assoluzione: se ciò però fosse vero, non si spiegherebbe perché la Cassazione dispose un secondo processo d’appello dopo la prima assoluzione. Forse questo è l’unico lato positivo di tutta la vicenda: i giudici della Cassazione, dopo quattro processi diversi, hanno avuto il coraggio di smentire tutto e di ristabilire la certezza del diritto a costo di coprire di ridicolo i loro colleghi e tutta la magistratura. E non era facile. Alla fine il classico “giudice a Berlino” insomma si è trovato, ma di una giustizia che opera in questo modo mettendo le persone in un calvario per poi assolverle c’è da aver paura davvero. Nota finale: Amanda ha già fatto sapere che presenterà una richiesta di risarcimento danni all’Italia: indovinate chi dovrà pagare, se glielo concedessero? No, sbagliato, non pagheranno i magistrati.

Meredith, giustizia italiana sbertucciata in tutto il mondo. Il verdetto della Cassazione è la Waterloo della giustizia italiana: mostrata al mondo l'assurdità del nostro sistema. Adesso chi paga? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. Cinque gradi di giudizio, otto anni di indagini e processi, due ragazzi (Amanda e Raffaele) condannati e poi assolti: la Corte di Cassazione mette la parola fine a un processo, quello per l'omicidio di Meredith Kercher, che ha avuto un'eco impressionante in tutto il mondo. Per Raffaele Sollecito è "la fine di un incubo", Amanda Konx invece si sente finalmente "sollevata e grata" di poter riavere la propria vita indietro. Ma chi paga per tutto questo? La sentenza di ieri, che ha dimostrato al mondo l'assurdità del nostro sistema, è la Waterloo della giustizia italiana. Adesso sarà chiaro al mondo intero. Una pillola amara da ingoiare e Una sentenza che ha causato uno shock alla famiglia sono i primi commenti della stampa inglese all'assoluzione in via definitiva di Amanda e Raffaele per l’omicidio della studentessa inglese. Per il Guardian, "la famiglia Kercher dopo il verdetto deve ora ingoiare una pillola molto amara", soprattutto perché, "dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi, questa non è affatto la conclusione che la famiglia Kercher avrebbe mai potuto desiderare". In particolare, per il quotidiano progressista, il problema principale è che sono state assolte "le uniche persone che siano mai state seriamente sospettate, per la famiglia una pillola assai amara da ingoiare". Anche il resto della stampa britannica sottolinea gli elementi più sorprendenti, almeno per l’opinione pubblica del Regno Unito. Il Daily Mail, tabloid molto seguito in Gran Bretagna, scrive chiaramente della "lunga saga" dei processi e di "uno choc da assoluzione per la madre di Meredith". Per il Daily Telegraph la coincidenza della sentenza con l’uscita del film Il volto dell’angelo del regista Michael Winterbottom, pellicola chiaramente ispirata ai fatti di Perugia e nelle sale americane proprio da venerdì 27 marzo, è indicativa di "un’ossessione per Amanda Knox" alimentata dal circo mediatico che "insulta Meredith Kercher". Obiettivo ora, scrive la giornalista Barbie Latza Nadeau, autrice del libro che ha ispirato il film, è riportare Meredith, "la vera vittima", al centro dell’attenzione. A giocare un ruolo decisivo nell’assoluzione sono stati probabilmente i forti dubbi sulla validità dei test del dna eseguiti durante le indagini. A criticare le conclusioni degli investigatori italiani, ricorda la rivista New Scientist, sono stati diversi esperti su entrambe le sponde dell’Atlantico. In particolare ad incriminare i due erano tracce di dna trovate su un coltello nell’appartamento di Sollecito, sul cui manico c’era materiale genetico di Amanda mentre sulla lama c’era quello di Meredith. Su un ferretto del reggiseno della ragazza uccisa c’era invece il Dna di Sollecito. Nel 2009 una lettera di un’associazione di esperti statunitensi aveva scritto una lettera aperta alla corte mettendo in dubbio le conclusioni dei test. "Un esame chimico per la presenza di sangue sul coltello ha dato esito negativo, ma non è stato preso in considerazione - era scritto nella lettera dell’associazione The Innocence project - inoltre il Dna trovato era sufficiente solo per un profilo parziale". Se non c’erano tracce di sangue sul coltello, hanno sempre sottolineato quindi anche gli altri scienziati "innocentisti" che si sono interessati alla vicenda, come Bruce Budowles, genetista dell'Università del North Texas e consulente dell’Fbi, non era possibile che quella fosse l’arma del delitto. Gli esperti americani hanno anche paventato la possibilità che i campioni fossero contaminati, soprattutto perché l’analisi è stata condotta insieme a quella di altri reperti. Ad essere criticata è stata anche la lettura data dei risultati. Negli Stati Uniti infatti l’elettroforesi viene considerata valida se dà picchi sopra 150, mentre quelli sotto 50 vengono scartati, e quelli presi in esame per l’accusa erano tutti sotto questo livello. "Anche il reggiseno - hanno scritto gli esperti statunitensi - conteneva diversi Dna di cui uno compatibile con Sollecito, ma i giovani si frequentavano, quindi potrebbe essere finito lì in diversi modi innocenti".

"Uno scandaloso flop giudiziario". La stampa estera demolisce i pm. Il più duro è il britannico "Independent" che si chiede "quanto ingiustamente può agire il sistema di un Paese illuminato". L'americano "Huff Post": "Saga legale" tutta italiana, scrive Erica Orsini su “Il Giornale”. Spiazzati, sconcertati, indignati. È un giudizio unanime e durissimo quello dei media britannici e americani sul verdetto finale del caso Kercher. Per ragioni diametralmente opposte - i primi solidali verso il dolore di una famiglia colpita da un lutto gravissimo che rimarrà per sempre senza una spiegazione, i secondi strenui difensori di una connazionale la cui innocenza è stata finalmente riconosciuta - entrambi hanno riservato ieri commenti lapidari e titoli al vetriolo alla sistema giudiziario italiano. Per il quotidiano progressista britannico The Guardian il verdetto «è una pillola molta amara da ingoiare per i Kercher» perché «dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi questa non era affatto la conclusione che la famiglia avrebbe mai potuto desiderare». Ma soprattutto per il fatto che «sono state assolte le uniche due persone sospettate in questo caso». Anche i tabloid nazionali concordano su questo punto, enfatizzando la disperazione e lo stato di shock in cui è precipitata la famiglia della povera Meredith dopo una sentenza che ha messo per sempre la parola fine alla loro più che legittima richiesta di verità. Il Daily Mail , tra i quotidiani più seguiti in Gran Bretagna, accenna più volte in modo sprezzante alla «lunga saga di processi» mentre i titoli sul sito online spiegano che la sentenza della Cassazione italiana lascia «molti punti insoluti sulla vicenda» e si chiedono «allora chi ha ucciso Meredith?». È questo l'interrogativo che più pesa per la stampa d'oltre Manica mentre ciò che più sconcerta è la giustizia italiana che per l'ennesima volta esce a pezzi da questo vicenda. I giornali ripercorrono sette anni di clamorosi corsi e ricorsi, ricordano le ipotesi e le accuse, gli errori e le mancanze, l'insopportabile altalena emotiva a cui la famiglia di una vittima che non è mai stata al centro dell'attenzione, è stata sottoposta. Per il Daily Telegraph , quotidiano conservatore dai toni solitamente moderati, la coincidenza temporale dell'annullamento della Cassazione e l'uscita del film americano Il volto dell'angelo chiaramente ispirato ai fatti di Perugia, dimostrano «l'ossessione per Amanda Knox» alimentata da un circo mediatico che «insulta e offende la famiglia Kercher». Ma le parole più dure sulla nostra giustizia emergono sicuramente dal commento privo di retorica del corrispondente dell' Independent Peter Popham che scrive: «Knox e Sollecito assolti: è stato un terribile errore giudiziario. Il verdetto della Corte suprema mette la parola fine sull'intera vicenda. Ero stanco di sentir parlare del caso di Amanda Knox, di leggerne, di pensarci, di sentire cose su una storia su cui ormai nulla di più doveva essere detto. Eccetto una constatazione e cioè quanto ingiustamente può agire il sistema giudiziario di un meraviglioso, illuminato Paese. Quanto profondamente si può impantanare nelle sue stesse contraddizioni un sistema legale quando delle azioni decisive vengono prese in fretta, prima di avere delle prove cruciali». E mentre la madre di Amanda Knox minaccia una richiesta di risarcimento danni nei confronti della giustizia italiana per i quattro anni che la figlia ha trascorso in carcere, il sito dell' Huffington Post cerca di spiegare ai suoi lettori l'incomprensibile storia di una «complessa saga legale» tutta italiana.

Processo Meredith, i colpevoli sono i pm. Otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Dal punto di vista degli imputati assolti, meglio tardi che mai. Ma otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare. L'elenco degli errori è lungo e non riguarda solo gli investigatori e i giudici di vario grado, ma anche il sistema giustizia italiano, contorto e profondamente confuso, oltre che di una lentezza mediorientale. Tutto è bene ciò che finisce bene, si fa per dire. Raffaele Sollecito e Amanda Knox, tra una doccia fredda e una doccia calda, sono stati scagionati, come era giusto che fosse, per un motivo tanto semplice da essere disarmante: non si condannano persone per un delitto che non si è certi abbiano commesso. Punto e amen. La strada che si è percorsa per giungere a questa conclusione è piena di accidenti, di crudeltà e di assurdità. E meno male che la Cassazione ha dimostrato un'assennatezza di cui francamente non la accreditavamo. Altrimenti oggi saremmo di fronte al sospetto che un paio di innocenti fossero in carcere, ciò che spesso è accaduto e accadrà ancora finché non cambieranno i metodi processuali. Metodi che suscitano perplessità in altri Paesi dove pure si sbaglia, ma si cerca almeno di evitarlo. Come? Per esempio consentendo di ricorrere in appello soltanto a chi in primo grado sia stato condannato, al quale bisogna assicurare la possibilità di un «esame di riparazione». Appello, viceversa, non previsto per la pubblica accusa in base al principio che se essa non è stata capace di provare la colpevolezza dell'accusato, significa che le prove e gli indizi raccolti non sono abbastanza forti. Da noi, invece, il secondo grado è aperto sia all'accusa sia alla difesa col risultato che tra magistrati (Pm) e avvocati scoppia una vera e propria lite, con tanto di ripicche che assomigliano molto a vendette. Ma che giustizia è quella che sfocia regolarmente in risse, quasi che il soccombente rischiasse di perdere la faccia? Talvolta gli effetti prodotti da simile braccio di ferro sono surreali. È stato il caso di Amanda e Raffaele, i quali si sono fatti quattro anni - una vita, alla loro età - di carcerazione preventiva e altri quattro di libertà provvisoria (in attesa di verdetto definitivo), immagino trascorsi nell'angoscia e senza alcuna opportunità di costruirsi un'esistenza normale. Tutto questo è inammissibile. All'estero incomprensibile. Ovvio che la stampa straniera consideri l'Italia fuori dal mondo civile, altro che culla del diritto. Da vari anni è stata abolita una vecchia formula salvifica: la cosiddetta «insufficienza di prove», grazie alla quale in «dubio pro reo». Cancellata questa scappatoia, oggi i tribunali sono di fronte a un bivio: o colpevole o innocente. Tertium non datur . Cosicché in camera di consiglio, i magistrati si scannano per far valere le loro opinioni. E sottolineo opinioni. Se teniamo conto che i giudici popolari - non togati - non capiscono un cavolo di diritto, immaginate quale scempio del diritto stesso avverrà nelle sacre stanze della giustizia. A complicare le cose negli ultimi tempi è intervenuta la scienza, di cui abbiamo il massimo rispetto, che però, essendo maneggiata da uomini, può trasformarsi in una fonte di topiche macroscopiche. Non raramente le perizie ordinate dal tribunale e quelle di parte sono contrastanti, si smentiscono l'una con l'altra. Quali sono esatte e quali no? Se anche gli esperti non sono d'accordo tra loro, ci si può fidare delle congetture e dei teoremi dei pubblici ministeri, che affrontano i processi con lo stesso spirito combattivo dei pugili, pronti a tutto pur di vincere il match dal cui esito dipendono fama e carriera? In alcune circostanze si ha l'impressione che le toghe siano sadiche e godano allorché le loro decisioni servano a sbattere in prigione gli imputati a ogni costo, anche quello di prendere un granchio. In questo senso la vicenda di Amanda e Raffaele è paradigmatica. Rudy Guede, condannato a 16 anni per concorso in omicidio di Meredith Kercher, non ha mai fatto i nomi dei due quali suoi complici. Le cui tracce nel teatro dell'omicidio non sono state rilevate, se si esclude una briciola di Dna sul gancetto del reggiseno recuperato sotto il letto della vittima 40 giorni dopo il delitto. Altri elementi non c'erano per incastrare lei e lui. Solo elucubrazioni. Qualche labile indizio. Occhio, però. L'opinione pubblica era divisa in due parti: innocentisti e colpevolisti. Più numerosi quelli che pretendevano di aver capito, sulla scorta di sensazioni, che i due innamorati meritassero la cella. Le pressioni ambientali, le aspettative della gente influenzano tutti, in particolare i giudici popolari. E così si comprende la piega negativa che hanno assunto le sentenze di primo grado e dell'Appello bis. Ma, al netto delle supposizioni, delle malevolenze e delle stupidaggini a cui la stessa Amanda ha dato corpo nel corso dell'inchiesta, nulla giustificava una pena detentiva da infliggersi ai due giovani. L'avvocato Giulia Bongiorno e il suo collega Carlo Della Vedova sono stati impeccabili. Mi domando se il merito dell'assoluzione sia tutto loro o abbia giocato favorevolmente la notevole sensibilità della Corte. Difficile rispondere. Comprensibile il dolore dei genitori della vittima, i quali a distanza di otto anni dal fatto di sangue non sanno ancora se ad averlo commesso sia solo Rudy o se questi si sia avvalso della complicità di qualcuno. Eventualmente, chi? Ma è anche vero che o gli assassini vengono identificati con sicurezza, e castigati, oppure, nella vaghezza delle ipotesi, è criminale selezionare due individui e punirli per ciò che forse hanno compiuto o forse no. Comunque la nostra giustizia - e non mi riferisco alla Cassazione - ha confermato di essere malata. Soprattutto di protagonismo.

L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.

L'Italia dei processi infiniti dai costi incalcolabili. Se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale, scrive Luca Fazzo su  “Il Giornale”. Non è stato il primo, e sicuramente non sarà l'ultimo: se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale. Il codice non prevede un tie break, un momento in cui si debba per forza tirare le fila, facendo pendere la bilancia da una parte o dall'altra. L'andirivieni tra Corti d'appello e Cassazione può andare avanti in teoria all'infinito: specie per i processi per omicidio, che non possono essere inghiottiti dalla prescrizione. Certo, i costi per la collettività sono incalcolabili, e pesanti anche i costi materiali e psicologici per vittime e imputati. Ma di una norma che metta fine al rimpallo non si è mai parlato. E così non è affatto da escludere che lo stesso esito del processo per il delitto di Perugia possa averlo a breve quello per il delitto di Garlasco, visto che la Cassazione dopo avere annullato la assoluzione di Alberto Stasi potrebbe tranquillamente annullare anche la sua condanna. Come capostipite dei processi interminabili viene indicato abitualmente quello per la strage di piazza Fontana: che però ebbe un percorso accidentato ma tutto sommato lineare, anche se molti anni dopo la stessa Cassazione scrisse che la Cassazione si era sbagliata ad assolvere i neofascisti Freda e Ventura. Ben più surreale fu invece l'andirivieni di un altro processo degli anni di piombo, quello per l'omicidio del commissario Calabresi: Adriano Sofri venne condannato in primo e secondo grado, la Cassazione annullò la condanna, nel nuovo processo d'appello Sofri venne assolto ma la Cassazione annullò anche questa sentenza, e ci vollero un terzo processo d'appello e una nuova condanna, stavolta confermata dalla Cassazione, per chiudere la vicenda. In tempi più recenti, quasi impossibile da spiegare ai non addetti ai lavori è stato l'iter del processo per il rapimento dell'imam terrorista Abu Omar: gli 007 del Sismi vennero assolti in primo e secondo grado, la Cassazione annullò le assoluzioni, a quel punto l'appello bis si concluse con la condanna di tutti gli imputati, ma la Cassazione annullò (fortunatamente senza rinvio, altrimenti si sarebbe andati avanti chissà quanto) anche la sentenza di condanna. Per i reati non puniti dall'ergastolo, a dare un taglio alla faccenda arriva prima o poi la prescrizione, ma l'effetto è ugualmente straniante: la Procura di Milano non ha mai rinunciato a considerare Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, colpevole del caso Unipol, ma si è dovuta arrendere - a causa del tempo trascorso - di fronte alla sentenza di assoluzione dell'appello-bis, dopo che la Cassazione aveva annullato le prime assoluzioni. E nel vuoto rischia di svanire anche il triste caso di Matilda Borin, la bambina uccisa nel 2005 vicino Vercelli. Prima fu assolto l'amante della madre, poi anche la madre; altri non potevano essere stati; la Cassazione ha riaperto il caso, ma - trattandosi di omicidio preterintenzionale - la prescrizione potrebbe arrivare prima di qualunque condanna.

FORCAIOLI: ORA TACETE!

Delitto di Perugia. L’assoluzione di Amanda e Raffaele una lezione per la piazza forcaiola, scrive “Tempi”. L’istruttivo racconto dei giudici che per primi sancirono la non colpevolezza degli imputati: siamo stati «denigrati per anni», ma in mancanza di prove certe «si può tollerare l’assoluzione del colpevole, non la condanna dell’innocente». In margine al clamore suscitato dall’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nella notte di Halloween ben 8 anni fa (otto), oltre alla durata e alle alterne sorti della vicenda processuale (condanna in primo grado, assoluzione in appello, annullamento in Cassazione, nuova condanna in un nuovo appello e infine assoluzione «per non aver commesso il fatto»), devono far riflettere tutti, magistrati e giornalisti in primis, le parole consegnate alla stampa in questi giorni da due dei giudici della Corte di assise di appello del capoluogo umbro, quella che nell’ottobre 2011 per prima riconobbe i due ex fidanzati non colpevoli per l’uccisione della povera ragazza. Si tratta dell’allora presidente di quella Corte, Claudio Pratillo Hellmann, oggi in pensione, e del giudice Massimo Zanetti. In una intervista pubblicata  da Repubblica, parlando del verdetto «senza rinvio» stabilito dai giudici della Cassazione venerdì 27 marzo, Hellmann esprime «soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo», ma spiega che per lui questa decisione rappresenta «soprattutto la fine di una grande sofferenza». Per tre anni e mezzo, infatti, il magistrato ha «sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima», a causa di un processo divenuto assurdamente “mediatico”, le cui conseguenze Hellmann ha finito per pagare di tasca propria. «La nostra decisione – racconta il magistrato a Repubblica – fu accolta con reazioni di sdegno». Hellmann parla di vero e proprio «linciaggio diffamatorio». «Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia». Evidentemente la folla aveva già deciso, a prescindere dai fatti (non) accertati in tribunale, che Amanda e Raffaelle dovevano essere riconosciuti colpevoli. Ma non solo la folla. Helmann rimase particolarmente colpito dalla «reazione dei colleghi magistrati». «Quasi tutti» i colleghi, ricorda il giudice, «mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda». Secondo lui nel tribunale di Perugia «tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa». E la sentenza di assoluzione fu a tal punto indigesta per il suo ambiente che la presidenza del Tribunale, per la quale Hellmann dice di essere stato «in predicato», fu invece «assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione». Dice: «Praticamente fui costretto». Nel colloquio con il quotidiano Hellmann spiega che l’indagine sul conto di Amanda e Raffaele, evidentemente non agevolata dall’eccessiva attenzione mediatica di cui è stata oggetto, «era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall’inizio». Lo dimostrerebbero l’arresto ingiusto di Patrick Lumumba («che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa») e le perizie ordinate dalla stessa Corte di appello che «non erano state fatte durante il processo di primo grado», e grazie alle quali, soprattutto, «la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza». Secondo il giudice era «palese» che «il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l’arma del delitto», tanto che perfino nel secondo processo di appello, che pure terminò con una condanna per i due imputati (inspiegabile, secondo Hellmann), la perizia scientifica disposta dalla Corte di Firenze «aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra». Anche Zanetti, intervistato domenica 29 marzo dal Tg1, ricorda di essere stato «denigrato ingiustamente per anni» per l’assoluzione della Knox e di Sollecito. Il fatto è che per la Corte di assise di Perugia «le prove raccolte non erano sufficienti per una condanna», racconta Zanetti, e però la legge impone al giudice di raggiungere nel processo una certezza superiore a ogni ragionevole dubbio prima di giudicare qualcuno colpevole di un reato. Non fu facile sottoscrivere un verdetto evidentemente contrario a quello stabilito a priori dal circuito mediatico-giudiziario, ma «il destino degli altri che in quel momento è in mano nostra – spiega Zanetti – non è barattabile con la comodità di una carriera spianata». Sono le conseguenze “scomode” dello Stato di diritto: in mancanza di prove certe, meglio mandare in libertà un criminale che rischiare di colpire qualcuno ingiustamente. La verità processuale non equivale alla verità dei fatti, e non a caso l’ordinamento italiano, sintetizza Zanetti, «può tollerare l’assoluzione del colpevole, ma non la condanna dell’innocente». Nemmeno se a deciderla è stata la piazza.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO. ESAME DI AVVOCATO: 17 ANNI PER DIRE BASTA!

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani. 

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati.

Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati vene sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

“…Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a' delitti, dettata dalle leggi”. Cesare Beccaria, 1764 (da leggere). Un saggio breve, lucidissimo, enorme. E terribilmente attuale. Sì, perché ancora oggi, in Italia e nel mondo si muore di carcere.

Ospite de La Telefonata di Maurizio Belpietro è Luigi Manconi, senatore del Partito democratico. Si parla delle parole di Giorgio Napolitano, che invoca l'amnistia o l'indulto. "Parte dell'opinione pubblica è ostile al provvedimento - spiega -, anche perché l'informazione non contribuisce a dare notizie esatte".  Secondo Manconi, inoltre, sarebbe prioritario intervenire sull'eccesso di carcerazione preventiva: "Nelle carceri le condizioni sono disumane".

La testimonianza di un detenuto innocente, che, dopo e nonostante tutto, non ha il coraggio di scrivere il suo nome.

L’ignavia delle vittime non paga e non ristabilisce la ragione e le cose resteranno sempre così.

Cosa si deve subire per avere il coraggio di ribellarsi e non nascondersi dietro l’anonimato?

«Gentile redazione del Corriere, egregio dr Crispino, il mio nome è F. C., sono un ex imprenditore, ora responsabile vendite di alcune aziende in Italia, marito felice e prossimo padre di una dolce creatura. La nostra ragione di vita. Vi scrivo perché da poco mi sono avvicinato al pianeta carcere, mio malgrado. Fino allo scorso 12 giugno facevo parte di quella schiera di persone che non si sono mai interessate al problema delle carceri, guardando anche con un certo distacco tutto il fenomeno. Poi vi sono stato risucchiato. Per 40 giorni circa sono stato un carcerato di San Vittore a Milano. Da uomo libero ora sento il diritto e il dovere di raccontare cosa può succedere tra quelle mura. Lo faccio per me, per la mia famiglia e per le persone che ho conosciuto in quell’ambiente e che meritano gratitudine. Sono stato processato in contumacia per bancarotta fraudolenta, pare per un difetto di notifica. Fatto sta che addosso a me e alla mia famiglia è precipitato un fulmine a cielo sereno. All’improvviso mi sono trovato lontano dal mio mondo, dalla mia vita, dalla mia famiglia. Non sapevo il perché e non lo ho saputo per diversi giorni. Là dentro non si sa nulla, tutto scorre lento, indeterminato e non gestibile dalla nostra volontà. Ci sono voluti 42 giorni, fino al 24 luglio, affinché il tribunale riconoscesse il suo errore e disponesse la mia scarcerazione immediata. In questi 42 giorni ho cercato di trovare il mio equilibrio, combattendo una battaglia quotidiana con il sistema San Vittore, con quello che nella sua inchiesta «Le nostre prigioni» chiama Pianeta Carcere (che secondo me ben rappresenta ciò che si vive in ogni momento di detenzione). Tutto è una conquista, anche le cose più scontate. Penso a cose semplici come fare una doccia, curare la salute, dormire su un cuscino, fare una passeggiata, una visita medica. Nulla può essere dato per scontato: una lettera che arriva in tempi certi, una telefonata, la spesa che arriva non dopo giorni di attesa, poter leggere un giornale. I detenuti (sì, quelli che all’esterno spesso si demonizzano o si ritengono scarti di società), sono quelli che mi hanno trattato con calore umano e solidarietà. Non è umanamente facile vivere in nove persone, come eravamo noi, in 15 mq senza potere mai uscire se non per 2-3 ore al giorno. Io sono entrato in uno dei raggi peggiori, ovvero il VI. il più vecchio, non ristrutturato, con 4 docce per piano (ogni 170 detenuti circa). Delle 22 celle per ogni piano (4 piani) sono capitato nella migliore. La più grande e la più pulita. Il carcere di San Vittore è vecchio di oltre 100 anni. Dei sei raggi il secondo e il quarto sono chiusi in quanto non ci sono fondi per ristrutturarli. La capacità ufficiale del carcere è di mille persone circa nel reparto maschile. Ma credo che il numero reale si avvicini alle 1800 persone. Si arriva ad una media di circa 7- 8 persone per cella. Nel corso di quelle settimane ho sentito dentro il bisogno di prendere appunti. Appunti che vorrei schematicamente condividere con lei in questa lettera, nella speranza che possano essere una utile testimonianza di cosa significhi «vivere» in un carcere italiano. Il «Pianeta Carcere» è omertoso: i detenuti non denunciano le guardie e viceversa. Questo impedisce alle informazioni di fluire, protegge le ingiustizie e lo rende immune. Non si tratta del mio caso. Non ho subito violenze fisiche, né le ho viste direttamente accadere, ma ne ho viste le conseguenze sulla pelle di chi mi stava attorno. Queste sono le cose che ho vissuto. Distribuzione di psicofarmaci in maniera massiccia tra i detenuti. A una persona malata che era nella nostra cella mancavano 15 giorni alla fine della carcerazione. Aveva bisogno di morfina ma non ne poteva avere se non comprandola all’esterno, a sue spese, e attendendo che la direzione ne autorizzasse l’entrata. La farmacia del carcere non è in grado di procurarla. La cosiddetta ora di aria è costituita da spazi di cemento circondati da muri di cemento. Fa eccezione un rubinetto per l’acqua. A San Vittore ci sono alcune stanze dedicate a piccoli corsi e servizi quali biblioteca, barbiere,etc. Purtroppo sono accessibili solo se c’è personale. Per fare un esempio, il barbiere è disponibile una volta alla settimana per ogni raggio del carcere. Non esiste lavoro, che poi è l’essenza della «rieducazione». Solo 10 persone per ogni raggio erano impegnate in attività lavorative. E’ un lavoro retribuito per 3 ore, ma si inizia a lavorare alle 7,30 del mattino e si termina alle 17. Ovviamente i contributi vengono versati solo per le 3 ore previste. E nemmeno. Allo stipendio medio (che e’ di circa 250 euro al mese) vengono sottratti i costi di eventuali errori nello svolgimento del proprio lavoro. Ad esempio: se un addetto alla spesa sbaglia a distribuirla ne è responsabile pecuniariamente. Nel carcere tutto è burocrazia, tutto viene regolato da una burocrazia lenta fatta di una modulistica che si sposta a mano. Le risposte alle domande a volte sono inesistenti. Per un colloquio con l’ispettore bisogna attendere un mese. Anche la corrispondenza postale dall’esterno impiega dai 2 ai 15 giorni per essere recapitata. Il sabato e la domenica non è possibile comunicare con nessuno. La presenza di polizia penitenziaria è ridotta all’osso. La sera, il mese di Agosto, la domenica e nei festivi non vi è presenza di alcun genere di personale. C’e’ una sola guardia ogni due o tre piani. Tenendo conto che le celle sono sempre chiuse, se non vi è il personale non si può fare nulla, nemmeno aprire la cancellata per pochi minuti. Il cibo viene distribuito lungo il corridoio utilizzando un carrello. E’ lo stesso carrello che viene usato per portare la spesa ma anche per portare via i sacchi della spazzatura. Le malattie proliferano. il 15 giugno c’è stato ancora un caso di tubercolosi. Ci hanno fatto fare i test perché si temeva il contagio. Non ci sono sistemi per richiamare l’attenzione del personale di controllo se non gridando. Se il personale non è presente al piano si può solo fare rumore per richiamarne l’attenzione. Nella cella accanto alla nostra la sera del 23 luglio una persona ha avuto un collasso. Il personale è arrivato solo dopo 30 minuti per portarlo al pronto soccorso. Alla domenica e nei festivi non è disponibile il medico, non ci si può lavare. Le finestre sono di plastica bucata. D’inverno si gela. Occorre razionare le vivande perché non ce ne sono per tutti. E’ possibile fare la spesa da una lista di prodotti presenti allo spaccio, compilando un modulo. La spesa viene consegnata scaglionata. O a partire dal terzo giorno successivo, oppure, una volta al mese, viene consegnata dopo sette giorni dalla richiesta. I prodotti spesso non sono disponibili. Tra i detenuti ormai è frequente lo scambio di alimenti e favori. Fare la spesa non è formalmente obbligatorio, ma se si vogliono fare le pulizie, lavare i panni, lavare se stesso, cucinare, cambiare le lampadine... bisogna comprare i prodotti con i propri soldi. Il carcere non mette a disposizione nulla. Chi non se lo può permettere può mangiare dal carrello, ma non può fare il resto se non grazie alla solidarietà di chi sta intorno. In poche parole resta segregato in cella. Si cucina in bagno, spesso accanto al gabinetto. Perché solo lì ci sono dei fornelli da campeggio alimentati da bombole di butano. Spesso accade che coperte e materassi non siano disponibili per i nuovi arrivati. Dormono per terra. Le lenzuola è possibile cambiarle una volta al mese. La vita è difficile anche per i nostri cari. Lo spazio per i colloqui non è sufficiente. I parenti dei detenuti sono costretti a stare in coda già dalla notte precedente. Non di rado ci si trova in 30 persone all’interno di stanze di circa 20 mq dove è difficile capire persino l’altro che dice.

Spero che quanto testimoniato possa servire alla coscienza di qualcuno. Io pensavo che non mi sarebbe mai capitato. Mi è capitato. Ho sofferto, tanto, troppo. Sono stato scarcerato. Altri sono ancora lì dentro. Molti sono in attesa di un giudizio, non si sa se colpevoli o innocenti. Ma sono lì dentro, trattati più o meno come le ho descritto e come io ho vissuto ingiustamente per 40 giorni.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no 

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA……

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio». Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini. Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato. Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

Livatino, Falcone e la responsabilità civile delle toghe, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Il 21 settembre di 24 anni fa, il giudice Rosario Livatino veniva ucciso in un agguato di stampo mafioso in Sicilia. Livatino aveva una idea molto netta e chiara sulla responsabilità civile delle toghe e la spiegò in delle riflessioni, quantomai attuali, che l’Ansa riporta alla luce. “Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell’atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni. E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo”, argomentava Livatino. Che poi aggiungeva: “Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività non è facile intendere. Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all’esposto contro il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso. La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone. L’altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature. Gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in materia penale. Se l’organo dell’accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l’ardire di imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto. Questo è l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice”.

Sono riflessioni sicuramente non banali, seppur scritte da un diretto interessato. Sempre sullo stesso filone, ho trovato questo articolo di Repubblica datato novembre 1988, in cui vengono riportate le parole del giudice Giovanni Falcone durante un convegno del Movimento per la Giustizia, poco tempo dopo il risultato del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Cito le parti più salienti: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. (…) Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell’ elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente (…) Il linguaggio è chiaro: l’ azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento (…) Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato”.

Al netto dell’importanza e delle differenze sostanziali tra le due posizioni, ad oggi ci sono solo due certezze: entrambi i giudici sono stati uccisi dalla mafia e il dibattito sulla responsabilità civile delle toghe tiene ancora banco. Senza trovare però una soluzione.

Livadiotti: «La magistratura è un sistema talmente malato e marcio che va cambiato», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso che ha scritto il libro inchiesta “Magistrati. L’Ultracasta”: «È inutile chiedere una maggiore severità della sezione disciplinare del Csm: il 93 per cento dei procedimenti non vengono neanche ammessi». Stefano Livadiotti, giornalista de l’Espresso, è autore di numerose inchieste. Una di queste, molto densa, è sfociata qualche anno fa in un libro di successo: Magistrati. L’Ultracasta. Livadiotti, infatti, per primo è entrato nelle segrete della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, rivelando gli aspetti significativi, e spesso involontariamente comici, della giustizia italiana quando è esercitata nei confronti di colleghi togati. Eppure oggi l’intervento disciplinare severo è da alcuni, ad esempio dal vicepresidente del Csm Michele Vietti, additato come esempio che la giustizia sui magistrati funziona, e che non occorre l’introduzione di una responsabilità civile dei magistrati.

Data la sua conoscenza del sistema disciplinare e giudiziario, da osservatore esterno cosa ne pensa dell’emendamento che introduce la responsabilità civile diretta per i magistrati?

«Vorrei ricordare a chi (compresa l’Anm di Palamara) parla di intimidazione, ritorsione o vendetta sulla magistratura che la responsabilità civile è stata votata con una maggioranza schiacciante nel referendum del 1987, in cui parteciparono 26 milioni di italiani: e l’80 per cento votò sì. I magistrati devono pagare come qualsiasi professionista. La reazione a questo emendamento mi sembra il solito tentativo dei magistrati di mantenere dei privilegi ammantando tutto, come al solito, con la scusa dell’indipendenza della magistratura. Non penso affatto che ci saranno magistrati che firmeranno sentenze con mano tremolanti: non è che i chirurghi hanno smesso di operare perché sono responsabili direttamente. Dal 1988, quando è nata la legge Vassalli n.117 che ha introdotto la responsabilità civile per i giudici dopo il referendum, lo Stato si è rivalso sul magistrato in 4 casi. Praticamente mai. Si vede che così non funziona.»

Chi è contrario alla responsabilità civile diretta del magistrato ammette il problema ma sostiene che piuttosto si deve intervenire con una maggiore severità della sezione disciplinare. Cosa ne pensa?

«Potrei essere anche d’accordo, se ci fosse una sezione disciplinare che funzionasse. Tra il 1995 e il 2002  i magistrati che hanno perso la poltrona per un procedimento disciplinare sono stati lo 0,065 per cento. A titolo d’esempio ne L’Ultracasta raccontavo il caso di un magistrato pedofilo sorpreso nei bagni di un cinema: al Csm sono riusciti a riabilitare persino lui, è evidente che la disciplina non funziona. Rinviare la soluzione alla maggiore severità della sezione disciplinare mi pare il solito sistema di dire di no. Solo che appena le toghe hanno detto che sarebbero saliti sulle barricate contro la responsabilità civile, anche il governo dei tecnici, come prima quelli politici di centrodestra o di centrosinistra, ha fatto un passo indietro. Questo dimostra che la politica ha paura della magistratura. Credo che se oggi si rivotasse quel referendum dell’87, gli italiani sceglierebbero di nuovo per la responsabilità civile: perché non capiscono il motivo per cui una casta non vada punita»

Come commenta i dati sui procedimenti disciplinari avviati nel 2011 e resi noti dal Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, all’apertura dell’anno giudiziario 2012?

«Oggi, proprio come tre anni fa quando scrissi il mio libro, il 93 per cento dei procedimenti non supera neppure il filtro della Cassazione, che decide se la pratica merita di andare al Csm oppure no. Per quanto riguarda poi gli esiti dei procedimenti, nel mio libro scrivevo che tra il 99 e il 2006 c’erano stati 1.004 procedimenti disciplinari. L’80,9 per cento di questi è finito con assoluzione o proscioglimento. Per quanto riguarda le condanne invece: 126 magistrati sono stati puniti con l’ammonizione, un richiamo lieve; 38 con la censura, quello che definisco una “tirata d’orecchie” più forte; 22 i magistrati puniti con la perdita di anzianità, 2 con la rimozione e 4 con la destituzione. Mi pare che i numeri parlino da soli. Dei dati citati dal pg di Cassazione dico anche che non mi pare una buona notizia nemmeno «il sensibile aumento delle iniziative per “violazione di norme processuali penali e civili”» o le «abbastanza elevate percentuali di procedure “per commissione di reati” e “per ritardi e negligenza nelle attività d’ufficio”». I ritardi non vanno sottovalutati: ricordo il caso, ad esempio, di un extracomunitario che rimase 15 mesi in più in carcere per colpa di un ritardo nel deposito degli atti da parte del magistrato. Ci vanno di mezzo le vite, per un ritardo. Ora però passiamo dal magistrato cialtrone a uno anche peggiore. Quando ho scritto L’Ultracasta, ho parlato anche di una carriera in cui automaticamente, dopo 28 anni dalla prima volta che si indossava la toga, e con qualsiasi incarico, si arrivava comunque all’apice per grado e stipendio. È come se un giornalista, appena assunto, sapesse a priori che dopo 28 anni di carriera arriverebbe alla qualifica, allo stipendio e al grado del direttore del Corriere della Sera. Quando in una professione si sa di andare avanti a prescindere dall’incarico e dalla bravura, le cose come funzionano? Uno giustamente se ne va a giocare a tennis. La carriera automatica è il primo de-motivo per cui non funziona la magistratura. Aggiungiamo  il fatto che gli esami per passare da un livello all’altro sono stati per decenni una farsa, e che la sezione disciplinare del Csm non funziona, e il gioco è fatto. La magistratura è un sistema talmente malato e marcio che va cambiato. Ci fu una sentenza del Csm, ricordo, che stabiliva il numero di ore lavorative di una toga: 1560 ore all’anno. Una media di 4, 2 ore al giorno cioè. Dopo ci credo che abbiamo milioni di processi arretrati. È davvero un’ultracasta: e direi proprio che lo è rimasta. Infatti dinanzi all’ennesima proposta che intacca un loro privilegio hanno ripreso a minacciare».

Ciononostante i giornalisti sono gli zerbini dei magistrati.

Snobbati i penalisti, i giornali prendono ordini dalle procure, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. A Venezia è in corso una discussione molto seria su tutti i problemi della Giustizia, alla quale partecipano centinaia di avvocati. Voi che leggete il Garantista questa cosa la sapete, ma se non leggeste il Garantista sareste all’oscuro di tutto. I giornali italiani non si sono occupati né punto né poco (per restare nel toscanissimo dialetto di regime…) della faccenda, che ritengono trascurabile (si sono distinti esclusivamente il Sole e il Messaggero che hanno pubblicato dei piccoli articoli). Faccio il giornalista da tanti anni, so – più o meno – come si riconosce una notizia, e nessuno può dirmi che un congresso nazionale delle Camere penali – al quale partecipa per altro sia il capo della magistratura (Sabelli Fioretti) sia il ministro della Giustizia (Orlando) e durante il quale discute la parte più impegnata dell’intellettualità giuridica italiana – che ha come tema fondamentale la riforma della Giustizia, cioè uno degli argomenti caldi della battaglia politica di questi giorni, e che avanza proposte, idee, analisi, e che contesta aspramente il governo, lo Stato, la linea dell’Anm, eccetera eccetera eccetera, beh nessuno può dirmi che tutto ciò non costituisca notizia giornalistica. E invece qui a Venezia, dove ieri sono intervenuti in assemblea i due autorevolissimi candidati a succedere a Valerio Spigarelli (che conclude il mandato) nella leadership dei penalisti italiani, non si vede l’ombra di un giornalista. Per dirne una: dove sta Liana Milella, che in fondo intervista quasi tutti i giorni Sabelli, e avrebbe potuto almeno prender spunto dal suo intervento a Venezia per prendergli al volo una intervista nuova? Non c’è, e Repubblica, giornale giudiziario per eccellenza, non ha trovato gli spiccioli per mandare neppure un inviato. Neanche il Corriere ha trovato gli spiccioli, né la Stampa, né tantomeno il Fatto, organo ufficiale dell’ala militante della magistratura, che – diciamo la verità – di questioni giudiziarie è di solito abbastanza ghiotto. Mi era capitato molto raramente di partecipare a un congresso con quasi 400 delegati e neppure un giornalista delle grandi testate. Penso che persino il mio amico Marco Ferrando, se tiene il congresso del suo partito comunista dei lavoratori, un po’ di giornalisti li raggruppa. E allora c’è una sola spiegazione. Si chiama così: boicottaggio. I giornali italiani hanno boicottato il congresso. E perché lo hanno fatto? Ve lo dico: a un congresso di avvocati si mandano i giornalisti della giudiziaria, ma – da circa 20 anni – i giornalisti giudiziari italiani sono – praticamente al gran completo – alle dipendenze dirette dalle Procure. Si iscrivono alla Procura territoriale, come una volta ci si iscriveva alla sezione di un partito. E da quella Procura prendono ordini, in modo militare, blindato. Ma le Procure, si sa, non gradiscono che i loro giornalisti seguano un congresso degli avvocati penalisti, perché le Procure non sopportano gli avvocati penalisti, e pensano che vadano messi in condizione di non nuocere. E i direttori dei giornali – e gli editori stessi – in gran parte dipendono dai loro giornalisti giudiziari – con un singolare rovesciamento delle gerarchie tradizionali – da loro prendono ordini e non sono in grado di darne. In nessun altro campo dell’informazione è così: certo non nella politica, o negli esteri, ma neppure nell’economia dove in fondo le cordate sono tante, sono tante le lobby, e nessuna – come nel caso della magistratura – è in grado di controllare tutti i giornali. Il risultato – che appare chiarissimo, plastico in queste giornate veneziane – è molto drammatico: l’Italia è l’unico paese dell’Occidente dove non esiste piena libertà di stampa. Noi ci preoccupavamo – giustamente – del conflitto di interessi e di Berlusconi. Ma Berlusconi è riuscito a condizionare solo una parte piccola della stampa italiana. L’Anm, il partito dei giudici, la controlla tutta. Tutta, come ai tempi del fascismo. Mi dispiace l’asprezza di questo paragone, ma è l’unico paragone possibile e reale.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di positività i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva pizzicata dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

E' possibile avere un po' meno corruzione? Si Chiede Bruno Manfellotto su "L'Espresso". Non bastano leggi più severe o l’Autorità di Cantone. Questo rimane il paese dell’impunità. Tocca alla politica fare pulizia al suo interno. È luogo comune o verità che l'Italia sia il paese più corrotto d'Europa? Insomma, ciò che continuiamo a vedere, da Roma mafiosa a Ischia mazzettara, passando per il Mose, l'Expo, e un Pd percorso da bande, è ordinario tasso di corruttela - che ci vuoi fa', è la politica - o straordinaria quotidianità criminale? E qualora record fosse, perché? Prima di tutto, però, un paio di osservazioni. A dispetto delle statistiche, in Italia c'è ancora tanta stampa libera che pubblica ogni notizia che trova senza guardare in faccia a nessuno. Voi che leggete "l'Espresso" lo sapete bene. E così, se si smazzetta a Procida o a Venezia, si scrive, magari talvolta rinunciando a quella prudenza necessaria quando si fa informazione: ma davanti a certe notizie forse è meglio rischiare che tacere, no? Anche i magistrati fanno il loro mestiere e dispongono di uno strumento formidabile, le intercettazioni, capaci di svelare mondi inimmaginabili. Pure qui ci sono abusi, si sa, e grande è la responsabilità di pm e giornalisti nel distinguere il grano dal loglio senza calpestare i diritti di nessuno. E certo si può sbagliare, ma non è un caso che a ogni governo - e quello di Matteo Renzi non fa eccezione - corrisponda una riforma della giustizia che, immancabilmente, mette in discussione poteri dei magistrati e intercettazioni. Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, le vorrebbe addirittura abolire. Come se nascondere i reati significasse cancellarli, un po' come fanno i bambini quando si tappano gli occhi convinti che così nessuno li veda. Già, ma perché la corruzione è così diffusa? Perché la politica ha perso le motivazioni che la muovono, ha risposto Marcello Veneziani in una lettera al "Corriere della Sera", quelle motivazioni politiche, civili e religiose che formano il sostrato di ogni civiltà. E con queste, ha aggiunto, si sono esaurite anche le spinte più personali, cioè l’ambizione di distinguersi e la voglia di veder riconosciuti i propri meriti. Infatti la corruzione dilaga lì dove non c'è meritocrazia. Osservazione condivisibile, ma allora bisogna chiedersi come si è arrivati a questa generale demotivazione politica e personale. Intendiamoci, che la corruzione possa essere sconfitta è impensabile, essa è insita nella natura umana e da che mondo è mondo appartiene alla politica, perfino come strumento necessario a conseguire i propri obiettivi. Ma da noi non è più questo. Già trent'anni fa Rino Formica, socialista, lamentava che «il convento è povero, ma i frati sono ricchi»; oggi, addirittura, si comincia a fare politica solo per affermare il proprio personale potere e, appunto, arricchirsi. Tra le tante cause del decadimento c'è, prima fra tutte, la mancata selezione della classe politica, viziata da liste elettorali bloccate - che riservano il potere di scelta a pochi ras - e da partiti squagliati, più che liquidi. E l'idea che la politica appartenga dunque a ristrette oligarchie autoreferenziali demotiva e allontana gli uomini di buona volontà. Devastante è stato poi il cattivo esempio di leader e dirigenti, anche di antica militanza, soliti camminare sul filo del rasoio, bravi a muoversi con arroganza in un'area grigia dove favoritismi e trattamenti di riguardo si mescolano a finanziamenti occulti, appalti pilotati, tangenti in natura. L'idea generalizzata che così fan tutti e che non ci sia altro modo per emergere, trovare un lavoro, avere successo ha prodotto incredibili fenomeni imitativi a tutti i livelli e cancellato quelle forme di controllo sociale con le quali ogni comunità pone un argine al degrado morale e civile. E non basta. Se qualche passo avanti è stato fatto con l'approvazione della legge Severino, con l'istituzione di un'autorità anticorruzione (Raffaele Cantone) e il ripristino del falso in bilancio, questo ahimè è ancora il paese non della certezza della pena, ma dell'impunità: come riassume Piercamillo Davigo, una volta si minacciava «ti faccio causa», oggi la sfida è «fammi causa». Non c'è un giudice a Berlino. Facile che, con tali premesse, prevalgano cinismo e rassegnazione. E però non c'è altro modo per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni che impegnarsi a fondo per arginare il fenomeno. Prima che siano i corrotti a rottamare gli innovatori.

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

Indagare i ministri è diventato impossibile. Così una legge vergogna difende la Casta. Tremonti e Matteoli sono sotto accusa per corruzione, ma una norma soccorre i politici di governo. E le uniche condanne risalgono a Tangentopoli, scrive Paolo Biondani su "L'Espresso". Altero Matteoli e Giulio Tremonti Vietato indagare sulla casta di governo. Nell’Italia saccheggiata da una corruzione enorme, c'è uno scudo legale che protegge proprio i politici con più poteri: i ministri che controllano le casse centrali della spesa pubblica. In questi mesi di crisi e lotta agli sprechi, i magistrati di Venezia e di Milano hanno rimesso in moto la speciale procedura per i reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Giulio Tremonti e Altero Matteoli, esponenti di spicco dei governi di Silvio Berlusconi, sono accusati di corruzione. Come tutti gli indagati, fino a prova contraria vanno considerati innocenti. Anche perché la legge in vigore non impone più rigore e più controlli per chi conta di più, ma il contrario: come parlamentari, non possono essere intercettati, perquisiti e tantomeno arrestati; e come ministri, godono di privilegi speciali, tutti per loro. Che nella storia italiana hanno quasi sempre salvato i governanti. I condannati per reati ministeriali sono pochissimi. E gli ultimi casi risalgono ai tempi di Mani Pulite. Prima e dopo quel periodo eccezionale, decine di accuse sono state azzerate da un veto politico: stop alle indagini, con tanti saluti alla giustizia. Le inchieste sui ministri sono regolate da una disciplina che alcuni giuristi paragonano a un «fossile legale» dei tempi del vecchio codice: la legge costituzionale numero 1 del 16 gennaio 1989. «È una normativa tecnicamente incredibile: sembra fatta apposta per garantire l'impunità», sintetizza uno dei magistrati che hanno condotto le nuove inchieste. Il privilegio più vistoso è l'autorizzazione a procedere: il ministro può essere processato solo con il permesso della Camera, se è un onorevole, o del Senato. Dietro questo muro legale, trovano riparo anche i coimputati di ogni sorta: imprenditori, burocrati, faccendieri, eventuali complici mafiosi. Se il Parlamento nega l'autorizzazione, si salvano tutti. «Una vera assurdità tecnica», secondo diversi magistrati, è il comma di legge che regola l'avvio dell'inchiesta. Quando una Procura scopre un ipotetico reato ministeriale, non può fare niente: «omessa ogni indagine», come prescrive l'articolo 6, i pm devono liberarsi del fascicolo «dandone immediata comunicazione» a tutti i sospettati. Per i normali cittadini le Procure possono, anzi devono tenere segreta l'inchiesta almeno nei primi sei mesi, per evitare che l'indagato possa far sparire i soldi o inquinare le prove. Per i ministri e i loro complici, la regola è rovesciata: preavviso immediato a tutti gli indagabili, fosse anche un caso di omicidio, mafia o droga. Messi così in allarme i sospettati, l'inchiesta va affidata a tre giudici estratti a sorte tra tutti i magistrati del distretto, anche se non hanno mai fatto indagini, riuniti nel cosiddetto tribunale dei ministri: un collegio che ricorda i vecchi giudici istruttori, aboliti da un quarto di secolo. Il collegio ha solo 90 giorni per concludere tutta l'inchiesta, prorogabili di altri 60 al massimo. In tempi così brevi è praticamente impossibile fare rogatorie, ad esempio, per trovare l'eventuale bottino nascosto all'estero. Alla fine, se il tribunale archivia, il verdetto è «inoppugnabile». Se invece chiede l'autorizzazione al processo, il Parlamento può negarla anche se il reato è provato, «qualora reputi che l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato»: un alibi politico «insindacabile», per cui regge anche se è falso. Con regole del genere, non meraviglia che i ministri condannati si riducano a pochi sfortunati. Il primo e per anni unico fu Mario Tanassi, socialdemocratico, condannato a due anni e quattro mesi, il primo marzo 1979, dalla Corte Costituzionale con il vecchio rito: una sola sentenza autorevolissima e inappellabile. Era il fronte italiano dello scandalo Lockheed, innescato da un'inchiesta degli Stati Uniti che il nostro Paese non poteva ignorare: come ministro della Difesa, Tanassi fu corrotto con 560 milioni di lire per sbloccare l'acquisto di 14 aerei militari costosissimi. La legge del 1989 è nata proprio per garantire a ministri come lui i soliti tre gradi di giudizio. E così è toccato al tribunale dei ministri, appena creato, indagare sulle "carceri d'oro": le tangenti confessate a Milano, dopo l'arresto, dall'imprenditore Bruno De Mico. Il suo processo si è chiuso nel 1994 con la condanna definitiva a cinque anni, per concussione, dell'ex ministro Franco Nicolazzi, anche lui del Psdi, che aveva intascato 2,5 miliardi di lire. In quel periodo era diventato normale concedere l'autorizzazione a procedere, che nel 1993, al culmine di Tangentopoli, è stata abolita per i semplici parlamentari. Tra i ministri, il condannato più illustre è Francesco De Lorenzo, liberale, titolare della sanità dal 1989 al 1992, condannato a cinque anni e quattro mesi per decine di tangenti, per un totale accertato di 4,5 milioni di euro, sborsate dalle industrie farmaceutiche da lui favorite. Dopo Mani Pulite, invece, le indagini sui governi sembrano fermarsi. Per tutto il ventennio dominato da Berlusconi, la procedura per i reati ministeriali diventa un muro di gomma. Alcune procure archiviano sul nascere decine di fascicoli. E quando il tribunale dei ministri conferma qualche accusa, interviene il Parlamento. Tra i casi più clamorosi spicca il salvataggio politico di Pietro Lunardi, l'ex ministro delle grandi opere, accusato di corruzione con il cardinale Crescenzio Sepe. Nel 2010 il tribunale dei ministri conclude che Lunardi ha acquistato a prezzo bassissimo un palazzo di lusso dall’ente religioso Propaganda Fide, che intanto otteneva cinque milioni di euro dal governo«in assoluta carenza dei presupposti». I magistrati invocano per quattro volte l'autorizzazione a procedere, ma il parlamento le blocca una dopo l'altra chiedendo sempre «approfondimenti». Nello stesso periodo beneficia dello stop politico al processo anche il ministro Matteoli, accusato di favoreggiamento per aver rivelato a un amico prefetto che era sotto intercettazione per tangenti su speculazioni edilizie all'Isola d'Elba. Dopo la bocciatura del lodo Alfano, (che avrebbe sospeso i processi al premier) l'immunità ministeriale è stata invocata pure nel caso Ruby: Berlusconi, secondo la sua maggioranza, telefonò in questura per far rilasciare la minorenne marocchina agendo da premier, perché credeva veramente che fosse la nipote di Mubarak. Quindi la Camera ha votato un conflitto di attribuzioni, ma la Corte Costituzionale, il 12 aprile 2012, ha dato ragione alla Procura di Milano, scrivendo che «era obbligata a indagare». Pochi ricordano che anche Giulio Andreotti, dopo una carriera costellata di mancate autorizzazioni a procedere, tentò di sottrarsi allo storico processo di Palermo per complicità con la mafia (poi chiuso con la prescrizione fino al 1980 e l'assoluzione per gli anni successivi) accampando la competenza del tribunale dei ministri di Roma. Ma i giudici hanno replicato che Andreotti era sotto accusa solo come capo-corrente della Dc. Ora si ricomincia da due. La nuova Camera ha già autorizzato il processo a Matteoli: i padroni del Mose di Venezia hanno confessato di avergli versato 550 mila euro, oltre a dover inserire una sua società, intestata secondo l'accusa a un prestanome, nei maxi-finanziamenti per disinquinare Porto Marghera. E al Senato pende la richiesta di procedere contro Tremonti per una presunta corruzione targata Finmeccanica: 2,6 milioni di euro mascherati da parcella per il suo studio professionale. Il tribunale dei ministri ha firmato un atto d’accusa che sembra quasi una sentenza di condanna. Ma l’affare è del 2008/2009, per cui Tremonti potrà comunque approfittare della vecchia, cara legge sulla prescrizione.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

Onorevole inquisito? Non c'è fretta. La melina delle Camere che rallenta i giudici. Due anni di attesa per le intercettazioni di Verdini. Quasi uno per quelle dell'Ncd Azzollini. Sei mesi (finora) per l'autorizzazione nei confronti dell'ex ministro Matteoli e tempi ancora vaghi per le offese di Calderoli alla Kyenge. Quando è indagato un suo componente, il Parlamento se la prende comoda, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Paragonare un ministro di origini congolesi a un orango è un'opinione insindacabile espressa nell'esercizio delle funzioni parlamentari? Comunque la pensiate, sappiate ci vuole molto tempo prima di stabilirlo. Pure se, dopo un'istruttoria durata settimane e settimane, per decidere ci vorrebbe assai poco. E per autorizzare la magistratura a procedere nei confronti di un ex ministro accusato di aver intascato mezzo milione di euro? Possono volerci anche sei mesi. Troppo? Sciocchezze, perché come niente si può arrivare anche a un anno o due di attesa. Parafrasando Bogart, sono i tempi dell'immunità parlamentare, bellezza. Un istituto pensato per proteggere deputati e senatori dal rischio di intenti persecutori della magistratura, trasformatosi col tempo in un tribunale preventivo preoccupato più che altro di salvarli dai processi. Ma a regalare anzitempo generose assoluzioni non c'è solo questo scudo giudiziario, che ha trasformato l'immunità in impunità e portato a respingere nella Seconda repubblica il 90 per cento delle richieste di arresto avanzate dai giudici . Prima ancora di arrivare a un verdetto, qualunque sia, si assiste infatti puntualmente a una sorta di "melina" calcistica che dilata a dismisura i tempi. Il caso di Denis Verdini è emblematico: il Parlamento ci ha messo due anni prima di concedere l'uso delle sue intercettazioni nell'inchiesta sulla P4, in cui è accusato di corruzione. Era maggio 2012 quando il gup Cinzia Parasporo ha trasmesso alla Camera la richiesta di usare una trentina di telefonate captate indirettamente tra l'allora deputato, che in quanto tale non poteva essere intercettato, e la "cricca" delle Grandi opere (Angelo Balducci, Fabio De Santis e Riccardo Fusi). La Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio aveva anche espresso parere positivo e nel giro di un mese era tutto pronto. Bastava solo trovare uno spazio nel calendario dei lavori d'Aula. Invece, nonostante ci fossero mesi e mesi a disposizione, niente da fare. Risultato: la legislatura è finita, Verdini è stato eletto senatore e ad aprile 2013 il gup ha dovuto di nuovo trasmettere gli atti, stavolta a Palazzo Madama. Dove, come al gioco dell'oca, si è ripartiti da zero. E prima del via libera è trascorso un altro anno. Grosso modo lo stesso lasso di tempo necessario a rispondere "no" al gip di Trani che chiedeva di usare una decina di intercettazioni indirette del senatore Ncd Antonio Azzollini, inquisito per la presunta truffa dell'ampliamento del porto di Molfetta . Una vicenda che mostra la mera ragion politica che si cela a volte dietro alcune scelte: per salvare il potente parlamentare alfaniano e in questo modo la stabilità del governo, con una decisione senza precedenti il Pd - come ha rivelato l'Espresso - ha addirittura convocato una riunione d'emergenza. E dire che in Giunta si era già visto di tutto: 11 sedute in 7 mesi, due richieste di integrazioni istruttorie chieste al giudice e altrettante audizioni del senatore, perfino una disputa sulle date in cui erano iniziati gli ascolti. Alla fine, dopo dieci mesi di passione, il Senato ha negato l’autorizzazione: era chiaro che mettendo sotto controllo i telefoni degli altri indagati i pm avrebbero intercettato anche il parlamentare, ha motivato nella sua relazione il senatore Pd Claudio Moscardelli. Ma se quelli di Verdini e Azzollini sono i più eclatanti, i casi sono numerosissimi. Sono passati sei mesi, ad esempio, da quando è arrivata in Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, che secondo i pm dell’inchiesta sul Mose avrebbe ricevuto tangenti per 550 mila euro fra il 2001 e il 2012. Sarebbe bastata qualche ora per votare, visto che la relazione istruttoria sulla vicenda è pronta dal 10 febbraio. Solo che per settimane nessuno si è preoccupato di farla mettere all'ordine del giorno dell’Aula. Che si è occupata di tutt’altro, fra decreti in scadenza da convertire, emergenze, mozioni varie e perfino la richiesta di dimissioni di fuoriusciti del Movimento cinque stelle. Adesso, dopo qualche pressing informale, il presidente Piero Grasso ha finalmente fissato la data: il 2 aprile. Intanto, nel corso di un'audizione sugli appalti, si è assistito al paradosso di un presidente di commissione accusato di corruzione (Matteoli) seduto accanto al presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Ancora tempi lunghi si prevedono invece per gli epiteti di Roberto Calderoli rivolti nel luglio 2013 all’allora ministro dell’Integrazione: «Ogni tanto, smanettando con internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto». Diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale, secondo i pm bergamaschi Maria Cristina Rota e Gianluigi Dettori. Ma non per la Giunta di Palazzo Madama, che col voto determinante di alcuni senatori Pd si è espressa per lo stop al processo. Adesso resta da vedere se, dopo le polemiche, l'Aula ( e soprattutto il Pd ) confermerà o ribalterà il parere espresso. Intanto le cose vanno per le lunghe: la relazione, affidata al forzista Lucio Malan, è pronta dal 25 febbraio ma la questione non ha ancora trovato posto nel calendario dei lavori.. «Calderoli - vi si legge - ha utilizzato, all'interno di un articolato intervento sull'immigrazione fortemente critico, un'espressione forte, ma fatta esclusivamente come battuta ad effetto, visto che il contesto, oltre che politico, era anche ludico e cioè quello di una festa estiva organizzata». Insomma, uno scherzo. Quindi niente processo. Non sono state poste all'ordine del giorno nemmeno le 13 telefonate e 68 sms dell’ex senatore Pd Antonio Papania che secondo la Procura di Trapani proverebbero la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: tra il 2010 e il 2012 l’allora parlamentare avrebbe ricevuto “in più occasioni utilità consistite nell’assunzione di numerose persone a lui gradite e da lui segnalate”. Ma la vicenda è oggetto di un ping pong che si trascina da mesi. Le carte sono arrivate a Palazzo Madama a giugno ma se ne è iniziato a discutere solo a ottobre. A dicembre il caso è approdato in Aula ma per una questione formale il fascicolo è stato rimandato in Giunta. Sono trascorsi altri tre mesi e da qualche settimana è tutto pronto per il voto dell’Assemblea. Ma tutto è ancora fermo. Va riconosciuto che quando si tratta di arrestare un parlamentare le Camere riescono a essere più celeri: per acconsentire a mandare dietro le sbarre i deputati Giancarlo Galan (Forza Italia) e Francantonio Genovese (Pd), come chiesto dai giudici, ci sono voluti “solo” due mesi. In ogni caso moltissimo se si considerano le motivazioni che richiedono la carcerazione: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Insomma, se i rischi sono tali, a ben vedere neppure otto settimane sono così poche. Tanto più che, a giudicare dalle date, nemmeno in queste circostanza di estrema urgenza il Parlamento pare essere stato particolarmente solerte nella rispondere alla magistratura. La relazione che concedeva l'arresto di Galan per corruzione, ad esempio, è rimasta ferma una dozzina di giorni prima di arrivare in Aula: dal 10 al 22 luglio 2014. Nel caso di Genovese - accusato di peculato, truffa aggravata, riciclaggio, emissione di fatture false e associazione a delinquere - le carte sono arrivate da Messina il 18 marzo 2014 ma la Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio ha iniziato l’esame solo il 26 e la seconda seduta si è tenuta il 10 aprile, dopo altre due settimane. Poi, siccome c'è stata Pasqua di mezzo, altre due settimane di stop. Casi eccezionali? Non proprio. Nella scorsa legislatura, quando fu raggiunto il record di 11 richieste di arresto nei confronti di parlamentari, i tempi sono stati grosso modo gli stessi. Nel 2008 ci vollero tre mesi e mezzo prima di votare (contro) la richiesta di domiciliari per il pidiellino Nicola Di Girolamo. E oltre due mesi prima di respingere l'arresto dell'imprenditore Antonio Angelucci, di Vincenzo Nespoli, del consigliere del ministro Tremonti, Marco Milanese, e consentire quello di Alfonso Papa (tutti del Pdl). Due mesi per arrestare Alberto Tedesco (Pd) e un mese e mezzo per mandare ai domiciliari Sergio De Gregorio (Pdl) e in carcere Luigi Lusi (Pd). Unica eccezione, quella del deputato Pd Salvatore Margiotta: nel 2008 la Camera impiegò appena due giorni per respingere la richiesta di arresti domiciliari, avanzata dal pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta per la realizzazione del Centro oli della Total in Basilicata. Per quelle accuse (turbativa d’asta e corruzione) lo scorso dicembre il parlamentare dem, adesso senatore, è stato condannato in Appello a un anno e sei mesi.

Casta, così l'immunità parlamentare è diventata lo scudo contro arresti e processi. Dal 1994 Montecitorio e Palazzo Madama hanno respinto il 90 per cento delle richieste di carcerazione o di domiciliari avanzate dai giudici. E negato spesso l’uso di intercettazioni e tabulati, sempre per un presunto fumus persecutionis nelle indagini. Una “protezione” che con il nuovo Senato sarà estesa a sindaci e consiglieri regionali, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Immunità anche per i “nuovi” senatori. Dopo critiche, proteste, smentite e pressioni varie, alla fine lo scudo giudiziario sarà esteso anche ai sindaci e ai consiglieri regionali che approderanno a Palazzo Madama. E come avviene per i deputati, servirà un’autorizzazione per arrestarli, intercettarli ed effettuare perquisizioni nei loro riguardi. Eppure, se vorrà evitare che finisca col lancio di monetine come durante Tangentopoli, il governo farebbe bene ad approfittare della riforma costituzionale per congegnare un sistema che eviti gli abusi degli ultimi due decenni. Senza contare il caso Galan , in merito al quale Montecitorio non si è ancora espresso, su 31 richieste di arresto avanzate dai giudici nell’arco di questo ventennio - ha ricostruito l’Espresso - 28 sono state respinte. Nove volte su dieci, in pratica, Camera e Senato hanno ritenuto viziate da fumus persecutionis le istanze della magistratura di mandare in carcere o ai domiciliari un parlamentare. Un dato che mostra come la riforma dell’articolo 68 della Costituzione varata nel 1993 sull’onda di Mani pulite non sia servita a granché. Così se nella Prima Repubblica, senza il via libera della Camera di appartenenza, un onorevole non poteva essere inquisito e nemmeno arrestato dopo una condanna definitiva, dal ’94 in poi l’immunità ha continuato a rappresentare un formidabile scudo dalle vicende giudiziarie. Peraltro con una significativa recrudescenza negli ultimi anni, visto che oltre un terzo delle richieste di arresto sono state inoltrate nella scorsa legislatura (2008-2013). Il berlusconiano Alfonso Papa e i democratici Luigi Lusi e Francantonio Genovese , arrestati negli ultimi tre anni, sono gli unici a essere finiti dietro le sbarre. Ma fino al 2011 ogni richiesta è stata puntualmente respinta. Spesso grazie anche al voto segreto. Come nel caso del deputato Pdl Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica: secondo l’istruttoria svolta dai deputati della Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio, l’onorevole andava spedito in carcere come chiedeva il gip di Napoli. Ma nel segreto dell’urna, nel 2009 l’Aula lo ha graziato , impedendo anche l’utilizzo di alcune sue intercettazioni telefoniche. Idem nel 2011 per Alberto Tedesco (Pd) e nel 2012 per il senatore Sergio De Gregorio (Pdl), accusato di truffa e false fatturazioni nell’inchiesta sui fondi pubblici all’editoria e per il quale erano stati chiesti i domiciliari. In altri casi, invece, il Parlamento si è trasformato in una sorta di Corte di Cassazione. E anziché limitarsi ad appurare un eventuale intento persecutorio dei pm (come previsto dalla legge), si è spinto a dare giudizi di merito sulle inchieste. Nel 1997, ad esempio, il deputato Carmelo Carrara (Ccd-Cdu), relatore della richiesta d’arresto di Cesare Previti - salvato dal carcere nell’inchiesta Imi-Sir, in cui l’avvocato fu poi condannato per corruzione in atti giudiziari - ravvisava «un’esasperazione accusatoria del gip di Milano». Due anni dopo anche il relatore Filippo Berselli (An) motivò il suo “no” alla richiesta di carcerazione nei confronti di Marcello Dell’Utri per la «evidente sproporzione tra la misura cautelare adottata e i reati contestati», ovvero tentata estorsione e calunnia. Quando il gip di Bari nel 2006 chiese i domiciliari per Raffaele Fitto nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità, la Giunta della Camera stabilì all’unanimità che il pericolo di reiterazione del reato “non appare motivato”. E quindi l’ex governatore pugliese - poi condannato a 4 anni in primo grado -  doveva restare libero. La richiesta di carcerazione nei confronti del deputato Udc Remo Di Giandomenico, anche lui accusato di corruzione nel 2006, era invece “connotata da fumus persecutionis, specie in rapporto all’attualità delle esigenze cautelari”. E siccome l’onorevole in una sua memoria difensiva alla Giunta aveva “offerto concreti elementi di contestazione nei confronti delle accuse”, “si affievolisce la esigenza custodiale”. Tradotto: niente arresto. Il fumo della persecuzione Montecitorio l’aveva ravvisato anche nel 1998, nelle due diverse richieste di carcerazione dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito (poi condannato sia per l’una che l’ altra vicenda): entrambe furono infatti respinte. Si dirà: se l’inchiesta è debole, è comprensibile una levata di scudi. Eppure nemmeno un’indagine riconosciuta come fondata dagli stessi onorevoli ha portato a un esito diverso. Quando nel 2006 il gip di Roma chiese il carcere per il deputato Giorgio Simeoni (Forza Italia) per il pericolo d'inquinamento delle prove in un’inchiesta sulla sanità, la maggioranza dei suoi colleghi in Giunta osservarono che “il pericolo mancherebbe perché il quadro indiziario è tutto sommato abbastanza solido”. Risultato: l’autorizzazione a procedere non fu concessa nemmeno in questo caso. Il diniego agli arresti non è l’unico aspetto significativo. Grosso modo una volta su due (in totale 26 su 58), il Parlamento ha negato anche l’uso di uno strumento fondamentale d’indagine come le intercettazioni. Ma le Camere non hanno solo impedito l’utilizzo delle conversazioni captate indirettamente. In qualche caso hanno negato perfino la semplice acquisizione dei tabulati, che consentono di ricostruire le chiamate ricevute ed effettuate, per “tutelare la sfera di riservatezza del parlamentare”. Pure l’insindacabilità, vero cuore dell’immunità, si è prestata a qualche interpretazione di manica assai larga. Si tratta dello “scudo” nei confronti delle opinioni espresse dagli eletti, una prerogativa fondamentale per assicurare la loro indipendenza e autonomia senza il timore di essere trascinati in tribunale. Su oltre 700 casi, il 92 per cento delle volte Montecitorio e Palazzo Madama hanno ritenuto che i giudizi di deputati e senatori sfociati in una causa per diffamazione erano stati espressi nell’esercizio delle funzioni parlamentari, come prevede la legge. Pertanto gli onorevoli non erano processabili. Un “ombrello” sotto il quale - solo per citare alcuni degli episodi più celebri - sono finite le critiche di Francesco Storace a Giorgio Napolitano (dalla «disdicevole storia personale», la «evidente faziosità istituzionale» e «indegno di una carica usurpata a maggioranza»), le accuse di Maurizio Gasparri a John Woodcock («un bizzarro pm, che spara a vanvera accuse ridicole») oppure le intemerate di Vittorio Sgarbi contro i pm del pool di Milano («vanno processati ed arrestati: sono un’associazione a delinquere con libertà di uccidere che mira al sovvertimento dell'ordine democratico»). Proprio Sgarbi, peraltro, in questi anni si è dimostrato una sorta di record-man: oltre 150 delibere di insindacabilità (un quinto del totale) hanno riguardato proprio lui. Un dilagare generalizzato contestato dalla Corte costituzionale, che in questi 20 anni - a seguito di conflitti di attribuzione sollevati dai giudici - ha annullato 84 concessioni di immunità: per la Consulta si trattava di affermazioni che nulla avevano a vedere con l’attività parlamentare. E quindi deputati e senatori andavano processati come normali cittadini.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

Mafia: pm Teresi, nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli. L'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere ricevere vantaggi che sono tipici di persona senza scrupoli". Lo denuncia il 30/04/2015 all'Adnkronos il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Probabilmente esiste davvero la mafia dell'antimafia - dice il magistrato a margine della commemorazione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo - Ormai esistono non solo rischi ma anche concreti esempi di infiltrazioni nella cultura e nella pratica giornaliera dell'antimafia che è fatto da persone che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere emergere e potere ricevere dei vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli". "Non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste certa", aggiunge. Poi, parlando dell'ex segretario del Pci La Torre ucciso il 30 aprile di 33 anni fa, l'aggiunto dice: "Pio La Torre è stato un pioniere non solo della lotta alla mafia, ma anche della lotta alla miseria e alla vera lotta di classe in Sicilia - dice - La questione meridionale scissa dalla questione mafiosa era un esercizio culturale inutile. Lui ha intuito che erano la stessa cosa e l'ha pagata con la vita, perché ha individuato la mafia come la vera responsabile del distacco della Sicilia dal resto della crescita della nazione. Quindi, un esempio di capacità di vedere avanti veramente straordinario". "Ora si parla più di lotta alla mafia come esercizio di abitudine che andrebbe rivisto e si parla meno di questione meridionale, cioè abbiamo di nuovo scisso le due cose - aggiunge Teresi - Continuiamo a fare finta che la storia non esista e che le due vicende siano separate. Dobbiamo capire che la questione economica siciliana è questione di mafia".

Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli", scrive Vincenzo Vitale su "Il Garantista". In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia. Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" - ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è -né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo.

Pietrangelo Buttafuoco su “QTSicilia Magazine”: "Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia". Ma Buona Pasqua a Tutti. Come solitamente facciamo nelle prossimità delle festività, cogliamo l'occasione nell'augurare Buona Pasqua ai lettori, per sottolineare e risaltare un tema attuale che assedia la Sicilia.Stavolta non scriviamo noi ma vogliamo riportare un interessante pezzo scritto, con maestria solita, da Pietrangelo Buttafuoco su "Il Foglio" di stamane. Il tema è a noi caro visto che lo abbiamo più volte affrontato con determinazione, affermando il nostro pensiero che non è soltanto intellettuale e lontano dalla realtà, bensì è la testimonianza di chi vive, osserva, analizza la società siciliana che deve necessariamente scrollarsi di dosso la teoria bizzarra delle patenti dell'antimafia, metodo usato per la lotta politica e non per la lotta alla mafia. Detto ciò leggiamo l'imperdibile Pietrangelo Buttafuoco. "Due sono i tipi di mafia: la mafia e la mafia dell’antimafia. Non avendo obblighi di diplomazia, ecco, la dico chiara. L’esito della lotta alla mafia, al netto del teatrino cui s’è ridotta, è quello di una tenaglia stretta intorno alla Sicilia.Due sono i tipi di mafia e l’unica fabbrica operosa di Sicilia è quella dell’antimafia fatta mafia. E’ la madre di tutte le imposture. E’, appunto, un teatrino la cui regia è la malafede e il cui pezzo forte – orgoglio del cartellone – è la pantomima degli inganni. Uno spettacolo grottesco, questo della tenaglia che avvita e svita, consumato in queste giornate di convulsione del potere regionale e, in rimbalzo romano, nella preparazione delle liste per le Europee dove sia gli assessori chiamati nella giunta di governo, sia i candidati del Pd, tutti duri e tutti puri, hanno contrabbandato ideali e calunnie, ricatti e anatemi, lasciando inerme e sconfitta la verità. E’ stata tutta una gara di tutti contro tutti, quella di questi giorni. Tutti a sfregiarsi reciprocamente secondo il tasso di antimafietà riducendo la rivoluzione del governatore Rosario Crocetta – una rivoluzione di fatui annunci – a una macchietta. Una favola, dunque. La cui morale, purtroppo, è lercia. Il pegno di sangue di tanti innocenti è diventato pretesto di un mercato per le carriere dei vivi e il destino tutto ribaltato di una bugia apparecchiata nelle buone intenzioni – quella di essersi assicurato il credito dovuto ai rivoluzionari, ai giusti, ai difensori della legalità perpetuando la fogna del potere – s’è svelata in un contrappasso: Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che sfasciò l’antimafia. L'ex Pm Nicolò Marino, assessore dell’attuale governatore fino a qualche settimana fa, è stato tolto di mezzo, causa incomprensioni in tema di energia. Incomprensioni senza riparo, vista la delicatezza della questione, quella della gestione dei rifiuti. E tanto delicata deve essere stata la questione da far dimenticare a Crocetta quando Marino indagò a suo proposito. Indagò e archiviò. Per comprovata innocenza, manco a dirlo.L’ex Pm, pluristellato in materia di antimafia, intervistato da Livesicilia ha letteralmente scorticato il governatore. Lo ha spogliato di tutti i paramenti, quelli del rito trito e accettato dell’antimafia naturalmente. Un’intemerata che lasciato attoniti quanti, ancora qualche settimana prima, vedevano nell’uno e nell’altro, la sacra unione dei rivoluzionari, dei giusti e dei difensori della legalità. Tra le tante parole dette da Marino ad Accursio Sabella che lo intervistava, una frase, una, ha turbato più di tutte: “Dopo la vergognosa vicenda Humanitas ho dovuto formalizzare la richiesta del rispetto delle regole”. Laddove per vicenda vergognosa s’intenda il caso di una delibera per l’ampliamento dei posti letto di una clinica privata, l’Humanitas. Una delibera fatta firmare nottetempo, nelle ferie d’estate, a Lucia Borsellino, assessore nel delicato assessorato della Sanità e che di cognome, appunto, fa “Borsellino”. Una delibera che solo grazie alle rivelazioni della stampa venne ridimensionata ad errore, forse un lapsus, certamente gettata nella fogna di quel potere di Sicilia, tanto micragnoso quanto inesorabile.Oltre il sipario, la tenaglia. Questo è il fatto. A disposizione di furbissimi prestidigitatori della legalità per cui se oggi va bene Caterina Chinnici candidata alle europee per il Pd – la stessa, figlia di Rocco, il magistrato trucidato dalla mafia – appena ieri stava andando a male. Stava nella giunta di governo di Raffaele Lombardo, condannato in concorso esterno. Per mafia ovviamente. E Lombardo però – oltre alla Chinnici – è anche quello che ha trasmesso a Crocetta, il suo successore, massimo campione di antimafietà per come è notorio, il regista politico che ha assicurato la continuità: Beppe Lumia, un altro campione di antimafietà. Anzi, di più. Il già presidente della Commisione parlamentare antimafia è il maestro concertatore, compositore, arrangiatore e direttore di orchestra di ben due governi siciliani. Quello del condannato, innanzitutto. Di Lombardo, infatti, Lumia si fece garante. E gli affidò – a mo’ di coroncina d’aglio sul vampiro – tutta un agghirlandar di magistrati in giunta. Garante e ancora qualcosa di più, Lumia, lo è dell’attuale governatore. Con perizia riuscì a mettere al posto di Massimo Russo, un altro magistrato, assessore della delicatissima Sanità con Lombardo, la suddetta Lucia Borsellino, con pazienza ha poi seguito – passo dopo passo – il periglioso percorso del governo di Crocetta, prima e dopo il rimpasto, non riuscendo però a farsi candidare alle Europee avendo avuto contro “non un colluso e contiguo comunista da mascariare”, per dirla con Francesco Foresta, ma appunto la Chinnici, degno deus ex machina del più inatteso colpo di scena in cotanto teatro. Nella tenaglia, lo spettacolo. Anzi, il baraccone. E siccome la rivoluzione è pur sempre redditizia, siccome val bene un tradimento, un disconoscimento o un ripudio, tutto quel mettersi in casa un Antonio Fiumefreddo oggi, per poi scaricarlo domani (uno su cui Il Fatto prima e poi Repubblica hanno però svelato essere l'avvocato difensore della “famiglia Ercolano”), non è tanto una prova di pragmatismo di Crocetta, piuttosto un reiterare il pasticcio. Fiumefreddo, infatti, ha perfino la patente d’antimafia, da soprintendente del Massimo Bellini, a Catania, issò sulla facciata del teatro i ritratti di Matteo Messina Denaro per additarlo a eterno monito di wanted e Crocetta che adora le eccentricità, improvvisa, impapocchia, fa giochi di prestigio, allude e illude perché – appunto, appunto – la fase estrema dell’antimafia non è più il professionismo, bensì l’illusionismo. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Vista la malaparata, nel fare il suo rimpasto, il governatore ha ripiegato su altre personalità. Perfino d’importazione, come il dr. Salvatore Calleri, da Firenze. “Un allievo”, si legge nel curriculum, “di Antonino Caponnetto”. Dopo di che, certo, il cambiamento, evocato da Totò Cardinale, “è stato bloccato...” L’ex ministro nisseno è il leader del Drs, una sigla non ben definita, è una sorta di pustola del Pd, una delle tante casette a uso dei transfughi. E’ il partito del Fiumefreddo di cui sopra, costretto alle dimissioni, frastornato al punto di scrivere sul proprio sito web una lettera intrisa di allusioni al Golgota, ai ferri della Passione, al Crucifige di un agnello – qual è lui – il cui martirio comprova il cambiamento di Sicilia definitivamente bloccato. E così sia. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Nel frattempo s’è tentato di mettere Antonio Ingroia al posto del reprobo Marino. L’uomo simbolo di tutti i simboli è, si sa, momentaneamente sott’utilizzato. Al momento, infatti, è commissario della disciolta provincia di Trapani. Non è propriamente commissario di Pubblica Sicurezza ma ha comunque il preciso compito di catturare Matteo Messina Denaro, il latitante dei latitanti e Crocetta che lo vorrebbe con sé, in qualunque ruolo, pure in quello di un Mastro Lindo risanatore delle partecipate regionali, compatisce quell’amico così sfortunato che retrocede sempre di più nella parodia e magari teme di vederlo finire a cantare tra i tavoli di “Pizza & pizzini”, il nuovo ristorante di Massimuccio Ciancimino, figlio di don Vito, star di Servizio pubblico, la trasmissione di Michele Santoro dove a suo tempo, l’ex Pm, portandoselo a braccetto per farlo applaudire dal pubblico politicamente sensibile, lo battezzò “icona dell’antimafia”. Ecco, certo. Sono cose al cui confronto, lo slogan di Totò Cuffaro, “La mafia fa schifo”, per ingenuità e pacchianeria, fa ormai sorridere. Ma c’è solo da piangere. Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che la sfasciò tutta l’antimafia. E non solo perché due persone serie come Claudio Fava e Leoluca Orlando se ne guardano bene dall’assecondarlo ma perché la terapia, infine, col pullulare di pittoreschi personaggi dalla carriera proprio sgargiante – su tutti, Pietro Grasso, quasi un vescovo del rito trito e politicamente accettato – ha fatto propri i sintomi della malattia. Come la mafia, in letteratura, al cinema, nelle fiction, ha trovato la propria caricatura, così l’antimafia, nella sua variante di mafia, è diventata prateria di carriere, territorio senza Re e senza Regno a uso di spregiudicati elargitori di credibilità e autorità, di fatto sostituitisi allo Stato e alle Istituzioni se della giustizia, e dei valori sacrissimi della vita, ne fanno solo un uso politico. Peggio che una caricatura, un’impostura, di cui non si può neppure fare show business. Viene difficile immaginare un copione speculare ai perfetti modelli della commedia, non un Johnny Stecchino di Roberto Benigni, non il Mafioso di Alberto Sordi, non La Matassa dei sublimi Ficarra e Picone ma solo e soltanto la parodia di Ingroia fatta da Crozza. Poca cosa. E potremo sperare un giorno di liberarci dall'uggia del rito, trito e ritrito, quando come con la mafia anche la mafia dell'antimafia potrà essere raccontata e denudata dalla satira. Prima di allora, ci resta addosso solo l'impostura. E sono cose di Sicilia, tutte dentro il sipario, strette nella tenaglia della legittimazione reciproca o, al contrario, del disconoscimento di ritorno. Ponendo il caso, tra i casi, che un Salvatore Borsellino (che di cognome, appunto, fa “Borsellino”), non convochi un’assemblea di Agende rosse e non stili un nuovo elenco di buoni e di cattivi (sì, la famosa agenda da cui Paolo Borsellino non si staccava mai, quella andata sicuramente distrutta dalla carica di tritolo, ritenuta trafugata sulla scena dell’orrenda strage, quella considerata alla stregua del Graal per smascherare la trattativa Stato-Mafia e poi rivelatasi “un parasole”). Buoni e cattivi che pencolano, trasversalmente, tra mafia, antimafia e mafia dell’antimafia per relegare i mafiosi, già servi di scena, in cotanto teatro, alla consolle degli effetti speciali – quasi a far da tecnici e attrezzisti, dietro le quinte – giusto per luci & ombre. E proiettili, ovviamente, da imbustare. Proiettili che intelligentissimi mafiosi fanno recapitare nei momenti di massima difficoltà agli illusionisti e per restituirli così alla scena, anzi, al baraccone. La tenaglia, dunque. Una morsa fatta di ferri opposti ma ugualissimi pronta a svitare o avvitare, a proprio piacimento, la testa vuota, vuotissima di un pupo senza più speranze se in via Libertà, a Palermo, i negozi chiudono e muoiono come i fiori di agave nelle sciare di pietra: di colpo, prosciugandosi di vita. Tutti – in quella strada, un tempo ricca di commerci – aspettano l’apertura di un lussuoso locale e già aleggia la nera leggenda (“ci sono i soldi di Matteo Messina Denaro...”). Non c'è più niente di niente nell’Isola: non un’industria, non più la Fiat a Termini Imerese, né Pasquale Pistorio e la sua Stm a Catania, un tempo fiore all’occhiello dell’elettronica. Perfino i turisti scarseggiano se a distanza di un anno, a Lipari, si sente l’eco di un colpo di pistola. E’ quello con cui spense la propria vita ­– flagellata dai debiti, dalla crisi, dalla mancanza di lavoro – Edoardo Bongiorno, titolare dell’Hotel Oriente, un albergo tra i più antichi, un luogo della bellezza destinato all’altra tenaglia, quella dove una ganascia è il niente e l’altra è il nulla. Nessuno più vuole investire in Sicilia. Antonello Montante, presidente di Confindustria, che si schiera contro le banche impegnate a strozzare quel poco che resta delle aziende, denuncia con durezza il maledetto clima che abbuia ogni speranza: “Tutti hanno paura di tutti, della mafia, della burocrazia e anche dei giornalisti”. Tutti hanno paura di tutti. E tutti – in questa terra, ormai alla prova generale del default che toccherà in sorte a tutta l’Italia – aspettano di partirsene via. Ed è una fortuna che Campari abbia acquistato Averna. L’amaro di Caltanissetta è stato preso in custodia dal bitter di Milano. Per qualche anno ancora, Deo gratias, si potrà fare il brindisi. E il Deo gratias definitivo, quello necessario, potrà aversi se qualcuno, qui, a Roma, capisca che cosa sta succedendo davvero. Se proprio non un Cesare Mori, un prefetto che arrivi e metta fine ai mercanti asserragliati nel tempio della lotta alla mafia, almeno un commissario, in Sicilia, ci vuole e serve. Se non subito, subitissimo. E come quello, come Mori, si faccia forte di un principio: far tornare lo Stato in Sicilia. Avere carta bianca e – come quello, che ebbe mandato pieno dal presidente del consiglio dei ministri – avere il potere di cambiare le leggi se queste, sporche per come è infettata di mafia la legislazione derivata dallo Statuto autonomo, non permettano il raggiungimento dell’unico necessario proposito: fare tornare lo Stato in Sicilia. PS. Ho preso a prestito la categoria del dopoguerra, quella sulla distinzione di Leo Longanesi dei due fascismi ( "il fascismo e il fascismo dell'antifascismo", elevato a pretesto di una guerra civile ancora viva) perché è il binario obbligato dell’identità di una nazione, il cui tracciato, forgiato dalla natura arcitaliana, è quello inesorabile del conformismo. Dopo di che, la Sicilia. Certo, tutti hanno paura di tutti. Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia. E io, qui, lo so che mi ritrovo a prendere a mani nude le braci degli altri. Ma – come si dice? – così come finisce, un giorno si racconterà".

Indagato il pm antimafia Mollace. “Favoreggiamento alla ‘ndrangheta”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Lo storico magistrato di Reggio Calabria sotto inchiesta per corruzione. Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone. Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi. Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice. Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace - che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano - avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava. «Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante. Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato). 

E il giudice finì nei guai per colpa dei Lo Giudice, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Ma la cosca dei Logiudice esiste ancora? A questa domanda sembra dare una risposta la decisione della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sostituto pg di Reggio Calabria Francesco Mollace, adesso in servizio alla Procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Mollace è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari. Alla sbarra con lui finiranno Luciano Lo Giudice, fratello del boss Nino – pentito a fasi alterne – e Antonino Spanò, titolare di un cantiere nautico a Reggio Calabria, in cui Mollace avrebbe avuto la sua imbarcazione a rimessaggio. La richiesta di Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio, a capo dell’inchiesta coordinata dal procuratore della Repubblica Vincenzo Antonio Lombardo, nasce dal memoriale del boss reggino Nino Lo Giudice, a capo di una cosca che Mollace avrebbe favorito. La vicenda è intricata e complessa: l’ex pentito Nino, come ho già scritto qualche tempo fa, ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso memoriali messi più volte in discussione. Il dubbio che dietro il suo pentimento «ballerino» ci sia una macchinazione per colpire alcuni magistrati. Non ha convinto molti l’essersi autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro e dell’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda. Nino ha anche chiamato in causa il fratello Luciano, considerata la mente della cosca, salvo rimangiarsi tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Nel fango era finito anche l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non ha mai negato la frequentazione con il presunto boss. Ma la cosca Lo Giudice, ripete sempre Cisterna, è stata lui a smantellarla nel 1993 arrestando il capofamiglia. E Cisterna è uscito pulito dai guai. Ma la cosca Lo Giudice esiste, almeno così pensano i pm di Catanzaro. E qual è la colpa di Mollace? Aver sottovalutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice (fratello di Nino e Luciano) e Paolo Iannò (ex braccio destro e armato del superboss Pasquale Condello detto «il Supremo» arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008 dopo una latitanza infinita) senza svolgere – secondo i pm di Catanzaro – le necessarie indagini per capire se i Lo Giudice a Reggio avessero ancora un peso oppure no. Per i due pentiti il peso lo avevano eccome. I magistrati catanzaresi scrivono che Mollace, per chiudere un occhio, avrebbe ricevuto in cambio «la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». A pesare su Mollace c’è soprattutto il giallo dell’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, che secondo gli inquirenti sarebbe stata uccisa per salvare l’onore del capoclan. Il presunto mandante sarebbe Bruno Stilo, l’esecutore materiale Fortunato Pennestrì (considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del boss) entrambi condannati a fine 2013 a 30 anni con una sentenza che ha rispecchiato in pieno l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra. I due sospettavano che mentre il marito era detenuto la donna fosse incinta di un altro uomo di cui si era innamorata- o Pietro Calabrese, poi trasferitosi a Roma o Domenico Megalizzi, scomparso nello stesso periodo, che riceveva telefonate a casa da parte di una ragazza di nome Angela –  l’avrebbero strangolata il 16 marzo 1994 nell’appartamento che abitava da circa un mese a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice e poi ne avrebbero occultato il cadavere pur di salvare l’onore del capoclan. Per il Gup Indellicati che ha deciso la condanna dei due ’ndranghetisti, come emerso dai documenti di natura medica agli atti dell’indagine, la situazione della donna «poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente». Durante il processo sull’omicidio Mollace aveva difeso le sue scelte investigative con qualche «non so, non ricordo» di troppo, tanto che in una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone lo stesso magistrato ammise di non aver ricordato bene, tanto che il pm Beatrice Ronchi spingerà, con le sue indagini, a indurre il presidente del Collegio a verbalizzare «la falsità delle affermazioni di Mollace». Ad aprire squarci di luce sulla vicenda, finita anche su Chi l’ha visto, fu soprattutto Maurizio Lo Giudice, che nel ’99 indicò in Pennestrì l’esponente più di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo («Era lui che prendeva in mano tutta la famiglia… dopo che sono stati arrestati… andava pure a chiedergli i soldi), e nell’ipotizzare che la donna, madre di quattro figli, fosse invaghita di un altro («Aviva perdutu a testa, dottori!») . La conferma a Maurizio Lo Giudice l’avrebbe data lo stesso Pennestrì, che poi avrebbe contribuito a depistare le indagini. Le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice di fine anni Novanta («In quei giorni Natino Pennestrì prese la palla al balzo, disse che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po’ di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per… la credibilità che Angela era veramente malata») non furono considerate credibili fin quando il pm Beatrice Ronchi deciderà di riaprire le indagini e incrociarle con le affermazioni di almeno altri due collaboratori di giustizia considerati attendibilissimi, appunto Paolo Iannò e Domenico Cera. Insomma, la cosca decapitata da Cisterna all’inizio degli anni Novanta era ancora pienamente operativa, tanto da orchestrare un omicidio. Nino, Maurizio e Luciano avevano rapporti privilegiati con magistrati e forze dell’ordine, come raccontano le ultime vicende giudiziarie. Adesso per Mollace si apre un processo difficile. Le cui conseguenze, anche sui delicatissimi equilibri tra la Procura reggina e quella catanzarese, potrebbero essere inimmaginabili…

Il giudice e Lo giudice, continua Felice Manti. Chi difende lo Stato in Calabria? Le forze dell’ordine, quando non si dimostrano a busta paga dei boss. I politici, quando non vanno in udienza a casa dei capifamiglia a elemosinare voti. E poi ci sono i magistrati… E qui il discorso – per chi ha voglia di farsi qualche domanda – si complicano. Cominciamo da Giancarlo Giusti, l’ex gip di Palmi arrestato dalla Procura di Catanzaro per un presunto«patto scellerato» con la cosca Bellocco di Gioia Tauro. Su Giusti i primi sospetto erano sorti quando nel 2009 furono scarcerati tre esponenti della potente famiglia della Piana: Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco detto «Micu ’u Lungo», gettando alle ortiche mesi di lavoro investigativo. Scattarono le intercettazioni e «venne scoperta – così dice il procuratore della Repubblica di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – una corruzione accertata dopo una prima richiesta di archiviazione, in una  vicenda che evidenzia un tradimento degli obblighi professionali, fermo restando il principio di presunta innocenza». Secondo un magistrato, un suo collega si sarebbe venduto (per circa 120mila euro) facendo scarcerare personaggi di spessore della ndrangheta calabrese. Se è vero saranno i processi a dirlo. Ma le accuse sono pesantissime: corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di avere favorito un’associazione mafiosa, ed il famigerato concorso esterno.  Che cosa possa essere successo quando Giusti ha lavorato al Riesame a Reggio Calabria è ancora tutto da scoprire. Giusti era (ed è ancora) agli arresti domiciliari per un’altra faccenda poco chiara. Il 27 settembre del 2012 l’ex gip era stato infatti condannato a quattro anni per i suoi rapporti con la cosca Lampada, aveva tentato il suicidio il giorno successivo al carcere di Opera. Circa un mese dopo, il 29 ottobre, un perito del tribunale di Milano aveva stabilito che nel carcere di Opera non poteva ricevere le cure psichiatriche di cui aveva bisogno dopo il tentato suicidio. Qual era la natura dei suoi rapporti con la presunta cosca dei Lampada? Favori in cambio di sesso, a causa di una personalità fragile: «La sua è una vera e propria ossessione per il sesso, per lo più a pagamento; ha esigenze economiche legate a un tenore di vita sicuramente elevato; ricerca spasmodicamente occasioni di guadagno parallele in operazioni immobiliari e di varia natura», scrivono i giudici milanesi che lo hanno incastrato qualche anno prima, quando in una telefonata intercettata, Giusti non si faceva scrupolo a dire: «Non hai capito chi sono io.. sono una tomba .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un finto bullo, sembrerebbe, che alla sorella (la telefonata è agli atti) , dopo avere avuto la notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare del Csm sulla base anche dell’inchiesta della Dda di Catanzaro, dice: «È finita per me, guarda che vengono di notte e mi prendono… è finita».

La domanda è: com’è possibile – se è vero – che nessuno si sia accorto che un importante magistrato fosse alla fine un uomo fragile, assetato di soldi e di sesso e ben disposto a fare affari con le cosche in cambio di soldi? A quanto pare non sarebbe il solo. C’è un altro nome che merita qualche riga. Si chiama Vincenzo Giglio, è un giudice ed è finito nello stesso vortice di Giusti: gli affari con il clan Lampada-Valle, su cui la letteratura giudiziaria (soprattutto sul fronte della famiglia Lampada) è abbastanza scarna. Ma tant’è. Giglio e l’ex finanziere Luigi Mongelli (condannato a 5 anni e tre mesi, contro i 4 anni e 7 mesi di Giglio) , furono arrestati nel novembre 2011 nell’ambito dell’inchiesta milanese sul clan Valle-Lampada e oggi sono agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza d’appello, anche grazie a una sentenza che stabilì l’incostituzionalità di quella parte dell’articolo 275 del codice di procedura penale che prevede l’obbligo della custodia in carcere per chi è accusato di reati aggravati dal cosiddetto articolo 7, ovvero reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. (Piccola parentesi. Quando uscì in agenzia la notizia del tentato suicidio di Giusti le agenzie scrissero che la vittima era Giglio, e che era morto. Amen). Cosa avrebbe combinato Giglio? Corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la cosca mafiosa. La sorte di Giglio era legata a doppio filo con quella dell’ex consigliere regionale Pdl Franco Morelli, condannato in primo grado a 8 anni e 4 mesi e interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e il presunto boss Giulio Lampada(«Non è mai esistito quel clan, non ce n’è traccia negli atti», dissero allora i suoi legali Ivano Chiesa e Manlio Morcella), re dei videopoker a Milano condannato a 16 anni.  Il giochino, secondo i pm, era facile. L’ex maresciallo Gdf Mongelli intascava mazzette assieme ad altri colleghi per non fare i controlli sulle macchinette mangiasoldi. Il giudice Giglio, amico di Morelli, avrebbe fatto pressioni per piazzare la moglie a commissario della Asl di Vibo Valentia e in cambio avrebbe offerto al politico qualche «dritta» sulle indagini che lo riguardavano. Entrambi erano in rapporti con Lampada, cui avrebbe fatto comodo una copertura politica dopo il «mascariamento» del suo precedente cavallo politico di battaglia, quell’Alberto Sarra di cui si parla nel libro Madun’drina, che nel 2007 al telefono (intercettato) con Lampada parla, anzi straparla: «Quando mi muovo a Milano ho una chiavetta nera. Ho praticamente un centinaio di sportelli Bancomat perché quella è la chiave del cambiamoneta (cioè dei videopoker, ndr). Ti faccio un esempio: stasera sono con te e mi serve da prendere mille euro, vado in uno dei bar, apro e me li prendo». Al telefono Lampada e Giglio progettano anche la costituzione di una finanziaria. Dice in un’intercettazione l’ex macellaio di Reggio: Dobbiamo trovare, Alberto, una bella banca, qua su Milano, che ci faccia fare quello che vogliamo… Quello che vogliamo… io intendo dire… attenzione! Non che ci fottiamo i soldi alla banca, mi sa che non rientra nelle nostre…. E la cosa si complica… Sarra viene coinvolto in un’altra inchiesta su mafia e politica, quella che ipotizza un ruolo dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio beccato dai Ros a una cena con Sarra assieme ad alcuni esponenti della cosca Ficara. De Gregorio fu archiviato perché riuscì a dimostrare di non sapere chi fossero, a differenza di Sarra, i suoi interlocutori.  Scrivevo a fine 2010: «Quell’avviso di garanzia a Sarra, dicono i Ros, aveva fatto crollare il sogno dei Lampada e avrebbe portato Sarra a “interrompere ogni collegamento con esponenti vicini alla criminalità organizzata” per non aggravare la sua posizione giudiziaria». Morto un papa se ne fa un altro. al posto di Sarra arriva appunto Morelli, consigliere regionale calabrese. Il 13 febbraio 2008 viene intercettata una telefonata fra Giulio Lampada, nato a Reggio Calabria il 16 ottobre 1971, e Morelli. Dice il primo: «La chiamavo per salutarla siccome sapevo che doveva salire a Milano in questa settimana, non l’ho sentita per nulla, ho detto io lo chiamo vediamo se verifi… se sale per caso a Milano… così». Ma bisogna anche rileggersi un informativa del Ros dei carabinieri in cui si parla di rapporti “oscuri” tra i Lampada e i fratelli Vincenzo e Mario Giglio, cugini del giudice.  Scrivevo ormai quattro anni fa: «Vincenzo, medico di professione, secondo i carabinieri “voleva scalare i vertici della politica locale di Reggio Calabria”. Alle politiche del 2008 tentò invano di farsi eleggere nel movimento La Rosa bianca. Con Giulio Lampada avrebbe creato un intenso rapporto cominciato con un affare: l’acquisizione di un immobile nel pieno centro di Milano. Il problema è che, secondo i pubblici ministeri, i Lampada rappresentano “quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso” con “compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso” legato alla cosca Condello, guidata da Pasquale Il Supremo, arrestato nel febbraio 2008 dopo diciotto anni di latitanza. E qui il malaffare s’intreccia con un omicidio che ha riscritto la storia politica recente. Il fratello di Vincenzo Giglio, Mario, ha lavorato nelle segreterie politiche di due consiglieri regionali coinvolti in vicende inquietanti. Era il capo della segreteria di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria eletto nelle fila della Margherita e assassinato a Locri il 16 ottobre del 2005. Poi diventerà capo della segreteria di Crea, che all’inizio del 2008 finisce in carcere nell’inchiesta Onorata sanità su un giro di corruzione e pressioni mafiose. Basta così? Non proprio. C’è ancora l’affaire Lo Giudice, l’ex pentito Antonino che ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone. Poi si è rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. Il problema è che c’è di mezzo anche un pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia, legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: si chiama Gianfranco Donadio e secondo Lo Giudice  gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Ma se ci fossero altri magistrati in riva allo Stretto collusi con le cosche?

Accusato di corruzione, Mollace: “Solo spazzatura e servile disprezzo mediatico”. Su "Strill". Riceviamo e pubblichiamo dal magistrato Francesco Mollace – «Apprendo dai soliti ben accreditati nelle stanze giudiziarie che la Procura di Catanzaro avrebbe depositato una richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti. Resto in attesa di riceverne conferma ufficiale e nei modi previsti dalla legge, ammesso che il rispetto dei diritti dei cittadini abbia ancora un qualche valore in certi palazzi. Con la serenità di chi non ha niente da farsi perdonare e niente da nascondere, sono certo che un giudice terzo e imparziale saprà fare giustizia della spazzatura raccolta in alcuni anni di indagini e di servile dileggio mediatico. Per mio conto sono sicuro di aver dimostrato con documenti inoppugnabili di avere circa venti anni fa arrestato, fatto condannare e determinato alla collaborazione componenti dell’allora cosca Lo Giudice. Mai ricevuto niente da chicchessia. L accusa è fondata su illazioni e le regole del processo mi rendono sereno. Francesco Mollace».

Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

CITTADINI. MANIFESTARE E DEVASTARE. IMPUNITA’ CERTA.

Manifestare e Devastare in città? Un Reato ampiamente impunito!

Negozi, banche, auto in fiamme, vetrine infrante, gente e turisti in fuga terrorizzati, scontri con la polizia, alcuni agenti feriti. E' sfociata in terrore e devastazione nel cuore della città la giornata inaugurale di Expo, l'evento universale inaugurato l'1 maggio 2015, a Milano. Al corteo del No Expo Mayday Parade organizzato nel pomeriggio. Come temuto ed ampiamente previsto, hanno preso il sopravvento i pochi black bloc e le fasce più violente e la manifestazione è presto degenerata.

La polizia nei giorni precedenti ha sfoggiato mediaticamente il suo impegno, mostrando alle telecamere qualche arnese atto ad offendere rinvenuto in una casa occupata dai "No Tav", tacitando così le preoccupazioni dei milanesi. Una delle tante case di proprietà occupate abusivamente da tante sigle vicine alla sinistra.

Circa la violenza unilaterale dei manifestanti scoppiata a Milano ognuno dice la sua. A destra sono pronti a solidarizzare con le forze dell'ordine, a prescindere dal loro operato; a sinistra sono dediti a rimarcare e difendere il diritto a poter manifestare il proprio punto di vista, scambiando la locuzione con “ogni mezzo”, appunto, anche con l’uso della violenza, usata spesso contro i beni di quei lavoratori, che a parole dicono di rappresentare. Quella sinistra che si riempie la bocca del termine “Legalità”, fino ad ingozzarsi, fino a soffocarsi.

Chiediamo cosa ne pensa lo scrittore Antonio Giangrande, che, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", con decine di saggi pubblicati su Amazon, Google libri, Lulu e Create Space, dice la sua, invece, rispetto al diritto ed agli interessi dei cittadini danneggiati e trascurati.

«La libertà di manifestazione del pensiero è un diritto riconosciuto negli ordinamenti democratici. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad essa sono inoltre dedicati due articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. 2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.”

La Costituzione italiana del 1948 supera l'esigua visione fornita un secolo prima dallo Statuto Albertino, che all'art. 28 prevedeva che La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Durante il periodo fascista queste leggi dello Stato diventeranno delle censure, tipiche dei regimi totalitari. L'art. 21 della Costituzione stabilisce che:

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”

Ebbene, in Italia, se scrivi in stato di disomologazione al sistema mediatico o in dissenso al sistema di potere, a cui la stampa è genuflessa, i giudici te la fanno pagare.

Ma con il paraculo del diritto di manifestare in piazza si genera la più grande sorta di illegalità impunita che il paese ricordi. E dire che queste manifestazioni si palesano proprio come protesta contro le illegalità. Ognuno di noi che volesse commettere reati a iosa, sicuri di farla franca, basterebbe partecipare ad una manifestazione organizzata, spesso, dalla sinistra e l’impunità è compiuta.

"Abbiamo spaccato un po' di roba", è giusto così. A parlare è un ragazzo intervistato dalla troupe di TgCom24. Nessuna paura di ammetterlo e nessuna giustificazione, anzi, per lui è solo “bordello”. "Siamo arrivati, c'era un bordello, abbiamo spaccato un po' di roba", ha ammesso. Il giornalista chiede il perché e la sua risposta è secca: "Perché è la protesta, e alle proteste si fa bordello. È giusto così, noi dobbiamo far sentire la nostra voce. Se non lo capiscono con le buone, lo capiranno in altro modo. È stata una bella esperienza. Ero solo in mezzo a una guerriglia e mi sono preso bene, ma non ho distrutto un cazzo di nulla".

Eppure nelle manifestazioni di piazza ci sono talmente tante violazioni del codice penale che ne basterebbe una a far scattare l’arresto.

Dispositivo dell'art. 419 Codice Penale: "Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito". E poi quante violazioni penali cerchi, tante ne trovi. E comunque basta il sol travisamento a far scattare le manette.

Genova, sette studenti condannati per travisamento ad una manifestazione contro la Gelmini, scrive Genova Today. Una sciarpa che copre il volto per sfuggire all'occhio "invadente" delle telecamere Digos. Una mano sulla bocca per non respirare l'odore acre dei lacrimogeni. O un cappello "tenuto basso" per non essere del tutto riconoscibili: scene classiche da manifestazioni. Scene che da oggi potrebbero essere punite con il carcere. E' questo, in soldoni, quello che prevede una condanna del tribunale della Procura di Genova che ha disposto pene variabili fra i nove e i quattordici mesi per sette persone accusate di resistenza e "travisamento". Gli accusati, sette studenti liguri che parteciparono ad una manifestazione del 30 novembre 2010 contro l'allora ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, sono stati condannati per avere nascosto il proprio volto nelle fasi calde del corteo. Tradotto: la Procura non ha accertato che i sette ragazzi in questione abbiano partecipato a scontri o disordini, dato che nella sentenza non vi si fa riferimento, ma li ha condannati "semplicemente" perché si sono resi non riconoscibili. Nello specifico, le condanne fanno riferimento ai momenti successivi ad una carica della polizia. Azione che gli agenti non annunciarono, contrariamente a quanto previsto dagli articoli 22 e 23 del Tulps, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che prevede la "intimazione formale al discioglimento di un corteo". Agli avvocati dei giovani, che avevano puntato su questa "mancanza" da parte delle forze dell'ordine, il pubblico ministero Biagio Mazzeo ha spiegato che "si tratta di un provvedimento desueto e comunque, con tutti i tagli che devono subire le forze dell'ordine probabilmente non avevano neppure la possibilità di portarsi dietro un megafono". Insomma, condanna sia. Condanna, giunta pochi giorni fa, che rischia di inaugurare una giurisprudenza alquanto pericolosa. Appare troppo sottile, infatti, il confine fra la giusta necessità di punire i manifestanti facinorosi e l'eccesso di condannare chiunque si renda irriconoscibile durante una manifestazione. Ma non è tutto. Sotto la Lanterna, infatti, sono in corso almeno un'altra decina di indagini su cortei e proteste simili, riguardanti in particolare lo sciopero del 6 maggio 2011 e il corteo del 28 gennaio che vide in piazza studenti e operai al grido di "noi la crisi non la paghiamo". Le indagini, a questo punto sembra scontato, si chiuderanno con un processo e con altre condanne. Ma anche qui, la procura ligure potrebbe stupire. Oltre alle "storiche" pene per travisamento, infatti, molti dei ragazzi indagati, fra "anarchici noti" e semplici studenti, rischiano una somma di condanne e quindi il carcere per la "reiterata partecipazione a cortei". Insomma, i giovani che abbiano partecipato a più di una delle proteste finite nel mirino della procura rischiano le manette, perché colpevoli in più di un'occasione di "travisamento", anche se i cortei nella realtà non si siano trasformati in guerriglia. Le condanne di questi giorni, comunque, non stanno stupendo più di tanto Genova, una città che, da due anni a questa parte, ha subito una "gestione giudiziaria della piazza". Per l'esattezza da quando, un paio di anni fa, il procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico elaborò una "griglia" nella quale incrociare date dei cortei, nomi dei partecipanti, denunce e qualsiasi manifestazione dove la Digos avesse ripreso delle immagini. A quanto pare, la "griglia" sta cominciando a dare i suoi effetti. 

Invece a Milano la polizia che fa: niente!!!

E non è certo l’alibi della nuova legge sulla tortura che li sprona a rimanere inermi di fronte alla commissione di reati, né può essere colpa degli agenti che, oltretutto, sono i primi a prender botte da manifestanti, spesso, figli di papà o figli proprio di quelle istituzioni che dovrebbero reprimere e condannare i reati.

E non sono certo gli agenti a mancare. Questo passerà alla storia come il primo maggio più lungo di sempre. Complice l'inaugurazione di Expo 2015, 6.000 uomini delle forze dell'ordine italiane sono stati mobilitati per evitare che chi vuole rovinare la festa dei lavoratori sia fermato senza conseguenze. Avendo gli occhi del mondo puntati sull'area in cui si svolgerà l'esposizione universale, una falla nella sicurezza dell'evento non può essere permessa. Per questo il Viminale ha inviato 3796 uomini di rinforzo ai reparti già mobilitati su Milano, per l'intera durata della manifestazione. Queste forze aggiuntive andranno a sommarsi ai 2.000 addetti già disposti in città per i prossimi giorni, che si preannunciano da bollino rosso.  

Eppure qualche centinaio di black bloc ha sopraffatto la forza dello Stato. Alla fine il bilancio dei numeri è di 11 feriti tra le forze dell'ordine e zero tra i violenti criminali manifestanti, oltre che 10 antagonisti accompagnati in questura. Cinque gli arresti in flagranza eseguiti dalle forze dell'ordine. Durante i disordini avvenuti a Milano al corteo No Expo sono stati lanciati 400 lacrimogeni. Il dato è stato fornito dalla Questura. Un risultato risicato a favore della polizia. Un po’ troppo poco per il costo subito dei danni subiti e il costo per mantenere tutta la struttura per proteggere la città.

E non credo che la colpa sia degli agenti, ma, forse, visti i risultati  è colpa di chi li comanda? Non mancano le voci critiche, come quella di Matteo Salvini che si chiede "Renzi e Alfano, i danni ai cittadini li pagate voi?". E così pensa la gente.

C'è la rabbia della gente, tra le reazioni allo scempio che i No Expo hanno fatto questo pomeriggio a Milano scrive Libero Quotidiano il primo maggio 2015. Auto incendiate, cassonetti rovesciati, negozi dati alle fiamme, vetrine sfondate. Danni per milioni di euro. E la polizia che resta a guardare gli antagonisti che sfasciano tutto, limitandosi a contenere l'avanzata dei vandali e impedendogli di accedere alla zona rossa del centro. Una strategia assai diversa da quella adottata quattordici anni fa a Genova in occasione del G8. E la rabbia della gente esplode, pensando alle tante sentenze dei giudici contro la polizia (l'ultima quella sulla scuola Diaz) e l'introduzione del reato di tortura. "Attendere! Potrebbe scattare il reato di tortura!!!" scrive Vittorio. "Sono manifestanti pacifici. Perché fermarli? Sarebbe tortura" aggiunge Vittorio. Karl: "Fa bene a non intervenire...dopo certe sentenze!!!". La polizia ormai è stata disarmata da certe sentenze, dai buonisti, dagli ipergarantisti sinistronzi, da certa stampa e non sentendosi tutelata, resta a guardare in attesa di ordini da parte di organismi superiori anch'essi congelati da certe sentenze". Angelo: "Perché tanta meraviglia? dopo la condanna come torturatori e un capo che invece di difenderli li sospende...dopo giudici che mandano sempre liberi i delinquenti che vengono catturati perché mai i poliziotti dovrebbero rischiare di essere condannati.. un piffero disse "non siamo a Beirut" beh siamo peggio....". Maurizio: Quanti dei danneggiati di oggi hanno urlato contro la polizia cilena di Genova? Quanti hanno trattato il povero carabiniere Placanica come uno sfigato (loro, i ricconi radical-chic)? Quanti hanno votato per Heidi Giuliani, madre dell'eroe dei tempi moderni (emblema perfetto del gramo destino d'Italia)? Bene, spero che i danni riguardino solo loro. La polizia non faccia nulla, non meritano nulla". Giovanni: "non possono intervenire se no i giudici li condannano". Rul5646: Naturalmente grande scandalo se la polizia si permettesse di intervenire. Allora certa magistratura, certe esponentesse ed i buonisti in coro si indignerebbero infinitamente". E ancora: "E cosa potrebbero fare di più quei poveracci? Quei bastardi delinquenti sono sacri ed intoccabili per taluni magistrati e per tanti esponenti della politica italiana. Questa è l'Italia comunista!". Cheope: "La polizia aspetta......tanto sa che se anche li prendono , domani per ordine di qualche magistrato li mettono fuori. E intanto ci sono persone che hanno le auto incendiate, negozi sfasciati e tanta paura. E tutto questo con l'Expo non c'entra, è solo terrorismo". Poi c'è chi se la prende con Alfano: A O Anna 17 scrive: "Ma quel cretino di Alfano dove sta? Ah si è dimesso? Che fortuna. No no non si è dimesso, ma che schifo e non si vergogna?".

Appunto i No Expo sfasciano e incendiano, la polizia sta a guardare. Scene già viste tante volte, purtroppo: auto e negozi in fiamme, vetrine spaccate a martellate. Qualche anno fa era toccato a Buenos Aires, questa volta a via Carducci, una delle strade più eleganti e centrali di Milano. Dove i manifestanti No Global hanno bruciato due auto, sfasciato tutto lo sfasciabile e bruciato un paio di negozi con colonne di fumo nero alte decine di metri. Per mezz'ora la strada, lunga circa 500 metri tra corso Magenta e piazzale Cadorna, è rimasta in preda totale ai No Global. le forze dell'ordine sono state a guardare senza fare nulla, senza intervenire, senza impedire la devastazione. Solo dopo mezz'ora un mezzo antincendio è arrivato a spegnere le fiamme delle due auto. E solo a quel punto polizia e carabinieri hanno iniziato a intervenire con cariche e manganelli.

Una gestione "tattica" dell'ordine pubblico, non con l'obiettivo di impedire una quantità inevitabile di devastazione, ma di bloccare l'accesso al centro di Milano al blocco dei violenti senza coinvolgere negli scontri le migliaia di partecipanti pacifici alla May Day Parade contro l'Expo. Questa è stata la strategia messa in campo dalla questura di Milano - in accordo con le disposizioni del ministero degli Interni - per affrontare una giornata che fin dalla vigilia si annunciava assai critica. E che critica alla fine è stata, come vede ripercorrendo le strade del centro di Milano devastate dal passaggio dei Black bloc. Ma che ha portato al risultato che fin dall'inizio i vertici della polizia si erano dati: evitare che il giorno dell'inaugurazione di Expo si trasformasse in una specie di G8, con feriti da una parte e dall'altra. Lo scontro fisico è stato evitato. e poi...dalle 18 del primo maggio piazza della Scala è completamente blindata dalle forze dell’ordine da ogni accesso. Dopo la manifestazione con oltre 20 mila No Expo e trecento black bloc che hanno devastato Milano, la tensione è alta per l’inizio della Turandot, l’opera scelta dal teatro milanese per festeggiare l’inizio di Expo 2015.

Vuoi metter che gli "Scalisti" con i cittadini danneggiati dai black bloc? Tutta un'altra musica!

E poi ci siamo noi cittadini, perché lì, a manifestare in piazza, ci vanno anche i nostri figli. Ma le mamme italiane dove sono? Perché non scendono pure loro in strada a prendere a sberle i figli che spaccano le vetrine e devastano le città? Questo si chiede Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Nei giorni scorsi siamo rimasti tutti colpiti da quella signora di Baltimora, di giallo vestita e di sganassoni munita: appena si è accorta che il suo adorato pargolo si era vestito da black bloc per fare a botte con la polizia, non ci ha pensato neppure un attimo. È scesa in strada, l’ha preso per la collottola, l’ha riempito di sberle e l’ha ricondotto sulla via della ragione. Un mito, certo. Ma che cosa impedisce alle mamme italiane di fare altrettanto? Si badi bene: quel che vale per la politica, vale anche per le violenze nello sport e nel calcio in particolare.»

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

Patria-ordine-legge: lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

Ogni anno, dopo il Natale, Capodanno e la Befana, si reitera la liturgia pagana dell’osanna all’ordine della Magistratura, con la liturgia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

Il commento del Dr. Antonio Giangrande, esperto di Diritto e di Giustizia, in quanto sul tema ha scritto “Impunitopoli, Legulei ed Impunità” e “Malagiustiziopoli” con “Giustiziopoli”: disfunzioni del sistema che colpiscono la collettività o il singolo. Il quale ritiene i magistrati, unti dal delirio di onnipotenza, gli unici responsabili del degrado sociale, culturale ed economico del nostro paese.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. Eppure la corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato.

LITURGIA APPARISCENTE

Da Wikipedia si legge. L'Anno giudiziario, nell'ordinamento giudiziario italiano, è il periodo di tempo, corrispondente all'anno solare, nel quale è scandito lo svolgimento dell'attività giudiziaria, attraverso la fissazione del cosiddetto calendario giudiziario. Le modalità di svolgimento della cerimonia sono state modificate recentemente: fino al 2005, per ogni anno giudiziario, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione e il Ministro della giustizia pronunciavano davanti al Presidente della Repubblica e alle altre autorità presenti una relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Similmente, i procuratori generali presso ciascuna Corte d’appello comunicavano al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della giustizia la relazione per il proprio distretto. Questo in conformità all’articolo 86 del regio decreto n. 12 del 1941, più volte modificato negli anni. Dal 2006, a seguito di una modifica normativa, il Ministro della giustizia rende direttamente comunicazioni al Parlamento, sull’amministrazione della giustizia nell'anno appena trascorso e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che si intende attuare nell’anno che inizia. Successivamente si riuniscono in forma pubblica e solenne (cioè con la partecipazione di tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato) prima la Corte suprema di cassazione e quindi le corti d'appello per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello; si passa quindi agli interventi (facoltativi) dei Procuratori generali e dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato. L'inizio dell'Anno giudiziario è celebrato con apposite cerimonie solenni (nelle quali i magistrati indossano le toghe cerimoniali di colore rosso e bordate d'ermellino) presso la Corte suprema di cassazione e presso le corti d'appello dei distretti giudiziari italiani. Le cerimonie inaugurali sono occasione di prolusioni dei massimi esponenti dell'ordine giudiziario circa lo stato dell'amministrazione della giustizia nel territorio di competenza. In questo senso assume particolare rilevanza l'inaugurazione dell'Anno giudiziario presso la Corte suprema di cassazione, che precede di un giorno quelle presso i distretti giudiziari, e che si svolge alla presenza del Presidente della Repubblica. Anche i giudici speciali, come la magistratura amministrativa e quella contabile (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti), ovvero la magistratura militare, hanno una propria cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario, che si svolge secondo modalità e con contenuti analoghi a quelli degli organi della magistratura ordinaria.

In queste occasioni si coglie in estrema sintesi la genuflessione dei media all’ordine giudiziario osannandone le virtù artefatte e riportandone le deliranti espressioni. I magistrati, che non vengono da Marte, si sentono e sono essi stessi giudici e legislatori. Il potere in mano al popolo: sia mai.

LITURGIA AUTOREFERENZIALE

In queste manifestazioni pubbliche, spesso, mancano le componenti contraddittorie insite nei processi, ossia l’Ordine degli avvocati. Sovente di leggono delle note, ignorate dai media, come questa: Le Camere penali di Basilicata, di Matera e la Camera penale "Alfredo Marsico" di Lagonegro (Potenza) "hanno deciso di non partecipare alla cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario" in programma domani, 24 gennaio, a Potenza, "raccogliendo l'invito dell'Unione Camere penali italiane di disertare una cerimonia ancora autoritaria e appariscente che non consente un concreto dibattito sui problemi della giustizia".

Il rito stantio delle toghe rossocerimonia, dell'anno giudiziario, è un rito destinato alla liturgica dei monologhi autoreferenziali e dell’elencazione dei problemi della Giustizia da addebitare agli altri.

Excusatio non petita, accusatio manifesta è una locuzione latina di origine medievale. La sua traduzione letterale è "Scusa non richiesta, accusa manifesta", forma proverbiale in italiano insieme all'equivalente "Chi si scusa, si accusa".

Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti. Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono.

E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”.

Per i magistrati il malfunzionamento della Giustizia va ricondotto alla Prescrizione.

LITURGIA AUTORITARIA

C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».

Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.

Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.

Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». 

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?  

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.  

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile». 

Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado".

PER I MAGISTRATI IL CITTADINO DEVE ASPETTARE I LORO COMODI!!

Eppure, secondo lo studio fatto da Dimitri Buffa su “L’Opinione” i procedimenti prescritti sono dimezzati.

Prescrizioni penali rilevate in un decennio

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

219.146

189.588

159.703

164.115

154.671

158.335

141.851

128.891

113.057

123.078

Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". 

«Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura - dice il Premier Matteo Renzi -Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo e mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”. Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati».

Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici».

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. 

I capi della Cassazione sgridano (un po’) i Pm, scrive Errico Novi su  “Il Garantista”. C’è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi». Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l’inaugurazione dell’anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d’ufficio delle toghe. Dice che «una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole». Certo, dopo di lui, e su bito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici «protagonisti del cambiamento» promette loro una mano un po’ più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: «Il governo si riserva un’ulteriore riflessione sull’applicazione della nuova disciplina» che abbassa a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l’eco delle parole di Ciani a proposito della «magistratura requirente» che «nell’anno appena decorso», in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato «un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell’immagine, della popolarità, e soprattutto della politica ». E qui per giunta arriva un’altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, «è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente». Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l’ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la ”sua” riforma del processo penale. Ma l’altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. «C’è ancora molto da fare», avverte Santacroce, «le misure prese vanno senz’altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l’emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente». Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, «il rispetto della dignità della persona nella fase dell’esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità». Persino qui non mancano critiche alla magistratura: «Il problema dell’eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l’intervento della politica e del legislatore », avverte Santacroce, «è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale». Un passaggio che riscuote il plauso dell’associazione Antigone («Santacroce ha totalmente ragione, anche sull’illegittimità della pena per chi non se l’è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta») e dell’Unione Camere penali. «Siamo d’accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio» e sul «richiamo ad approvare il reato di tortura», dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c’è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po’ di merito, su questo, a Napolitano andrà dato.

«Quella riforma mai». Lo stop dei magistrati, scrive “Il Garantista”. Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni. Palermo, le scorte e i giudici scoperti. Prevedibile. Ma non privo di incidenti. C’è n’è uno spiacevole a Palermo, dove il procuratore generale facente funzioni Ivan Marino esclama «pausa caffè», s’incammina sul tappeto rosso, inciampa, batte la testa e riprende la cerimonia con un cerottone sul volto. Dopodiché, nella sua relazione, si concede un passaggio destinato ad alimentare polemiche. Alla sala gremita in cui spicca l’assenza dei pm della “Trattativa” (marcano visita tutti, dall’aggiunto Vittorio Teresi ai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) Marino dice: «Non si può sottacere che la indubitabile, contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente», ovvero Di Matteo, «con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti prima, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi». Come a dire: per proteggerne uno, particolarmente in vista, lasciano alla mer-cè di ritorsioni e proiettili noialtri. Obiezioni che ricordano tanto quelle rivolte a Giovanni Falcone venticinque anni fa. E’ proprio d’altronde Marino a dirlo: «Si sta verificando la stessa identica situazione degli anni ’80, allorché la protezione era garantita per lo più, se non esclusivamente, ai magistrati facenti parte dei pool antimafia dell’ufficio Istruzione e della Procura della Repubblica, con indifferenza verso la situazione della giudicante». «Il problema non siamo noi» Si avverte un certo nervosismo, tra le toghe. Contro quelle palermitane arriva la stoccata del presidente della corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, secondo il quale «la dura prova dell’audizione al Quirinale » poteva essere risparmiata «al Capo dello stato, alla magistratura e alla Repubblica» (un ampio estratto della relazione di Canzio è pubblicato nella pagina a fianco, ndr). Ma a dare l’dea della sindrome da accerchiamento di giudici e pm sono soprattutto le polemiche montate dall’Associazione magistrati. Il sindacato delle toghe organizza conferenze stampa per criticare la riforma della Giustizia. A Milano con il segretario Rodolfo Sabelli e a Bari con il presidente Maurizio Carbone, che sbotta: «Respingiamo fortemente questa idea demagogica secondo cui il problema della giustizia siamo noi magistrati e non chi intasca le tangenti». E ancora: «Vediamo riforme banalizzate con slogan, che ci mettono al centro del problema attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». A Milano si registrano anche le critiche durissime dell’avvocato generale Laura Bertolè Viale, indirizzate a Renzi e anche al nemico storico, Silvio Berlusconi: intanto liquida le riforme come un «pacchetto» che è «ben misera cosa rispetto a i progetti elaborati prima: non poche norme peccano di distonia, cioè sono irragionevoli ». Prima fra tutte la cosiddetta salva-Berlusconi che non rispetterebbe «quei criteri di progressività in materia tributaria sanciti dalla stessa Costituzione. Inoltre da questo pacchetto è stato escluso il reato di falso in bilancio». In realtà è stato da poco riproposto al Senato nel ddl Grasso. In sala, il viceministro Costa appare perplesso. Sempre nel Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo si assiste alla sfilata del procuratore capo Bruti Liberati con tutti i suoi aggiunti, escluso Robledo che non si fa vedere. Nel coro di rivendicazioni e critiche ce n’è qualcuna non scontata come quella del pg di Torino Marcello Maddalena, che boccia l’idea di una «nuova Procura nazionale antiterrorismo». Il presidente della Corte d’Appello di Roma Marini accenna a una generica commistione tra malavita e ultras, con il ripescaggio del caso di Genny ’a carogna. Lo dice in un’aula disertata dalla Camera penale: «L’inaugurazione dell’anno giudiziario, ancor più nelle sedi locali, è un rito anacronistico, asimmetrico e vuoto», dice il presidente Francesco Tagliaferri. Vuoto o meno che sia, di sicuro c’è molto nervosismo.

Giustizia, scontro aperto tra Renzi e i magistrati, scrive “La Stampa”. Il pg di Torino Maddalena: vuole farci crepare di fatica. Il premier: «Polemiche ridicole, quelle toghe hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». Scontro rovente tra i magistrati e Matteo Renzi nella settimana già calda del Quirinale. Dimenticati i fasti della Merkel, il premier è stato improvvisamente riportato alle vicende di casa nostra dai molteplici attacchi piovuti dai magistrati durante l’inaugurazione 2015 dell’anno giudiziario. Da Torino è partita la bordata più pesante. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». Parole feroci. Renzi, dopo averle lette, in serata si è rivolto amareggiato ai suoi più stretti collaboratori: «Accusarci di voler far “crepare” i magistrati per una settimana di ferie in meno significa che hanno un disegno o più semplicemente che hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». E oggi su Facebook rincara la dose: «Sono contestazioni ridicole. Non vogliamo far “crepare di lavoro” nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo». «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti», rilancia Renzi. Stop quindi ai magistrati «che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo». «E mi dispiace molto - aggiunge il premier - perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far crepare di lavoro”».  Facile prevedere strascichi. Anche perché le critiche piovute dai magistrati durante le cerimonie che si sono svolte in tutta Italia investono svariati aspetti della riforma del governo. A Milano, Laura Bertolè Viale, avvocato generale dello Stato, si scaglia contro il decreto fiscale e la clausola di non punibilità: «Chiamata giornalisticamente anche “licenza a delinquere”, introduce una clausola espressa in termini solo percentuali che crea una sostanziale differenza di trattamento tra i contribuenti di minori e maggiori dimensioni». A Bari, Maurizio Carbone, segretario nazionale dell’Anm, è molto critico per la storia delle ferie tagliate: «Respingiamo questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti». A Bologna, il presidente della Corte di Appello, Giuliano Lucentini, parla del pericolo che l’Italia corre se i suoi giudici sono delegittimati: «Pensavo, finito un certo periodo, che le cose potessero cambiare». Il riferimento è ovviamente a Berlusconi. E proprio il sostanziale parallelismo sulla questione giustizia rischia di rinvigorirei critici del premier. 

“Quello di Renzi è un attacco alla categoria, piuttosto agisca per limitare le prescrizioni”. Intervista di Andrea Rossi su  “La Stampa” al procuratore generale di Torino dopo le polemiche all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».

Al di là dei modi, esiste un problema di produttività?

«Le faccio un esempio. La Corte d’Appello di Torino nel 2014 ha esaurito 5735 provvedimenti contro i 4490 del 2013». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».

È questa - la prescrizione - la vera emergenza dunque?

«L’amministrazione della giustizia non può permettersi di lavorare a vuoto, a maggior ragione quando la prescrizione interviene durante l’appello: significa che nelle fasi precedenti giudici, pubblici ministeri, gip, gup e tutto il personale amministrativo hanno lavorato per niente, svolgendo inconsapevolmente il ruolo di Penelope, con la differenza che Penelope lo faceva apposta». 

Esistono soluzioni in grado di arginare il problema?

«I rimedi non mancano: assegnare ai procedimenti criteri di priorità, archiviare i casi minimali e soprattutto, ovviamente, modificare la prescrizione».

Come?  

«Suggerisco due ipotesi. Far decorrere la prescrizione dal momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, perché è in quel frangente che scatta l’interesse della persona (e dello Stato) a risolvere al più presto la sua posizione. In secondo luogo, interrompere la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado. In questo modo, tra l’altro, si scoraggerebbero molti imputati dal fare ricorso con la sola speranza di dilatare i tempi per arrivare alla prescrizione».

Il rito stantìo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”.

Prescrizioni penali rilevate in un decennio.

 

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

219.146

189.588

159.703

164.115

154.671

158.335

141.851

128.891

113.057

123.078

La magistratura dopo Mani pulite ha iniziato “una parabola discendente”, con la “disaffezione” dei cittadini per le “credenziali mortificanti” che esibisce, come i processi lumaca e il degrado delle carceri, ma a questa crisi di fiducia concorrono anche le “frequenti tensioni e polemiche” soprattutto tra pubblici ministeri con “forme di protagonismo, cadute di stile e improprie esposizioni mediatiche”. Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e umana dimostrazione di come con la Legge Breganze - che fa avanzare automaticamente le carriere dei magistrati - anche un pm che negli anni Settanta non era noto alle cronache per l’iperattivismo giudiziario (fu requirente nello scandalo Italcasse che grosso modo finì tutto a tarallucci e vino, tranne modeste condanne a Giuseppe Arcaini e soci nel 1989) possa arrivare ai vertici della magistratura, ce l’ha messa tutta per colorire la propria relazione di inizio anno giudiziario tenutasi a Roma nella mattinata di ieri nella consueta aula magna del “Palazzaccio”. Ma certo non ha sottolineato quei dati, come quelli sulle prescrizioni forniti un mese fa dal vice ministro Enrico Costa senza dire niente a nessuno nel governo, che dimostrano come la lentezza dei processi penali e il fatto che un milione e mezzo di loro finiscano in vacca ogni dieci anni è al 74 per cento imputabile al non lavoro dei pm e dei gip, non certo alla “melina” degli avvocati. Così come Santacroce non ha di certo rievocato i dati scoperti dal sito errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi che parlano mai smentiti di un dossier nascosto sugli errori giudiziari in Italia dal 1989 al 2013: 50mila in 25 anni, pari a duemila l’anno. Una percentuale da Terzo Mondo. Sempre ascrivibile agli errori di pm e gip che aprono inchieste su qualsiasi cosa si muova sulla terra ma spesso con risultati disastrosi. Certo, è difficile chiedere all’“oste” di smentire la qualità del vino. E i magistrati ormai sono definiti persino nei saggi dei giornalisti de “L’Espresso” come Stefano Livadiotti come l’“ultra casta”. Ma oramai che il re in toga sia nudo è sotto gli occhi di tutti. I dati di Costa ad esempio sono disarmanti: “Su poco più di un milione e mezzo di casi in dieci anni... i numeri indicano che nell’ultimo decennio i decreti di archiviazione per prescrizione emessi dai gip sono stati 1.134.259: il 73 per cento del totale. A questi si aggiungono le 63.892 sentenze di avvenuta prescrizione emesse dai Gup. La quota restante è spalmata tra Tribunali (209.576), Corti d’appello (131.856), Cassazione (3.293) e Giudici di pace (9.559)”. Se questi dati nelle inaugurazioni degli anni giudiziari vengono tenuti quasi nascosti, o con poco rilievo, ogni dibattito sulla giustizia parte male in termini di onestà intellettuale. Questo grazie anche ai giornalisti che militano nel partito della forca: il convegno in cui Costa distribuì anche la tabella dei dati ministeriali in questione, sebbene trasmesso da Radio radicale, è stato bellamente ignorato dai quotidiani cartacei e anche on-line ha avuto un rilievo pari a zero. Proprio Costa in quell’occasione disse che “oltre il 70% delle prescrizioni si determina in fase di indagini preliminari. Un’anomalia che non può essere ricondotta ad azioni dilatorie della difesa, ma spesso è legata a un dribbling non dichiarato dell’obbligatorietà dell’azione penale che si traduce in una selezione dei casi da prendere in carico”. Parole che ieri non si sono sentite da parte di Santacroce, che ormai aspetta solo di andare in pensione con il massimo dell’anzianità prevista (ex Legge Breganze di cui sopra). Chi oggi vorrebbe abolire l’appello o allungare a dismisura i termini della prescrizione con quale buona fede chiede queste misure e ignora i dati di via Arenula? Va detto che già nel 2007 una ricerca dell’Eurispes commissionata sempre dalle Camere penali allora presiedute da Giuseppe Frigo (la ricerca fu condotta sotto la supervisione di Valerio Spigarelli che poi sarebbe succeduto a Frigo in quella carica) aveva avuto analoghi risultati. Stesso discorso sugli errori giudiziari strettamente legati alla vexata quaestio della mancata responsabilizzazione civile per colpa grave dei magistrati. Sapere che ci sono 2mila errori giudiziari l’anno, che diviso per 365 giorni è come dire che ogni 24 ore sei persone finiscono in carcere innocenti, lascia del tutto indifferenti Anm e quotidiani nazionali che vendono al volgo che i veri problemi dell’Italia sono “la corruzione e l’evasione fiscale”. E che invocano sceriffi e leggi speciali per qualunque cosa e con qualsivoglia pretesto. Con questo dialogo tra sordi che ormai continua da almeno vent’anni quel che è chiaro è che il Paese che ritiene di essere la culla del diritto oggi come oggi rischia di diventarne la bara. E all’estero questo problema viene visto in un’ottica meno moralista e più pragmatica. Cosa che spiega gli investimenti con il contagocce delle imprese straniere in Italia. Più che paura della corruzione c’è il terrore di finire in qualche tritacarne mediatico giudiziario con un pm di provincia in cerca di notorietà per fare carriera. Allora sì che son dolori...

Nuovo anno giudiziario. L'Anm la butta in rissa contro i politici corrotti. IL segretario Anm: "Respingiamo tesi che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". Il ministro Orlando: "La giustizia inefficiente rallenta la crescita", scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Come ogni anno l'inaugurazione dell'anno giudiziario fornisce uno spaccato sullo stato di salute della giustizia in Italia. "La crisi sociale e l’indebolimento della struttura statale - afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando - rende quest’ultima sempre più fragile di fronte agli interessi particolari che la condizionano e ai poteri illegali che la insidiano. In un Paese come il nostro - ha proseguito Orlando - caratterizzato dalla storica presenza di potenti organizzazioni criminali, la prostrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni apre spazi crescenti ai fenomeni criminali in ambito economico, sociale e politico". Orlando ha poi sottolineato che "questi poteri in termini assoluti, non sono più forti di prima, ma piuttosto è più debole l’organismo che attaccano. La criminalità organizzata - ha detto - non ha più le forme tradizionali e la tradizionale collocazione geografica circoscritta ad alcune regioni del sud Italia. Si è espansa, ha cambiato forme e metodi mimetizzandosi nei contesti in cui si sviluppa. Si confonde e si sovrappone alle reti collusive che avvolgono le pubbliche amministrazioni". Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti", ha detto a margine della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario a Bari. In una conferenza stampa convocata nell’ambito della mobilitazione permanente contro la riforma della giustizia che prevede la responsabilità civile dei magistrati, Carbone ha parlato di «riforme banalizzate con slogan che ancora una volta hanno messo al centro del problema noi magistrati, attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». I magistrati esprimono "assoluta insoddisfazione". "Le risposte noi con le sentenze e con le indagini le stiamo dando - ha continuato Carbone - siamo primi in Europa per produttività nel settore nella giustizia penale e secondi per smaltimento di cause civili, ma abbiamo il dovere di dire che alcune riforme non sono all’altezza della situazione". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado". E da Milano il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, rincara la dose: "Siamo i primi a volere le riforme ma ci vuole coerenza, agli annunci devono corrispondere i fatti". Sabelli non esita a sottolineare come "il dibattito sulla giustizia è ancora troppo pieno di pregiudizi". I magistrati "non si chiudono in una forma corporativa e non rifuggono dal principio di responsabilità ma l’approccio del governo non è stato sufficientemente meditato". Se il testo sulla responsabilità civile "è stato purificato da aspetti che avrebbero leso il principio di indipendenza della magistratura", restano ancora degli aspetti di "un approccio non attento", in particolare contro "l’eliminazione del filtro di ammissibilità e l’introduzione della categoria del travisamento del fatto e delle prove". Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". ll procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, Marcello Maddalena, si sofferma sulle misure anti-terrorismo di cui si parla da giorni, dopo gli attentati di Parigi. "Più lo Stato possiede dati certi meglio è. Parlo anche di quelli relativi al Dna e alle impronte digitali". E prosegue: "Se questi dati li posseggo correttamente, non capisco perché non li possa utilizzare. Invocare la privacy mi pare del tutto fuori luogo in generale, invocarla poi in questo momento mi sembra privo di ogni ragionevolezza e di ogni senso dello Stato". Il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, dedica un ampio capitolo del suo intervento alla penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia, sottolineando come vi sia, da parte della mafia una "interazione-occupazione". "La forma di penetrazione e la veloce diffusione del potere della ’ndrangheta all’interno dei diversi gangli della società lombarda - ha detto Canzio - può paragonarsi all’opera distruttiva delle metastasi di un cancro". Quanto all'Expo Canzio osserva che lo Stato è vigile. "Nel distretto milanese e in vista di Expo 2015, lo Stato è presente e contrasta con tutte le istituzioni l’urto sopraffattorio della criminalità mafiosa, garantendo - nonostante la denunciata carenza di risorse nel settore giudiziario - la legalità dell’agire e del vivere civile con coerenza e rigore".  Ma l’esercizio della giurisdizione, prosegue Canzio, "non può essere frutto di accelerazioni o improvvisazioni, dettate, di volta in volta, da frammentarie emergenze, senza una chiara visione dei diritti e degli interessi in gioco". Poi denuncia il rischio che "dal pensiero corto alla sentenza tweet o al verdetto immotivato il passo è breve. Ma - si chiede- che ne resterebbe della cultura democratica della giurisdizione?". A margine dell'inaugurazione Canzio commenta la notizia dello smarrimento e danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione (atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma): "Si tratta di un fatto indegno di uno Stato moderno, che non deve succedere". Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, sottolinea che "mentre sul fronte della normativa antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all’opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando così il vincolo di omertà. Neanche l’incessante susseguirsi di scandali nazionali attestante il dilagare irrefrenabile della corruzione - dice - sembra a tutt’oggi sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all’azione repressiva". Nella sua relazione il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Antonio Marini, evidenzia che "i procedimenti di prostituzione minorile sono stati ben 190 a fronte dei 35 iscritti nel precedente anno giudiziario, quindi si deve prendere atto di un incremento nelle nuove notizie di reato del 442%". Violenze sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori (stalking). Nel distretto di Roma e Lazio, nel periodo che va dal primo luglio 2013 al 30 giugno 2014, si è registrato un vero e proprio "boom" di reati contro la libertà sessuale.  Per Marini da tempo diversi gruppi criminali hanno scelto Roma e il Lazio per poter mettere in piedi i loro affari, sfruttando così la vastità del territorio, la presenza di tantissimi esercizi commerciali, attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione e immobili. Ed evitano di farsi la guerra per non dare nell’occhio. Nella relazione del procuratore generale c’è un lungo capitolo dedicato ai "gruppi criminali, compresi quelli dediti al narcotraffico», nel mirino dei magistrati della Dda. "Dalle indagini - ha evidenziato Marini - emerge che c’è un patto esplicito per evitare che questi contrasti, che pure ci sono, degenerino in atti criminali eclatanti che rischierebbero di attirare l’attenzione degli inquirenti e dei media. Meglio trovare un compromesso e continuare a fare affari".

Renzi replica ai magistrati: "Italia patria del diritto, non delle ferie". Su Facebook parole dure del premier dopo le inaugurazioni (e le polemiche) dell'anno giudiziario. Risposta a Maddalena: sulle vacanze critiche ridicole, scrive “La Repubblica”. L'Italia "che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far 'crepare di lavoro' nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo". E' dura la replica di Matteo Renzi alle polemiche sollevate ieri durante le inaugurazioni dell'anno giudiziario. In particolare in risposta alle parole del procuratore generale di Torino Maddalena. Sono "ridicole" le "contestazioni" di alcuni magistrati contro il taglio delle ferie, dice Renzi su Facebook. Che poi lancia un altro affondo:  "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti". "Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo. E mi dispiace molto perchè penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo, e lo dico, senza giri di parole, che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia il premier ci vuol far crepare di lavoro". "Noi - chiarisce Renzi - vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Un Paese civile deve avere una sistema veloce, giusto, imparziale. Per arrivare rapidamente a sentenza, bisogna semplificare, accelerare, eliminare inutili passaggi burocratici, andare come stiamo facendo noi sul processo telematico, così nessuno perde più i faldoni del procedimento come accaduto anche la settimana scorsa". "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta - torna a dire - allo strapotere delle correnti che oggi - accusa - sono più forti in magistratura che non nei partiti". "A chi mi dice 'ma sei matto a dire questa cose? non hai paura delle vendette?' rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici devono sapere che il Governo, nel rispetto dell'indipendenza della magistratura, è pronto a dare una mano. Noi ci siamo. L'Italia che è la patria del diritto prima che - rimarca - la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far crepare di lavoro nessuno, ma - puntualizza Renzi - vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo".

Renzi: «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Il premier replica alle toghe: «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo», “il Corriere della Sera”. «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Non usa mezzi termini il premier Matteo Renzi e attacca duramente i magistrati che a loro volta, come nel caso di Torino, avevano contestato alcuni presunti provvedimenti del governo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti» spiega Renzi su Facebook. «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo» scrive ancora Renzi sul celebre social network. «E mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”». «Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali», sottolinea Renzi. «L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi», sottolinea ancora il premier. «A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici - aggiunge ancora su Facebook - devono sapere che il Governo (nel rispetto dell’indipendenza della magistratura) è pronto a dare una mano. Noi ci siamo». La replica dell’Associazione nazionale magistrati alle parole di Renzi non si faceva attendere. «Il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l’evasione fiscale fino al 3%» scrive l’Anm in un post pubblicato su Facebook. Per l’associazione: «Le critiche che vengono dai magistrati sono dettate dalla delusione: noi riponevamo e vorremmo riporre fiducia nella volontà di fare le buone riforme, ma chiediamo coerenza tra parole e fatti. Renzi vuole un sistema più veloce e più semplice? Blocchi la prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, introduca sconti di pena ai corrotti che collaborano con la giustizia, estenda alla corruzione gli strumenti della lotta alla mafia: i casi di corruzione clamorosi più recenti e più noti non sono indiscrezioni». L’Anm rileva: «Il Governo trovi le risorse per coprire le oltre 8.000 scoperture nell’organico del personale amministrativo. Accanto alla messa alla prova, alla non punibilità per tenuità del fatto, al processo civile telematico, sono troppe le riforme timide o assenti. Quanto alle correnti, riaffermiamo il valore delle diverse sensibilità che costituiscono una risorsa dell’associazionismo, da sempre respingiamo ogni degenerazione ispirata a logiche di potere. Non si può non trovare di cattivo gusto - conclude il post - il richiamo ai magistrati uccisi. Noi stessi siamo molto cauti nel richiamarci al ricordo dei colleghi caduti per il loro servizio: lo facciamo solo per onorare la loro memoria e il loro sacrificio, non per accreditare la nostra serietà». In serata sul tema è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «Le critiche delle ultime ore al progetto organico di riforma sono ingenerose. Dispiace che l'Anm non colga il passaggio solenne dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per recuperare obiettività».

Napolitano contro i giudici: «Basta protagonismi», scrive Virginia Spada su “Il Garantista”. Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, che ieri è intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici». «Lo Stato di tensione – ha detto – e le contrapposizioni polemiche che per anni hanno caratterizzato i rapporti tra politica e magistratura, determinando un paralizzante conflitto tra maggioranza e opposizione in Parlamento sui temi della giustizia e sulla sua riforma, non hanno giovato né alla qualità della politica, né all’immagine della magistratura». Il capo dello Stato, che per tutto il mandato non ha mai smesso di criticare le esternazioni dei magistrati, ieri si è sentito in dovere di rincarare la dose e le critiche, dopo le proteste dell’Anm contro la legge sulla corruzione (considerata troppo debole) e soprattutto contro la riforma della giustizia. Se a via Arenula, si chiede ai magistrati di occuparsi delle sentenze e non delle scelte del governo, il Quirinale non è da meno: «Ho ripetutamente richiamato l’esigenza che tutti facessero prevalere il senso della misura e della comune responsabilità istituzionale. La credibilità delle istituzioni e la salvezza dei principi democratici si fondano sulla divisione dei poteri e sul pieno e reciproco rispetto delle funzioni di ciascuno». Al capo dello Stato, con le valigie ormai pronte per lasciare il posto al suo successore, premono le riforme. Tra cui quella della giustizia. Non si tratta di una questione per lui secondaria. Più e più volte ha rilanciato la questione dell’indulto e dell’amnistia, ma dal Parlamento le sue parole non sono state accolte. Ora si aspetta che la macchina-giustizia migliori. «È indubbio – ha continuato davanti al Csm – che ciò cui occorre mirare è un recupero di funzionalità, efficienza e trasparenza del sistema della giustizia». Ma per Napolitano questo non può avvenire se i magistrati continuano a sovrapporsi alle scelte che spettano al Parlamento e al governo. L’Associazione nazionale magistrati ha annunciato una mobilitazione in vista dell’inaugurazione anno giudiziario. Ma il messaggio del Quirinale è chiaro e irrevocabile: sono da evitare «i comportamenti impropri e altamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunte nel corso degli anni da alcuni magistrati della pubblica accusa».

Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili. Infatti, mentre la liturgia religiosa si offre quale mediazione necessaria con il divino, quella laica, consumata anche ieri per l’ennesima inaugurazione dell’anno giudiziario, si presenta del tutto priva di senso e perciò completamente autoreferenziale. Prova ne sia un esame anche superficiale delle argomentazioni svolte sia da Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, sia da Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione. Il primo, probabilmente per esigenze legate al ruolo ricoperto, ha svolto argomenti del tutto allineati con le prospettive tipiche delle correnti della magistratura, mettendo in primo piano l’esigenza di tutelare ed accrescere il prestigio della stessa magistratura, oltre che dei singoli magistrati, messa così, la cosa ha dell’incredibile. Ma davvero, per Legnini e per i suoi colleghi del Csm, oltre che naturalmente per i magistrati italiani – o meglio per le loro correnti (in quanto, grazie a Dio, c’è una bella differenza fra le persone concrete che esercitano la giurisdizione e le correnti in cui si organizzano) – ciò che occorre garantire in sommo grado sarebbe il prestigio dei magistrati e della magistratura nel suo complesso? Si trattasse solo di questo, sarebbe facilissimo ottenere lo scopo desiderato: basterebbe – che so? – nominare tutti i magistrati italiani cavalieri della Repubblica o, in alternativa, accademici della Crusca ad honorem. In questo modo, il prestigio sarebbe assicurato una volta per tutte e saremmo tutti contenti. Evidentemente, non passa per la testa di Legnini e dei suoi colleghi che il vero prestigio, anzi l’unico prestigio, lo si conquista sul campo; ed è quello di cui un magistrato giunge a godere dopo aver dato ad avvocati, colleghi e cittadini, ripetuta prova, negli anni, di possedere, equilibrio, buon senso e senso del diritto, coefficienti indispensabili per rendere giustizia. A ben guardare – e bisogna annotarlo con crescente preoccupazione – è proprio questa, la giustizia, ad essere tragicamente assente dalla discussione pubblica di queste liturgie laiche : nessuno se ne interessa, nemmeno per accennarvi, e credo il termine medesimo neppure compaia. La giustizia insomma scompare anche come concetto da pensare, sostituita da altri concetti oggi assai di moda, quali efficienza, tempestività, utilità: semplici sciocchezze, incidenti del pensiero, ma oggi tenuti in gran conto, perché non si capisce che se si fosse in grado di rendere giustizia, lo si farebbe celermente e che invece i deprecabili ritardi son dovuti alla reale incapacità di renderla come si dovrebbe. Accertato dunque ciò che Legnini ed i suoi colleghi non sanno, cioè che il prestigio dei magistrati è solo un traguardo (faticoso ed impegnativo) e non mai un punto di partenza, è il caso di prestare attenzione agli argomenti svolti da Santacroce. Il presidente della Cassazione ha mostrato certo maggior senso della realtà allorché ha invitato i pubblici ministeri a non litigare fra loro (con l’occhio rivolto alle recenti vicende che hanno contrapposto Robledo a Bruti Liberati) e ad evitare sovraesposizioni mediatiche, ma è incappato pure lui in uno scandalo (nel senso evangelico di “inciampo”) del discorso, allorché ha esordito notando che dopo mani pulite la magistratura avrebbe dato inizio ad “una parabola discendente”. Saremmo davvero curiosi di sapere di cosa si tratti e se per caso la parabola attuale – che si dice appunto discendente – possa mai sperare di tornare ad “ascendere”. Forse si vuole alludere al consenso che i magistrati di mani pulite – con Di Pietro in testa – incontravano in quel periodo fra la gente. Meglio si farebbe allora ad affermare che i magistrati non debbono godere di alcun consenso perché non sono politici di professione e che fu invece proprio in forza di quel consenso anche mediatico (ma del tutto sprovvisto di elementari principi di diritto) che una modifica della custodia cautelare, che la vedeva limitata ai soli casi di delitti “di sangue,” naufragò in poche ore: fu sufficiente che Di Pietro arringasse le folle dagli schermi riuniti di Rai e Mediaset per ottenere lo scopo desiderato, tanto che il governo di allora barcollò, per cadere dopo poche settimane. Come volevasi dimostrare: fra due forze politiche, una per natura – il governo – ed una contro- natura – la magistratura – a prevalere fu questa. Non basta. Santacroce si è anche addentrato nel merito di varie proposte di legge in tema di appello, ricorso per cassazione, ed altri simili intenti riformatori: è appena il caso di ricordare che chi è chiamato ad applicare la legge, cioè il giudice, farebbe bene ad evitare di concorrere direttamente o indirettamente alla sua formazione. O no? Se qualcosa è cambiato, che qualcuno me lo dica. La triste verità è che l’unica domanda che varrebbe davvero la pena di porsi – in modo martellante ed ostinatissimo, perché è la domanda dell’intera vita – viene accuratamente taciuta in queste liturgie. La domanda suona: noi tutti giudici italiani, con tutto l’ambaradàn di risorse, personale, organizzazioni e polemiche di vario genere, siamo riusciti, in questo ultimo anno, ad assicurare agli italiani che hanno fatto ricorso alla nostra opera non dico tanto, ma almeno un tasso di giustizia pari al 20% di quello richiesto? E se non ci siamo riusciti, perché ciò è accaduto? E, se è accaduto, cosa fare per rimediare? Invece, nulla: silenzio assoluto. Della giustizia e del tasso di giustizia che ogni sentenza sia in grado di assicurare (o non assicurare) ai nostri simili non importa a nessuno, neppure al vicepresidente del Csm o al presidente della Cassazione. Ma non crediate sia una novità. Si va avanti così da decenni, e non sorprende perciò che le cose vadano di male in peggio: si parla del nulla e si tace l’essenziale. Da qui l’inutilità. Avanzo perciò una irriverente proposta: il prossimo anno, diamo da leggere a presidenti e vicepresidenti una relazione redatta tre, sei, dieci, vent’anni or sono. Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno i giornalisti, tanto essa conterrebbe, più o meno, la medesima litania di geremiadi sulla mancanza di denaro, di personale, di mezzi e così via: come se a saldare il conto della giustizia fossero il denaro, il personale, i mezzi e non il senso di giustizia dei giudici, il loro esercitato equilibrio, il loro essere e mostrarsi esperti d’umanità. Preoccupati, come dev’essere, non solo di sbagliare il meno possibile: ma anche di saper rimediare agli errori commessi. Ma mi rendo conto: di questo è meglio tacere.

GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.

Procura di Milano, alla fine per lo scontro pagherà solo Robledo. La Procura generale della Cassazione chiede al Csm di rimuovere il procuratore aggiunto: contro di lui le intercettazioni con l'avvocato della Lega Nord, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Poteva finire con un nulla di fatto, con entrambi i contendenti lasciati in qualche modo al loro posto; poteva finire con la cacciata di entrambi i contendenti, e con l'azzeramento di fatto del gruppo dirigente della Procura; e invece con un colpo di scena la faida interna al palazzo di giustizia milanese sembra avviata a risolversi con la sconfitta piena solo di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che con il suo esposto al Consiglio superiore della magistratura aveva sollevato nel marzo dello scorso anno il caso delle presunte irregolarità nella gestione da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati praticamente di tutte le inchieste più delicate. Nei confronti di Robledo, il procuratore generale della Cassazione ha fatto partire nei giorni scorsi una richiesta eccezionale: trasferimento immediato in via cautelare, di fatto l'allontanamento dall'ufficio e il trasferimento a un altro incarico. Tecnicamente, le accuse che potrebbero portare al defenestramento di Robledo non sono collegate ai temi sollevati nel suo esposto, e di cui si è molto discusso in questi mesi. La richiesta di rimozione del magistrato viene motivata dal pg con una serie di intercettazioni che arrivano dall'altro capo d'Italia, ovvero dalla indagine che la procura di Reggio Calabria sta svolgendo sui contatti tra alcuni esponenti della Lega Nord e il mondo della criminalità organizzata: è l'indagine che ha portato all'incriminazione dell'ex tesoriere del Carroccio, Belsito, accusato di avere utilizzato canali contigui alla 'ndrangheta per spostare e investire all'estero parte dei fondi del partito. Nell'ambito di quella inchiesta è stato intercettato anche l'avvocato di fiducia dei vertici leghisti, Domenico Aiello, e così la Dia ha registrato una serie di contatti telefonici tra il legale e Robledo, all'epoca titolare delle indagini sui finanziamenti pubblici al partito di Bossi. Contatti che indicano una certa confidenza tra i due, e nei quali Robledo sembra garantire a Aiello che l'inchiesta sarebbe stata condotta anche a carico di esponenti di altri partiti. Ma è evidente che le notizie provenienti da Reggio Calabria hanno finito col fare parte a pieno titolo dello scontro senza precedenti in corso alla Procura di Milano, dove Robledo accusava Bruti di avere forzato la mano per affidare tutte le inchieste con risvolti politici (dal San Raffaele a Ruby alla Serravalle a Expo) solo a pm di sua fiducia, aggirando le norme interne all'ufficio e le competenze dei diversi dipartimenti. Lo stesso consiglio giudiziario di Milano, l'organismo locale di autogoverno della magistratura, ha stigmatizzato questo comportamento di Bruti. Ma sia il procuratore capo che Robledo (accusato da Bruti di interferenze e comportamenti irregolari) erano usciti incolumi dalle azioni disciplinari avviate dal Csm. E la settimana scorsa aveva preso quota la ipotesi di una soluzione ponte, con Robledo parcheggiato in un'altra procura in attesa del pensionamento di Bruti. Invece stamane a sorpresa dal Csm arriva la notizia della richiesta di rimozione immediata di Robledo avanzat dal pg della Cassazione, Ciani. Una richiesta che verrà esaminata dal Csm in tempi brevissimi, e che se dovesse venire accolta segnerebbe una vittoria per ko di Bruti e del suo schieramento nello scontro con Robledo.

Milano, altri guai per il pm Alfredo Robledo: "Ha favorito l'avvocato della Lega Nord". Il pg della Cassazione contro l'aggiunto di Milano, già al centro di uno scontro con il procuratore capo Bruti Liberati. Il motivo sono le intercettazioni di un'inchiesta antimafia rivelate da l'Espresso. Secondo l'accusa il legale girava a Roberto Maroni e Matteo Salvini le notizie ottenute dal magistrato che indagava su Belsito, scrive Paolo Biondani “L’Espresso”. Alfredo Robledo Il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, rischia il posto per i suoi rapporti telefonici con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello. Un caso giudiziario nato da una serie di intercettazioni della procura antimafia di Reggio Calabria e rivelato per la prima volta il 25 ottobre scorso da un articolo de “l'Espresso” . Robledo è il magistrato che da mesi è protagonista di uno scontro senza precedenti con il suo procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati. Oggi il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare, ha depositato al Csm una richiesta di trasferimento d'ufficio a carico di Robledo, chiedendo che venga decisa d'urgenza, come misura cautelare. Secondo l'accusa, Robledo dovrebbe non solo cambiare città, ma addirittura perdere le funzioni di pubblico ministero. Il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha già fissato un'apposita udienza della sezione disciplinare, che è chiamata a pronunciarsi il 5 febbraio. Il trasferimento forzato di Robledo consacrerebbe la vittoria di Bruti Liberati nella scontro con il suo aggiunto, che è già stato rimosso dall'incarico di coordinatore delle indagini milanesi sui reati collegati alla corruzione. Il Csm e lo stesso pg della Cassazione, però, devono ancora pronunciarsi sugli altri capitoli ancora aperti della disfida tra toghe che ha spaccato la procura di Milano. A Robledo vengono contestati i rapporti amichevoli con Domenico Aiello, il penalista di fiducia di Roberto Maroni, diventato l'avvocato della Lega dopo lo scandalo dei finanziamenti pubblici sottratti dall'ex tesoriere Belsito, che ha coinvolto anche Umberto Bossi favorendo il cambio della guardia al vertice del partito. Quell'inchiesta era diretta proprio da Robledo. Tra il 2012 e il 2013, mentre era ancora in corso l'indagine milanese sui soldi della Lega, la procura reggina ha intercettato l'avvocato Aiello per tutt'altri motivi: il professionista, che è di origine calabrese, risultava in contatto con imprenditori sospettati di collusioni con la 'ndrangheta. Quella procura antimafia ha così intercettato anche Robledo, ma solo indirettamente, perché era in contatto con l'avvocato Aiello. Anche i parlamentari leghisti sono stati intercettati solo indirettamente: sotto controllo c'era solo il telefonino Aiello. Nella primavera del 2013 la procura di Reggio Calabria ha trasmesso un faldone di intercettazioni ai pm di Brescia, competenti a indagare sui magistrati di Milano, ipotizzando che Robledo avesse rivelato all'avvocato della Lega notizie riservate sulle proprie indagini. Dopo un anno di accertamenti, i pm bresciani Fabio Salamone e Paolo Savio hanno chiesto l'archiviazione di tutte le accuse a carico di Robledo. Secondo i due magistrati competenti, quelle comunicazioni tra Robledo e Aiello non hanno rilevanza penale: non ci sono i presupposti per accusare il pm milanese, in particolare, di ipotetiche violazioni del segreto istruttorio. Nelle motivazioni della loro richiesta, gli stessi pm bresciani precisano però che l'archiviazione riguarda solo la vicenda penale, «al di là di ogni valutazione sull'opportunità di frequenti contatti» tra magistrato e avvocato «per ragioni non sempre strettamente correlate con le rispettive qualità». Ora il pg della Cassazione, che invece rappresenta l'accusa nei procedimenti disciplinari e può occuparsi anche di vicende personali che non costituiscono reato, ha riletto gli stessi atti dell'indagine bresciana ipotizzando, come precisa l'agenzia Ansa, uno «scambio di favori»: un comportamento penalmente irrilevante, ma considerato inopportuno per un magistrato. Sotto accusa, in particolare, ci sono alcuni sms inviati da Robledo ad Aiello, e da quest'ultimo a parlamentari della Lega come Maroni, Salvini e Speroni, mentre era ancora in corso l'inchiesta milanese sul caso Belsito. Il 28 dicembre 2012, ad esempio, Aiello manda a Maroni un sms che allude a una riunione dei pm milanesi: «Finita riunione in Procura con capo e agg. Domani sera mi daranno altri nominativi ns consiglieri indagati. Hanno intercettazioni gravi contro Pdl, mentre su di noi pare ci sia una impiegata gola profonda». Nello stesso periodo l'avvocato Aiello telefona anche all'attuale leader leghista Matteo Salvini, sostenendo che Robledo gli avrebbe promesso di spedire, prima delle elezioni del 2013, «gli stessi avvisi a Pd, Idv e Pensionati. (…) Mi ha detto: “Domenico, te lo garantisco, ci puoi spendere la tua credibilità”». Quando l'inchiesta milanese sui rimborsi-truffa coinvolge effettivamente anche gli altri partiti, l'avvocato della Lega scrive un sms di ringraziamento al pm milanese: «Uomo di parola! Poi grande magistrato!». E Robledo gli risponde con una citazione in latino che sembra confermare una promessa: «Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio!». Esaminate tutte le intercettazioni, i magistrati bresciani hanno concluso che va giudicato «assolutamente comprensibile» che l'avvocato della Lega si preoccupi di informarsi sulla posizione degli indagati della proprio parte politica. Quanto alle notizie sugli altri partiti, Robledo si sarebbe limitato a fornirgli una «generica informazione che l'indagine avrebbe riguardato in tempi brevi anche l'opposizione», senza però rivelargli segreti investigativi. Ora però il pg della Cassazione rilancia l'accusa, sostenendo che Robledo, il 18 dicembre 2012, avrebbe anticipato ad Aiello almeno una notizia molto precisa, e cioè che la sua inchiesta stava per coinvolgere altri 7-8 consiglieri regionali. Cosa effettivamente successa il giorno dopo. Sotto accusa, sempre sul piano disciplinare, c'è anche una serie di telefonate in cui Robledo avrebbe suggerito ad Aiello di chiedere copia di una consulenza tecnica a carico della Lega, che era stata anticipata nel febbraio 2013 da “l'Espresso”. Quando poi Aiello si vide negare quei documenti integrali, Robledo, sempre secondo il pg della Cassazione, avrebbe scaricato la colpa sul procuratore capo, Bruti Liberati. Da altre telefonate, sempre secondo la ricostruzione dei pm bresciani, risulta «evidente che Robledo si sia avvalso dell'aiuto del legale per intervenire nella procedura dinanzi la Commissione europea» che lo vedeva contrapposto all'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, mentre quest'ultimo si era candidato alle regionali in Lombardia contro Maroni. Nei mesi precedenti, Albertini aveva accusato il pm milanese di aver condotto indagini illegali sui derivati finanziari acquistati dal Comune di Milano. Contro-denunciato da Robledo, l'ex sindaco, che rivestiva la carica di europarlamentare di Forza Italia, aveva chiesto l'immunità politica, che però gli è stata negata. Di questo caso si era occupata la stessa procura di Brescia, che alla fine ha chiesto di processare proprio Albertini per calunnia ai danni di Robledo. In quel contesto, nelle sue conversazioni con l'avvocato Aiello, Robledo chiedeva «solo che la mia lettera vada alla Commissione, che prenda atto che questo ha detto balle totali». Ora però il pg della Cassazione sostiene che Robledo, per poter preparare la sua lettera, avrebbe ricevuto dall'avvocato Aiello una serie di documenti, presentati da Albertini al Parlamento europeo per ottenere l'immunità, che andrebbero considerati «non pubblici». Aiello glieli avrebbe fatti arrivare per email. Nell'indagine bresciana erano finite anche alcune intercettazioni, registrate sempre dai pm antimafia calabresi, delle telefonate tra Aiello e il pm milanese Eugenio Fusco, titolare di un'inchiesta sul gruppo Finmeccanica che sembrava poter coinvolgere anche la Lega. Ma i magistrati bresciani hanno concluso che queste conversazioni, oltre a essere penalmente irrilevanti, «rientrano nella prassi comune dei contatti tra pm e difensori». Sull'archiviazione dell'inchiesta penale su Robledo, l'ultima parola spetterà ai giudici bresciani. Ma ora il procuratore aggiunto rischia di essere allontanato da Milano con un trasferimento disciplinare che potrebbe segnare la fine della lunga stagione dei veleni in procura.

Quel filo segreto tra la Lega e Robledo. Il pm di Milano intercettato al telefono con l’avvocato di Maroni. L’antimafia lo denuncia. E l’indagine finisce a Brescia, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Da una parte c’è il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, che in quei giorni sta indagando sui presunti ladroni del cerchio magico di Umberto Bossi. All’altro capo del telefono c’è l’avvocato Domenico Aiello, che dopo aver difeso Roberto Maroni sta diventando, proprio per effetto di quel terremoto giudiziario, il penalista di fiducia dell’intero partito padano. E in mezzo, ad ascoltare tutto, ci sono i carabinieri di una procura antimafia del Sud Italia. Che non si aspettavano certo di dover registrare dei colloqui riservati tra il pm anti-Lega e l’avvocato della Lega. Su questo strano cortocircuito tra giustizia e politica sta indagando da circa un anno la Procura di Brescia. Un’inchiesta riservatissima, che per il pm Robledo era iniziata molto male. L’alto magistrato, almeno fino a pochi giorni fa, risultava ancora indagato, a quanto pare per un’ipotetica violazione del segreto istruttorio. Ma in questi mesi i pubblici ministeri bresciani hanno ormai approfondito il caso, che sembra essersi ridimensionato. E ora a Brescia, dove nel frattempo il nuovo procuratore Tommaso Buonanno ha scalzato lo storico pm Fabio Salamone, i magistrati sarebbero orientati a chiedere l’archiviazione. Il verdetto finale comunque spetterà ai giudici delle indagini e fino ad allora Robledo resterà, suo malgrado, formalmente inquisito. Proprio come il suo grande nemico, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, a sua volta sospettato di omissione di atti d’ufficio, per un’inchiesta sulla Sea dimenticata in cassaforte e rivendicata da Robledo dopo un articolo de “l’Espresso”. La nuova indagine bresciana non c’entra nulla con il feroce scontro tra Robledo e Bruti: è invece uno spezzone di un’istruttoria altrui, molto più ampia e ancora segreta. Si sa soltanto che una procura antimafia, per ricostruire le trame di un colletto bianco, ha intercettato (come sempre) tutti i suoi interlocutori, imbattendosi per caso in Aiello. E così, tra il 2012 e il 2013, per qualche tempo finisce sotto controllo pure il telefonino dell’avvocato. Che, a sorpresa, si sente più volte con Robledo. I carabinieri annotano. E nella primavera 2013 la loro procura manda a Brescia due denunce di reato. Il tenore delle intercettazioni ha convinto quella procura antimafia che il pm Robledo e l’avvocato Aiello stiano orchestrando manovre per colpire l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Che è un rivale politico: proprio in quei mesi si è candidato contro Maroni in Lombardia. Altre telefonate fanno temere che il magistrato possa avere anticipato all’avvocato qualche notizia riservata della sua inchiesta sui presunti rimborsi-truffa incassati da altri partiti. Di qui la trasmissione al Nord delle intercettazioni. A Brescia però, per fortuna di Robledo, i pm sono in grado di ricostruire un quadro più completo. Albertini, infatti, è già indagato (e oggi rischia il processo) con l’accusa di calunnia proprio ai danni del magistrato milanese: era lui che tentava di screditarlo. Denunciato da Robledo, l’ex sindaco cercava di avere l’immunità dal parlamento europeo, che poi lo ha bocciato. In quelle telefonate Robledo non nasconde l’antipatia per Albertini, ma cerca solo di d’informarsi se la Lega a Bruxelles voterà a suo favore. Mentre per i rimborsi, all’avvocato che gli contesta di perseguitare solo la Lega, il pm ribatte che indagherà su tutti i partiti, come poi succederà, ma senza fornirgli particolari segreti. In attesa che i giudici bresciani tirino le somme, certo è che il pm e l’avvocato non parlavano di altre indagini che avrebbero potuto interessare entrambi. Nel 2010, quando è diventato il difensore di Maroni, Aiello guidava il ramo penale dello studio internazionale “Dla Piper”, dove a gestire il settore degli appalti era l’avvocata Giorgia Romitelli. Che nel marzo 2014, su richiesta di Robledo, è finita agli arresti domiciliari nell’inchiesta che ha decapitato Infrastrutture Lombarde, la centrale regionale delle grandi opere. 

Robledo chiede alla Finanza di aiutarlo a incastrare Bruti. Caos a Milano, l'aggiunto scrive al Csm e controaccusa il suo capo: "Su Expo dice il falso, ho le prove". E allega una relazione della GdF, scrive Anna Maria Greco su  “Il Giornale”. Alfredo Robledo non ci sta. Reagisce con durezza alle controaccuse del procuratore di Milano, Bruti Liberati, e scrive una nota al Csm, accusandolo di aver detto il «falso» e chiedendo di essere ascoltato per replicare. «Sono radicalmente inventate e prive di qualunque fondamento - tuona - le affermazioni su Expo». E da Magistratura indipendente arriva l'appello al Guardasigilli Andrea Orlando: si mandino gli ispettori alla Procura di Milano. Raccontano che l'aggiunto abbia dato in escandescenze martedì, quando ha saputo che nella lettera mandata al Csm il suo capo denunciasse l'episodio, definito «surreale», del doppio pedinamento di un indagato, che l'aggiunto avrebbe disposto rischiando di far saltare le indagini sull'Expo 2015. No, Robledo non ci sta e ha richiesto urgentemente alla Guardia di finanza una dettagliata relazione, allegata alla nota di due pagine inviata al Csm, per confutare la ricostruzione del suo capo. Una ricostruzione che tenta di presentare lui, il grande accusatore di irregolarità e violazioni nel Palazzo di giustizia milanese, come il colpevole di iniziative che hanno portato «grave intralcio» ad importanti inchieste. Ma Robledo fa una smentita a tutto campo. E con toni durissimi: «Le inveritiere affermazioni del procuratore» di Milano Edmondo Bruti Liberati - scrive - sul presunto "doppio pedinamento" (nelle indagini su Expo, ndr) appaiono altamente lesive della dignità della funzione di procuratore aggiunto, coordinatore del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione che attualmente svolgo, e turba «il regolare svolgimento della funzione». Uno scontro senza precedenti. Nella sua lettera al Csm, resa nota martedì, Bruti contesta il fatto che l'aggiunto (il quale polemicamente non ha firmato le 7 richieste d'arresto per l'inchiesta Expo, sostenendo che gli sarebbe stato impedito di valutare compiutamente i fatti, «in violazione della normativa») non sia stato tenuto al corrente delle indagini. Nate, secondo il capo, nella Direzione antimafia guidata da Ilda Boccassini e coassegnate al Dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, di cui Robledo è responsabile. Come esempio dei danni che l'aggiunto avrebbe causato, mettendosi di traverso alla sua gestione della procura, il capo parla della vicenda del doppio pedinamento. Contro il suo aggiunto ribelle Bruti denuncia molto altro, sostenendo di non aver potuto dire tutto nell'audizione a Roma del 15 aprile, perché allora l'indagine sull'Expo era ancora coperta dal segreto. Il procuratore sostiene infatti che, inviando il mese scorso al Csm copie di atti di questo procedimento, ancora «in delicatissima fase di indagine», Robledo «ha posto a grave rischio il segreto delle indagini». Ma l'aggiunto controbatte, su tutta la linea. Palazzo de' Marescialli deve ora valutare la fondatezza delle accuse di Robledo e delle controaccuse di Bruti Liberati. Per il primo, il procuratore avrebbe affidato troppe inchieste politicamente delicate (a cominciare da quella Ruby) a pm come la Boccassini e Francesco Greco, non per competenza ma perché li riteneva più fidati. Da notare, che Bruti Liberati è uno degli storici esponenti della corrente di sinistra Magistratura democratica, mentre Robledo è vicino a Magistratura indipendente. E proprio da Magistratura indipendente è arrivata la richiesta di un'ispezione. A farla il togato Antonello Racanelli, nel corso del plenum del Csm alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando. Il ministro ha replicato dicendo di attendere le decisioni del Csm per decidere. «Il quadro ormai è chiaro - racconta un consigliere di una delle commissioni interessate, la prima (incompatibilità ambientale e funzionale) e la settima (organizzazione degli uffici) - non ci dovrebbero essere altre audizioni». Il procuratore capo Bruti, che a luglio termina il suo incarico, dopo questo scontro clamoroso difficilmente potrà essere confermato alla guida dell'ufficio di Milano. Ma per lui, anche se la vicenda al Csm si chiude senza conseguenze, potrebbe profilarsi un'indagine disciplinare. In particolare, sulla vicenda del fascicolo Sea-Gamberale, dimenticato dal procuratore in cassaforte, come lui stesso ha ammesso. Ma anche per il suo vice Robledo potrebbero esserci conseguenze, perché anche se il suo comportamento fosse ritenuto «incolpevole», ci potrebbe essere all'orizzonte un trasferimento per incompatibilità con i colleghi dell'ufficio.

Ed ancora. «Incompatibilità ambientale» Via da Milano il pm Esposito, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Stop come pm e via dalla Procura di Milano: la sezione disciplinare del Csm ha deciso in via cautelare il trasferimento a Torino di Ferdinando Esposito per «incompatibilità ambientale» (con la sede giudiziaria di Milano) e «funzionale» (con il ruolo inquirente) del pm della Procura di Milano, nipote dell?ex procuratore generale della Cassazione (Vitaliano) e figlio del magistrato (Antonio) che in Cassazione nell?estate 2013 presiedette il collegio di 5 giudici che condannarono Silvio Berlusconi per frode fiscale Mediaset. Tra i capi di «incolpazione» disciplinare (per cui ora proseguirà il procedimento di merito) c?erano la disponibilità per quasi 4 anni di un attico per il quale circa 150.000 euro di affitto furono saldati dalla società di un manager e da un banchiere all?epoca inquisito dalla Procura di Milano; i rapporti con l?avvocato ed ex amico Michele Morenghi, per i quali il pm è al momento indagato a Brescia; prestiti di denaro da più persone, tra le quali un consulente proposto a un collega pm; e la storia del bigliettino dato durante le indagini a questo collega pm per chiedergli «inventiamoci qualcosa?è una cazzata ma è importante che le versioni coincidano». Esposito impugnerà il trasferimento cautelare disciplinare alle Sezioni Unite civili della Cassazione.

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. È successo proprio ieri al sindaco di Salerno, De Luca, che ora rischia di essere tagliato fuori dalle primarie del Pd per la candidatura a governatore della Campania. Un magistrato indagato per abuso d’ufficio passa sotto silenzio. Eppure i danni che può provocare l’abuso di un magistrato, dato l’enorme potere che esercita sulle singole persone, sulle loro vite, sono molto maggiori di quelli che può provocare un sindaco. Se per caso succedesse che un uomo politico fosse accusato di avere usato violenza su un testimone per costringerlo ad accusare ingiustamente un suo nemico, verrebbe giù il mondo. Giusto che sia così. Ci sono diversi magistrati, anche prestigiosissimi, che sono stati accusati di aver costretto i testimoni a mentire, ma la cosa non scuote nessuna coscienza. Eppure nessuno si aspetta equanimità da un politico, mentre da un magistrato magari potrebbe anche pretenderla… Usciamo dalle affermazioni generiche, andiamo al concreto. Tre casi in un giorno solo. A Milano, clamorosamente, si scopre che il testimone-chiave contro Filippo Penati (ex presidente della Provincia ed ex dirigente di primissimo piano del Pd ai tempi di Bersani) aveva mentito, e aveva mentito – dice lui stesso – perché indotto alla menzogna dalla Procura con il ricatto del carcere. In poche parole, era stato costretto ad accusare ingiustamente Penati. In un paese civile una cosa del genere sarebbe uno scandalo devastante, raderebbe al suolo il prestigio dell’intera magistratura e farebbe saltare molte teste. Da noi no. Alzata di spalle. Contemporaneamente, sempre dalle parti di Milano, si riaccende lo scontro di potere del quale fin qui ha fatto le spese il dottor Robledo, inviso al potente Procuratore Bruti Liberati (anche perché spesso critico verso Bruti in modo un po’ troppo circostanziato). E lo stesso Robledo ora rischia un procedimento disciplinare per una vicenda che nasce da una discutibilissima intercettazione telefonica. Robledo avrebbe scambiato alcuni messaggi con un avvocato. Niente di rilevante penalmente, ha detto la stessa magistratura, ma ora deciderà il Csm se meritevole di una sanzione. Ci sono varie domande inquietanti a questo proposito. Una è questa: perché qualcuno intercettava il telefono del dottor Robledo, indagato di nulla, e di un avvocato (non andrebbero mai intercettati i telefoni degli avvocati, che devono difendere il segreto professionale)? Era legittima l’intercettazione o abusiva? Quante volte le intercettazioni telefoniche sono abusive? Sarà il caso di limitare le intercettazioni riportandole a livelli europei? (Ho detto, una domanda ma me ne sono venute di più…). Poi c’è un terzo episodio. La Procura di Catanzaro ha rinviato a Roma la decisione se incriminare o meno un Pm molto noto in Calabria, la dottoressa Ronchi, ex braccio destro di Pignatone, per abuso di ufficio, falso ideologico e altra robina così. La dottoressa è sospettata di aver cercato di incastrare, ingiustamente, un suo collega molto prestigioso, Alberto Cisterna, che all’epoca era il numero due dell’antimafia nazionale e che era candidato a diventare Procuratore a Reggio. Sembra che una parte della magistratura reggina non gradisse Cisterna, e c’è il sospetto che per eliminarlo dalla corsa si sia inventata accuse varie, anche forzando le deposizioni dei pentiti. Ma dove siamo? In Italia o nell’America Latina degli anni Settanta? Tre casi così clamorosi in una sola giornata non sono casuali. È chiaro che c’è un pezzo grandissimo di magistratura (così come c’è un pezzo grandissimo di politica) serissimo, incorruttibile, impegnato nel suo lavoro e nella difesa del diritto. Poi però è chiaro anche che c’è un altro pezzo, interessato solo alle lotte di potere, dentro la magistratura e tra magistratura e politica, e che nello svolgimento di queste lotte usa i mezzi peggiori, abusa, esercita violenza. Filippo Penati ha avuto la sua carriera politica annientata. Ora vagli a spiegare che il testimone lo accusava perché sennò qualche pm lo teneva in prigione! La Procura di Milano è quella che ha modificato profondamente la struttura della lotta politica in Italia, eliminando dalla scena uno dei suoi personaggi più importanti, e cioè Berlusconi, e riducendo quello che era il primo partito politico in Italia alla terza o alla quarta posizione. È legittimo pensare che in altre occasioni abbia usato mezzi illegali come quelli usati contro Penati? Noi chiediamo solo questo: è il caso di permettere che le cose continuino così? Possibile che la politica non trovi al suo interno le forze che hanno il coraggio di reagire? Se l’architetto Sarno confermerà di avere accusato Penati perché sennò i magistrati non lo facevano uscire di cella, chiunque sarà autorizzato a dire che in Italia esiste una forma legalizzata di tortura, e sarà acclarato che il carcere preventivo non è una misura cautelare ma uno strumento (medievale) di indagine. Vogliamo continuare a dire che non è questo il problema principale, e occupiamoci prima dell’Italicum, e del Senato e roba così? Facciamoci pure del male, come diceva Moretti, sapendo che stiamo andando verso la costruzione di uno Stato di non- diritto. Illegale e corrotto, fondato sulla sopraffazione.

La Pm Ronchi voleva incastrare Cisterna numero 2 dell’antimafia? Si chiede Consolato Minniti su “Il Garantista”. Sarà depositata nei prossimi giorni la decisione del gip sul caso Ronchi-Cisterna. Si tratta di dare una risposta all’opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento aperto nei confronti del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, fino a qualche tempo fa in servizio a Reggio Calabria ed oggi trasferita a Bologna. A denunciare il pm fu un collega, l’ex numero due della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna.  L’accusa è piuttosto pesante: abuso d’ufficio, omissione in atti d’ufficio e falso ideologico. Secondo il magistrato, che alla Dna fu il vice dell’odierno presidente della Repubblica supplente Piero Grasso, la Ronchi si sarebbe fatta più volte applicare, ben oltre la sua permanenza a Reggio Calabria, in un procedimento nel quale Cisterna risultava indagato, sulla base di presupposti falsi ed in violazione di legge. Per comprendere l’intricata vicenda che vede contrapposte le due toghe, però, occorre fare un deciso passo indietro e andare addirittura all’ottobre del 2010, quando a Reggio Calabria si apre una nuova stagione dei veleni all’interno dei palazzi di giustizia. Ci pensa il pentito Antonino Lo Giudice a sconquassare gli equilibri (già fragili, peraltro) fra i magistrati reggini. Lui, appartenente ad una nota famiglia di ‘ndrangheta della zona nord di Reggio, è definito “il nano” a causa della bassa statura. Le sue dichiarazioni, però, sono deflagranti. Perché appena si siede al tavolo con i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone, afferma: «Ho piazzato io la bomba alla procura generale reggina ed anche quella sotto casa del procuratore generale Di Landro. Ho fatto mettere io il bazooka per Pignatone, davanti al palazzo del Cedir». A Reggio non si parla d’altro. Pochi mesi prima, infatti, questi tre episodi riportandola città in un clima di terrore. Lo Giudice racconta anche dei rapporti che suo fratello Luciano (volto imprenditoriale della famiglia) ha intrattenuto con alcuni magistrati ed esponenti delle forze di polizia. Un ufficiale dell’Arma finisce in manette, mentre fra i giudici chiamati in causa c’è Alberto Cisterna, all’epoca in servizio alla Dna. Ed è qui che il racconto del pentito inizia a mostrare delle stranezze. Dapprima narra di rapporti del tutto leciti, limitati al fatto che suo fratello Luciano fosse un confidente. Poi, pian piano, la sua versione cambia. Se ne conteranno ben quattro. Lo Giudice accuserà Cisterna di aver avuto «regali e qualche confidenza», per giungere poi ad una frase rimasta scolpita come pietra dello scandalo. Discutendo della scarcerazione di un altro fratello, Maurizio, il “nano” dice ai pm reggini che Luciano gli avrebbe confidato di aver dovuto pagare un prezzo per far uscire il congiunto dal carcere: «Mio fratello mi fece intendere soldi, molti soldi». E il magistrato “ripagato” per quella scarcerazione sarebbe stato proprio Cisterna. Nulla più saprà aggiungere Lo Giudice su tale episodio, né tanto meno sarà in grado di spiegare data, luogo e modalità dell’eventuale pagamento. Ma tanto basta al procuratore Pignatone per iscrivere Cisterna nel registro degli indagati con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. L’ex vice di Grasso programma un interrogatorio con i pm reggini ma, proprio quella mattina – è il 17 giugno 2011 – la notizia, sino ad allora rimasta riservata, viene pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera. La guerra fra pm esplode in tutta la sua prepotenza. Nel corso dell’interrogatorio, infatti, Pignatone contesta a Cisterna i suoi rapporti con Luciano Lo Giudice. Il magistrato spiega che quei contatti sono finalizzati alle informazioni che il fratello del “nano” diede per la cattura di uno dei boss più potenti della ‘ndrangheta, ossia Pasquale Condello. E, per far comprendere la tipologia di rapporti, Cisterna tira fuori la storia della cattura di Bernardo Provenzano, della quale Pignatone fu protagonista. Lo scontro è totale. L’inchiesta viene archiviata, ma l’incartamento finisce al Csm che, pur ravvisando l’inattendibilità del pentito, trasferisce Cisterna a Tivoli in via cautelare, per incompatibilità funzionale. Il pm titolare del procedimento per corruzione è proprio Beatrice Ronchi, la quale termina in quel periodo la sua permanenza a Reggio Calabria. È sempre lo stesso pm a seguire il processo principale nei confronti della cosca Lo Giudice e per questo viene applicata anche al fascicolo su Cisterna, benché sia ormai in altra sede. Accade, però, che dopo l’archiviazione del reato di corruzione, si apra un altro fascicolo riguardante alcune lezioni all’università di Reggio Calabria, che l’ex vice di Grasso avrebbe attestato falsamente di aver tenuto in giorni in cui era fuori città. La Ronchi ottiene, anche per tale procedimento l’applicazione extradistrettuale, poiché vi sarebbe uno «stretto collegamento» con il processo alla cosca Lo Giudice. Circostanza che a giudizio di Cisterna sarebbe del tutto infondata. Da qui l’esposto alla procura di Catanzaro, competente per i giudici reggini. La quale, però, decide di chiedere l’archiviazione per la Ronchi e inviare gli atti a Roma, per approfondire eventuali condotte delittuose in seno al Csm. Se così dovesse avvenire, il fascicolo passerebbe per competenza alla procura di Perugia.

Il pm Ronchi sotto indagine a Catanzaro. All’origine del procedimento, ci sono quattro esposti presentati nel tempo dall'ex numero due della Dna, Alberto Cisterna per contestare l'applicazione extradistrettuale della sostituto, scrive Alessia Candito su “Il Corriere della Calabria”. Abuso d’ufficio, rifiuto e omissione di atti d’ufficio e falso ideologico: sono questi i reati per cui è indagata la pm Beatrice Ronchi, oggi in servizio presso la procura della Repubblica di Bologna, ma per anni in forza alla Dda di Reggio Calabria, dove ha ereditato e portato a termine le indagini sul clan Lo Giudice. Da rappresentante della pubblica accusa, la nota sostituto procuratore dovrà adesso presentarsi in aula in veste di indagata di fronte al gup Abigail Mellace del Tribunale di Catanzaro. Per lei, il pm Gerardo Dominijanni ha avanzato una richiesta di archiviazione, con contestuale trasferimento degli atti al Tribunale di Roma competente per territorio. Ma la parte offesa – l’ex numero due della Direzione Nazione Antimafia, Alberto Cisterna – ha annunciato opposizione. All’origine del procedimento, ci sono quattro esposti presentati nel tempo  proprio da Cisterna, in passato messo sotto indagine proprio dal pm Ronchi con un’accusa di corruzione in atti giudiziari, in seguito archiviata su richiesta della stessa sostituto che l’aveva formulata.  Un’inchiesta, cui la Ronchi - su richiesta dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone - è stata applicata fino alla conclusione delle indagini preliminari, nonostante fosse già trasferita a Bologna. Allo stesso modo,  per la sostituto è stata chiesta e ottenuta l’applicazione al procedimento contro il clan Lo Giudice,  all’epoca già approdato in sede processuale, fino al termine del dibattimento di primo grado. Una richiesta reiterata per ben tre volte dal procuratore facente funzioni Ottavio Sferlazza, che per oltre un anno ha svolto le funzioni di procuratore capo, dopo il trasferimento di Pignatone al vertice della procura di Roma. Al Csm, Sferlazza ha chiesto di prolungare l’applicazione del pm Ronchi il 27 giugno del 2012, quindi il 21 novembre dello stesso anno e infine il 13 marzo del 2013. Tuttavia, proprio con la seconda istanza nascono i problemi. «In detta richiesta – riassume il pm Dominijanni -  si evidenziava, per la prima volta, come al Dott. Cisterna, nel procedimento n 4291/11/21, pendente nella fase delle indagini preliminari, era stata ascritta altra fattispecie di reato, quella di cui all'articolo 483 del codice penale (falso ideologico) rispetto alla originaria ipotesi di corruzione (articoli 319 e 321 del codice penale). Quest'ultima poi, così sembra intendersi era stata stralciata da detto procedimento (n. 4291/11/21) mediante formazione di un nuovo fascicolo trasmesso al Gip con richiesta di archiviazione».  A quella richiesta di proroga ne sarebbe inoltre seguita un’ulteriore circa cinque mesi dopo, sempre a firma del procuratore Sferlazza, in cui si evidenziava come a carico di Cisterna «fosse stata ascritta una ulteriore ipotesi di reato  rispetto alla originaria ipotesi di falso». Il riferimento è all’indagine relativa all’incarico svolto dall’ex numero due della Dna presso l’università Mediterranea, dove il magistrato per anni ha tenuto un corso di Procedura penale e uno di “Ordinamento giudiziario e forense” a titolo gratuito. Per la Procura, Cisterna  avrebbe attestato falsamente la sua presenza a lezione, ma qualche mese fa il gup Adriana Trapani ha prosciolto il magistrato dall’accusa di truffa che gli veniva contestata, disponendo per lui il giudizio solo perché accusato di essere a conoscenza delle false credenziali presentate dalla sua collaboratrice dell`epoca Grazia Gatto. Un’inchiesta che nulla ha a che fare - né lo aveva quando è nata-  con la `ndrangheta, tanto meno con il clan Lo Giudice, nè è stata alimentata dalle rivelazioni di alcun collaboratore, dunque non ha alcuna relazione con il dibattimento cui la Ronchi era all’epoca applicata. Proprio su questa base Cisterna ha contestato la legittimità della proroga concessa alla pm prima al Csm, quindi con una serie di esposti alla Procura di Catanzaro, in cui si sottolineava non solo come non ci fossero i presupposti di legittimità per l’applicazione extradistrettuale della sostituto della Procura di Bologna, ma anche come tale provvedimento fosse sostanzialmente basato su un falso per induzione. Nella delibera del Csm con cui la Ronchi era  stata inizialmente applicata al fascicolo, su istanza del relatore, il consigliere Vigorito, era stato infatti introdotto un espresso riferimento alla «stretta correlazione» – in realtà inesistente -  che la nuova indagine avrebbe avuto con il processo contro la cosca Lo Giudice. Ma per l’ex  numero due della Procura Antimafia, quell’applicazione sarebbe illegittima anche sotto un altro profilo.  Per Cisterna, non solo la separazione del reato di corruzione – stralciato, divenuto oggetto di nuovo fascicolo e archiviato - da quello di falso, iscritto successivamente, sarebbe illegittima, ma avrebbe anche uno scopo preciso: «mantenere fraudolentemente la titolarità delle indagini del reato di falso ideologico, rimasto a seguito di siffatto anomalo stralcio, nel fascicolo 4291/11/21 per il quale era stata chiesta e ottenuta l'applicazione extra distrettuale». Accuse pesanti che il pm Domijanni ha voluto analizzare in dettaglio e su cui si è espressa con meticolosa precisione. Sulla separazione dei procedimenti non esiste né prassi consolidata né una norma specifica, tuttavia - afferma il sostituto procuratore - «qualora la finalità della Dott.ssa Ronchi fosse stata (come suppone il Dott. Cisterna e come potrebbe in effetti apparire) fosse stata mantenere la titolarità delle indagini a carico dell'odierno denunciante per i reati di falso e truffa»  non ci sarebbero elementi sufficienti per provare la volontà di «arrecare un danno ingiusto». Tuttavia qualcosa di strano anche per il sostituto procuratore di Catanzaro c’è. Non a caso, pur chiedendo l’archiviazione del procedimento a carico della Ronchi, si preoccupa di sottolineare che per quanto riguarda l’ipotesi di falso per induzione, relativa all’asserito «stretto collegamento» fra il procedimento contro il clan Lo Giudice, come all’asserita assenza dei requisiti per l’applicazione della Ronchi, «trattasi di fatti che, avendo ad oggetto deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura con sede in Roma, esulano dalla competenza territoriale di questo Ufficio, sicché per essi va disposta la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma ove dette condotte si sarebbero asseritamente consumate». Una proposta che a partire da domani a mezzogiorno toccherà al gup Abigail Mellace vagliare, ma su cui Cisterna sembra voler promettere battaglia.  

Ndrangheta e veleni a Reggio Calabria. Ora spunta anche un poliziotto «costretto» a inventare accuse, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Il procuratore antimafia Roberto Pennisi ha rivelato di aver ricevuto la confessione dell’uomo che indagava su Cisterna: «Mi disse in lacrime che era stato costretto ad accusarlo». Sono deflagrate con la forza di una metaforica bomba le ritrattazioni contenute nel memoriale inviato il 7 giugno dal pentito Nino Lo Giudice al tribunale di Reggio Calabria. Nelle ultime ore, però, sono deflagrate anche altre dichiarazioni, la più importante delle quali è la conferma indiretta delle affermazioni di Lo Giudice da parte di un procuratore nazionale antimafia, Roberto Pennisi. Lo Giudice si era autoaccusato di essere il regista delle bombe che esplosero a Reggio nel 2010, ma in precedenza aveva anche accusato di corruzione l’ex viceprocuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna, poi prosciolto perché non sono stati trovati mai riscontri. L’attuale capo della procura di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, noto per lo scrupolo con cui ha diretto indagini importanti contro la camorra a Napoli, ha costituito un pool di magistrati per investigare sulle ultime dichiarazioni di Lo Giudice. Cafiero De Raho ha aggiunto che occorre cautela perché «la mafia o la ‘ndrangheta si muovono con strategie particolarmente raffinate». A rileggere le dichiarazioni integrali di Lo Giudice, si comprende bene l’urgenza di una verifica. Il “pentito” racconta che nel 2011 «a Reggio c’erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo “scempio” degli amici di una delle due parti». Da un lato della barricata, secondo Lo Giudice, ci sarebbe stata «la cricca» che lo avrebbe spinto a confessare: «Di Landro-Pignatone-Prestipino-Ronchi e il dirigente della mobile Renato Cortese, che si è prestato ai voleri della citata “cricca” degli inquisitori». Oltre al procuratore generale reggino Salvatore Di Landro, si tratta dell’attuale capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone (ex numero 1 alla procura reggina), del procuratore aggiunto reggino Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi (che ha condotto le indagini su Cisterna, basate sulle dichiarazioni di Lo Giudice) e dell’attuale capo della Squadra mobile di Roma (ex numero 1 a Reggio), Cortese. Il gruppo contrapposto sarebbe stato quello cui apparteneva invece Cisterna. Lo Giudice spiega di essere stato indotto a parlare da magistrati e polizia: «Minacciandomi che se non avrei (sic) raccontato quello che a “loro piaceva” mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis, mi hanno intimidito le loro parole, dandomi l’ultimatum per il giorno seguente. Ricordo che ho trascorso la notte “intassellando” (sic) il mio mosaico di discorsi convincenti e compiacenti. Certo non è stato facile, ma ci sono riuscito». Lo Giudice spiega che nelle dichiarazioni rese «mi sono voluto vendicare di tutti quelli che mi avevano fatto del male senza risparmiare nessuno, anche quei bastardi dei mie fratelli, così mi sono inventato tutto per farli arrestare». Poi aggiunge: «Ma quali affiliazioni, quale padrino, non esiste nulla, ho letto tutto nei libri che penso siano ancora a casa mia a Reggio. (…) Mi trovai a parlare con un detenuto anche lui collaboratore e siccome era molto preparato in queste cose lo pregai di insegnarmi tutte le regole e formule della ‘ndrangheta, e così mi preparai ad affrontare i dibattimenti con più sicurezza». Cisterna, apprese queste affermazioni, ha dichiarato: «Lo Giudice si consegni nelle mani del procuratore capo Cafiero de Raho, il quale saprà certamente garantire che nessuna delle persone chiamate in causa metta mano alla vicenda del collaboratore di giustizia». Emerge però una seconda importante novità. Lo scorso 1 giugno, nell’ambito di indagini difensive, all’avvocato di Cisterna sono state consegnate informazioni dal procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi, magistrato con 35 anni di carriera nell’antimafia, di cui ben 12, dal 1991 al 2003, proprio a Reggio Calabria. Pennisi, uomo noto per la schiettezza e l’onestà, aveva cercato di raccontare le stesse cose alla procura reggina già sei mesi fa, ma non è mai stato ascoltato. Di quali informazioni si tratta? Il magistrato ha spiegato di aver ricevuto la confessione di Luigi Silipo, ex vicecapo della Mobile di Reggio e oggi capo della Mobile di Torino, che aveva indagato su Cisterna e scritto un’informativa al pm Ronchi nella quale, secondo lo stesso Cisterna, tra diversi altri errori era stata omessa una intercettazione fondamentale, intercettazione che poi, una volta ritrovata, contribuirà a scagionare il magistrato. Pennisi in un memoriale di cinque pagine ha dunque raccontato al legale di Cisterna l’incontro avvenuto con Silipo il 18 maggio 2012, all’aeroporto di Fiumicino, al quale avrebbero assistito il suo autista e l’uomo addetto alla sua scorta. Silipo si è avvicinato a Pennisi per salutarlo e il magistrato ricorda di avergli risposto «di non avere nessun piacere nel vederlo». Dopo i convenevoli, Pennisi ha notato che «il Silipo non mi sembrava in buona forma. In altre parole si presentava afflitto» e ha comunque offerto al poliziotto un passaggio in auto verso il centro città. Durante il percorso, Pennisi ha spiegato a Silipo la propria freddezza: «Gli dicevo allora, con voce tranquilla e scandendo le parole, che avevo sempre insegnato ai miei collaboratori della polizia giudiziaria e anche a lui di essere tenaci ed inflessibili nelle investigazioni, ma anche sempre onesti e corretti come imposto dalla legge a tutti. Aggiunsi che non mi sembrava che nel caso del dottor Cisterna egli si fosse attenuto a questo insegnamento, per quanto io avessi appreso e constatato. Anzi, gli dissi che nel caso del dottor Cisterna egli aveva fatto il contrario di quanto avevo insegnato. A tal punto, ricordo che il dottor Silipo, con le lacrime agli occhi mi disse che era “stato costretto a farlo”. Fu per me tanto chiaro il significato di quell’affermazione che per garbo nei suoi confronti, dato che mi sembrava addolorato non volli andare avanti». Nel memoriale, Pennisi ha ricordato infine ciò che avvenne quel giorno una volta salutato Silipo: «Mi colpì in macchina ciò che i miei accompagnatori (gli uomini della scorta, ndr) ebbero a dirmi che mi fece comprendere quanto Silipo fosse stato esplicito nel suo dire, che essi avevano ben inteso. Manifestarono sentita solidarietà nei confronti di Cisterna».

Il pm antimafia scagionato definitivamente da infamanti accuse, scrive Giorgio Bongiovanni su “Antimafia 2000”. E' di qualche giorno fa la notizia che il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, Barbara Bennato, ha accolto lo scorso 26 novembre la richiesta di archiviazione per l'inchiesta nei confronti dell'ex procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna. La richiesta di archiviazione era stata avanzata nel settembre scorso dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi. Cisterna era indagato per corruzione in atti giudiziari dopo le dichiarazioni fatte dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice, il pentito che si e' autoaccusato di essere l'ideatore degli attentati compiuti nel 2010 ai danni dei magistrati reggini. Il pentito aveva sostenuto di avere saputo dal fratello Luciano che Cisterna si era interessato per la scarcerazione di un altro loro fratello, Maurizio, in cambio di un regalo, lasciando intendere che si trattasse di soldi. Dopo queste affermazioni, Cisterna finì nel registro degli indagati ed il 17 giugno del 2011 fu interrogato, nel suo ufficio alla Dna, dall'allora procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone e dal pm della Dda reggina Beatrice Ronchi. Accuse infamanti per fatti che lo stesso Cisterna ha sempre negato, affermando che i contatti con Lo Giudice erano finalizzati alla cattura dell'allora super latitante Pasquale Condello, conosciuto anche come “Il Supremo”, e che i suoi superiori erano stati informati in merito. A seguito dell'indagine il Csm decise per il trasferimento a Tivoli a cui lo stesso Cisterna si era opposto. Nonostante il proscioglimento, la Cassazione ha però rigettato l'opposizione del magistrato al trasferimento. Ora, dopo l'intervista rilasciata a Servizio Pubblico, lo stesso Cisterna svela nuovi fatti con tanto di documenti che proverebbero come la procura di Reggio e la squadra mobile si sono incaricati di consegnare informative di reato coperte dal segreto al dottor Loris D’Ambrosio al Quirinale. Un fatto grave su cui va fatta al più presto luce.

Quella che segue è la trascrizione dell’intervista di Sandro Ruotolo a Cisterna andata in onda giovedì 6 dicembre a Servizio pubblico: «La vicenda (cioè l’accusa di corruzione, ndr) è stata archiviata da pochissime ore. E' una vicenda che non avrebbe dovuto sorgere perché mancava la notizia di reato. La Procura di Reggio e la squadra mobile si sono incaricati di consegnare informative di reato coperte dal segreto al dottor Loris D'Ambrosio al Quirinale. Quello che so di mio è che ho trovato in atti una lettera di trasmissione da parte del capo della squadra mobile di Reggio Calabria, attuale capo della squadra mobile di Roma, dottor Cortese, di un plico riservato a varie autorità legittimamente investite della questione, ma mandate in copia al Quirinale. Non è un problema di invasione di campo. Si è creato un circuito di informazione improprio a mio avviso, perché se la presidenza della Repubblica ha la necessità di essere informata di questo, lo fa attingendo gli atti al Csm che li aveva ricevuti. Non c'era nessuna ragione di trasmettere questi atti personalmente al Quirinale. La questione la faccio con chi li ha mandati gli atti, non con chi li ha ricevuti che probabilmente ne ha fatto l'uso che ha ritenuto proprio. Quello che sindaco e trovo straordinariamente anomalo è che si mandino atti e si instaurano contatti fuori da un circuito istituzionale, che si divulghino informative unilaterali, perché queste informative contengono reati falsi. Il Csm ha subito detto che della corruzione non c'era traccia. Tuttavia tu (cioè io Cisterna, ndr) hai intrattenuto rapporti con un soggetto che, quando tu hai conosciuto era assolutamente incensurato, ma che sei anni dopo si scopre possa essere un soggetto appartenente alla criminalità organizzata».

Ruotolo chiede quale legame ci sia tra il suo caso e l’attività della Procura nazionale antimafia per la cattura di Bernardo Provenzano.

«Perché io non avevo alcun interesse a conoscere questo soggetto (Luciano Lo Giudice, ndr), né alcuna necessità se non per il fatto che si era detto disponibile a fornire informazioni per la cattura del più importante latitante calabrese del momento, Pasquale Condello. Io individuai nell'ex capo del Ros di Reggio Calabria, passato al Sismi come responsabile della sezione criminalità organizzata, un uomo di riferimento. In quel momento il mio ufficio aveva altri contatti con il Sismi e vi era anche un soggetto presentatosi in Procura nazionale come emissario di Bernardo Provenzano che ne voleva trattare la costituzione presso il nostro ufficio. Se si fosse parlato di questo Lo Giudice per la cattura di Pasquale Condello, io avrei dovuto a tutela del mio onore parlare anche di quello che stava succedendo in quel frangente per altre questioni. Perché non c'era solo Pasquale Condello, ma c'era Bernardo Provenzano, c'erano vicende relative a partite di esplosivo trattate dal Sismi e fatte rinvenire in Calabria, c'erano questioni relative a traffici di sostanze stupefacenti nel porto di Livorno».

Ruotolo osserva che è stato prosciolto ma che la sua carriera è stata spezzata.

«La magistratura è attraversata da lotte intestine molto gravi che ne stanno erodendo, in maniera sostanziale, l'affidabilità e la tenuta. La mia carriera è finita. Io ne ho preso atto. Certo se guardo, per esempio, ad altre carriere e ad altre vicende, in particolare a quella del dottor Pignatone, accusato da Giovanni Falcone, nel suo diario, di essere in qualche modo un soggetto che, per conto di Giammanco, ne osservava le iniziative. Se penso sempre al dottor Pignatone indagato per corruzione dalla Procura di Caltanissetta, non certo perché accusato da Nino detto il "Nano", come nel mio caso, ma da un collaboratore di giustizia come Siino e (Pignatone, ndr) ne è venuto fuori brillantemente e giustamente perché si vede assolutamente innocente, come lo sono io, e lo vedo procuratore di Reggio e poi procuratore di Roma, allora una speranzella, nel fondo del cuore, la conservo».

Cisterna, le notizie top secret girate al Quirinale, tratto da “Il Fatto Quotidiano”. Quell'inchiesta si è risolta nel nulla, archiviata, ma l'ex viceprocuratore nazionale antimafia, Alberto Cisterna, ne paga ancora le conseguenze. La Dda di Reggio Calabria, quando Giuseppe Pignatone era capo della procura reggina, l'aveva accusato di corruzione in atti giudiziari e rapporti con il boss Luciano Lo Giudice. Ha detto Cisterna a Servizio Pubblico: “La vicenda è stata archiviata da pochissime ore e non doveva sorgere perché mancava la notizia di reato. Quello che so di mio è che ho trovato in atti una lettera di trasmissione da parte del capo della squadra mobile di Reggio Calabria, attuale capo della squadra mobile di Roma, dottor Cortese (anche Pignatore è a Roma, capo della procura, ndr)”. La lettera del 27 luglio 2011 è pubblicata qui sotto, firmata da Cortese e si legge: “Facendo seguito alle dirette intese intercorse con codesto servizio e in adesione alla nota […] – emessa, in data odierna, dal dr Giuseppe Pignatone, procuratore di Reggio Calabria – si inviano gli uniti plichi chiusi con la preghiera di voler curarne la successiva trasmissione agli Uffici Istituzionali in calce indicati”. E tra gli uffici indicati c'è quello allora diretto da D'Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano. A che titolo? Chi indagherà su quella violazione del segreto investigativo? Ancora Reggio Calabria, o Roma dove Pignatone e Cortese si sono trasferiti?

Giustizia e veleni, il pm Cisterna assolto dall'accusa di calunnia al capo della Mobile. Per l'ex numero due della Direzione nazionale antimafia, l'accusa aveva chiesto una condanna a due anni, dopo le dichiarazioni con le quali il magistrato attribuiva all'ex capo della squadra mobile di Reggio la redazione di un'informativa non vera riguardante il caso Lo Giudice, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. Il magistrato Alberto Cisterna è stato assolto nel processo, che si è svolto con rito abbreviato, dall'accusa di calunnia nei confronti dell’attuale capo della squadra mobile di Torino Luigi Silipo. Il pm Matteo Centini aveva chiesto la condanna a due anni dell'ex numero due della Direzione nazionale antimafia. Cisterna aveva accusato il funzionario della polizia di avere redatto, quando era in servizio alla squadra mobile di Reggio Calabria, un’informativa con contenuti non veri che riguardavano il magistrato e i suoi contatti con esponenti della famiglia Lo Giudice. Nella requisitoria, il pm Centini ha fatto riferimento anche alla testimonianza del sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi chiamato dalla difesa di Alberto Cisterna, nella quale Pennisi riferì di un colloquio con Silipo in cui quest’ultimo avrebbe ammesso di essere stato costretto a scrivere i contenuti dell’informativa che riguardavano il magistrato. Circostanza sempre smentita dal funzionario di polizia. Il pm Centini ha chiesto quindi la trasmissione degli atti in procura per falsa testimonianza che riguardano il magistrato Roberto Pennisi. Silipo e Cisterna sono stati messi a confronto durante il processo ma le due versioni dei fatti non hanno mai coinciso. Il Consiglio Superiore della magistratura aveva bocciato la richiesta di Cisterna di poter guidare la Procura di Ancona.

Il sostituto procuratore di Reggio Calabria, Matteo Centini, ha chiesto la condanna a due  anni di reclusione nei confronti del giudice Alberto Cisterna, imputato di calunnia nei confronti dell'ex vicecapo della Squadra Mobile reggina, Luigi Silipo, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio”. Il pm Centini ha formulato le proprie richieste di condanna al termine di una requisitoria piuttosto articolata, protrattasi per circa tre ore, alla presenza dell'imputato, mai assente nelle concitate tappe dell'udienza preliminare. Una requisitoria in cui il rappresentante dell'accusa ha ripercorso le fasi degli addebiti mossi all'ex viceprocuratore nazionale antimafia, da anni al centro di una complicata vicenda giudiziaria. Il rappresentante dell'accusa ha chiesto anche la trasmissione degli atti in Procura nei confronti del magistrato della DNA, Roberto Pennisi, per il reato di falsa testimonianza. La vicenda che vede Silipo come parte offesa è una propaggine, una diretta conseguenza delle indagini scaturite dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Nino Lo Giudice, da alcuni mesi scomparso e irreperibile. Cisterna risponde di un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. Un'informativa, quella realizzata da Silipo, che avrebbe contenuto diversi errori e incongruenze, che porteranno Cisterna all'esposto nei confronti dell'allora funzionario reggino, oggi capo della Squadra Mobile di Torino. Con l'archiviazione delle accuse nei confronti di Silipo (le imperfezioni sarebbero state degli errori materiali nella redazione dell'atto) la Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha scelto di procedere nei confronti di Cisterna per il reato di calunnia. Cisterna deciderà di denunciare Silipo per falso, abuso d'ufficio e calunnia. In quell'informativa, infatti, vi sarebbero stati molti errori materiali, tutti a danno del magistrato. Nella sua denuncia, infatti, Cisterna parlerà di manipolazione dei dati investigativi: dalla durata delle telefonate, alle date, al numero degli sms. Tutti contatti tra Luciano Lo Giudice, la moglie Florinda Giordano e il magistrato: "Tutto si può dire tranne che non si sentissero" ha detto il pm Centini. Contatti vari che – a detta del rappresentante dell'accusa – Cisterna non si sarebbe mai curato di segnalare al procuratore nazionale antimafia. Lo stesso Luciano Lo Giudice, al cospetto dell'autorità giudiziaria di Perugia, affermerà di avere in Cisterna un punto di riferimento in caso di qualsiasi problema. Un rapporto, quello tra Cisterna e Lo Giudice, che sarebbe nato dalla volontà di catturare il boss Pasquale Condello, tramite le soffiate di Luciano. In quel caso sarebbe nato il contatto con il Colonnello dei Servizi Segreti, Michele Ferlito: "Ma è così che si catturano i latitanti?" ha detto il pm Centini. In aula, spesso e volentieri, si fa riferimento a un presunto complotto, una trappola mediatico-giudiziaria in cui sarebbe caduto Cisterna. Anche l'accusa di corruzione in atti giudiziari – a detta di Cisterna e dei suoi difensori – sarebbe stata mossa solo ed esclusivamente per danneggiarlo al cospetto del Consiglio Superiore della Magistratura. Quel Csm, che proprio sulla scorta delle indagini della Dda reggina, deciderà per il trasferimento del magistrato dalla DNA al Tribunale di Tivoli, con il ruolo di giudicante nell'ambito civile. In tanti – tra magistrati e membri delle forze dell'ordine – avrebbero detto a Cisterna di vederlo al centro di una macchinazione. Nell'esame, però, si rifiuterà di fare i nomi di questi soggetti: "Non vengono a testimoniare i magistrati e noi vogliamo che denunci la gente? Sentiamole queste persone!" ha detto in aula il pm Centini. Anche il fantomatico "complotto", sarebbe, secondo il pm Centini, destituito di prove, ma anche di sospetti. Qualcuno però parlerà. Negli ultimi mesi, infatti, la polemica è salita. L'apice dello scontro si è verificato qualche settimana fa, quando al cospetto del Gup Cinzia Barillà, si sono presentati per un acceso confronto in aula lo stesso Silipo e il magistrato della DNA, Roberto Pennisi, da sempre legato a rapporti di amicizia con Cisterna. A vicenda giudiziaria ampiamente inoltrata, Pennisi dichiarerà di aver appreso alcuni mesi fa da Silipo la circostanza secondo cui l'allora vice di Renato Cortese alla Squadra Mobile di Reggio Calabria, sarebbe stato costretto a formulare le accuse contro Cisterna, compendiate nell'informativa incriminata. Una rivelazione che Silipo gli avrebbe fatto, quasi in lacrime, in un incontro occasionale in aeroporto. "Non ho mai subito pressioni né da magistrati, né da altri nello svolgimento delle indagini delegate sulle attività di riscontro alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice" dirà qualche giorno dopo lo stesso Silipo. Poi il confronto in aula, nel corso del quale i due sono rimasti fermi sulle proprie posizioni. Infine, al termine della fase istruttoria, la scelta di Cisterna di essere giudicato con la formula del rito abbreviato. E la richiesta del pm Centini: Cisterna deve essere condannato a due anni per il reato di calunnia, ma anche la richiesta di trasmissione degli atti in Procura per il magistrato Roberto Pennisi, per il reato di falsa testimonianza. Proprio sulla figura di Pennisi si è concentrata l'analisi del pm Centini, che ha toccato anche aspetti etici: "Può un magistrato del calibro di Pennisi, tenersi tutto per sé, nel momento in cui verrebbe a conoscenza di quello che stava subendo un suo collega?" chiede Centini. Il rappresentante dell'accusa tiene anche a sottolineare, più volte, come mai il magistrato abbia optato per una denuncia formale, né, inoltre, sceglierà di informare i suoi superiori lasciando trascorrere diverso tempo prima di informare il collega Cisterna di quanto sarebbe accaduto nel casuale incontro romano con Silipo: "Ma se non posso contare sul cittadino-magistrato, posso chiedere alla gente di denunciare?". Il pm Centini ha così ristabilito un po' di verità rispetto a quanto riportato da alcuni organi di stampa, circa una presunta denuncia di Pennisi "ignorata" dalla Procura. Alla requisitoria del pm Centini, i legali di Cisterna hanno risposto con la richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste. In particolare, l'avvocato Milicia ha sottolineato la "carica di intimidazione" che la richiesta di trasmissione degli atti per Pennisi a suo dire avrebbe. Ma la vera difesa la mette in atto Cisterna, con le sue dichiarazioni spontanee: "Sconcerto e sorpresa" dice in apertura del suo intervento. Sentimenti che il magistrato dice di provare sia per l'interpretazione data ai fatti che lo riguardano, sia per la richiesta nei confronti di Pennisi: "Dovrò dirlo io al collega, la richiesta di trasmissione degli atti mi lascia senza parole, ho fatto bene a non fare i nomi delle persone che mi hanno messo in guardia, se questo è il risultato. Sono finito nella banda del buco, davanti a quale imparzialità, autorità o potere legittimo avrei dovuto fare i nomi?". Se la requisitoria del pm Centini aveva sfiorato dati etico-morali, anche Cisterna non si esime dalla sua analisi: "La richiesta di trasmissione degli atti è un monito a chi subisce le angherie delle Istituzioni, mostra che l'apparato è blindato e guai a chi tocca. Ci sono dei demoni e chi detiene il potere opera in modo opaco e deve difendere chi esegue gli ordini. Oggi è in gioco ben altro: occorre offuscare il desiderio di speranza, di uccidere la verità, ma questa è un'ingiustizia che nessun Dio potrà perdonare". Il magistrato contesterà inoltre il modo con cui sia il pubblico ministero Beatrice Ronchi, sia la Squadra Mobile, condurranno le indagini: "Non sarà mai sentito nessuna tra le persone che indicherò. Anche sulla mia corruzione, non hanno saputo indicare nessun atto, vergogna. La dottoressa Ronchi usa la scusa del collegamento investigativo per avere le carte che mi riguardano". Anche con riferimento al ruolo dell'informazione, Cisterna avrà modo di sottolineare: "Sono finito in una trappola mediatico-giudiziaria, ho appreso del mio rinvio a giudizio dal giornale e anche l'ordinanza del Gip di Roma arriva a due giorni da questa discussione". Il magistrato, infatti, farà riferimento anche alla recente ordinanza con cui risultano indagati il pentito Antonio Di Dieco e il suo avvocato, Claudia Conidi, per un presunto piano destinato a screditare il pentito Nino Lo Giudice: "Speriamo che quelle indagini non le abbia fatte la Squadra Mobile di Roma..." dirà Cisterna, alludendo probabilmente al fatto che il capo della Squadra Mobile della Capitale sia Renato Cortese, da sempre uomo di grande fiducia del procuratore Giuseppe Pignatone. Il processo è stato aggiornato al prossimo 4 ottobre, allorquando potrebbe arrivare la sentenza. Il condizionale è d'obbligo, perché il Gup Cinzia Barillà deve ancora pronunciarsi sulla richiesta del pm Centini di acquisire l'ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere Di Dieco, mentre i difensori di Cisterna hanno insistito sulla volontà di ascoltare gli agenti di scorta del dottore Pennisi, che dovrebbero verosimilmente confermare la versione dei fatti data dal magistrato. In quel caso niente camera di consiglio, ma riapertura dell'istruttoria.

Il processo Cisterna e la “guerra” tra magistrati, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. L’ex procuratore antimafia è accusato dai colleghi di calunnia. Ma troppi elementi non tornano e suscitano domande a cui i giudici ora devono rispondere. Uno scontro ad altissimi livelli all’interno della magistratura: ecco in cosa si è trasformata l’udienza del 30 settembre del processo con rito abbreviato per calunnia al magistrato Alberto Cisterna. Dopo aver superato una prima odissea giudiziaria per false accuse di corruzione, i magistrati hanno rinviato a giudizio l’ex numero due della procura nazionale antimafia per calunnia ai danni di Luigi Silipo, che conducendo le indagini sul suo primo processo non aveva incluso in un’informativa un’intercettazione che l’avrebbe scagionato. Il gup che esamina il caso deve rispondere ad alcune domande. Perché nell’informativa della polizia mancavano elementi in grado di scagionare Cisterna? La vicenda è tornata di attualità lo scorso giugno, quando il pentito che aveva accusato Cisterna, Lo Giudice, prima di sparire nel nulla, ha deciso di inviare un memoriale ai magistrati reggini. Nel documento il pentito ha spiegato di aver subìto le «pressioni di alcuni magistrati della procura antimafia» perché facesse le sue accuse. Cisterna al processo per calunnia ha anche rilasciato dichiarazioni spontanee nelle quali ha chiesto conto delle mancate verifiche da parte dei pm di Reggio sull’inchiesta nei suoi confronti. Cisterna ha concluso evidenziando un interrogativo a cui sarà il Gup del processo a dover rispondere: come mai si sono verificate ben dodici fughe di notizie nel corso dell’inchiesta? In questo modo è stato trasformato il suo processo in una gogna mediatica. Il gup deve dare conto anche di un altro fatto. Il magistrato della procura nazionale antimafia Roberto Pennisi, 35 anni di carriera, ha riferito in un memoriale consegnato ai difensori di Cisterna di aver incontrato privatamente il poliziotto Silipo, che avrebbe confessato con le lacrime agli occhi: «Sono stato costretto a farlo». Resta da capire perché e da chi. Il pm Matteo Centini, nella sua requisitoria, ha parlato della testimonianza di Pennisi, ma non ha dato risposta a nessuno degli interrogativi aperti. «Bisogna fornire elementi per denunciare la manipolazione dolosa o il falso», ha detto. «La carriera di Pennisi non può essere un totem alle sue parole. Dobbiamo guardare alla credibilità di Silipo».

Su questa guerra è esemplare il resoconto di Consolato Minniti (calabriaora.it, 1 settembre 2011). Il Procuratore nazionale antimafia aggiunto, Alberto Cisterna (nella foto), ed il procuratore generale di Ancona, Vincenzo Macrì, ex aggiunto della Direzione nazionale antimafia, hanno presentato una denuncia per diffamazione contro il Procuratore della Repubblica aggiunto di Reggio Calabria, Michele Prestipino. Lo scrive il quotidiano Calabria Ora. Nell'articolo si riferisce che l'iniziativa di Cisterna e Macrì è da mettere in relazione ad alcune affermazioni che sarebbero state fatte da Prestipino nel corso di una cena a Milano il 14 dicembre scorso, presente anche il procuratore Giuseppe Pignatone, nelle quali il Procuratore aggiunto avrebbe parlato di una cricca di magistrati a Reggio, di cui avrebbero fatto parte Cisterna e Macrì, che avrebbero favorito la 'ndrangheta perche' collusi. La denuncia è stata presentata da Cisterna e Macrì alla Procura della Repubblica di Milano. Cisterna è, a sua volta, indagato da alcuni mesi dalla Dda di Reggio per corruzione in atti giudiziari. Nessun commento all'iniziativa di Cisterna e Macrì è stato fatto da parte del procuratore Pignatone né da parte di Prestipino, sentiti dall'ANSA. Intanto il boss della 'ndrangheta Pasquale Condello, che è detenuto, ha querelato, secondo quanto scrive il Quotidiano della Calabria, il pentito Antonio Di Dieco sostenendo che non é vero, così come ha affermato il collaboratore, che sarebbe stato lui a dire al pentito Nino Lo Giudice di fare affermazioni contro alcuni magistrati reggini, tra cui Cisterna, per vendicarsi del suo arresto. (fonte ANSA).

Cisterna denuncia Prestipino. La notizia è semplice e devastante: il numero due dell’antimafia nazionale, Alberto Cisterna, e l’attuale procuratore della Corte d’appello di Ancona, Vincenzo Macrì, hanno querelato il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino. L’accusa? Diffamazione. Nel corso di una cena a Milano, Prestipino avrebbe parlato di una “cricca” di magistrati capeggiati da Macrì e Cisterna che avrebbe favorito il dominio della ’ndrangheta nel territorio calabrese. Se non è guerra aperta poco ci manca. La già abbondante sequenza di eventi che ha coinvolto i magistrati della Procura della Repubblica di Reggio Calabria e quelli della Direzione nazionale antimafia si arricchisce di un altro capitolo. Stavolta, però, nessuna inchiesta, nessuna corruzione. Siamo al livello personale. Che è forse quello più delicato. Probabilmente si tratta di una sorta di punto di snodo di vari eventi che si sarebbero verificati negli ultimi mesi. La notizia è semplice quanto devastante: il procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna e l’attuale procuratore generale presso la Corte d’appello di Ancona, Vincenzo Macrì, hanno querelato (con due atti distinti) il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino (nella foto). L’accusa? Diffamazione. Sì, proprio il reato di diffamazione. Niente paura, stavolta i giornali non c’entrano. Sono fatti privati, certo, ma che potrebbero avere risvolti di non poco conto. Cosa è accaduto? Proviamo a capirlo andando a ripercorrere la vicenda secondo quanto denunciato dal procuratore Cisterna. Cena... diffamatoria? È il 14 dicembre del 2010 ed il procuratore Prestipino si trova nella città di Milano per una missione d’ufficio. Concluso il lavoro, il magistrato partecipa ad una cena assieme ad altri colleghi. Si tratta del procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, del sostituto procuratore della Dna, Carlo Caponcello e del procuratore federale di Lugano, Pier Luigi Pasi. Il punto essenziale sta nelle dichiarazioni che Prestipino avrebbe fatto nel corso dell’incontro con i colleghi. Secondo la ricostruzione prospettata all’interno della querela sporta da Cisterna, infatti, Prestipino avrebbe parlato di una “cricca” di magistrati capeggiati da Vincenzo Macrì e di cui anche Cisterna avrebbe fatto parte. Tali magistrati avrebbero favorito il dominio della ’ndrangheta nel territorio calabrese perché collusi con tali organizzazioni criminali. Parole pesanti, dunque, quelle che l’aggiunto avrebbe (il condizionale è d’obbligo poiché si è ancora alla fase della sola denuncia e non vi sono verità processuali accertate) riferito agli altri colleghi. Ma per aver presentato querela, è chiaro che Alberto Cisterna è venuto a conoscenza di tali parole. Come è accaduto? Casualmente. Nel corso del periodo di ferie natalizie, infatti, il procuratore aggiunto della Dna ha chiesto a due dei presenti alla cena se quelle parole riferite da altri rispondessero a verità. E secondo quanto contenuto nella querela presentata, i due soggetti interpellati hanno confermato tutto. Ovviamente tra gli interpellati non c’è Pignatone, come è facile immaginare per evidenti rapporti personali con Cisterna, ma di Caponcello e Pasi. Ma c’è di più. Sempre secondo quanto riferito dal magistrato all’interno della sua querela, pare che proprio il dottor Caponcello, nel corso della conversazione abbia invitato più volte il procuratore Prestipino alla moderazione e che lo stesso sostituto alla Dna abbia poi esternato le proprie doglianze al procuratore Pignatone, soprattutto in virtù della presenza di un soggetto straniero con il quale Cisterna collaborava frequentemente. Insomma, una situazione estremamente delicata e che ora è pendente dinnanzi ai giudici di Milano. L’esito, ovviamente, non è ancora arrivato, ma un dato pare certo: per capire la veridicità di quanto contenuto nell’atto di querela bisognerà ascoltare le testimonianze di coloro che quella sera a Milano erano presenti e dovrebbero aver sentito con le loro orecchie quelle frasi pesanti che sarebbero state pronunciate. Con tutta probabilità anche il procuratore Pignatone, oltre a Caponcello e Pasi, potrebbe essere sentito per capire la sua versione dei fatti. Uno scontro diretto. Intanto pare che all’interno dell’atto con cui Cisterna ha querelato Prestipino ci sia spazio anche per delle considerazioni molto dure del magistrato nei confronti del collega. Cisterna avrebbe parlato addirittura di parole “raggelanti” e dalla gravità assoluta nei riguardi di un magistrato col quale non ci sarebbe un così profondo rapporto di conoscenza. Una ricostruzione a giudizio del procuratore aggiunto della Dna che vedrebbe fatti penalmente rilevanti. Toccherà adesso ai giudici milanesi capire cosa sia successo la sera del 14 dicembre 2010 nel capoluogo lombardo. Se la prospettazione offerta da Cisterna corrisponda al vero o se, piuttosto, qualcosa di diverso sia accaduto durante la cena tra magistrati. Di certo c’è un dato: ormai è una battaglia senza esclusione di colpi. Fino ad ora erano state le inchieste a farla da padroni. Adesso c’è anche la “carta bollata” l’uno contro l’altro. Con buona pace di chi pensava che le frizioni potessero essere ricomposte magari in breve tempo. Ed invece la possibilità che questa faccenda lasci degli strascichi giudiziari e disciplinari si fa sempre più concreta, in un clima che, giova ricordarlo, non fa per nulla bene ad uno Stato, inteso nel suo complesso di persone e funzioni, impegnato nella lotta alla più potente mafia del mondo.

«Un sistema delle calunnie orchestrato a tavolino». Nuovi scenari nell’indagine che coinvolge Mollace . Secondo gli inquirenti di Perugia che stanno indagando sulla possibile influenza esercitata dall'avvocato Claudia Conidi su alcuni collaboratori di giustizia per sconfessare le dichiarazioni di Nino Lo Giudice, quello che sarebbe stato messo in piedi era un vero e proprio sistema «di calunnie orchestrato a tavolino», scrive il 04/10/2013 Claudio Cordova su “Il Quotidiano della Calabria”. Cosa hanno in comune i collaboratori di giustizia Antonio Di Dieco, Massimo Napoletano e Luigi Rizza? Il fatto di avere reso – nel corso dei mesi – dichiarazioni sul “caso Lo Giudice”, che vede al centro delle investigazioni la famiglia di cui fanno parte, tra gli altri, Luciano Lo Giudice (considerato l’anima imprenditoriale della cosca) e Nino Lo Giudice (collaboratore di giustizia scomparso e latitante dall’inizio del mese di giugno). Hanno poi in comune il fatto di aver reso dichiarazioni volte a screditare le rivelazioni effettuate da Nino Lo Giudice. Hanno inoltre in comune il fatto di essere stati assistiti (proprio negli anni delle dichiarazioni) dall’avvocatessa Claudia Conidi, attualmente indagata per aver indotto i propri clienti a demolire la figura di Lo Giudice, che nel corso della sua collaborazione racconterà molto circa i presunti rapporti istituzionali della famiglia d’appartenenza. C’è tanta carne al fuoco tra le carte d’indagine che alcune settimane fa hanno portato il Gip di Roma, Cinzia Parasporo, a emettere un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del pentito Di Dieco, indagato per le presunte false dichiarazioni nei confronti di Lo Giudice. Dichiarazioni che, secondo le carte d’indagine, l’uomo avrebbe reso perché istigato dall’avvocatessa Conidi, anch’essa indagata ed evidentemente, funzionale a un sistema molto più ampio. Il primo collaboratore a calunniare Nino Lo Giudice sarebbe stato – nell’impostazione accusatoria – Antonio Di Dieco, originario della provincia di Cosenza. A giugno 2011, infatti l’avvocatessa Conidi scriverà alla Procura Generale di Reggio Calabria, ma anche all’allora numero due della Dna, Alberto Cisterna e al sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, Franco Mollace, riferendo di aver appreso dal proprio assistito rivelazioni importantissime relativamente a vicende inerenti i due magistrati, tanto che Di Dieco era disposto a rendere dichiarazioni in proposito. Una nota, quella dell’avvocatessa Conidi, che giungerà poi alla Dda di Reggio Calabria, ma non all’allora procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che non sarebbe stato informato da Cisterna (che inoltrerà gli incartamenti solo alla Procura di Perugia). Di Dieco parlerà di un “complotto nazionale” messo in atto, a partire dal 2002-2003 da Nino Lo Giudice e dalla sua famiglia: “Il “complotto” messo in atto cercherà di delegittimare magistrati della Dna di Roma e della Dda di Reggio Calabria (Cisterna, Pennisi, Macrì, Mollace, Endrigo) magistrati della Procura di Catanzaro, giudici in servizio presso il Tribunale di Catanzaro, avvocati penalisti, politici”. Un complotto, quello che Lo Giudice avrebbe messo in atto, in cui il “Nano” cercherà di coinvolgere lo stesso Di Dieco (secondo il memoriale del pentito di Castrovillari): “Cercò di coinvolgermi in questo complotto richiedendomi notizie e/o tasselli mancanti al suo personale, quanto “calunnioso mosaico”, avendo poco tempo a disposizione poiché, a suo dire, aveva iniziato a collaborare da un paio di giorni e stava già sottoponendosi ad interrogatori con la Dda di Reggio Calabria e con altre autorità giudiziarie”. Un lungo memoriale, quello di Di Dieco, che il pentito confermerà anche in sede di interrogatorio. Siamo nel luglio 2011. Esattamente un anno dopo, nel luglio 2012, un altro collaboratore, il siciliano Luigi Rizza, modificherà le dichiarazioni rese precedentemente (già prima della collaborazione di Nino Lo Giudice parlerà dell’attentato alla Procura Generale di Reggio Calabria) scrivendo al dottore Alberto Cisterna, nel tentativo di avere un colloquio con un magistrato della Dna, al fine di smascherare le “cose inesistenti” dette da Nino Lo Giudice, anche sul conto dello stesso Cisterna. Già a settembre, però, Rizza ritratterà con una lettera inviata all’allora procuratore capo facente funzioni, Ottavio Sferlazza: “Ho bisogno di conferire urgentemente con la Signoria Vostra in merito a competenza vostra sul Dottore Cisterna che sono stato costretto tramite terza persona a difenderlo dalle accuse giustamente rivoltegli dal Lo Giudice”. Quindi Rizza spiegherà ai pm di essere stato indotto dall’avvocatessa Conidi a scrivere una lettera in aiuto di Cisterna, perché – dice Rizza – “una mano lava l’altra”. Un meccanismo, quello delle dichiarazioni “imboccate” che avrebbe coinvolto anche il pentito pugliese Massimo Napoletano, che prima avrebbe calunniato Lo Giudice (c’è agli atti una condanna in tal senso) e poi (una volta rimesso il mandato dell’avvocatessa Conidi) raccontato delle pressioni subite nel corso dei mesi, anche ad opera del pentito Di Dieco. L’avvocatessa Claudia Conidi, sarebbe stata in grado di alterare, nel corso degli anni, l’attendibilità del collaboratore di turno, suggerendogli il contenuto delle dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere all’autorità giudiziaria. Ma a destare particolare preoccupazione nel sostituto procuratore di Roma, Cristiana Macchiusi, che coordinerà le indagini sui “falsi pentiti”, è il dato secondo cui le dichiarazioni sarebbero state “preventivamente concordate con soggetti appartenenti alle Istituzioni e poi riferite al collaboratore in vista di un successivo interrogatorio”. Tutto – secondo gli inquirenti – al fine di screditare il pentito Antonino Lo Giudice, scomparso e latitante da mesi. Agli atti della Procura di Roma, che girerà poi le carte ai colleghi di Perugia, vista l’astensione del procuratore Giuseppe Pignatone (individuato come parte offesa) ci sono diverse intercettazioni telefoniche da cui gli inquirenti traggono il dato (tutto da riscontrare): “Le propalazioni del Di Dieco sono state frutto di una vera e propria negoziazione, alla quale l’aspirante collaboratore ha partecipato solo in parte e con scarso potere contrattuale; quest’ultimo, infatti, totalmente in balia dell’Avv. Conidi, si è dimostrato disposto a rendere qualsiasi dichiarazione pur di ottenere nuovamente i benefici che la legge concede ai collaboratori di giustizia”. A questo punto emerge la figura del vicequestore Fernando Papaleo, che con l’avvocatessa Conidi avrebbe intrattenuto un rapporto particolarmente stretto: “In più occasioni ha fatto da tramite tra la Conidi ed il Dott. Lombardo Sost. Proc. della D.D.A. di Reggio Calabria, ritenuto dalla Conidi, dal Di Dieco e dalla moglie Grimaldi il magistrato su cui puntare per riaccreditare il Di Dieco davanti alle A.G”. Il 13 febbraio 2013, l’avvocatessa Conidi chiama il vicequestore Nando Papaleo, della Dia di Reggio Calabria, chiedendo lumi sul trasferimento nel carcere romano di Rebibbia del pentito Di Dieco: “Mi ha chiamato Di Dieco dalla cosa… dalla video-conferenza… omissis… e gli hanno detto che per un mese dovrà essere trasferito per un interrogatorio disposto dal suo magistrato, l’unico che lo sta sentendo è Lombardo, potresti chiedergli se è veramente lui che lo sta facendo trasferire?” chiede l’avvocatessa. Papaleo chiederà tempo, ma già il giorno dopo chiamerà l’avvocatessa Conidi: “E’ lui, è lui” dice provocando la soddisfazione della professionista: “E’ già tanto che sia lui a proporlo, l’abbia fatto spostare, insomma è già tanto… è già tanto che voglio dire… era a Campobasso in mezzo alle montagne, adesso sta a Rebibbia è già qualcosa, insomma…”. Già dal settembre 2012, il sostituto della Dda reggina avrebbe sentito diverse volte il pentito Di Dieco, per rimpolpare le delicate indagini portate avanti contro le cosche e i sistemi criminali messi in atto dalla ‘ndrangheta in tutta Italia. Ciò che però viene stigmatizzato dal pm Macchiusi è il rapporto tra l’avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo, che nelle carte d’indagine viene definito “del tutto inopportuno, in quanto dalle intercettazioni è risultato in modo chiarissimo che quest’ultimo era l’ufficiale di P.G. incaricato dal dott. Giuseppe Lombardo della gestione proprio del Di Dieco”. Un rapporto di confidenza che, unitamente ai diversi interrogatori effettuati, per fini di giustizia, dal pm Lombardo avrebbe fatto sorgere la convinzione che grazie al magistrato reggino (definito dalla Conidi ripetutamente “un ‘ancora di salvezza”) Di Dieco potesse tornare nel piano di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Il dato più preoccupante, però, il pm Macchiusi lo esplicita subito dopo: “Si deve a questo punto sottolineare che, da alcune telefonate intercettate, è emerso che l’Avv. Conidi e il V.Q.A. Papaleo hanno concordato il contenuto delle dichiarazioni che il Di Dieco avrebbe dovuto rendere nel corso di successivi interrogatori con il Dr. Lombardo”. Nelle carte predisposte dal pm Macchiusi si scende nel dettaglio: “In tal senso, è opportuno riportare innanzitutto il contenuto di alcune conversazioni dalle quali si è evinto che il Dr. Papaleo — avendo appreso dalla Conidi che il Di Dieco aveva intenzione di riferire circa un piano ideato nel 2001 dagli Abbruzzese (nota cosca della Sibaritide) e finalizzato ad eliminare lo stesso Papaleo, all’epoca in servizio presso la Questura di Cosenza – Squadra Mobile di Cosenza — dopo essersi consultato con il Dr. Lombardo, ha consigliato di non fare cenno a tale episodio in quanto, non avendone il collaboratore mai riferito in passato, avrebbe minato la sua attendibilità”. Sarà l’avvocatessa Conidi ad ammettere candidamente: “Hai visto … mo nel prossimo interrogatorio … gli ho detto di mettermelo nero su bianco … questo .., perché io ho detto che molto probabilmente … dico … inc… [...] no … lui … lo farò … lo mette … io … se vuoi te lo faccio mettere nero su bianco …”.

I due ritorneranno qualche giorno dopo sull’argomento:

C: Claudia Conidi

N: Nando Papaleo

N. ovviamente la cosa -incomp- e Cla’

C. certo

N. gliel’ho accennato a Lombardo senza -incomp- perchè se questo …

C. allora io l’ho sentito oggi..io sono andata a colloquio

N. digli di lasciare perdere Cla’

C. sì sì no lasciamo stare

N. ti spiego ..se lui si deve riaccreditare di credibilità no?

C. no no non lo dice questa cosa

N. -incomp-

C. però è bene che tu lo sapessi

N. sì questo sì

C. lui non mi ha dello di dirtelo ..l’ho voluto dirtelo io perché -incomp-

N. si ho capito …però ti voglio dire ..se mi -incomp- gli vene a mente u mette a verbale rifacciamo un casino

C.no ..ce lu dicimo prima ..si permette- incomp.-

N. -incomp- accennato -incomp-

C. allora io gli ho delto che per coscienza te l’ho detto

N. mh

C. ho detto però ..non cose da mettere a verbale sennò poi si creano precedenti incompatibili

N. no incompatibili

C. lui mi ha detto l’importante è che lo sapesse m’ha detto poi vediamo

N. non di incompatibilità perché se dobbiamo valutare lui …

C. bordelli eh si

N. come la …come la pijano -incomp-la prima vota che u vidi ci racconta u cazz de 12 anni fa

C. certo

Insomma, l’avvocatessa Conidi avrebbe imboccato Di Dieco su diversi argomenti. Anche sulle cosche storiche della ‘ndrangheta, come i De Stefano: “Poi ti mando le note di De Stefano” dirà il legale, “verosimilmente per indottrinarlo su un argomento che avrebbe costituito oggetto di un successivo interrogatorio”. Successivamente, sempre secondo quanto sostenuto dal pm Macchiusi il difensore aveva già dato la “disponibilità” di Di Dieco a rendere dichiarazioni su un certo argomento, rimasto ignoto (Papaleo: “Se riusciamo a combaciare noi abbiamo la possibilità oltre al discorso che sta andando avanti di cui tu hai segnalato la disponibilità”) e nel corso della quale i due interlocutori hanno valutato la possibilità di farlo riferire anche su un’altra vicenda (Papaleo: “io gli vorrei infilare l’altro”; Conidi: “e bene perfetto, perfetto … sarebbe l’ideale … sarebbe l’ideale”). Un discorso rimasto criptico perché – secondo la Procura di Roma – i due avrebbero evitato di scendere nello specifico, ma anzi, avrebbero optato per un linguaggio convenzionale: “Il che la dice lunga sulla liceità dell’oggetto della conversazione” afferma il pm Macchiusi. Le conversazioni tra l’avvocatessa Conidi e la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi testimonierebbero come gli interrogatori effettuati dal pm Lombardo avessero generato aspettative nelle due donne, legate da un rapporto molto stretto, ben oltre quello professionale: “Qua sta succedendo qualcosa, Donate’, secondo me perché si muove qualcuno ma di forte per lui no perché c’è il fatto di Cisterna c’è il fatto di questo Lombardo ecc..”. A fronte dei toni entusiastici, comunque, vi sarà il comportamento del magistrato, che, stando al racconto della Conidi, sarebbe comunque rimasto cauto: “Siccome Lombardo mi ha detto … io lo sposto non appena ho uno straccio di informativa che mi dica che questo è attendibile in relazione a questi fatti, non mi interessa quello che è successo prima … omissis … a me interessa andare avanti su questi fatti … poi deciderà la commissione io faccio la mia strada … e infatti sta facendo la sua strada … capisci?”. Discorso diverso per Papaleo. Secondo le intercettazioni raccolte, il vicequestore si sarebbe impegnato nell’opera di raccolta di riscontri alle dichiarazioni di Di Dieco, nel tentativo di far riottenere all’ex pentito lo status di collaboratore. Un comportamento che spinge il magistrato della Procura di Roma a dedicare parole piuttosto dure al rapporto tra l’avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo parlando di “un apparentemente inspiegabile e vorticoso tentativo (non solo e non tanto) da parte dell’interessato, ma altresì della Conidi e del Dott. Papaleo di riaccreditare un soggetto come Di Dieco Antonio — con un precedente specifico per calunnia ed il programma di protezione da tempo revocato dagli organi competenti, a più riprese dichiarato dalle varie A.G. non solo inattendibile, ma addirittura un calunniatore”. Dall’analisi delle conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso all’avvocatessa Claudia Conidi, al centro delle indagini della Procura di Perugia sui cosiddetti “falsi pentiti” si avrebbe contezza che l’avvocato catanzarese si sia recata a Reggio Calabria il 19 febbraio 2013 e cioè subito dopo avere ricevuto il memoriale di uno dei pentiti, che la donna sarebbe riuscita, per un determinato periodo di tempo, a influenzare, il pugliese Massimo Napoletano. Secondo gli inquirenti, l’avvocatessa Conidi sarebbe una pedina molto importante di quello che viene definito un “pericolosissimo sistema delle “calunnie”, sapientemente organizzate, orchestrate “a tavolino”, i protagonisti della presente vicenda, oltre a minare l’attendibilità del collaboratore Lo Giudice, che a loro dire avrebbe artatamente orientato la propria collaborazione con gli inquirenti per calunniare il Dr. Cisterna, hanno altresì tentato di riscrivere la storia dei rapporti tra la cosca Lo Giudice e il magistrato Cisterna, cui in un modo o nell’ altro tutti i collaboratori entrati nella presente indagine hanno fatto esplicito riferimento”. Nel febbraio 2013 a Reggio Calabria, l’avvocatessa avrebbe portato con sé una non meglio individuata “lettera” da mostrare al sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, Franco Mollace. Tale incontro verrà corredato da telefonate ed sms, sia con Mollace, sia con l’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna. La mattina del 19 febbraio viene registrata una conversazione telefonica tra Mollace e l’avvocatessa Conidi, nella quale il legale – nell’occasione presente proprio presso la vicina Corte d’Appello di Reggio Calabria – riferisce al magistrato sull’opportunità di incontrarsi dovendogli mostrare una “lettera per un suo collega” al fine di ottenere un suo parere. Secondo gli inquirenti, la “lettera” sarebbe lo scritto con le rivelazioni di Napoletano, inviata al magistrato Cisterna. Poi le chiamate senza risposta allo stesso, gli sms riferibili alla “lettera” e una chiamata non risposta al magistrato reggino Giuseppe Lombardo, cui poi la Conidi invierà un sms di saluto. Una visita, quella reggina, che l’avvocatessa (C) sintetizzerà al telefono con la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi (D):

C: Donatè…

D: Cla…io penso sempre che stai lavorando…a quest’ora…per questo ho…fatto un messaggio…

C: …no..ios ono tornata da Reggio.. e niente …da poco…ho visto il Dottore Mollace stamattina …te l’ho detto mi era arrivata quella lettera per Cisterna …e poi gliela porterò a Roma… perchè forse è importante …poi rileggendola …in tutta la sua interezza ..ci sono dei passi che ci possono interessare anche a noi …

D: ..certo ..certo …

C: …comunque poi lui era in udienza a Roma …il Cisterna …e mi ha detto poi che ci saremmo visti …a Roma quando salgo..

D: ..inc…per che cosa…per una … un appello …di Facchinetti …e altre cose…poi avevo mandato un messaggio al Dottore Lombardo il quale non mi ha risposto e correttissimamente mi ha mandato un messaggio di scuse dicendomi mi dispiace ma sono fuori sede…

D:….ho capito …

BERLUSCONI ASSOLTO? COLPA DEL GIUDICE!

Costa: Il Cav è assolto? Colpa del giudice…, scrive “Il Secolo D’Italia”. «Il Corriere della sera dell’11 luglio 2012 riporta la notizia che due missive, vergate dal procuratore generale di Milano, Manlio Minale, sarebbero state indirizzate al presidente della Corte d’Appello, Giovanni Canzio, segnalando ingiustificati ritardi nella gestione delle fasi del processo Mills/Berlusconi», conclusosi, come sappiamo, con la prescrizione. Inizia così l’interrogazione al ministro della Giustizia, Paola Severino, depositata ieri dal Pdl, a firma, tra gli altri, del capogruppo in commissione Giustizia, Enrico Costa. Il procuratore, detto in  termini spicci, avrebbe contestato al presidente della Corte d’Appello, Giovanni Canzio, di aver “perso tempo” prezioso, risultato determinante ai fini dell’istanza di prescrizione. Quindi, ben due “bacchettate” sarebbero partite per “punizione”…

Onorevole Costa, siamo di nuovo al tiro al bersaglio contro Berlusconi? Siamo addirittura alla “censura” dell’operato di un giudice?

«Spero anzitutto che non sia vero quanto letto sul “Corriere della Sera”. Noi, semplicemente, chiediamo al ministro Severino di accertare se sia vero o no quel che abbiamo letto mercoledì. Poi trarremo le conclusioni politiche».

Se fosse vero?

«Saremmo in presenza di una situazione atipica, a dir poco singolare».

Per usare un eufemismo…

«Beh, certo, un procuratore che, a fronte di una sentenza, non la impugna, ma preferisce prendere carta e penna e far partire due lettere dal sapore vagamente di pressione, come lo vogliamo definire?»

Me lo dica lei. Noi in gergo professionale le definiamo “lettere di richiamo”: può andare come definizione?

«Direi “doglianze” nei confronti del Tribunale di Milano che avrebbe perso tempo. Si parla di «ingiustificati ritardi nella gestione delle fasi del processo»».

È vero?

«Macché. Il discorso è un altro: bastava leggere la motivazione della sentenza del processo Mills per essere a conoscenza che non sussisteva la responsabilità dell’imputato e che si era in presenza di un’assoluzione. E il procuratore non può non averla letta».

Ma sarebbe cambiato qualcosa se si fossero accelerati i tempi?

«No, anche se si fosse seguito un calendario diverso, si sarebbe arrivati comunque alla prescrizione. Non è un risparmio di poche settimane che avrebbe mutato la sostanza. Lo stesso procuratore generale si è occupato di millimetrare le scelte altrui con un percorso atipico, senza peraltro nemmeno impugnare la sentenza che ha affermato «l’assenza di responsabilità» di Berlusconi. Dunque, il processo, in ogni caso, si sarebbe prescritto in appello».

Quindi?

«Quindi tale atteggiamento si configura come un’ingerenza non consentita nella gestione dell’ufficio giudiziario. Per questo abbiamo chiesto al guardasigilli di inviare ispettori a Milano per verificare quanto riportato ieri dal “Corsera”. Mi piacerebbe sapere in quanti casi di processi caduti in prescrizione il procuratore abbia preso carta e penna e inviato due lettere al giudice, o se sia stato fatto solo in questa occasione».

Mettiamo il caso che si tratti di un trattamento riservato solo al Cavaliere….

«Allora saremmo in presenza di un messaggio, di un non consentito monito, se non di una pressione, nei confronti di tutti i magistrati che si occupano e si occuperanno in seguito dei processi a Silvio Berlusconi: a procedere, cioè, con corsia assolutamente preferenziale e non assumere decisioni sfavorevoli alla Procura, pena il rischio di vedersi procedimenti disciplinari “contro”».

Della questione pensate sia opportuno coinvolgere anche altri soggetti, come il Csm, ad esempio?

«Noi abbiamo l’esecutivo come punto di riferimento. Per ora abbiamo chiesto al ministro di accertare queste procedure: se questo sia accaduto in altri processi estinti per prescrizione e le modalità attraverso cui è stata resa pubblica la notizia dell’opinione dissenziente di uno dei giudici su un’ordinanza processuale. Le abbiamo chiesto di assumere, conseguentemente, i provvedimenti necessari a ristabilire il massimo grado di rispetto dei principi di terzietà e di equidistanza. Dopodiché sarà lei a fare le sue valutazioni, a trarre le sue conclusioni e ad attivare altri soggetti».

Sembra un automatismo: si riparla di un ritorno possibile di Berlusconi e il clima comincia a surriscaldarsi, non trova?

«La scorciatoia giudiziaria per indebolire Berlusconi è sempre in agguato e ora non stupisce che, sentendo riparlare di una sua candidatura, si siano risvegliate queste tentazioni. Ma lui ci ha fatto il callo ormai…»

Caso Ruby, anche il presidente della Corte d’appello contro il dimissionario Tranfa: «Calpestate tutte le regole», scrive “Il secolo D’Italia”. «Un gesto clamoroso e inedito». Che se dettato «da un personale dissenso» non appare coerente «con le regole ordinamentali e deontologiche» della magistratura che «impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche» della Camera di consiglio. Nella polemica per le dimissioni del giudice Enrico Tranfa che avrebbe lasciato in polemica con gli altri due colleghi poiché non condivideva l’assoluzione di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, ora scende in campo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio che ha deciso di intervenire ufficialmente, attraverso una nota consegnata all’agenzia Ansa. Per Canzio le dimissioni di Tranfa «se dettate dal motivo – non esplicitato direttamente dall’interessato ma riferito dai vari organi di stampa – di segnare il personale dissenso dal presidente del collegio rispetto alla sentenza assolutoria di appello nel procedimento a carico di Silvio Berlusconi, non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche, le quali – sottolinea nella nota il presidente della Corte d’Appello di Milano – impongono l’assoluto riserbo dei giudici sulle dinamiche, fisiologiche, della formazione della decisione nella camera di consiglio dell’organo collegiale». Canzio ha aggiunto che «ciò vale, a maggiore ragione, quando il processo sia stato celebrato, come nel caso concreto, in un clima di esemplare correttezza». E poichè un paio di settimane fa ha dato le dimissioni anche Flavio Lapertosa, l’altro presidente di sezione, Canzio ha tenuto a rimarcare che «è stata, per altro, già avviata la procedura per l’immediata assegnazione di un presidente alla guida della seconda sezione penale della Corte d’appello, al fine di assicurare la necessaria continuità nell’ordinario svolgimento dell’attività giudiziaria». Il gesto di Tranfa, peraltro, ha sollevato parecchie polemiche in Parlamento dove viene fortemente stigmatizzato. «Enrico Tranfa, presidente del collegio della Corte d’Appello di Milano nel processo, si è dimesso dalla magistratura in dissenso con la decisione maturata dal suo collegio di assolvere l’ex-presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dalle imputazioni di concussione e prostituzione. Un fatto clamoroso, che si verifica, ancora una volta, in una sede giudiziaria, quella di Milano, da tempo oggetto di conflitti interni», sottolinea Gianfranco Chiarelli, capogruppo Forza Italia in Commissione Giustizia della Camera. Chiarelli aggiunge che si tratta di «una situazione che andrebbe valutata con maggior attenzione da parte del governo, atteso che sembrerebbe che le dimissioni del magistrato sarebbero motivate anche da una serie di altre situazioni conflittuali. Di fatto – osserva – Tranfa non ha mai nascosto il suo disappunto per l’assoluzione in secondo grado di Berlusconi. C’è da chiedersi a questo punto se ancora sia valido il principio che le sentenze non si commentano ma si accettano. O forse il principio si adatta di volta in volta in base al gradimento della sentenza e del soggetto interessato?». L’esponente di Fi annota «la pronta solidarietà del vice presidente del PD, la collega Sandra Zampa» che, dice, «conferma ancora la presenza di una doppia morale che riguarda parte della sinistra. Garantisti quando si tratta di difendere propri esponenti, giustizialista nei confronti degli avversari politici».

FASCICOLI CHE SPARISCONO. UFFICIO GIUDIZIARIO: NON C'E' POSTA PER TE!

Bologna e i fascicoli spariti. Saltano 2.321 processi. Riguardano udienze a citazione diretta con pena fino a 4 anni: furti, truffe, lesioni colpose, infortuni sul lavoro, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. Chiamatelo pure l'armadietto della vergogna. Un normale mobile da ufficio a due ante, addossato ad un muro nella cancelleria della Procura di Bologna. Anonimo, probabilmente grigio. A stupire è il contenuto, 2.321 fascicoli di indagine per i quali il Tribunale aveva fissato la data d'inizio del processo. Ma invece di procedere con le citazioni a giudizio, ovvero le notifiche alle parti interessate, quei procedimenti sono stati messi sotto chiave. Ad ingiallire fino al sopraggiungere, nella maggioranza dei casi, della morte naturale, ovvero la prescrizione. Senza che nessun pubblico ministero sentisse la necessità di chiedere dove fosse andata a finire la sua inchiesta. La somiglianza con l'originale si limita al contenitore. Il vero armadio della vergogna, quello che per quarant'anni nascose i fascicoli sulle stragi naziste in Italia, rivelò una storia di connivenze e volontà politica. Ma nel suo piccolo, anche l'omologo bolognese rappresenta qualcosa. La difficoltà della magistratura a fronteggiare carichi di lavoro crescenti. Oppure, una certa incuria da parte dei titolari di quei procedimenti e dei loro superiori che non può essere spiegata soltanto con le carenze di personale amministrativo e di mezzi. Dipende da come la si guarda. Come al solito, quando si tratta di giustizia. Quel che colpisce è l'entità dello spreco nascosto dietro a quella cifra. Prendere i 2.321 fascicoli, che riguardano processi a citazione diretta, che prevedono pene fino a quattro anni. C'è di tutto, furti, truffe, ricettazione, appropriazioni indebite, lesioni colpose, infortuni sul lavoro. La gran massa di quello che negli uffici giudiziari viene definito «ordinario », anche se le definizione non è lusinghiera per chi li ha dovuti subire, quei reati. In termini di «fatturato», è più di un decimo delle notizie di reato che si accumulano in un anno. Ogni dieci procedimenti, ne è andato perso uno. Adesso, moltiplicare 2.321 per il lavoro degli investigatori, i soldi spesi per perizie e intercettazioni. Tutto evaporato, tutto inutile, perché nessuno ha sentito il bisogno di prendere in mano quei fascicoli pronti per il processo. La scoperta avviene alla fine del 2008, nel mezzo di una ispezione ordinaria disposta dal ministero della Giustizia che si è conclusa soltanto a febbraio. La visita è dovuta all'eterno conflitto tra la magistratura inquirente bolognese e quella giudicante. La Procura accusa il Tribunale di lavorare a rilento, addirittura ignorando le richieste sempre più pressanti di fissazione dei processi. Addirittura quantifica il numero dei procedimenti per i quali ha chiuso le indagini e predisposto al citazione a giudizio, senza che venisse mai fissata l'udienza. Il Tribunale risponde con una parziale ammissione di colpa. Tutto vero, dice. Ma a noi risultano «solo» 8-9000 fascicoli, antecedenti all'anno in corso. Comunque tanti. Degli altri, quelli che mancano per arrivare a quota 11.000, non ne sappiamo nulla. Il mistero dura poco, anche se sul suo scioglimento le versioni divergono. Quella più romanzata prevede la scoperta dell'armadietto da parte degli ispettori ministeriali. In Procura sostengono invece di che si tratti del risultato di una indagine interna, avviata dal procuratore Silverio Piro, reggente dell'ufficio in attesa che il Csm trovi un successore a Enrico De Nicola, andato in pensione nel luglio del 2008. Comunque sia, 2.321 fascicoli per i quali i processi sono stati fissati, ma nessuno che in Procura abbia messo la firma per farli partire. L'incombenza spetta all'ufficio notifiche, ovvero alla cancelleria. La spiegazione della responsabile è disarmante. Non ce la facciamo, dice, a tenere questi ritmi di lavoro. E quindi ci siamo tenuti i fascicoli nell'armadio. Il danno, e naturalmente pure la beffa. Perché la scelta di «nascondere» alla vista gli incartamenti nasce dal ritorno sulla retta via del tribunale, che dopo tanti solleciti della procura, e un nuovo presidente, dall'inizio del 2008 ha cominciato a dedicarsi maggiormente al processo penale, cercando di «smaltire» il più possibile l'arretrato. Il nuovo e più virtuoso corso avrebbe però prodotto un curioso effetto collaterale, il crollo dell'ufficio udienze. Dopo la scoperta, la responsabilità delle notifiche è tornata di competenza dei pubblici ministeri. «A causa della delicatezza della questione», Piro sceglie di non commentare, limitandosi a sottolineare come con il tribunale «vi sia un clima di ritrovata armonia ». Le scuse ci sarebbero anche, i tagli alla giustizia, eccetera. E queste cose succedono anche altrove. Mai però con questi numeri, che lasciano lo spazio a parecchie domande. Per quale ragione si è scelto di delegare la gestione delle notifiche dei procedimenti «ordinari» alla cancelleria? Possibile che nessun magistrato abbia mai chiesto conto della sorte dei suoi fascicoli? E infine, perché da parte dei vertici della procura non è stato fatto alcun controllo? Gli ispettori del ministero hanno sentito il bisogno di un supplemento di indagine, sottolineando come il caso bolognese sia «abnorme». Vergogna forse no, ma le belle figure sono decisamente un'altra cosa.

Genova, spariti 24 fascicoli dal tribunale “Contenevano elementi sul caso Carige”, scrive Renzo Parodi su  “Il Fatto Quotidiano”. Le carte del processo Bianco-Valle sono svanite nel nulla. Al loro interno passaggi in cui uno dei protagonisti fa affermazioni analoghe a quelle che si ascoltano nelle intercettazioni fra Giovanni Berneschi, ex presidente di Carige agli arresti dal 22 maggio, e Ferdinando Menconi (leader di Carige Vita), quando entrambi vantano conoscenze negli ambienti giudiziari genovesi. Che fine hanno fatto i fascicoli del processo Bianco-Valle? Fino a qualche mese fa la sparizione di 24 faldoni di denunce, tabulati, intercettazioni telefoniche sarebbe stata archiviata con rassegnazione. Adesso non più. Perché quelle carte, sparite misteriosamente dalla cancelleria di palazzo di Giustizia a Genova, potrebbero contenere elementi interessanti per fare luce su una vicenda, forse collegata al grande albero del malaffare cresciuto in Banca Carige, sotto la regia di Giovanni Berneschi, dal 22 maggio agli arresti (prima domiciliari e poi nel carcere di Pontedecimo). Il grande capo dell’istituto bancario ligure è accusato di aver truffato per anni la banca (e gli azionisti) di cui è stato il dominus incontrastato attraverso una serie di operazioni immobiliari truccate, utilizzate – secondo l’accusa formulata dalla procura di Genova – per ingrassare i propri conti correnti aperti in Svizzera. Che c’entra dunque il caso dei faldoni smarriti con la mega-inchiesta a carico di Berneschi? E’ quello che i pm genovesi Piacente e Franz, titolari dell’inchiesta su Carige, vorrebbero verificare. Il collega Francesco Pinto sta svolgendo indagini su alcuni funzionari della Carige sospettati di aver concesso fidi facili ad un imprenditore, Pietro Pesce, poi andato in bancarotta, con un buco di 20 milioni di euro. Pinto ha sottoposto a sequestro oltre mezzo milione di euro riferibili all’avvocato Sergio Bianchi, già presidente della società di costruzioni Pietro Pesce, socia assieme a Bianchi e a due fratelli milanesi, Ambrogio e Giampaolo Marazzina, della società Pmg srl. Secondo la procura di Milano, la Pmg srl faceva parte del sistema di società nelle quali era socio occulto Gian Piero Fiorani, il padrone di Bpi (Banca Popolkare italiana) finito a processo e condannato in via definitiva per la tentata scalata ad Antonveneta, assieme al governatore della Banca d’Italia, Fazio e i “furbetti del quartierino”. La Pmg srl possiede alcune aree di pregio, tra le quali le aree dell’ex Italcementi a Imperia e dell’ex fabbrica di cioccolato Aura a Genova-Nervi. Nel 2002 si era acceso un contenzioso che aveva coinvolto due professionisti, gli architetti Daniele Bianco e Gerolamo Valle. I quali avevano rifiutato di sottoscrivere un aumento volumetrico per il progetto immobiliare destinato all’area ex Italcementi e si erano ritrovati coinvolti in una serie di vertenze giudiziarie e alle prese con un pregiudicato milanese, Piergiovanni Mazzucco, che li aveva minacciati di morte se non avessero receduto dal loro atteggiamento intransigente, accettando di dare corso al progetto immobiliare nei termini presentati dalla Pmg. Nei giorni scorsi – a dieci anni dai fatti – è iniziato il processo a carico di Mazzucco. Al quale si è giunti soltanto perché la procura generale – a seguito della richiesta degli architetti Bianco e Valle – aveva infine deciso di avocare il procedimento giudiziario. Ma c’è di più. Il pm Gabriella Marino, aveva indagato Ambrogio Marazzina come mandante delle minacce di Mazzucco ai due architetti e lo aveva indagato. Mentre Bianco e Valle erano finiti a giudizio, accusati dai fratelli Marazzina di aver sottoscritto una falsa scrittura. Entrambi erano poi stati assolti in tutti e tre i gradi di giudizio. I faldoni spariti a Genova si riferiscono appunto al processo contro gli architetti Bianco e Valle e chiamano in causa l’avvocato Sergio Bianchi come autore di un colloquio con l’allora procuratore capo di Genova, Francesco Lalla, che il pm Marino – dopo aver abbandonato l’inchiesta – in una polemica lettera inviata a Lalla aveva definito inopportuno. Tra i faldoni ancora disponibili in cancelleria figurano quelli che contengono le trascrizioni del processo ai due architetti durante il quale Mazzucco ricostruì la visita ai due professionisti, preceduta – sostenne – da un incontro, “con l’avvocato Bianchi che era l’avvocato dei Marazzina”. Il legame, tutto da verificare però, al caso Carige potrebbe nascere da un’altra dichiarazione, di tono minaccioso, fatta da Mazzucco agli architetti Bianco e Valle. “Per loro (i Marazzina, ndr) i tribunali non esistono… ha in mano tutto Bianchi… che era dio in terra”. E ancora: “Noi veniamo a sapere le cose dai tribunali, le denunce che continuate a fare”. La procura dovrà accertare se si trattava di millanterie o se davvero l’avvocato Bianchi era in grado di conoscere lo sviluppo delle indagini a carico della Pmg dai magistrati genovesi. E addirittura se riusciva pure a condizionarle. Affermazioni analoghe nella sostanza si ascoltano nelle conversazioni intercettate fra Berneschi e il suo compare, Ferdinando Menconi (leader di Carige Vita), quando entrambi vantano le loro conoscenze negli ambienti giudiziari genovesi e liguri. E si rassicurano a vicenda, affermando di essere in grado di avere notizie sulle indagini da magistrati amici.

Giustizia, non c’è posta per te: i portalettere perdono pure le carte dei processi, scrive Paolo Lami su “Il secolo D’Italia” il 24 gennaio 2015. «Si tratta di un fatto indegno di uno stato moderno, che non deve succedere». E’ furibondo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, alla notizia che dal Tribunale di Milano sono spariti diversi fascicoli, inghiotti dalla mala giustizia e dalla disorganizzazione. A margine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, lo smarrimento o il danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione, arriva come uno schiaffo in pieno volto. Atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma. In seguito al disservizio postale, Canzio ha sporto denuncia alla Procura di Milano e sta perfezionando una convenzione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la consegna a mano dei fascicoli destinati alla Cassazione. Perduti e poi ritrovati molti fascicoli, alcuni hanno subito danneggiamenti. E le Poste finiscono pesantemente sotto accusa. Nel mirino ci sono le nuove procedure relative alle spedizioni assicurate che pesano più di due chili. All’origine della vicenda sembra vi sia una decisione, comunicata dalle Poste agli uffici giudiziari alla fine del 2014, di cambiare il metodo di spedizione dei ricorsi e i relativi atti in Cassazione con «assicurata»: quel metodo funzionava perfettamente ma aveva un costo notevole per le casse dello Stato, circa 100.000 euro l’anno. Il problema inizia quando le Poste decidono di non garantire più quel tipo di servizio, cosiddetto «spedizione per assicurata» per quei plichi che pesino più di 2 chili complessivi. In pratica la maggior parte dei faldoni processuali. L’opzione che gli uffici giudiziari identificano è quella di ricorrere al corriere Sda, l’azienda che fa parte del gruppo Poste per spedire i faldoni come posta ordinaria. E qui iniziano i problemi. Il servizio parte, ufficialmente, verso la fine del 2014, a metà dicembre. Un mese dopo, l’inferno. Le cancellerie dell’Appello, che sono convinte che i faldoni siano stati regolarmente consegnati, scoprono con raccapriccio il metodo di consegna di Sda: sacchi di plastica trasparente, scatoloni semiaperti e danneggiati. Il tutto con dentro gli atti infilati a casaccio, fogli ammassati come spazzatura, materiale impossibile da ricomporre e capire a chi appartenga o a quale procedimento sia legato. Di che si tratta? Semplice. Sono i fascicoli spediti dalla Corte d’Appello alla Cassazione che tornano al mittente perché sulle etichette è stato scambiato il Palazzaccio dove ha sede la Corte di Cassazione di Roma. Ma c’è, evidentemente, anche qualche altro problema perché tornano al mittente anche scatoloni con l’etichetta scritta correttamente. Un disastro. Ma non il solo. Si scopre anche che lo stesso disservizio colpisce anche i faldoni che viaggiano dalla periferia al centro, ma verso Milano. In pratica dagli uffici periferici alla Corte di Appello di Milano. E, come se non bastasse, l’ultimo schiaffo arriva quando si scopre che molti faldoni sono finiti in un vicolo cieco, al centro di smistamento di Salerno. Una volta scoperto l’arcano di quei faldoni spariti e ritrovati nel sud Italia basterebbe una telefonata. Ma ogni telefonata è inutile. Perché va a sbattere contro la burocrazia di Sda e, in particolare, contro un call center che non ne sa nulla di questa storia. La replica delle Poste che cerca di difendersi dalla figuraccia colossale tira in ballo la sua società controllata, la Sda: «Poste Italiane ha avviato una approfondita ispezione su quanto accaduto» dicono dalla società di Francesco Caio ribadendo la determinazione dell’azienda «a marcare una discontinuità dal passato e ad assumere le necessarie iniziative qualora emergano gravi responsabilità interne». Ma il problema è di vecchia data. E migliaia di cittadini sono costretti a confrontarcisi ogni giorno. Senza avere santi in Paradiso ai quali rivolgersi.

I faldoni di 30 processi milanesi che il corriere non ha recapitato. Perduti (e ritrovati) anche atti del caso Ruby. Il disservizio da quando non sono più accettate spedizioni «assicurate» che pesano oltre 2 chili, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Tranquilli: dovesse arrivarvi a casa, sbrindellato, qualche ammasso di atti sfusi del processo Ruby destinati alla Cassazione per l’ultimo grado del processo a Silvio Berlusconi assolto in appello a Milano, non vi preoccupate, è soltanto il riverbero più surreale di una questione invece gravemente seria: la dispersione, il danneggiamento, e in alcuni casi addirittura lo smarrimento dei faldoni degli atti di almeno trenta processi che la Corte d’appello di Milano ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione, ma che a Roma non sono mai arrivati, talvolta girovagando per mezza Italia, talaltra tornando alla base milanese di partenza tutti aperti e mescolati e forse pure manomessi, oppure «desaparecidos» non si sa più dove. Le possibili conseguenze di questo disservizio postale sono pericolosissime: scadenza dei termini di custodia cautelare dei processi «perduti» che abbiano imputati detenuti, problemi di validità dei ricorsi, caos sulle notifiche che a un ricontrollo degli atti dovessero risultare mancanti, calendari di udienza sconvolti, rischi di prescrizione. E il peggio è che non si sa quanto le dimensioni numeriche del disservizio postale possano crescere, perché c’è una ampia finestra temporale nella quale la Cassazione non ha ancora modo di accorgersi che dal distretto milanese non le stiano arrivando i processi o gli interi atti dei processi che le dovrebbero arrivare, e la Corte d’appello di Milano (che comprende anche i tribunali di Monza, Busto Arsizio, Pavia, Como, Lecco, Lodi, Varese e Sondrio) non ha ancora modo di sapere che quanto sta spedendo in realtà non stia affatto arrivando a destinazione. Ecco perché per dare un immediato stop, e fermare almeno l’ingranaggio infernale che sta fagocitando un numero imprecisato di impugnazioni, il presidente della Corte d’appello milanese, Gianni Canzio, ha sporto denuncia alla Procura di Edmondo Bruti Liberati, e intanto sta perfezionando a razzo una convenzione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), in modo che a giorni fissi durante la settimana il personale e i mezzi del Dap passino a raccogliere i processi da inviare in Cassazione e ve li portino a mano. Alla base di questo incredibile corto circuito c’è la comunicazione che al termine del 2014 le Poste danno agli uffici giudiziari abituati a spedire i ricorsi e i relativi atti in Cassazione con «assicurata»: il metodo costava un po’ alla Corte (circa 100 mila euro all’anno), ma funzionava. Solo che alla fine dell’anno scorso le Poste informano che non forniranno più il servizio di «spedizione per assicurata» di pacchi del peso superiore ai due chilogrammi. Ovviamente quasi tutti i processi constano di molti faldoni che pesano appunto più di due chili. Quindi gli uffici giudiziari si rassegnano all’unica alternativa offerta: consegna al corriere Sda Express (sempre del gruppo Poste Italiane) per la spedizione come pacchi ordinari. Si comincia a metà dicembre. Ma in questo fine gennaio le funzionarie dell’apposita cancelleria in Appello iniziano a mettersi le mani nei capelli: all’ingresso del palazzo di giustizia, infatti, ogni giorno cominciano a essere scaricati scatoloni generici con dentro ammassi di fogli provenienti da alcuni dei processi inviati in Cassazione, oppure ex confezioni di spedizioni Sda ma tutte aperte e lesionate con gli atti alla rinfusa, o persino sacchi di plastica trasparente contenenti documenti mescolati che è un rompicapo identificare. Tornano indietro (ed è già una fortuna, come per i tre faldoni infine recuperati del processo Ruby) perché spesso l’etichetta del corriere Sda, quando ancora c’è, rivela che erano stati scambiati mittente (Corte d’appello Milano) e destinatario (Cassazione Roma); ma in alcuni casi tornano indietro (tutti aperti e mischiati o amputati) anche sacchi e scatole con etichette che sembrano scritte correttamente. Poco a poco la cancelleria comprende che il disservizio postale colpisce non solo le spedizioni dalla Corte d’appello verso la Cassazione, ma anche le spedizioni dagli altri uffici giudiziari lombardi del distretto verso la sede centrale milanese della Corte d’appello: lo si verifica quando in uno degli scatoloni vaganti spunta un nugolo di fascicoli di liquidazione delle spese per intercettazioni ambientali. E ci vuole parecchio lavoro per ricostruire che quel mucchio di carte faceva parte in realtà di un processo di ben cinque faldoni di cui si sono perse le tracce postali tra il Tribunale di Busto Arsizio e l’Appello di Milano. Di altri processi smarriti si viene invece a sapere soltanto perché, trattati come giacenze che nessuno reclama, finiscono nel centro di Salerno, dove qualcuno si rende conto dell’alieno pacco ricevuto, e telefona alla Corte milanese. Che cerca poi di ricontattarlo senza riuscirci: perché l’unica utenza disponibile pare quella di un call center dislocato altrove.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

La sinistra si batte per eliminare ogni simbolo che inneggia all'italica tradizione ed appartenenza in nome di una sudditanza ideologica e strumentale.

Storia del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane di Rosci Valentina su “Diritto”. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche viene disposta mediante circolare con riferimento alla Legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è data con ordinanza ministeriale 11 novembre 1923 n. 250, nelle aule giudiziarie con Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”, che recita: “Prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari art. 118 Regio Decreto n. 965 del 1924 (relativamente agli istituti di istruzione media) e allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367 del 1967, il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985 n.121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocefisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il Consiglio di Stato: premesso che “il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare – continua il Consiglio di Stato – che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale delle suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. L’art. 190 stabilisce che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie. Nessun riferimento al crocifisso. Sicchè si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297/ 94 regola l’intera materia scolastica. Tuttavia restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico  vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali “arredi” ovvero “arredamenti” contenute negli artt. 107, 159 e 190 concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il “crocifisso”. Così si può affermare che le disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici. Conclusivamente, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e quelle allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione (Sez. III, 13-10-1998) ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: “Il principio della libertà religiosa, infatti, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quando la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l’espressione di detta libertà: condizione questa, non ravvisabile nella fattispecie”, nella quale si discuteva della lesività del principio di libertà religiosa proprio ad opera dell’esposizione del crocifisso nell’aula scolastica adibita a seggio elettorale. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Escluso che l’articolo 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica – in cui la Repubblica italiana prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” – possa costruire idoneo fondamento normativo alla prassi amministrativa in materia, la Suprema Corte rigetta anche la “giustificazione culturale”, contraddicendo espressamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in un ufficio pubblico, questa scelta può offendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad una confessione religiosa contraria a tale simbologia? L’esposizione contraddice la “laicità dello Stato”? E a che tipo di simbologia deve essere ascritto il crocifisso: identità religiosa o culturale? Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, domanda all’insegnante della scuola di Ofena (in provincia di L’Aquila), frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in subordine, di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnante accondiscende a questa seconda richiesta, ma viene smentita dal dirigente scolastico il quale impone di rimuovere il quadretto. Assistito da un avvocato, Adel Smith ricorre al Tribunale di L’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di una misura di carattere inibitorio idonea ad interferire nella gestione del servizio scolastico, dal che la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La rimozione del crocifisso scatena un’aggressiva polemica pubblica e una vera e propria campagna per il rilancio del crocifisso così che la maggior parte degli italiani hanno fatto questo tipo di ragionamento: “L’offesa è grande. Insopportabile. Una prevaricazione. Un esproprio. Un Tizio entra nel tuo alloggio, si accomoda in poltrona, ha libero accesso al frigorifero, usa il tuo bagno e invece di ringraziare per l’ospitalità, ti ingiunge di togliere dalla parete quel “coso” lì. Sarà anche un coso ma permetti decido io se deve restare lì o sparire”. Un ragionamento un po’ rozzo ma tale vicenda ci fa comprendere che oggi la questione dei simboli religiosi, a partire dal sostrato argomentativo connesso alla rivendicazione della libertà di coscienza e della neutralità dello Stato, può trasformarsi in un momento di “scontro tra religioni e civiltà”. Una questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal TAR del Veneto, avente ad oggetto gli artt. 159 e 190 del d. lgls. n. 297 del 1994, come specificati dall’art. 119 allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 e dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi scolastici, nonché l’art. 676 d.lgs. 297/94, nella parte in cui conferma la vigenza degli artt. 119 allegato C del R.D. 1297/28 e 118 del R.D. 965/24. Il Tribunale remittente sostiene che il crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale, che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità, desunto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio. La Corte Costituzionale con ordinanza 389/2004 ha ritenuto di non doversi pronunziare in quanto le norme in esame hanno natura regolamentare, norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né conseguentemente, un intervento interpretativo. In questa prospettiva, l’ordinanza della Corte, con le sue argomentazioni tecniche, pare suggerire un inasprimento di toni senza rinunciare a continuare ad interrogarsi. Tuttavia il dibattito in corso sull’esposizione del crocifisso pare sempre meno legato alla religione, alla religiosità e alla fede e invece strumentalizzato dai politici di destra e di sinistra. 

Crocifisso a scuola, assolta l'Italia. Ribaltata la condanna del 2009. Chi ha ragione? si chiede G. Galeazzi su su “La Stampa”. Il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con una sentenza definitiva della Grande Camera, votata da 15 giudici su 17, ha dichiarato che la presenza in classe di questo simbolo non lede nè il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, nè il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. Per il governo italiano e il fronte pro-crocefisso è una vittoria a tutto campo. Nel motivare la sua decisione la Corte afferma come il margine di manovra dello Stato in questioni che attengono alla religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Ma i quindici giudici che hanno votato a favore della piena assoluzione delle autorità italiane sono andati oltre. Nella sentenza si legge infatti come la Corte non abbia trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. E come nonostante la presenza del crocefisso (definito simbolo passivo) conferisca alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, questo non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. Si sottolinea infatti che nel giudicare gli effetti della maggiore visibilità data al cristianesimo nelle scuole si deve tener conto che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Nessun commento dall’avvocato Nicolò Paoletti, difensore di Soile Lautsi, la cittadina italiana di origini finlandesi che aveva presentato ricorso alla Corte. Dichiarazioni euforiche, invece, di coloro che hanno strenuamente difeso l’importanza della presenza del crocifisso nelle scuole italiane. «È una pagina di speranza per tutta l’Europa», ha commentato monsignor Aldo Giordano appena il presidente della Corte di Strasburgo, Jean Paul Costa, è uscito dall’aula dopo la lettura della sentenza. Il rappresentante della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi sottolineato come la Corte abbia preso una posizione coraggiosa e abbia tenuto conto delle preoccupazioni che in questo momento gli europei esprimono nei riguardi delle loro tradizioni, dei loro valori e della loro identità. Gli ha fatto eco il vice ministro della giustizia russo, Georgy Matyushkin, che è intervenuto davanti alla Grande Camera in favore dell’Italia ed è volato appositamente da Mosca per assistere alla lettura della sentenza. Il minisro russo si è detto «molto soddisfatto per l’approccio della Corte». Ma anche il direttore dello European Centre for Law and Justice, Gregor Puppinck, ha definito la sentenza «un colpo che mette un freno alle tendenze laiciste della Corte di Strasburgo e che costituisce un cambiamento di paradigma». Lo European Centre for Law and Justice era una delle organizzazioni no profit che si erano costituite parte terza a favore dell’Italia nel procedimento. Alla lettura della sentenza, che è avvenuta in un’aula piena di studenti e funzionari del Consiglio d’Europa, erano presenti anche l’ambasciatore italiano Sergio Busetto, oltre agli ambasciatori cipriota e greco e ai rappresentanti della diplomazia armena, lituana, e di San Marino. Tutti Paesi che assieme a Bulgaria, Romania, Malta e Principato di Monaco erano intervenuti a favore dell’Italia. La sentenza emessa oggi mette la parola fine al ricorso «Lautsi contro Italia». Un fascicolo che fu aperto dalla Corte nel 2006 e che nel 2009, con una sentenza in primo grado a favore delle tesi della ricorrente, suscitò una vera alzata di scudi contro la Corte. L’indignazione fu tale che il governo italiano ricorse immediatamente, chiedendo e ottenendo la revisione del caso da parte della Grande Camera. In questo suo appello, andato a buon fine, l’Italia ha potuto contare non solo sui dieci Paesi che «ufficialmente» si sono presentati come parti terze davanti alla Corte, ma anche sul contributo di diverse ong, di parlamentari italiani ed europei e del lavoro diplomatico condotto dal rappresentante della Santa Sede. «Esprimo profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese», ha dichiara il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. «Il Crocifisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. È un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia nè alla laicità dello Stato, nè alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini», ha concluso il ministro.

Toglie il crocifisso dall’aula. «Non me ne faccio nulla». Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere sella Sera”. Il caso di un’insegnante in una prima elementare. Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà». Via un altro. L’ennesimo. Tolto dalla parete a cui era appeso da anni. E scoppia la polemica. C’è chi parla di «strage dei crocifissi». E chi, più laicamente, si rifugia nel concetto di tolleranza e invita al reciproco rispetto. Siamo a Bologna, nella scuola elementare «Bombicci», classe prima B. Il simbolo religioso scompare pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni. Qualcuno, probabilmente dall’interno della scuola, avverte l’ex parlamentare pdl Fabio Garagnani, personaggio piuttosto combattivo in materia, che parte in quarta, informando della rimozione il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il vicedirettore regionale dell’ufficio scolastico, Stefano Versari. Per nulla scandalizzato invece il preside del comprensivo di cui fa parte la scuola, Stefano Mari: «Non esiste alcuna legge dello Stato che impone l’obbligo di ostensione del crocifisso, ma solo un regolamento del 1928 sugli arredi scolastici, poi superato nel 1999 da norme che conferiscono autonomia ai singoli istituti: dipende dalla sensibilità dei docenti». A riprova di ciò, prosegue il dirigente, «negli istituti che fanno parte del mio comprensivo, che riunisce 1.400 studenti tra elementari e medie, in moltissime aule il crocifisso non c’è mai stato o è stato tolto, mentre in altre è presente». Un processo graduale, aggiunge, «avvenuto negli ultimi anni e quasi passato inosservato in un clima di reciproca tolleranza tra chi lo avrebbe voluto e chi no». Fino ad oggi. Ora la polemica rischia di montare. Il giornale dei vescovi, Avvenire , censura l’episodio, ricorda l’ordinanza del 2011 della Corte di Strasburgo che impose a una scuola media di Abano Terme (Padova) di riappendere il crocifisso, ma soprattutto riporta le parole di un calibro da novanta come il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, il cui parere giuridico è agli antipodi di quello del preside Mari: «Non è rimesso alla scelta di qualcuno se togliere o meno il crocifisso - afferma il giurista -, non ci possono essere interpretazioni da scuola a scuola. Se è vero che la regolamentazione vigente sui simboli religiosi, che li vuole affissi nelle aule, può sembrare datata, è altrettanto vero che, chiamato a esprimersi, il Consiglio di Stato ne ha riaffermato la validità». Ma il preside insiste: «Credo che la questione vada risolta a livello amministrativo, è finito il tempo in cui tutto veniva deciso centralmente dal ministero». L’insegnante che ha tolto il crocifisso preferisce non esporsi. Raccontano che a chi le chiedeva spiegazioni sulla rimozione del simbolo avrebbe sbrigativamente risposto «di non farsene nulla». Il preside fa da scudo: «È inevitabile che sia turbata dalle polemiche, ma continua il suo lavoro e per ora non si registrano proteste dalle famiglie degli alunni». Ma Garagnani incalza: «È un problema di libertà, i genitori non si facciano intimidire».

Ma non solo oil crocifisso si vuol togliere. Anche il Presepe.

Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni".  Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.

Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.

La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.

La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa.   Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.

Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito).  Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.

E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.

E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla  tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.

Liberateci da Peppa Pig: sta rovinando i nostri bambini, scrive di Lucia Esposito su “Libero Quotidiano”. C'era una volta Heidi che faceva "ciao" alle caprette e aiutava l'amica Clara in carrozzina, c'erano i Barbapapà animalisti ed ecologisti che ci lasciavano di stucco coi loro "barbatrucchi" e le trasformazioni più improbabili. C'era Winnie the Pooh, l'orsetto grasso che lievitava all'ombra del bosco dei cento acri bevendo ettolitri di miele ma capace di grandissimi gesti di amicizia. C'era la cagnetta Pimpa che perdeva per strada le sue macchie rosse ma che faceva la felicità del suo padrone Armando… Mai si erano visti in televisione dei maiali che ruttano senza ritegno, grugniscono in continuazione, si rotolano nel fango allegramente e che, quando ridono, si ribaltano sul pavimento sbellicandosi come idioti. Liberatemi, vi prego, dalla famiglia Pig. Qualcuno mi spieghi cosa c'è di educativo in questo cartone che sta lentamente trasformando mio figlio di tre anni in un suino. «Tu sei mamma Pig», mi dice quando si sveglia. «No, Francesco io non sono un maiale», gli rispondo piccata. Lui arriccia il naso, dice «oink» e scappa via. Quando al mattino va a scuola, si guarda attorno con la stessa attenzione con cui un bracco ungherese cerca i tartufi nel bosco e, appena intercetta una pozza d'acqua, si fionda per saltarci dentro. «Come Peppa Pig» salta e ride mentre i suoi occhi roteano come biglie per individuare un altro specchio d'acqua fangoso in cui rotolarsi come un porcellino. Inutile provare a spiegargli che i maialini sono sporchi e puzzano e che la loro casa, il porcile, è un posto lurido e nauseabondo. Lui dice che «Patata City» (la città in cui vive la maledetta famiglia Pig) è bella e pulita. Per non parlare del rutto tra una portata e l'altra, diventato la colonna sonora dei miei pasti. Davvero non so come sia capitato ma lo spirito della famiglia Pig si è impossessato di lui e viene fuori senza alcun ritegno proprio quando tutti tacciono e non si può far finta di non aver sentito. «Non si fa, i maiali lo fanno» e lui: «Ma io sono Peppa Pig». Allontanarlo dal tavolo non fa che scatenare il processo di identificazione con la famiglia di suini perché invece di piangere, invece di starsene umiliato in camera, va in bagno, prende il braccio della doccia fa cadere acqua sul pavimento e si mette a saltare nella pozza. Per chi è fuori da questo incubo perché non ha figli tra i due e gli otto anni, Peppa Pig è un cartone animato che ogni sera ipnotizza mezzo milione di bimbi. È la storia di una famiglia di maiali (mamma Pig, papà Pig, il fratellino George di due anni e la protagonista Peppa di quattro anni). I suini non vivono in un porcile ma, pur mantenendo comportamenti propri della specie, sono umanizzati. Il povero signor Pig, il padre, è un pasticcione inetto, incapace di fare qualsiasi cosa (in un episodio per piantare un chiodo, fa crollare una parete) che si fa prendere in giro dai figli senza dire un «oink» sia perché è più grasso del normale sia perché è un fallimento che cammina. Lui e sua moglie non sono in grado di dare una sola regola comportamentale ai figli e, quando ci provano, non sono credibili. Non si fanno rispettare. Peppa e George fanno quello che vogliono, inzozzano di fango la casa, rompono il pc con cui la mamma lavora. Viziati e ribelli, trasmettono ai bambini l'idea che tutti sono uguali, che la loro parola-grugnito vale quanto quella dei genitori. Vogliamo poi parlare di George? A due anni dice solo e sempre «dinosauo», attaccato come una cozza al suo peluche verde ripete ossessivamente le stesse cose da centinaia di puntate senza che nessuno (tranne Peppa Pig che lo chiama «tontolone») si faccia delle domande sull'evoluzione del linguaggio del piccolo, senza che nessuno gli spieghi che si dice «dinosauro» e gli dia qualche informazione in più sull'animale preistorico. I dialoghi sono semplici, il vocabolario basico, i personaggi ripetono sempre le stesse parole, il disegno dei cartoni è elementare, eppure i bambini sono pazzi di questi porcellini. Molti esperti dicono che Peppa Pig piace tanto perché riproduce un modello di “famiglia normale”: i genitori che vanno al lavoro, i figli affidati ai nonni, le gite della domenica, i capricci a cui non seguono punizioni... Adesso, gli psicologi avranno anche le loro ragioni ma io da un po' ho vietato al mio bimbo di vedere «Peppa Pig»: perché per me non è normale che a cena rutti con lo stesso orgoglio di chi prende dieci in pagella. Ridatemi i barbatrucchi di Barbapapà!

E poi Peppa Pig è un maiale e non è corretto parlarne in un'Italia Islamica voluta dalla sinistra contro gli italiani cattolici.

Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.

Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.

I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.

I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.

Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...

I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...

La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.

Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.

Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.

La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.

Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?

Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.

La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.

L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.

La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.

Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.

Quanti sono i bambini soldato nel mondo. Il report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di minori arruolati sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso Il fenomeno dei bambini soldato pesa sempre di più, ma non si può contare. Le stime riportate da Amnesty International parlano di 300 mila bambini coinvolti in conflitti armati nel mondo, il 40% dei quali sarebbero bambine. L'Onu ne stima 250 mila. Se si cerca di definire con maggior dettaglio i contorni del fenomeno, il profilo diventa infatti subito sfumato. UNICEF, Human Right Watch, Child Soldier International, Amnesty International, le Nazioni Unite e molte altre realtà che si occupano di salvaguardare le condizioni dei minori nelle aree colpite dalla guerra, riportano la presenza ancora oggi come cinquant'anni fa, di bambini soldato, maschi e femmine, in molti paesi del mondo, dall'Africa al Sud America, al Medio Oriente. Secondo le stime UNICEF per esempio sarebbero 9000 i bambini soldato coinvolti in Sud Sudan, 2500 in India e addirittura 10000 quelli che avrebbero abbracciato le armi nella Repubblica Centrafricana. Tuttavia non ci sono dati certi e le stime spesso divergono di molto fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno. Ogni anno infatti vengono effettuati numerosi raid fra la popolazione civile, più o meno noti alle milizie internazionali, dove vengono reclutati nuovi bambini da inserire nelle file degli eserciti, governativi e non. Al tempo stesso però altri vengono sottratti alle forze armate grazie all'azione di realtà come le Nazioni Unite. Il bilancio è dunque difficile. Il punto di riferimento più recente e più dettagliato in questo senso è un Report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Children and armed conflict, che prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di bambini soldato sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013. Come emerge dalla mappa però, solo per una parte di questi paesi, quelli evidenziati in rosso, le Nazioni Unite sono in grado di fornire dei numeri. Per gli altri, quelli colorati in nero, la presenza di bambini soldato per quanto accertata, non è quantificata con esattezza.

Armi giocattolo e fiabe sui martiri, niente tv. Ecco come si educa un bambino al jihad. Nel manuale per la donna jihadista, i consigli pratici per diventare la mamma perfetta. E insegnare ai figli ad essere «combattenti e ad avere paura solo di Allah: la chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli», scrive Daniele Castellani Perelli “L’Espresso”. Niente tv. Sì a pistole giocattolo e freccette. E prima di andare a nanna una bella favola sul jihad. Queste sono solo alcune delle regole che deve seguire una mamma perfetta per educare un piccolo jihadista. Il testo è uno di quelli per cui un mese fa Runa Khan, una donna di Luton, mamma di 6 bambini, è stata condannata in Inghilterra a cinque anni per aver incitato su Facebook al terrorismo. Fa parte di un vero manuale per la donna jihadista, chiamato “Il ruolo della Sorella nel Jihad”. Ma la sezione più interessante è sicuramente quella dedicata all'educazione dei bambini, una specie di “Emilio” rousseauiano pensato per il jihad. Lo è alla luce del ruolo centrale che i bambini sembrano avere nella strategia e nella propaganda dei terroristi islamici, quasi fossero impegnati nella costruzione di un uomo nuovo, fin dai primi anni. Lo confermano ora due notizie macabre degli ultimi giorni: il video del bambino kazako che, puntando una pistola, ucciderebbe per lo Stato Islamico due presunte spie russe e poi festeggia il suo gesto (in realtà dal video non è dmostrato che sia stato lui a ucciderli), e l'uso di almeno una bambina ricoperta di esplosivo per degli attentati compiuti da parte dell'organizzazione nigeriana Boko Haram. Ma già in precedenza erano note le tante foto di bambini vestiti con i simboli dell'Isis che circolano da tempo su Twitter e gli altri social media, tra cui quelle del britannico Siddhartha Dhar in posa con neonato e fucile, ma anche quella di Ismail, di Longarone, in Veneto, che il padre Ismar Mesinovic ha portato con sé in guerra strappandolo alla madre cubana. Alla stessa Runa Khan, 35 anni, sono state trovate foto dei figli con pistole e spade, ma aveva anche indicato dettagli del modo in cui raggiungere la guerra in Siria dall'Inghilterra e su un sito per estremisti si era augurata che un giorno suo figlio diventasse un jihadista. Il manuale era già noto da qualche anno agli specialisti, ma secondo l'istituto americano Memri (Middle East Media Research Institute) ora è tornato particolarmente in auge proprio per l'Isis. Lo dimostra lo stesso caso di Runa Khan, che quel testo l'ha pubblicato su Facebook nel settembre del 2013. Ma cosa dice esattamente il manuale? Nel capitolo “Come educare bambini mujahid (combattente nel jihad, ndr)” si descrive questo compito come «forse il più importante per le donne». Si deve insegnare ai bambini, che siano maschi o femmine, «ad avere paura solo di Allah»: «La chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli. Non aspettate che raggiungano i sette anni, potrebbe essere troppo tardi!». Poi ecco i consigli: «Racconta loro storie della buonanotte che parlino dei martiri e dei mujahideen. Sottolinea che non devono colpire i musulmani, anzi perdonarli, e che devono esprimere la loro rabbia sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Magari crea un surrogato di nemico, ad esempio un sacco da colpire, e incoraggia i bambini, specialmente i maschi, a usarlo, a costruire la propria forza così come a imparare a controllarsi e a saper dirigere la propria rabbia». E per quanto riguarda lo svago? «Elimina se puoi completamente la tv, che perlopiù insegna cose senza vergogna, anarchia e violenza casuale. Inoltre la tv instilla pigrizia e passività, e contribuisce a un abbandono mentale e fisico. Se non puoi proprio eliminarla, usala per video che trasmettano l'amore per Allah e per il jihad. Ce ne sono alcuni anche sull'addestramento militare». Per i videogiochi il discorso è simile. Meglio di no, ma se proprio non può farne a meno allora sì a quelli militari. Il manuale invita poi a comparare «queste caratteristiche con gli aspetti salutari del gioco e dello sport, da cui può trarre beneficio in termini di disciplina e forza fisica». Qualche esempio? Il tiro al bersaglio con armi giocattolo, il tiro con l'arco e le freccette, «che permettono di sviluppare un buon coordinamento mano-occhio», e giochi militari che siano divertenti. Quanto agli sport, sì a arti marziali, nuoto, equitazione, ginnastica, sci, e poi altre attività come la guida di veicoli, l'orientamento nei boschi, il campeggio e l'addestramento per la sopravvivenza. Ci sono anche consigli di lettura, ovvero libri militari («meglio se con le figure») e siti web, il tutto già a partire da quando il bambino ha «due anni o anche meno»: «Non sottovalutate l'effetto duraturo di ciò che quelle piccole orecchie e quei piccoli occhi possono assimilare nei primi anni di vita!». Il manuale ricorda che «i bambini imitano quello che fanno gli adulti», e invita a iniziare sin dai primi anni perché così «non affronteranno poi battaglie interne quando diventeranno più grandi e saranno più coinvolti nel mondo». Ma a giudicare dalle notizie degli ultimi giorni bisogna dire che questo è un testo a suo modo moderato, laddove ad esempio raccomanda di non tenere le armi vere alla portata dei bambini, e di non usarle davanti a loro, oppure di non uccidere altri musulmani. Vuol dire che Isis e Boko Haram hanno alzato ancora più in là l'asticella. È la conferma che il jihadista di oggi è ancora più spietato di quello di ieri. È una nuova generazione.

Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.

I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità , perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».

"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".

Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri).

"La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista". Benito Mussolini. Il fascismo, fin dai primi anni in cui prese il potere si preoccupò di rafforzare le proprie basi ideologiche e il consenso sociale. Uno dei mezzi utilizzati era l'indottrinamento ideologico a partire dalla scuola. Dal neo-governo fascista venne, infatti, approvata la Riforma Gentile che proponeva una nuova forma di organizzazione scolastica, con l'introduzione dell'Esame di Maturità e la Religione come materia obbligatoria. Il partito si preoccupò anche di garantire un'impostazione dei vari programmi secondo un criterio nettamente di parte, introducendo testi scolastici come il noto libro di testo unico per le Elementari. All'organizzazione scolastica si aggiungevano varie forme di indottrinamento legate soprattutto all'attività fisica e alle parate.

Poi le cose son cambiate. E’ nato l’indottrinamento comunista e di sinistra in generale.

Scrive Giorgio Israel. Un ragazzino di 13 anni mi dice di detestare la letteratura. Il suo sguardo scettico, mentre gli vanto la bellezza dei classici e gli parlo della Divina Commedia, mi spinge a una sfida temeraria: «Te ne leggo un canto». Procedo temerariamente, aspettandomi sbadigli e il rigetto finale condito del tipico insofferente sarcasmo adolescenziale. E invece funziona. Tanto funziona che il ragazzino mi chiede se non potremmo fare altri incontri e continuare, e poi chiede: «Ma perché a scuola non ci fanno leggere testi così? Guarda invece cosa mi è toccato in questi giorni». È un brano di Gino Strada sugli “effetti collaterali delle guerre”. Lo leggo tutto e non ha niente di letterariamente valido: è una predica ideologica noiosa scritta in modesto italiano. Colgo l’occasione per sfogliare l’antologia del ragazzino: c’è da restare a bocca aperta. Al brano di Strada seguono due pagine di “competenze di lettura” dove l’alunno deve mostrare di aver capito il testo apponendo crocette nelle caselle giuste. Seguono pagine di indottrinamento sotto il titolo “che cosa succede nei paesi dove c’è la guerra”; poi ancora competenze di lettura e scrittura “contro la guerra”, per finire con una pagina incredibile. Contiene una serie di immagini, per lo più banali o stucchevoli, come quella di un gruppo di bambini a cavalcioni su un cannone, e prescrive il seguente compito: «osserva i cartelli contro la guerra, poi scrivi per ognuno una frase-slogan»…

Come la dobbiamo chiamare? Competenza di manifestazione di piazza? È finita qui?

Niente affatto. Seguono le “competenze grammaticali”, in cui l’alunno è invitato a mostrare di saper far uso della locuzione “sarebbe meglio”: riempi lo spazio con i puntini nella frase «Invece di fare la guerra, sarebbe meglio…», e così via. Seguono le “competenze di cittadinanza attiva”, in cui l’alunno deve dar prova di aver assimilato i concetti di conflitto, guerra e pace, costruendo una “mappa concettuale” sul tema. E, come se non bastasse, l’acme di un tormentone di decine di pagine è una “verifica di fine unità” e… una prova Invalsi. Non capisco in base a quale diritto la scuola pretenda di indottrinare i ragazzi all’idea che tutte le guerre siano egualmente sporche. Dovrei forse accettare che i miei figli considerino la guerra di liberazione dal nazifascismo – grazie alla quale sono potuti venire al mondo – alla stregua della guerra scatenata dalle armate hitleriane? Non saprei immaginare una prepotenza più oscena. Ma andiamo avanti. Ometto di fare un elenco completo degli autori che popolano l’antologia, per non offendere nessuno, anche se credo che né Jovanotti né Luciano Violante abbiano mai compreso nelle loro aspirazioni quella di competere con Tolstoj e Pirandello. Consiglio di sfogliare alcune delle antologie che circolano nelle nostre scuole per constatare che ormai questa è la concezione della letteratura che le ispira. E pongo alcune semplici domande.

Qualcuno può davvero seriamente pensare che questo sia un modo valido per instillare l’interesse per la letteratura, per la lettura, per la scrittura? Non è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla deriva che sta prendendo la funzione istituzionale dell’istruzione?

L’attuale dibattito sulla vicenda della lettura del romanzo di Melania Mazzucco in un liceo romano è tutto centrato attorno al dilemma se sia giusto o no scegliere dei testi adatti a combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere o se tale scelta sia mera pornografia. Pare che per molti, inclusi alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, la funzione della scuola sia ormai meramente ideologica. Si dirà che Melania Mazzucco è una vera scrittrice a differenza di Strada ma, la vera questione è se, a fronte del panorama sterminato di letteratura di livello indiscutibilmente alto, e con cui si potrebbero riempire decine di antologie, si preferisce cancellare Leopardi a vantaggio di testi il cui unico indiscutibile merito è di avere una funzione ideologica. Le denunce legali, che finiranno puntualmente nel nulla, sono un’azione senza senso. È più appropriato denunciare (in termini non legali) la deriva di una scuola che sta rinunciando all’educazione al bello, e la guarda con sarcasmo come se fosse orpello di altri tempi; che rinuncia ad appassionare i ragazzi al piacere di leggere prose e poesie di valore universale, a discuterli in classe senza questionari di competenze e senza pagine pieni di imbecilli quesiti a crocette; lasciando che la determinazione di posizioni su temi come il sesso, la famiglia, la guerra o l’ambiente, sia conseguenza della formazione libera di una personalità strutturata sull’amore per la conoscenza, la cultura, la bellezza artistica in tutte le sue forme. La scuola non dovrebbe impicciarsi di imbastire “lotte” contro questo o quello, di educare a pensare in questo o quel modo, di insegnare a compilare cartelli da portare in piazza, selezionando la letteratura su questi criteri. Perché, così facendo, la sua funzione educativa si trasforma in ciò che vi è di più brutto: l’indottrinamento ideologico. Brutto e diseducativo, perché è caratteristico delle società totalitarie e come tale stimola le peggiori forme di intolleranza.

Non potrò mai dimenticare che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, Alberto Lecco, un grande romanziere dimenticato – dal cui capolavoro “Anteguerra” si potrebbero trarre brani antologici ben più validi di quelli che vengono propinati – fece questo commento: «Il comunismo finito? Comincia solo adesso…». Aveva ragione. Il comunismo dei soviet, dei comitati centrali e delle commissioni centrali di controllo è finito da un pezzo. Ma il comunismo come costruttivismo sociale, come aspirazione a una società basata sull’indottrinamento ideologico, è più vivo che mai, metastatizzato nella forma del “politicamente corretto” che, sotto la veste di una bontà ipocrita e falsa, propina incessantemente le prescrizioni soffocanti di un conformismo sociale costruito a tavolino, in cui non c’è più spazio per il libero sviluppo della personalità.

L’intellighenzia sinistra non finisce mai di stupire, scrive “Il Fazioso”. Certi professoroni dei nostri licei, dopo l’abituale giro in sezione, si impegnano al massimo per trovare occasioni per fare della sana propaganda nelle scuole. E sono veramente fantasiosi se per il loro scopo piazzano a tradimento persino delle versioni di latino contro Berlusconi. Ora la prof mattacchiona tenta di difendersi in ogni modo, spiegando l’alta importanza didattica della versione. Il preside difende la docente parlando di tentativo di incuriosire gli studenti con l’attualità, ovviamente nessuno ha pensato all’opportunità di una versione palesemente contro il premier. Ma che sarà mai? Ci spiegheranno che non c’è dietrologia politica ma piuttosto educazione d’avanguardia. Il prossimo passo è portare Berlusconi nella matematica con qualche problema sul suo patrimonio finanziario (ovviamente condito da qualche passaggio denigratorio). Quanto sono furbi questi sinistri.

Istruzione o Indottrinamento? Si chiede David Icke su “Crepa nel Muro”. La "istruzione" esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba o il crematorio. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che "la istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola." Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè la università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che la intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa ... Una sera mi trovavo in discoteca, e la pista da ballo era vuota perché il DJ aveva messo su della musica che le persone non volevano ascoltare. Questo insopportabile egocentrico si rifiutò di cambiarla, e io chiesi se fosse una scelta così intelligente, date le circostanze. Quello si indignò. Aveva la prova di essere intelligente, avendo un diploma! Che ridere. La intelligenza fondamentalmente consiste nel rendersi conto che le persone non ballano perché la musica fa schifo, e nel mettere al suo posto qualcosa che piaccia; un diploma consiste nel dire al sistema ciò che esso ti ha detto di dire. Cosa c’è di intelligente in questo? Il sistema relativo alla istruzione, o Programma di Distribuzione Automatico di Salsicce è parte essenziale dello ipnotismo sistemico. Il programma della istruzione è organizzato in modo sistematico con tre principali obiettivi:

1 – Impiantare nella realtà un convincimento in linea con la illusione della Matrice. Questo è abbastanza semplice. Non devi fare altro che offrire agli studenti la versione ufficiale della scienza, della storia, della religione e del mondo in generale. Questo viene fatto programmando gli insegnanti attraverso la scuola, la università e la facoltà di magistero; poi li si manda fuori a programmare la generazione successiva con le stesse fesserie che è stato detto loro di insegnare e di credere. Come disse Oscar Wilde: “Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni una citazione.” La maggior parte degli insegnanti, come anche dei medici, degli scienziati, della gente del mondo della informazione, e così via,è ciò che il mio amico Mark Lambert definisce ‘i ripetitori’. Essi non fanno che ripetere ciò che qualcun altro ha detto loro, invece di accedere attraverso la coscienza alla propria verità. Si tratta di una realtà di seconda mano. Il procedimento è simile a quello dello scaricamento di informazioni su disco (insegnante) seguito dalla sua riproduzione in un gran numero di copie (ragazzi e studenti). Nell’ambito di scuole e istituti superiori si ha il permesso di discutere poco o nulla che esuli da questa versione convenzionale della vita, e i punti di riferimento alternativi dai quali osservare questa realtà indottrinata da una altra prospettiva sono scarsi, sempre ammesso che ve ne siano. I ragazzi passano attraverso questo distributore automatico mentale e nel frattempo vivono con adulti (altri ripetitori) che hanno già assorbito la stessa programmazione, e in più guardano mezzi di informazione (altri ripetitori) che ripete a pappagallo la stessa storia ‘ufficiale.’ Non c’è da meravigliarsi se i ragazzi credono che la illusione sia reale quando ogni fonte di ‘informazione’ dice loro che è così.

2 – Trasformare i ragazzi in robot che seguano gli ordini dell'insegnante (sistema). Ciò richiede il Programma del Bastone e della Carota. Si rende molto più facile ai ragazzi la accettazione del volere degli insegnanti (personificazione del sistema), piuttosto che il mettere in discussione la autorità ed i concetti in cui essi dicono di credere. Ricompensa uno e punisci l’altro. "Fa come ti dico e credi a ciò che ti racconto" viene instillato fin dalla più tenera età in quello indottrinamento che chiamiamo scuola, istituto superiore e università. Gli esami rappresentano il sistema che richiede di sentirsi dire ciò che ti hanno detto che devi pensare. Sono la prova che conferma se un download sia andato o meno a buon fine. Quando fate il download di qualcosa su un computer, appare un piccolo box con la scritta: "Vuoi aprire questo file adesso?" Voi lo aprite per assicurarvi che i dati siano stati scaricati correttamente. E’ questo che sono gli esami. I bambini indipendenti, che rifiutano il download, vengono considerati una influenza distruttiva. Avete notato che – mentre possono esserci disaccordi su come si insegna ai ragazzi – raramente vi sono discussioni su cosa viene loro insegnato? Questo perché la Matrice ha una tale presa sulla realtà umana che il cosa venga insegnato è accettato pressoché universalmente. In verità, se le scuole introducessero corsi sulla spiritualità in relazione alla Unità di tutto e alla illusione della forma, i genitori controllati dal Programma Divino protesterebbero furiosamente contro questa offesa alla loro fede cristiana, islamica, ebraica, ecc. ai bambini non solo viene somministrato del veleno per bocca, ma anche attraverso la mente.

3 – Soffocare nella popolazione/bersaglio (ragazzi) qualsiasi idea di unicità e spontaneità. Le scuole sono per lo più zone proibite alla spontaneità e al libero pensiero perché sono consumate dalle regole. Questa è una perfetta preparazione al mondo degli adulti, il quale è strutturato nello stesso modo. La unica differenza è che gli insegnanti per adulti si chiamano agenti di polizia, funzionari statali, ispettori del fisco, più tutti gli altri cloni - per la maggior parte ignari – al servizio della Matrice. Stavo leggendo che in Inghilterra, in una scuola secondaria, è stato proibito agli alunni di tenere per mano o abbracciare il proprio fidanzatino / fidanzatina allo interno dello edificio. Il preside si è giustificato dicendo che un tale comportamento non sarebbe stato consentito ad adulti sul luogo di lavoro. I ragazzi vengono plasmati per diventare una mente collettiva ad alveare, piuttosto che espressioni di unicità. Comportatevi allo stesso modo, e credete allo stesso modo. Un’ultima cosa: perché agli adulti non dovrebbe essere permesso di baciarsi e abbracciarsi sul luogo di lavoro? Accidenti, solo nella matrice lo affetto poteva essere sottoposto ad un regolamento.

Come ottenere l’obbedienza. L'indottrinamento scolastico, scrive Corrado su “Scienza Marcia”. Immaginiamo una ristretta cerchia di persone, un’oligarchia, che voglia mantenere il proprio potere politico/economico sopra una nazione sfruttandone il popolo: quali sono i metodi migliori per consolidare tale potere e renderlo inattaccabile? I metodi sono diversi, anche perché ci sono due strategie di fondo per mantenersi al potere:

1) Quella di esercitare il potere in maniera ferrea e dittatoriale, mostrando palesemente che chi si oppone rischia di venire incarcerato, torturato, ucciso;

2) Quella di fingere di fare tutto il possibile per il popolo, peccato che ci siano i nemici esterni, i nemici interni, le calamità naturali, le crisi ricorrenti del sistema economico, le recessioni, fattori difficilmente controllabili che vanificano gli sforzi che il potere fa “per il bene del popolo”.

Ovviamente questi sono due schemi di massima, che in realtà non si realizzano mai in maniera “pura”. Anche le dittature esplicite nel corso della storia hanno cercato di presentarsi di volta in volta come “necessarie per il bene del popolo, della repubblica, del regno, della nazione” ed hanno cercato di fingere di fare del bene per i propri sudditi. Anche le dittature implicite (come le odierne “democrazie”) pur fingendo di agire per il bene dei sudditi utilizzando il pungo duro con gli avversari più irriducibili, quelli che hanno capito l’ipocrisia del sistema politico e la denunciano, la combattono. Anche nelle nostre finte democrazie che si oppone radicalmente al sistema di potere smascherandone le menzogne rischia di essere incarcerato, torturato, ucciso. In tutti i casi però ci sono degli strumenti che vengono utilizzati da quasi tutte le oligarchie/dittature (esplicita o implicita) per mantenersi saldamente al potere:

- la creazione di finti nemici;

- la divisione del popolo in due o più fazioni che si contrappongono su tematiche di poca importanza (come dicevano i romani “divide et impera” ossia “dividi e governa”);

- il grande risalto dato a manifestazioni di nessun valore, giochi, sport, intrattenimenti futili (ai tempi dei romani c’erano i “circenses”, ossia i giochi del circo);

- la garanzia della sopravvivenza alimentare, senza la quale si rischia una seria rivolta (per governare i romani distribuivano “panem et circenses”, “pane e giochi circensi);

- l’infiltrazione nei movimenti di opposizione di massa per manovrarli a loro insaputa;

- l’utilizzo di tecniche di controllo di massa (tramite l’applicazione delle più raffinate tecniche derivate dallo studio della psicologia di massa, della sociologia);

- il controllo dell’emissione della moneta;

- il controllo sulla formazione della cultura;

- il controllo della scuola;

- il controllo dell’informazione (il cui utilizzo distorto serve anche a nascondere agli occhi della gente la maniera in cui si utilizzano tutti gli altri strumenti di controllo).

Quando avrò più temo forse mi metterò a dimostrare che le nostre “democrazie” sono oligarchie mascherate, che i veri poteri forti che stanno dietro ai burattini che siedono in parlamento non hanno scrupolo ad usare le peggiori forme di violenza e di coercizione contro chi si oppone ad essi. Basterebbe ricordare il clima di violenza e di repressione totalitaria che si è respirato a Genova nel 2001 (governo di destra), e a Napoli pochi anni prima (governo di sinistra) in occasione di due manifestazioni dei no-global per rendersi conto che il potere che comanda le nostre “democrazie” è violento per natura (detto questo non mi confondete con un aderente ai movimenti no-global per carità, non rientro né in quella né in altre etichette). Quando avrò più tempo mi impegnerò a dimostrare come i governi utilizzino tutte le strategie sopra elencate. Per adesso mi limito ad una sola affermazione: sarebbero stupidi se non le utilizzassero. Volete che governi che utilizzano le migliori e più raffinate tecnologie scientifiche (ad esempio per spiare e controllare tutto e tutti) e non usino le più sottili e raffinate strategie di controllo sociale, pensate davvero che si astengano dall’infiltrarsi nei gruppi di opposizione per pilotarli nascostamente ed utilizzarli per i propri fini? Non vi rendete conto che il leader della cosiddetta “opposizione no-global” è un medico che porta acqua al mulino del Nuovo Ordine Mondiale diffondendo il pregiudizio che l’AIDS sia causato dall’HIV? Non vi ricordate di quando il TG della RAI disse che “i servizi segreti italiani erano a conoscenza del piano per il rapimento di Aldo Moro due settimane prima che avvenisse la strage di Via Fani?”. Non vi ricordate di come in quei giorni arrivò una soffiata sul posto in cui era nascosto Moro e di come la polizia evitò di controllare l’informazione? Lo so, l’informazione dei mass-media non aiuta certo a ricordare certi “dettagli” di fondamentale importanza. Se riuscirò un giorno parlerò di come vengono utilizzate tutte queste tecniche di manipolazione/controllo/dominio, ma oggi voglio parlarvi di una di esse in particolare, perché ci lavoro: la scuola. Cosa c’è di meglio della scuola per indottrinare le persone? Se n’era accorta subito la chiesa quando lo Stato Italiano ha deciso di istituire una scuola elementare pubblica. “Orrore! Orrore! - hanno gridato il papa e tutti i preti in coro - sacrilegio! L’istruzione l’abbiamo sempre gestita noi fino ad ora, guai a chi la sottrae al nostro controllo”. Con questo non voglio certo affermare che lo stato abbia inaugurato una scuola pubblica incentrata sulla libertà, perché se l’educazione gestita dai preti era sicuramente di parte, anche la scuola pubblica serviva ad inculcare nei futuri cittadini tutta una serie di idee preconcette: “lo stato è buono”, “il potere è buono”, “il re è buono”, “il re è bello”, “il papa è santo”, “è giusto morire per la patria”, “non ribellarti al potere”. Un tipico esempio è quello della Germania/Prussia ai tempi di Bismarck , il quale affermò senza giri di parola che voleva utilizzare la scuola per infondere uno spirito militaresco nei allievi. A giudicare dai risultati che si sono ottenuti nel giro di 50 anni (Hitler, il nazismo, la seconda guerra mondiale) bisogna dire che quell’indottrinamento militare è stato decisamente “proficuo”. Cosa pensate che sia cambiato da quei lontani termini? La forma sì, certamente la forma è cambiata, ma la sostanza? Nel 2001 ad esempio è stato decretato dal ministro dell’istruzione Moratti l’osservanza di tre minuti di silenzio per commemorare i morti delle torri gemelle a New York, squallida manovra per indurre un’approvazione della guerra USA contro l’Afghanistan e della partecipazione Italiana al conflitto (sebbene in una maniera minore e molto subdola, inviando un contingente al comando degli USA solo dopo l’occupazione militare di quella Nazione e la caduta del vecchio governo). Forse qualcuno pensa che la scuola, almeno quella pubblica, garantisca un confronto fra diversi modi di pensare, diverse opinioni politiche, idee contrapposte. In realtà questo succede limitatamente al fatto che i professori e i maestri hanno diversi orientamenti politici, votano per partiti differenti, e quindi si lasciano sfuggire discorsi e battute contro questo o quell'uomo politico. Per il resto l'omologazione all'interno della classe docente é fortissima, soprattutto quando entrano in gioco la storiografia e la scienza ufficiale, oppure il "sentimento religioso" ed il cosiddetto "amor patrio" (che raramente coincide con il vero amore per la propria terra e per i propri connazionali, mentre troppo spesso é bieco nazionalismo). In tutti questi casi non solo vi é un quasi totale allineamento dei docenti sulle stesse posizioni, ma chi tenta di esprimere il suo dissenso viene spesso trattato come un folle o come un fastidioso rompiscatole. Nei primi anni del 2000 nella scuola italiana (a partire dal già menzionato episodio relativo ai morti dell’11 settembre 2001) si é preso il brutto vizio di indire dei minuti di silenzio per commemorare la morte di alcune persone, facendo così una ben curiosa distinzione fra morti da commemorare e su cui riflettere, e morti su cui é meglio non soffermarsi col pensiero. A quanto pare qualcuno vuole inculcare nelle menti delle persone, e dei alunni in particolare, l'idea che le vite degli esseri umani non abbiano tutte uguale dignità e valore. Per due volte l'iniziativa é stata imposta direttamente dal governo, ma le altre volte sono stati i singoli dirigenti scolastici a decidere "autonomamente" (le virgolette sono dovute al fatto che lo hanno fatto praticamente tutti adeguandosi ad un andazzo nazionale). Di conseguenza l'istituzione scolastica ha cercato di imporre una particolare visione politica della realtà secondo la quale, ad esempio, i 3000 morti delle torri gemelle sono da ricordare e commemorare e sono più importanti sia del milione di iracheni uccisi dalla guerra e dall'embargo negli anni '90, sia dei 3000 bambini che muoiono di fame ogni giorno. Alla stessa maniera i militari italiani (superpagati e volontari) morti a Nassirya sono da ricordare e commemorare per il loro "sacrificio per la pace" a differenza degli operai (sottopagati e sfruttati) che muoiono quotidianamente negli incidenti sul lavoro. In quell'occasione una mia timida espressione di dissenso é stata stigmatizzata dal preside (che era persino contrario alla guerra in Iraq). Non credo che abbia capito che, per quanto mi dispiacesse per la morte di quelle persone, non ritenevo opportuno che la scuola venisse utilizzata per imporre simili commemorazioni dal fine prettamente politico. Avete mai visto una simile commemorazione quando sono morti 10 operai di una fabbrica? A quanto pare per i mass media e per le istituzioni, scuola compresa, la vita di un operaio é meno importante di quella di un militare. Per altro molti militari inviati in Iraq facevano sfoggio nei loro alloggi di simboli fascisti, ed é quindi più che legittimo dubitare del fatto che fossero lì a rischiare la vita per la pace; forse molti di loro si sono ritrovati in Iraq perché attratti dall'alta paga e dalla voglia di un'avventura esotica. Ma la scuola con le sue commemorazioni calate dall'alto impone implicitamente un punto di vista, ed invece che organizzare una riflessione sul conflitto iracheno, una discussione sull'opportunità di quella missione militare all'estero, fa semplicemente da grancassa al trambusto mediatico, e contribuisce al risorgere di quel discutibile "sentimento della patria" che nasconde il rilancio della funzione offensiva dell'esercito; un esercito che, in barba alla costituzione, è stato impiegato in 15 anni per ben 4 volte in operazioni militari al seguito delle guerre statunitensi. Anche quando c'è stata la strage dei bambini in una scuola della Cecenia si è ripetuta a scuola la commemorazione silenziosa; curiosamente questa volta non é stata imposta direttamente dal governo, ma organizzata dal solito trambusto dei mass-media. Ma il copione non è per questo cambiato di molto: siccome i terroristi Ceceni venivano presentati come islamici e siccome gli USA ed i loro alleati erano impegnati in una serie di guerre contro il “terrorismo islamico” qualcuno deve avere deciso di utilizzare anche questo triste avvenimento per orientare la coscienza delle masse, e degli alunni in particolare. E che dire del Papa commemorato col solito minuto di silenzio e ricordato come "uomo di pace"? Proprio lui che col riconoscimento precipitoso delle repubbliche secessioniste della ex-Jugoslavia aveva accelerato un processo che avrebbe portato alla guerra fratricida? Proprio lui che dei preti uccisi nella guerra civile spagnola, aveva beatificato solo quelli fedeli al fascista Franco? E non parliamo delle sue discutibili scelte in ambito religioso per evitare di scrivere un trattato sull'argomento. Intendiamoci, non mi interessa in questa sede discutere sulla bontà o sulla presunta santità del defunto Papa Giovanni Paolo II, quello che intendo rilevare é che la scuola rendendo omaggio alla memoria di alcune persone e dimenticandosi invece di altre, fa una scelta che ha dei significati politici ben precisi, e che puzza tanto di indottrinamento. "La scuola dell'indottrinamento scientifico". Quanto al resto, o meglio, per quanto riguarda tutti gli aspetti controversi della cultura ufficiale che vengono esaminati in questo sito, di confronto e di contrapposizione ce n'é ben poca, ma quello che é peggio è che il confronto o viene vietato o viene ostracizzato in ogni maniera. Se é comprensibile il fatto che i docenti siano stati ingannati da un certo sistema di gestione del potere e della cultura e che quindi non discutano quasi mai argomenti che mettano in dubbio certe presunte verità (in particolare sull'affidabilità della medicina ufficiale, sugli espianti, sull'aids, sulla psichiatria, sulla preistoria), ben diverso é il fatto che quando ci si prova a prospettare un confronto su questi tempi si scatenino i peggiori isterismi che portano perfino a vietare l'approfondimento di certe tematiche controverse. La mia pluriennale esperienza di docente nella scuola superiore mi ha permesso purtroppo di verificare che su certe questioni l'atteggiamento di rifiuto del dissenso e di condanna di chi esprime opinioni difformi é del tutto generalizzato. Ecco un primo esempio.

Espianti e trapianti. Liceo scientifico di Caravaggio, agli inizi del 2000, su proposta di una professoressa la scuola approva una visita ad un ospedale per andare ad assistere in diretta ad un'operazione di trapianto. Al di là del fatto che una simile iniziativa si potrebbe subito giudicare di cattivo gusto, la cosa peggiore è stata la maniera in cui la scuola ha reagito alle proteste contro tale iniziativa. In seguito ad un volantinaggio di protesta della "Lega nazionale contro la predazione degli organi" che cosa ha pensare di fare l'istituzione scolastica per garantire una serena discussione di approfondimento su questo tema controverso? Semplice, ha chiamato un medico favorevole ai trapianti per tenere una conferenza rivolta soprattutto agli alunni delle ultime classi, senza pensare minimamente a prevedere alcun contraddittorio. Come lo volete chiamare questo? … "orientamento guidato"? ...Il caso ha voluto che il giorno stesso in cui era prevista quelle conferenza a favore dei trapianti io fossi stato invitato nella stessa scuola a tenere una relazione sull'embargo in Iraq. Si trattava di iniziative all'interno di quella che viene (spesso impropriamente) chiamata "autogestione", uno spazio di alcuni giorni dedicato a dibattiti, discussioni, approfondimenti su tematiche sociali e politiche di attualità. Finita la mia relazione sull'Iraq sono venuto a sapere che subito dopo iniziava la conferenza sui trapianti. Allora ho chiesto ad alcuni alunni responsabili dello svolgimento di quella "autogestione" se potevo partecipare alla conferenza per esprimere pareri opposti a quelli del conferenziere e permettere un contraddittorio. Per essere corretto non sono entrato nella sala in cui si svolgeva la conferenza prima di chiedere ed ottenere un permesso. Risultato: dopo 10 minuti in cui ho contestato alcune affermazioni del relatore ufficiale arriva il vicepreside ha "espellermi". Ma come, non era un'autogestione? No, risponde il vicepreside, in realtà si trattava di una "co-gestione", ossia un'iniziativa gestita dalla direzione scolastica in collaborazione con gli studenti, ed il mio intervento non era previsto. L'idea di approfittare della presenza di un esperto che potesse ravvivare il dibattito e creare un contraddittorio é ovviamente fuori dalla portata di certe persone. Dopo qualche anno è successo il bis in una scuola in cui insegnavo, quando con una collega di Italiano abbiamo affrontato il tema dei trapianti, facendo leggere articoli pro e contro la donazione degli organi (da notare che la mia collega è moglie di un medico che ha lavorato in rianimazione e certificato alcune “morti cerebrali”), ed a fine anno abbiamo pure organizzato una presentazione ai genitori ed alla scuola il lavoro da noi svolto. In questo “happening di fine anno” sono stati anche presentati i dati:

fra gli alunni di quella classe (primo liceo) che hanno approfondito l’argomento, nonché fra i genitori che erano stati coinvolti nella discussione, l’80% era contrario alla “donazione degli organi”;

fra gli alunni di un’altra classe (sempre una prima liceo), che non aveva mai approfondito la tematica, nonché fra i loro genitori, l’80% era favorevole alla “donazione degli organi”.

In quell’occasione io ho anche espresso (cercando persino di moderarmi a causa della mia “veste istituzionale”) alcune mie perplessità sulla donazione degli organi, mentre un dottore (il marito della mia collega) ha espresso la sua convinzione sulla correttezza della dichiarazione di “morte cerebrale” pur facendo alcuni distinguo sulle modalità con cui avveniva la “donazione”. Risultato: il preside mi ha additato al pubblico disprezzo come indottrinatore durante una riunione collegiale dei docenti della scuola (lo ringrazio per avermi considerato così bravo da indottrinare e convincere non solo i miei alunni ma persino i loro genitori che hanno solo ricevuto dei materiali di opposte tendenze sul trapianto e la donazione degli organi). Come se non bastasse durante un colloquio personale mi ha precisato che i docenti che avevano fatto propaganda esplicita alla donazione degli organi hanno agito bene, mentre io che ho provato (con tutti i miei limiti) ad informare sul pro e sul contro della questione ho agito male ed ho indottrinato gli studenti !!! Ah dimenticavo, il mio preside si vantava di “essere di sinistra” (e che vuol dire)? Ah dimenticavo, due anni dopo hanno fatto in un’altra classe un lavoro di ricerca sui trapianti, avendolo saputo mi sono offerto come collaboratore per contribuire ad una informazione non settaria. Non solo mi hanno escluso, ma nei lavori dei ragazzi non ho visto traccia del dubbio, nemmeno del dubbio, che trapianti/espianti potessero essere poco utili e poco etici. Avete capito come funziona la scuola?

E poi c'è ancora un'altra storia.

"Raccogliamo soldi contro il cancro". Sempre nella stessa scuola mi sono opposto alla raccolta di fondi per un’associazione che “lotta contro la leucemia”, che sostiene i trapiantati di midollo (e che quindi propaganda, sebbene indirettamente, il trapianto di midollo). Ho provato per 4 anni a chiedere su quali basi scientifiche si potesse affermare che il trapianto di midollo fosse utile nella cura della leucemia, e devo dire che a volte ho litigato ferocemente con alcuni docenti (povero me, com’ero ingenuo a quei tempi!). Per 4 anni mi hanno detto che “le prove ci sono”, “te le porteremo prima o poi”. Poi ho chiesto per telefono all’associazione “contro la leucemia” e avessero tali dati. “Non ne abbiamo - è stata la risposta - si rivolga ai medici dell’Ospedale”. Poi finalmente mi sono rivolto a Internet (perché non ci ho pensato prima?) e ho scoperto che la mortalità per leucemia è del 67%, quella per trapianto di midollo … indovinate! Intorno al 66% (con la maggior parte dei decessi nei primi due anni dal trapianto). Un’ottima cura quella del trapianto non c’è che dire, tanto è vero che in quella scuola si usava raccogliere fondi per “la lotta alla leucemia” in memoria di una ragazza leucemica che era stata trapiantata ben due volte ed era morta. Due insuccessi non sono bastati per aprire gli occhi. E adesso cosa credete che sia successo quando ho stampato quei dati (presi dal sito del ministero della sanità e dal sito dell’Istituto nazionale dei tumori) e li ho mostrati ai miei colleghi? Niente, niente di niente, tutto come prima. E si continuano a raccogliere fondi. Avete capito come funziona la scuola?

No, no, non è finita, perchè è la volta del'AIDS!

AIDS: Vietato dissentire. Sempre la solita scuola, propongo di realizzare in alcune classi un lavoro di confronto pro e contro l'ipotesi che l'HIV causi l'AIDS, mi riesco persino a procurare due medici relatori di opposte tendenze. Inizio ad approntare il materiale di studio, pro e contro, presento il progetto in presidenza (anche per i finanziamenti, per quanto piccoli, del caso), e per correttezza lascio (con grande anticipo) una copia del progetto ai colleghi di scienze per stimolare il dibattito e per verificare se da parte loro ci fossero eventuali perplessità. Risultato: i colleghi di scienze non dicono niente fino alla riunione del collegio docenti in cui si discutono i vari progetti ... poi d'improvviso in quell'occasione esplodono tuonando contro di me e dicendo che il mio progetto è pericoloso. E d'altronde come dargli torto? Sì, è pericoloso, i ragazzi potrebbe iniziare a pensare con la loro testa. Ma di cosa avevano paura? Se l'AIDS fosse sicuramente una malattia virale ci vorrebbe poco a smontare le tesi di chi pensa che siano altri i fattori che scatenano tale mortale sindrome. Se fosse tutto così vero, così sicuro, un approfondimento tematico da parte degli studenti, persino un confronto coi fautori di teorie differenti li rassicurerebbe sul fatto che l'AIDS è una malattia infettiva e che bisogna difendersi con ogni mezzo dal contagio dell'HIV. Eppure ... vietato, sissignori, vietato! I dogmi sull'AIDS non si possono discutere. Ovviamente tutti i colleghi intimoriti dalla levata di scudi del team di scienze cosa pensate che abbiano votato? Vietato, vietato, proposta da bocciare! Però questa volta c'è il lieto fine. Uno dei colleghi di scienze ha avuto il coraggio di approfondire la questione, leggere i libri dei "dissidenti" e degli "eretici", confrontare le loro tesi con quelle ufficiali, e poi alla fine dell'anno dichiarare di fronte ai docenti tutti che si era convinto che l'AIDS non fosse una malattia infettiva. Un'altra collega a fine anno mi ha confessato che aveva più dubbi che certezze sull'argomento. Due docenti di scienze su 5 non è poco, specie se sono gli unici che si mettono in discussione, perchè in tal caso la percentuale sale al 100%. Poi ho scopeto che una docente di scienze era particolarmente contraria al mio progetto: aveva lavorato come volontaria in Africa per "curare i malati di AIDS"! Penso proprio che non avrebbe mai accettato di mettere discussione il proprio operato.

Ooops, non è finita! Che ne dite di Telethon?

Soldi per la ricerca genetica. A me non piace per niente (a dire poco) perchè finanzia la vivisezione, perchè la ricerca genetica credo abbia finalità ben diverse da quelle dichiarate, perchè i geni sono solo una parte del problema ma è fondamentale l'interazione con l'ambiente: ci sono diversi casi di malattie "genetiche" che non si manifestano se si segue una certa alimentazione. Ma la lista sarebbe è lunga. Per farla breve, in un'altra scuola (tanto il problema è sempre lo stesso) l'anno scorso si sono raccolti fondi per Telethon, io ero contrario, ho comunicato la mia contrarietà ai docenti che hanno sostenuto l'iniziativa (tali iniziative ovviamente non vengono discusse in nessuna sede, vengono approvate tout court!) e al preside. Dietro mia richiesta e insistenza l'unica motivazione che sono riusciti a produrre per una tale raccolta di fondi è che "si spera che queste ricerche alla fine producano qualche risultato positivo". Qualcuno mi ha detto che però "i ragazzi sono stati informati", non hanno donato soldi a scatola chiusa. "Informati come?" chiedo io. "Con gli opuscoli Telethon!" è l'ingenua risposta. A quanto pare quando si parla di medicina la par condicio non esiste, la scienza ufficiale non si tocca. Avete capito come funziona la scuola?

“Si cambia partendo dai bambini”: prove tecniche di indottrinamento? Scrive il Comitato Articolo 26. Prima di questo, si consiglia di leggere l’articolo precedente (200 milioni per l'educazione di genere) per comprendere i presupposti a partire dai quali vengono sviluppati i ragionamenti qui riportati.

Istruzione: 200 milioni per l’educazione di genere! Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università  è il nome di una nuova proposta di legge che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di prevenire  il femminicidio e di combattere le discriminazioni. Cosa ci potrai mai essere di male in una iniziativa simile e chi potrebbe non condividere finalità così nobili? Per esempio chi, informandosi e approfondendo, ha visto cadere il velo dell’apparenza e ha ormai chiaro che per “genere” non si intende (solo) il sesso femminile contrapposto al maschile, ma tutta una concezione della sessualità e della persona.  Al contrario, chi si limiterà a restare in superficie accontentandosi di qualche slogan senza volersi affacciare ai contenuti più profondi della “rivoluzione gender”, forse continuerà a ritenere le voci critiche come posizioni incomprensibili e reazionarie, ma con il rischio concreto di venire manipolato da un’ideologia che cerca di far credere che neppure esista. L’attuale classe politica avrà una responsabilità enorme nel caso in cui voglia volgere lo sguardo altrove per non vedere che dietro ai concetti di “educazione alla parità” o di “decostruzione degli stereotipi sessisti”, in realtà si cela una visione radicale ed inaccettabile della persona, dell’identità sessuale e della famiglia. Lo ripetiamo: se l’unica finalità di questi programmi fosse educare al rispetto tra maschi e femmine, valorizzare il ruolo delle donne nella storia o criticare l’oggettivazione dei corpi femminili nelle pubblicità, ne saremmo tutti ben lieti. Ma come è ormai manifesto nelle gender theories, come viene recepito da svariati documenti internazionali e poi messo in pratica anche in molte scuole di casa nostra, educare “alle differenze di genere” troppo spesso sottintende condurre i giovani all’indifferentismo sessuale e al non concepirsi come donne o uomini, ma come individui per i quali la caratterizzazione sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono fluidi, continuamente modificabili e in fin dei conti irrilevanti. E’ emblematico il fatto che quando si parla di  stereotipi di genere, si finisca sempre a parlare di stereotipi in base all’orientamento sessuale (come del resto fa anche la risoluzione n.2011/2116 per l’eliminazione degli stereotipi di genere in Europa, che la suddetta proposta di legge richiama). Il percorso classico è partire sottolineando le differenze individuali (una donna camionista o un ragazzo amante del  cucito) per arrivare ad affermare che le differenze non esistono affatto, vale a dire che non esiste un quid che sostanzia naturalmente l’umanità come divisa in maschi e femmine. Cosa ne deriva? Che non solo sarebbe indifferente come nasciamo, ma anche il nostro orientamento sessuale, pena il diventare discriminanti. E a partire da questo presupposto, la mamma che fa la torta o la bambina che culla la bambola diventano immagini che indurrebbero ad una disparità tra maschi e femmine e alimenterebbero una cultura misogina: ecco quindi che vanno eliminate dalle teste (e dai testi) degli studenti. Un esempio di educare alle differenze sarebbe il libro “Mi piace Spider Man”, che viene consigliato alla scuola materna dai 4 anni (?!?). La piccola protagonista deve combattere non pochi “stereotipi” per conquistare la sua cartella “da maschio” che le piace tanto. E va bene; ma perché qualche pagina dopo, le fanno dire – a lei che di anni ne avrebbe sei – che ha capito che “da grande potrà avere un fidanzato o una fidanzata”? A sei anni? Come ha scritto pochi giorni fa Karen Rubin su “Il Giornale” a tal proposito,  non si considera che “di un universo femminile che contempla più volti, i bambini piccoli conoscono solo la parte che li riguarda… Poco importa che faccia l’astronauta o la dottoressa: la mamma il piccolo la vorrebbe sempre con sé. E’ degradante tutto ciò?… Si sogna una società dove padri e madri siano interscambiabili e le torte non siano più menzionate, neanche fossero droghe pesanti… C’è un errore in tutto questo. La mamma che cucina e la bambina che culla la bambola non sono stereotipi, sono ruoli di genere che si legano strettamente all’identità di ogni essere umano. Se la mamma prepara il cibo per il suo piccolo non trasmette debolezza ma amore. Se il padre è virile perché protegge i figli e la moglie manda un messaggio di forza e coraggio. Se invece picchia la sua compagna non è una questione da ridurre a stereotipi”. E come conclude la Rubin “duecento milioni di euro – questo l’esborso per questa riforma scolastica a carico nostro, che siamo abituati ad autotassarci per dotare di carta igienica le scuole  dei nostri figli - sono davvero sprecati per censurare le immagini. Usiamoli per educare gli uomini e lasciamo in pace i bambini“.

In un paese democratico sui banchi di scuola ci si dovrebbe sedere per imparare l’arte lunga e difficile della vera libertà, e non per subire un indottrinamento, che appoggia per altro su discutibili basi filosofico-teoretiche spacciate per scientifiche. Da quanto si evince da una recente intervista apparsa su La Repubblica, non la pensa così Valeria Fedeli, PD, vicepresidente del Senato, che parla proprio di un insegnamento che si vuole rendere normativo e vincolante e il cui contenuto ormai dichiarato è l’ideologia gender. In questa intervista con poche parole viene liquidata un’intera civiltà, basata sulla legge di natura e sulla forma corrispondente di razionalità: “i luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi, che ignorano quanto l’altra metà del cielo ha fatto in tutti campi”. Come se la porzione più consistente di questi importanti conseguimenti femminili non fosse stata realizzata all’interno della suddetta civiltà. Ci viene da chiederci se la Fedeli si renda conto che la società che programma di decostruire partendo dalla scuola è proprio quella che l’ha condotta a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Senato (mentre una donna presiede la Camera e si riscontra una parità tra ministri di sesso maschile e femminile); citando delle frasi della sua intervista ci viene da tranquillizzarla, perché i fatti già dicono altro: oggi parlare come fa lei di passività delle donne può giusto essere un vecchio ricordo stereotipato, mentre il tempo di crisi che le famiglie concrete stanno affrontando ha già messo in fuga tutti i principi azzurri su piazza, per cui i sogni delle femminucce si sono adeguati diventando molto più a buon mercato. L’educazione di genere – che dando credito a qualcuno neppure esisterebbe, quasi fosse una teoria del complotto di pochi reazionari – verrebbe così introdotta tramite un apposito disegno di legge nelle scuole e nelle università nell’intento di spazzare via, in nome di una libertà banalizzata,  l’inaccettabile adeguarsi alla verità dei programmi educativi tradizionali, elaborati dalla razionalità del buon senso naturale e presupponenti la differenza sessuale come dato di fatto autoevidente ed  inamovibile. E’ incredibile il prezzo che si è disposti a pagare pur di distorcere la realtà. E’ impressionante il modo semplicistico con il quale il sistema scolastico venga etichettato come anticaglia da cestinare: le elementari vengono banalizzate come fucina di storielle discriminatorie e non come primo stadio della scolarizzazione, più che mai rispettoso della differenza sessuale, non in nome di un’ideologia conservatrice, ma perché indirizzato ad esseri umani, molto vulnerabili e manipolabili, che trovano in tale differenza il loro primo solido orientamento identitario. Nell’intervista della Fedeli si parla di parità, di uguaglianza, di rispetto, di libertà. Parole altisonanti, politicamente corrette, che incantano lettori ed ascoltatori, che mettono d’accordo tutti, ma lasciate come sono del tutto prive di contenuto, diventano oggetto di una manipolazione semantica gravissima, venendo in modo subdolo riempite di contenuti razionalmente inaccettabili. Ma la cosa più paradossale è che questo peana per la libertà si conclude, nel massimo dispregio del principio di non contraddizione, con un’affermazione programmatica dal sinistro tenore totalitario e liberticida: “si cambia partendo dai bambini, gli uomini di domani“. L’avrebbe condivisa Pol Pot. Si parte dai bambini, arrivando a sottrarne l’educazione sessuale ai violenti e retrogradi genitori, perché solo in esseri indifesi e non ancora formati dal punto di vista razionale può sperare di attecchire in profondità una visione dell’uomo tanto priva di base scientifica e per questo lontana dalla realtà come quella propugnata dall’ideologia ipersessualizzata del gender. E vorremmo chiudere permettendoci una riflessione, un appello che speriamo che la prima firmataria della legge voglia ascoltare: è stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne è fortemente connesso al fenomeno dell’ipersessualizzazione della società e del mondo maschile? Domanda: siamo certi che l’investimento dei 200 milioni di euro per tirare la volata al gender e agli standard OMS con la loro sovra-esposizione al sesso fin dalla più tenera età non si riveli un doloroso boomerang proprio per il mondo femminile che si vorrebbe proteggere?

L’ideologia oggi è la mancanza di serietà. Una prof racconta, scrive Marina Valensise su “Il Foglio”. Anna Maria Ansaloni è una prof un po’ speciale, è vero. Insegna al Leonardo da Vinci-Duca degli Abruzzi, il liceo tecnico di via Palestro, quartiere centrale. E’ convinta che la scuola non debba fare quello che “vogliono le famiglie”, ma “formare il cittadino”, e pensa anzi che le famiglie oggi siano spesso ignare dei veri problemi della scuola. Ma su un punto conviene con l’allarme lanciato dal presidente del Consiglio, quando difende l’insegnamento libero contro l’indottrinamento ideologico. “I genitori sanno che i loro figli escono dalla scuola sprovvisti delle competenze che invece loro avevano alla stessa età. Per questo, insistono perché la scuola sia più seria, più attenta alle conoscenze di base, più centrata sulla disciplina e sul rigore”. Anna Maria Ansaloni è un’entusiasta, è un’insegnante che adora insegnare. E’ convinta che l’egemonia di sinistra non sia altro che un ricordo sbiadito: “E’ semplicemente morta. La sinistra non esiste più, nel mondo della scuola è irrilevante, mi pare. Tieni conto che la maggioranza degli insegnanti oggi quarantenni ha vissuto gli ultimi vent’anni con Berlusconi. L’ideologia semmai sopravvive come abitudine di costume, nell’occupazione, che non è un fatto politico, ma un rituale di passaggio”. La prof Ansaloni insegna Italiano e storia in una seconda e terza classe, ha le idee chiare e i mezzi per realizzarle: “Il vero dramma è la scuola media, dove i ragazzi disimparano ciò che apprendono alle elementari. Vedo ragazzi che scrivono a matita perché poi così possono cancellare, ma scrivono compiti di otto pensierini che non sono da scuola superiore. Io perciò lavoro molto sul costruire le regole. I ragazzi purtroppo sono molto lenti e disordinati. Vanno educati a un certo ordine nell’esporre gli argomenti, a una notevole quantità di compiti sistematicamente valutati e compresi, alla chiarezza dal punto di vista linguistico. Fraintendimento e intendimento per loro sono la stessa cosa. Per lavorare sul senso delle parole e sulla forma scritta, devi tornare ai testi appresi a memoria, perché senza chiarezza non c’è conoscenza. Devi fargli capire che la fatica è inevitabile, mettere sanzioni chiare e rispettarle”. La professoressa Ansaloni, dunque, ha rafforzato i programmi di lettura. Una volta al mese riunisce gli studenti di 14 e 15 anni nella biblioteca della scuola per discutere con signore di 60 o 70 anni dello stesso libro, e a volte incontrare l’autore. “Mi piace tantissimo parlare con queste signore, mi ha detto un ragazzino, non sono mica come mia madre. Non è l’alunno a parlare, ma il lettore e il lettore è trasversale”. In questo modo si accrescono le competenze linguistiche, si supera un problema didattico. “Noi adottiamo libri di testo inadeguati ai ragazzi” dice infatti la prof Ansaloni. “Per capirli devi decodificarli, e per questo cerco di costruire una sintesi, di fare scrivere i miei allievi su quel testo, di fargli poi valutare cosa realmente ne hanno capito. Dobbiamo ampliare il lessico. Una volta i nostri figli parlavano con 300 parole, ora ne usano 50. Perciò io punto a rafforzare il programma scolastico col lavoro di lettura e di scrittura e la verifica attraverso i questionari. E’ vero che molti miei colleghi non mi seguono, "lasciami stare, mi dicono, con 1.600 euro al mese, per mantenere moglie e due figli devo fare tre lavori". Ma risultati ci sono. Se dico ai miei ragazzi, guarda, quel tizio non ha né artigli né zanne, loro continuano, sì però non voleva essere sbranato. Vuol dire che qualcosa dei ‘Promessi Sposi’ è rimasto: il lessico e la lettura gli si è sedimentata dentro e in modo naturale”. C’è anche un altro handicap dei giovani d’oggi: nessuno scrive più in corsivo. “Il corsivo è scomparso. Abituati col computer e l’sms scrivono tutti in stampatello, alcuni non sanno più come si scrivono certe maiuscole in corsivo. Non è solo una questione di grafia o calligrafia. In stampatello, usano frasi sintetiche di comunicazione, non di espressione: vado, vengo, anziché – penso di venire, avrei intenzione di andare, con una struttura della frase paratattica, senza principali e secondarie, ma con una sfilza di principali spesso con la stessa forma verbale. Il corsivo invece prevede un certo tempo in cui pensi, elabori, unisci le lettere, ti dà una capacità riflessiva, permette un’elaborazione concettuale che implica l’uso di articoli, aggettivi, la punteggiatura, la varietà di forme verbali e l’espressione di sé. Oggi i ragazzi è proprio questo che vogliono evitare:  non sanno né vogliono scrivere di sé, esprimere emozioni, anche se ce le hanno dentro. Allora devi aiutarli. Io per esempio quando leggiamo un sonetto di Dante, ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’, chiedo ai ragazzi di cercare dei raffronti con l’immensità, con Dio, con la spiritualità. Loro li trovano nelle canzoni di Vasco Rossi o Jovanotti, e per me è un successo”. La maggiore soddisfazione, però, Ansaloni dice di averla “tutti i giorni quando entro in classe, perché insegnare mi diverte da morire, quando i ragazzi trascorrono un’ora senza rendersene conto, quando vedo all’intervallo quello con la cresta che ti cita una frase di Manzoni. Adesso sta leggendo il ‘Postino di Neruda’ di Skármeta, e una sua allieva rumena, brava e determinata, che dopo la scuola lavora come babysitter, quasi non ci crede: ‘Professoressa, le metafore le possiamo fare anche noi…’”.

Scuola: arriva il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica. Chi sgarra sarà sospeso. Un deputato del Pdl ha proposto un'aggiunta al testo unico sulla scuola per impedire agli insegnanti di fare propaganda politica. Secondo lui questo avverrebbe soprattutto in Emilia Romagna. A vigilare dovranno essere i dirigenti scolastici, scrive Marta Ferrucci su “Studenti”. Fabio Garagnani, deputato del Pdl, ha proposto una aggiunta al testo unico sulla scuola: il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica.  Dovranno essere i dirigenti scolastici a vigilare e per chi sgarra è prevista la sospensione da 1 a 3 mesi. "L'importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori". Per quanto riguarda le sanzioni queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge. La propaganda politica" -secondo garagnani- "non può trovare tutela nel principio della libertà dell'insegnamento enunciato dall'Articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un'altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica". E sarebbero molti i casi in cui i professori oltrepassano questo limite; per Garagnani accade soprattutto in Emilia Romagna, tra i professori iscritti alla Cgil". Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil si tratta di una proposta "delirante" ed ha aggiunto che "gli insegnanti educano, non inculcano". Ha ragione Garagnani o si tratta di una proposta "delirante"?

"Troppi libri comunisti a scuola", Pdl: Ci vuole una commissione d'inchiesta, scrive Agenzia Dire su “Orizzonti Scuola” - Iniziativa di 19 deputati guidati da Gabriella Carlucci, all'indice i testi di storia: "Gettano fango su Berlusconi". Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero "tentativi subdoli di indottrinamento" per "plagiare" le giovani generazioni "a fini elettorali" dando "una visione ufficiale della storia e dell'attualità asservita a una parte politica", il centrosinistra, "contro la parte politica che ne è antagonista", ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita "vergognosa", secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento "non può far finta di non vedere" e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta "sull'imparzialità dei libri di testo scolastici". Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio 2011  e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell'avvio dell'esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: "Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?" E la "battaglia partigiana", secondo il firmatari, viene messa in atto "osannando l'attuale schieramento di sinistra" e "gettando fango sui loro avversari". Per "capire la gravità del problema", sostengono i 19 deputati, "basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli". Scopo della Commissione d'inchiesta? "Verificare quali sono i libri faziosi - spiega Barbieri interpellato dalla Dire - e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero...". Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette all'indice i libri di testo definiti "partigiani", sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi incriminati, specificando che "in Italia, negli ultimi cinquant'anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico" retaggio "dell'idea gramsciana della conquista delle casematte del potere" che "si è propagato attraverso l'insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole". Si cita La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive "tre personaggi storici: Palmiro Togliatti, un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali; Enrico Berlinguer, un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi, uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica". Ma anche Elementi di storia di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, reo, ad avviso del Pdl, di sostenere che "l'ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo". E ancora, la Storia, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 "l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche". E si arriva ai tempi più recenti. "Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'ideologia comunista in Italia - si precisa nella premessa alla proposta - i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali" e anzi "si rafforzano e si scagliano" contro "la parte politica che oggi è antagonista della sinistra", quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d'inchiesta per verificare "l'imparzialità dei libri di testo scolastici", la messa all'indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l'era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, "osanna" agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: "Il Pds - è scritto - intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane" con "un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese". Si tira poi in ballo la descrizione che L'età  contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: "Dopo aver abbandonato l'esercizio della magistratura per passare all'attività politica nel partito democristiano" si è segnalato "per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari". Ma il testo che più si distingue "per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche" è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l'attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la "combattiva europarlamentare" che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad "allontanare dalle cariche di partito" tutti "i propri esponenti inquisiti". E come viene descritto l'antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, "con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro". Secondo gli autori, "l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese". L'elenco dei libri "naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione".

Bagnasco contro i "campi d'indottrinamento" gender. Scrive Massimo Introvigne su “La Nuova BQ”. Lunedì 24 marzo 2014, aprendo il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che la presiede ha affrontato con grande determinazione la problematica della famiglia e dell’ideologia di genere. «La preparazione alla grande assise del sinodo sulla famiglia, che si celebrerà in due fasi nel 2014 e nel 2015, nonché il recente concistoro sul medesimo tema – ha detto Bagnasco – hanno provvidenzialmente riposto l’attenzione su questa realtà tanto “disprezzata e maltrattata”, come ha detto il Papa: commenterei, “disprezzata” sul piano culturale e “maltratta” sul piano politico». Il cardinale ha inquadrato la natura ideologica del problema: la famiglia è diventata il nemico da abbattere. «Colpisce che la famiglia sia non di rado rappresentata come un capro espiatorio, quasi l’origine dei mali del nostro tempo, anziché il presidio universale di un’umanità migliore e la garanzia di continuità sociale. Non sono le buone leggi che garantiscono la buona convivenza – esse sono necessarie – ma è la famiglia, vivaio naturale di buona umanità e di società giusta». Il cardinale è andato oltre: non è rimasto sul generico, ma ha citato come esempio dei maltrattamenti che la famiglia subisce un episodio specifico, su cui – lo ricordiamo per la cronaca, senza rivendicare primogeniture – per prima «La nuova Bussola quotidiana», nel silenzio generale, aveva attirato l’attenzione. «In questa logica distorta e ideologica – ha detto Bagnasco –, si innesta la recente iniziativa – variamente attribuita – di tre volumetti dal titolo “Educare alla diversità a scuola”, che sono approdati nelle scuole italiane, destinati alle scuole primarie e alle secondarie di primo e secondo grado. In teoria le tre guide hanno lo scopo di sconfiggere bullismo e discriminazione – cosa giusta –, in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre… parole dolcissime che sembrano oggi non solo fuori corso, ma persino imbarazzanti, tanto che si tende a eliminarle anche dalle carte». Durissimo il commento del presidente dei vescovi italiani «È la lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga». Parole chiarissime: altri vescovi prendano esempio. La strategia enunciata esplicitamente da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – il Papa di certe questioni, comprese quelle (citate in nota nel documento come esempio delle «questioni» cui si allude) della famiglia e del gender, non parla, chiede che siano gli episcopati nazionali a intervenire – non piace a tanti nostri lettori, e dalle strategie, che non sono Magistero neppure ordinario, si può certo legittimamente dissentire. Però qualche volta le strategie funzionano: dove tace il Papa, i vescovi parlano. È successo negli Stati Uniti, in Polonia, in Croazia, in Portogallo, in Slovacchia. Ora succede anche in Italia, e non si può non ricordare che – come sempre avviene nel nostro Paese – prima di aprire con questa relazione il Consiglio Permanente della CEI venerdì scorso Bagnasco è andato in udienza dal Papa, cui questi testi sono di regola previamente sottoposti. Vediamo se questa rondine farà, come ci auguriamo, primavera.

Genitori, reagite all'imposizione dell'ideologia gender!. L'edizione di domenica di RomaSette, il settimanale della diocesi di Roma, evidenzia e valorizza l'azione del Comitato Articolo 26 contro i molteplici tentativi di introdurre nelle scuole l'ideologia gender, scrive Giuseppe Rusconi su Zenit.org. Per questa domenica iniziale d’Avvento RomaSette - l'inserto settimanale di Avvenire - ha scelto come articolo di apertura un testo sull’ormai allarmante dilagare anche nelle scuole romane – dagli asili nido in poi - dell’imposizione dell’ideologia del gender, secondo la quale la differenza tra maschile e femminile è solo una costruzione culturale e dunque va “decostruita” nel senso che ognuno non è quel che è e si vede, ma ciò che si sente e pensa di essere. Il titolo è “Gender a scuola. La protesta dei genitori”. In un box si danno indicazioni su un modulo, da inviare al dirigente scolastico dell’istituto dei propri figli, per la richiesta di consenso informato sulle iniziative ‘educative’ improntate all’ideologia del gender. Nella stessa pagina, appare su quattro colonne anche un articolo molto chiaro dal titolo: “Strategia Lgbt, i consulenti sono a senso unico”, accompagnato dall’occhiello: “Ventinove associazioni del mondo gay a fianco dell’Unar (Ndr: il noto Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la formazione, otto nei progetti finanziati dalla Regione Lazio. Proposta politica con una bozza di ordine del giorno per il Consiglio comunale: indottrinamento tra i banchi”. Si noterà qui subito che proprio la Regione Lazio – retta da Nicola Zingaretti - ha sborsato 120mila euro per i progetti pro-gender, mentre non si risparmia neppure la giunta Marino di Roma Capitale, grazie anche al sostegno entusiasta dell’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi, che ha affidato all’associazione lgbt “Scosse” la formazione delle educatrici degli asili nido e delle scuole materne comunali della città. Nell’articolo di Roma Sette si ricorda il caso scoppiato presso l’asilo nido comunale “Castello Incantato”, in zona Bufalotta, laddove ai pargoli si legge ad esempio la “Piccola storia di una famiglia” (casa editrice Stampatello): tale cosiddetta “famiglia” comprende due donne che si fanno donare il “semino” necessario alla procreazione da una clinica olandese, tanto che alla fine la nascitura avrà “due mamme: solo una l’ha portata nella pancia, ma entrambe, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori”. E’ proprio dal tristo episodio del “Castello Incantato” che ha preso spunto l’idea di alcuni genitori di costituire il “Comitato Articolo 26”. Perché 26? Ci si riferisce all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Il Comitato è aperto a genitori, docenti, professionisti dell’educazione, di diverso credo religioso e filosofico, che “rifiutano con decisione l’indottrinamento gender nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e che rivendicano, in maniera costruttiva, la priorità delle famiglie in tema di affettività e sessualità”. Tra gli obiettivi “diffondere un’informazione oggettiva e scientifica in merito alla cosiddetta ideologia gender”, “vigilare e segnalare gli aspetti ideologici pedagogicamente infondati e pericolosi, di progetti educativi e scolastici relativi a educazione sessuale e/o affettività, educazione alle differenze, lotta alla discriminazione tra bambini e bambine, lotta all’omofobia e/o al bullismo omofobico”, “sostenere e accompagnare il diritto dei genitori ad affermare e perseguire la priorità della propria missione educativa nei confronti dei figli”. Nell’articolo di Roma Sette sulla strategia Lgbt si ricorda inoltre che “a livello nazionale è in piena attuazione” tale strategia triennale, partorita due anni fa dall’Unar “istituito in seno al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio”. Era il tempo di Monti, poi venne Letta e la strategia andò avanti, così come con Renzi. Del resto è dei giorni 26 e 27 novembre 2014 il corso per dirigenti scolastici organizzato a Roma dal ministero dell’Istruzione e dall’Unar con la collaborazione del Servizio lgbt di Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Il Gruppo nazionale di lavoro è composto da 29 associazioni di settore, tutte rigorosamente lgbt. Il 23 febbraio scorso, il settimanale della diocesi di Roma aveva già dedicato quasi tutta la prima pagina all’ “operazione ideologica” del “gender in classe”, con un editoriale chiaro, pacato e fermo di don Filippo Morlacchi, in cui il direttore dell’Ufficio pastorale scolastica del Vicariato scriveva: “Anche in altri Paesi europei la potente minoranza favorevole al gender ha dettato l’agenda degli impegni scolastici; ma le associazioni di genitori hanno alzato la voce e prodotto agili pubblicazioni per avvertire le famiglie del fenomeno. Forse è tempo che anche in Italia non solo i cattolici, ma tutti gli uomini convinti della bontà della famiglia naturale si esprimano pubblicamente”. Un auspicio che è stato concretizzato in questi mesi da diverse associazioni e comitati a livello cittadino, regionale, nazionale (in primis la Manif pour tous Italia e le Sentinelle in piedi), in buona parte nell’area cattolica ma aperte a tutti. A livello di diocesi, ricordiamo poi l’esemplare "Nota su alcune urgenti questioni di carattere antropologico ed educativo" dei vescovi del Triveneto per la Giornata della vita 2014, la grave preoccupazione della Conferenza Episcopale toscana e di alcuni altri vescovi. Nelle ultime settimane sono successi altri fatti gravi, oltre alle intimidazioni fisiche e verbali con cui sono state bersagliate in diverse città le Sentinelle. Ad esempio una docente di religione cattolica dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri è stata fatto oggetto ingiustamente di una pesantissima campagna di stampa originata dalle affermazioni (pare del tutto inventate) di uno studente attivista lgbt. Esposta al pubblico ludibrio dai mass-media, nelle prime reazioni a caldo non è stata certo difesa neppure dall’estemporaneamente remissivo arcivescovo di Torino. Grazie ad Avvenire è stata poi ristabilita la verità almeno per i lettori del quotidiano della Cei, oltre che per l’ambiente locale. La diocesi di Milano dal canto suo è incappata in un paio di decisioni che hanno destato molta perplessità tra non pochi cattolici: le scuse ufficiali per un’indagine statistica non certo segreta (rivolta a oltre seimila docenti di religione cattolica) e la negata solidarietà per un docente di religione (sospeso dalla scuola, con l’Ufficio scuola della Curia che ha aperto un procedimento di verifica) colpevole di aver mostrato a nove alunni di una terza liceo un documentario molto realistico, “L’urlo silenzioso”, su quel che succede durante un aborto. E’ stata la fiera dell’ipocrisia interessata, se si pensa alle tante immagini crude sfornate da tg e trasmissioni varie per ragione di audience. Intanto, in pieno sviluppo dell’applicazione della strategia totalitaria lgbt, l’Unione degli atei e agnostici razionali (Uaar), l’Arcigay, la Rete degli studenti medi ha trovato modo il 18 novembre di inviare una lettera allarmata al Ministro dell’Istruzione, all’Unar e alla Presidenza del Consiglio per denunciare che “stiamo assistendo ad un vero e proprio attacco nei confronti degli studenti e del sistema scolastico tutto, da parte di una frangia conservatrice e omofoba del nostro Paese”. Proclamano e minacciano i firmatari: “Il Ministero, e il Governo tutto, devono avere il coraggio di superare i tabù e di non fare della battaglia alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale un mero spot propagandistico. Riteniamo che il Ministero debba adoperarsi affinché tutte le scuole prevedano programmi didattici strutturati, destinati agli studenti, sull’educazione alle differenze, in cui si parli di identità di genere, orientamento sessuale e sesso biologico, e che investa nella formazione degli insegnanti, fornendo loro gli strumenti necessari così da evitare che casi come quelli sopracitati si ripetano”. Non è finita. Tuonano infatti atei, “studenti medi” e Arcigay: “Chiediamo, infine, di coinvolgere nei tavoli ministeriali le realtà sociali, le associazioni e le organizzazioni studentesche che da anni combattono le discriminazioni e l’omofobia e di far sì che questi percorsi producano finalmente soluzioni concrete”. La lettera contiene poi già una velata minaccia per gli istituti cattolici paritari, che certamente la lobby sogna costretti ad accettare l’auspicato indottrinamento oppure a chiudere. Nel resto d’Europa tentativi di tal genere sono già in corso, come in Gran Bretagna o sono minacciati, come in Francia. Insomma: la legge “antiomofobia” a firma Scalfarotto ancora non è stata approvata e già produce i suoi effetti liberticidi, dato che – oltre alle intimidazioni continue – i propugnatori dell’ideologia del gender si fanno sempre più sfrontati. Il rischio è che, considerato quanto è successo fin qui, molti scelgano il silenzio per evitare di essere lapidati dai media della nota lobby. Quel che è capitato del resto a Guido Barilla è estremamente significativo. Sbilanciatosi l’anno scorso in favore della famiglia del ‘Mulino Bianco’, è stato coperto di insulti e minacce; ha così ritenuto molto opportuno profondersi in mille scuse e agire in modo tale che oggi la Barilla è pienamente riabilitata. Come scrive il Washington Post  ha ottenuto 100/100 nella classifica delle imprese gay-friendly, avendo in un anno fatto “una marcia indietro radicale, aumentando i benefit sanitari per i dipendenti transgender e le loro famiglie, donando soldi per le cause dei diritti gay", oltre che ingaggiare consulenti come il “gay più potente d’America”, David Mixner, fiero dei risultati ottenuti. Ora per la Barilla del Guido rieducato mancano solo gli spot con protagoniste coppie omosessuali. Non temete, verranno presto. Si dovrà poi vedere se qualcuno non preferirà a quel punto assaporare un altro tipo di pasta.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».

Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.

Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.

Maometto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) è stato il fondatore e, per i musulmani, l'ultimo profeta dell'Islam. Considerato dai musulmani di ogni declinazione - ad eccezione degli Ahmadi - l'ultimo esponente di una lunga tradizione profetica all'interno della quale occupa una posizione di assoluto rilievo, Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti, sarebbe stato incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo tra gli Arabi.

Prima della Rivelazione. Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato") nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a alīma bt. Abī Dhuʿayb, della tribù dei Banū Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei hanīf, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un hanīf e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahīra - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sīra) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Isāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fātima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthūm e Fāima, detta al-Zahrāʾ (tutte premorte al padre, salvo l'ultima) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.

Rivelazione. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam) significa semplicemente "Iddio". Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto ajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ʿArafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta ʿumra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Kaʿba. Maometto, come altri anīf, era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrāʾīl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasūl) di Allah con le seguenti parole: « (1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva». Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (anīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.

È ancora oggetto di disputa la questione riguardante l'analfabetismo di Maometto. Si nota come la sua professione di commerciante abbia potuto portarlo in contatto con altre lingue e altre culture, e come sia intervenuto, secondo una tradizione riportata da Tabari, per apportare una correzione riguardante la sua firma nel Trattato di udaybiyya. Ci sarebbe poi una lettera autografa, conservata nel museo Topkapi di Istanbul. Secondo alcuni, tutto deriverebbe da un equivoco riguardante l'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Altre fonti fanno notare come le personalità in grado di leggere e scrivere, nel periodo precedente all'Egira, fossero una quindicina, tutte conosciute per nome, e in effetti il Corano sarebbe il più antico libro arabo in prosa. Studiosi occidentali fanno notare come le tribù nomadi, compresa quella di Maometto, disprezzassero la scrittura, privilegiando la trasmissione orale delle conoscenze. La maggior parte dei musulmani propende per un analfabetismo del loro Profeta, escludendo pertanto radicalmente che egli abbia potuto leggere la Bibbia o altri testi sacri, che del resto sarebbero comparsi in forma scritta solo diverso tempo dopo la sua morte. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara al-mubashshara). La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ʿUthmān b. ʿAffān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).

Gli ultimi anni a Mecca e l'Egira. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿĀʾisha bt. Abī Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, trecentoquaranta chilometri più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.

La Umma e l'inizio dei conflitti armati. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo aīfa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi. L'ostilità di Maometto nei confronti dei suoi concittadini si concretizzò nel primo vittorioso scontro armato ai pozzi di Badr, alla successiva disfatta di Uud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro i politeisti Quraysh che lo avevano inutilmente assediato.

L'atteggiamento verso gli ebrei. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʿ e dei Banū Naīr, mentre dopo la vittoria nella cosiddetta "battaglia" del Fossato (Yawm al-Khandaq), i musulmani decapitarono tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù dei Banū Qurayza, arresasi ai seguaci del Profeta in conseguenza del fallimento dell'assedio dei Quraysh e dei loro alleati arabi, protrattosi per 25 giorni. Le loro donne e i loro bambini furono invece venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La cruenta decisione fu probabilmente la conseguenza dell’accusa di intelligenza col nemico durante l’assedio ma la sentenza non fu decisa da Maometto che invece affidò il responso sulla punizione da adottare a Saʿd b. Muʿādh, sayyid dei Banū ʿAbd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws e un tempo principale alleato dei B. Quraya. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per quella soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quraya che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ijāz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che, nel suo Muhammad and the believers (Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 74), afferma « dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, p. 76-77). » Una minoranza di studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente ritenendo che Ibn Ishaq, il primo biografo di Maometto, abbia presumibilmente raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Qurayza. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli dell'incidente prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana.

La conquista dell'Arabia e la morte. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banū Hawāzin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.

Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fāima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī ālib, madre dei suoi nipoti al-asan b. ʿAlī e al-usayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

Origine del nome. "Maometto" è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome "Muhammad", utile semplificazione della pronuncia. La parola araba "muhammad", che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare). Secondo lo studioso francese Michel Masson], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo (e da ciò deriverebbero, a suo dire, il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo si esprimono alcuni scrittori italiani che ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto", volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam.

Maometto secondo i non musulmani. Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato dalla Cristianità occidentale e orientale, come una delle tante eresie del Cristianesimo nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono sovente il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, e mossero critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada. Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto, per l'influenza su di lui esercitata dal suo Maestro Brunetto Latini, che riteneva Maometto un chierico cristiano di nome Pelagio, appartenente al casato romano dei Colonna - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di scandalo e di scisma nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:« ...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero... » in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani. È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi. Il motivo per cui Dante lo colloca tra i seminatori di discordie e non tra gli eresiarchi è probabilmente dovuto a una leggenda medievale che parla di Maometto come vescovo e cardinale cristiano, che poi avrebbe rinnegato la propria fede, deluso per non aver raggiunto il papato o per altra ragione e avrebbe creato una nuova religione «mescolando quella di Moisè con quella di Cristo». Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.

Si può ridere di Dio? Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura, scrive Paolo Pegoraro su  “Aleteia”. Ricordiamo tutti il monaco cieco che, ne Il nome della rosa, avvelena quanti si avvicinano al prezioso scritto nel quale Aristotele difende la commedia e il riso. È vero che la tristezza intossica, meno che il Medioevo sia stato un’epoca di cupa e triste penitenza. Eric Auerbach, nel suo immortale studio Mimesis, ha documentato che la struttura portante della narrativa cristiana, a partire dai Vangeli, è proprio la commedia… non la tragedia. E Dante, con la sua Comedìa, ne è la pietra miliare. Lo affianca il prologo che Francois Rabelais – frate francescano (a suo modo), monaco benedettino (a suo modo), parroco diocesano (a suo modo) – antepone al Gargantua et Pantagruel: «Altra cosa non può il mio cuore esprimere / vedendo il lutto che da voi promana: / meglio è di risa che di pianti scrivere, / ché rider soprattutto è cosa umana». Altrettanto si potrebbe dire per il suo predecessore padano, il monaco, poi ex monaco, infine di nuovo monaco Teofilo Folengo. La tradizione del grottesco e del caricaturale crebbe febbrilmente in Occidente: dalle deformi statue gotiche alle pagine grottesche di Flannery O’Connor fino al caricaturale Vangelo secondo Biff di Christopher Moore. Per contrapporsi e disgregare le istituzioni, si dirà. Fosse pure, il fatto è che la tradizione comico-grottesca crebbe qui come non altrove. Prolificò qui un umorismo religioso, dissacrante, talora perfino blasfemo. Nessuna sorpresa: le barzellette più sconce vengono bisbigliate in sacrestia. Come si rapporta, allora, Dio con il ridere? Il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh espose il suo pensiero in maniera convincente nella composizione A View of God and the Devil (Una visione di Dio e del Diavolo – traduzione dell’autore).

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Ho incontrato Dio Padre sulla strada e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: divertente, sperimentale, irresponsabile sulle frivolezze. Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio né impressionerebbe un vescovo o un circolo di artisti. Non era splendido, spaventoso o tremendo e neppure insignificante. Questo era il mio Dio che fece l’erba e il sole e i ciottoli nei ruscelli in aprile; questo era il Dio che ho incontrato in una vecchia cava colma di denti-di-leone. Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino mentre vagavo per strade inconsapevoli. Questo era il Dio che covò sui campi erpicati di Rooney accanto alla statale Carrick il giorno che i miei primi versi furono stampati io lo conobbi e mai ebbi paura di morte o dannazione e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.

Il Diavolo anche il Diavolo ho incontrato, e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: solenne, noioso, conservatore. Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio, sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo, assomigliava a un artista. Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani andava in collera quando qualcuno rideva; era grave su cose senza peso; dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità perché era consapevole di non essere creativo.

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Colpisce che il primo aggettivo scelto da Kavanagh per descrivere il “suo” Dio sia proprio amusing (“divertente”) in opposizione a quel povero diavolo che «andava in collera quando qualcuno rideva». Perché rideva proprio di lui, probabilmente, abituato a prendersi “dannatamente” sul serio. Mentre il divino sa essere irresponsabile «sulle frivolezze», il demoniaco è grave «su cose senza peso». Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura. Mentre il divino umorismo ha mille sfumature, la “dannata” serietà è monolitica e monotona. Il Dio di Kavanagh è un Dio autoironico. Non è possibile deriderlo semplicemente perché è Lui il primo a ridere di se stesso. Non si può ridere “di” Dio semplicemente perché si può ridere soltanto “con” Lui. Proprio perché così prolificamente creativo (egli “cova” i campi come una chioccia) e fantasioso, non sorprenderebbe se fosse Lui in persona l’autore delle migliori storielle su se stesso. Se il demoniaco rivela il proprio «complesso d’inferiorità» irrigidendosi di continuo, nel vano tentativo di nascondere la propria sterilità, per contro il sigillo della creatività senza limiti è l’umiltà (umile, yet not insignificant!). E, fra tutte, l’autoironia è la forma di umiltà più bella. Perché l’autoironia è una forma di umiltà così autentica che proprio non ci riesce, a prendersi sul serio.

Chiunque sa ridere degli altri, basta avere un granello d'intelligenza; ma per ridere con loro di se stessi, occorre un'oncia di santità.

Divina Commedia. Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella bolgia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.

Dante, Maometto e Charlie Hebdo, scrive “Biuso”.

«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi e con le man s’aperse il petto,

dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”

vedi come storpiato è Mäometto!’»

(Inferno, XXVIII, 22-31).

Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i più pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […]  Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).

«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).

«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).

«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).

Dante e l’Islam. È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (“La escatologia musulmana en la Divina Comedia”) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’inferno e al paradiso. Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante. Si stava per celebrare il sesto centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “extracomunitari” straccioni? Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Ormai è assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba. Sono la “Vita di san Maccario romano”, il “Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre”, la “Visione di Tugdalo”, sino alla leggenda del pozzo di san Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo. E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel “Libro della Scala”, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese. Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta? Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una “Collectio toledana”, dove Pietro il Venerabile, abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici - tutto questo prima della nascita di Dante. E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca. Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi “Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta”, con una prefazione di Cesare Segre. Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios. Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale. Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luini ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di “Dante e l’Islam”, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1993. Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.

Maometto prima di Dante all'inferno. Un viaggio miracoloso che precede e forse ispira la «Commedia». Ma è solo apologetico, scrive Segre Cesare su “Il Corriere della Sera”. Nei suoi ultimi dieci anni Maria Corti era tutta presa dal problema dei contatti arabo-cristiani nella letteratura medievale. Punti di riferimento, sostanzialmente due: il tema del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole, forse derivato da tradizioni arabe, e gli eventuali contatti fra la Commedia e un testo musulmano, il Libro della Scala, che narrava il miracoloso viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme e la sua successiva visita nei regni oltramondani. Per i due protagonisti, Ulisse e Dante, l'obiettivo è il mondo dei morti: sfiorato da Ulisse, attraversato da Dante. Le ricerche della Corti diedero spunto ad articoli e conversazioni, dibattiti, interviste. Ci si potrebbe stupire di tanto interesse per problemi che non trovarono del tutto le soluzioni desiderate, ma davvero stimolante per il lettore era già la possibilità di immergersi in problematiche di ricerca sempre più raffinate, che, indipendentemente dalle auspicate conclusioni, attraversavano punti nodali della cultura del Medioevo.Si sa che fra cultura musulmana e cultura occidentale esisteva una notevole interrelazione, che l'intensa attività traduttoria rese ancora più stretta. Si traduceva, naturalmente, dall'arabo al latino e alle lingue romanze, e non viceversa. Tra le opere tradotte, c'è il cosiddetto Libro della Scala: l'originale arabo è perduto, così come la sua prima versione spagnola, opera di un medico ebreo legato al re di Castiglia Alfonso el Sabio, ma rimangono due traduzioni, una latina e una francese, derivate dalla versione spagnola e da ascrivere (sicuramente la prima, forse la seconda) a un notaio toscano, Bonaventura da Siena, esule, dopo il 1260, presso Alfonso.Il Libro della Scala è forse la traduzione dall'arabo che ha suscitato più interesse, ma non tanto nel mondo medievale, quanto semmai presso i lettori moderni, e per una ragione molto semplice: le sue vere o apparenti rassomiglianze con la Commedia. Che Dante abbia conosciuto e imitato il popolare libro arabo?La prima curiosità per l'opera si era manifestata dopo l'edizione del testo latino pubblicata da Enrico Cerulli (1949): nella postfazione, Cerulli insisteva sul problema dei rapporti tra Libro e Commedia, riferendosi ai concetti di plagio e di imitazione (due concetti, sia detto per inciso, che ora noi trattiamo diversamente, parlando piuttosto di intertestualità e interdiscorsività). Poi tutto si calmò, almeno fino agli studi della Corti. Ora, una nuova edizione del Libro ci consente di riprendere il discorso, alla luce anche di nuove scoperte e prospettive. Il problema non è più analizzare le affinità, ma distinguere tra ciò che accomuna le due opere perché elemento diffuso nella cultura del tempo, e ciò che è stato trasposto di proposito dall'una all'altra narrazione. Si tenga conto che nel Medioevo lo scambio d'invenzioni e d'immagini era frequentissimo, anche tra gli apologeti delle tre fedi monoteistiche.La nuova edizione che ci propone Anna Longoni, allieva della Corti (Il libro della Scala di Maometto, Bur, pp. 368, ? 13), ha come pregio maggiore quello di offrirci un'edizione filologica della versione (o riscrittura) latina, testimoniata da due manoscritti, uno vaticano, dell'inizio del XIV secolo, e l'altro conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, affiancata da una precisa traduzione in italiano moderno. Ma non vanno trascurati né l'Introduzione, molto informata, né, in appendice, la ristampa del principale articolo della Corti su Dante e la cultura islamica.In partenza, direi che gli elementi congiuntivi tra Libro e Commedia sono soprattutto la strutturazione dei regni ultraterreni e la descrizione delle pene dei dannati, mentre quello disgiuntivo è lo spirito completamente diverso che anima le due opere. La Commedia ha finalità didattiche, filosofiche e narrative, in fondo anche autocelebrative; il Libro della Scala è l'esaltazione di Allah e della sua potenza, e la consacrazione di Maometto come profeta. In più, la Commedia è primariamente un'opera d'arte, mentre il Libro della Scala è opera eminentemente apologetica. Ma ciò che allontana la Scala dalla Commedia è la diversissima tradizione che caratterizza le due opere. Perché i temi del «viaggio notturno» e dell'«ascensione al cielo» di Maometto, di cui il Libro della Scala presenta una redazione particolare, sono maturati attraverso il tempo: concepiti già all'epoca di Maometto (VII secolo), sono stati rielaborati precocemente (dice la tradizione) da Ibn'Abbas, cugino del Profeta, riscritti nel IX secolo. E continuano tuttora a circolare, anche a livello popolare (in proposito, si può leggere l'edizione del Viaggio di Ibn'Abbas a cura di Ida Zilio-Grandi, Einaudi 2010). Della Commedia viceversa sappiamo tutto, o quasi, dato che ci è noto chi l'ha scritta e quando. Nel tessuto dello stesso Libro è evidente la bipartizione tra il «viaggio notturno» di Maometto per andare dalla Mecca a Gerusalemme su una specie di ippogrifo, e il «Libro della scala», in senso stretto, che prevede l'ascensione di Maometto, attraverso la scala di Giacobbe, dall'inferno al paradiso, sino all'incontro con Allah. A un certo punto le due parti sono state cucite assieme: si tenga conto che si tratta di un'opera a tradizione orale, dunque aperta a qualunque contaminazione, anche se va riconosciuto che il contenuto rimane in fondo unitario. Ma Dante come avrebbe potuto conoscere il Libro della Scala? S'era inventata una favola ingegnosa, senza prove: Brunetto Latini, ambasciatore dei guelfi fiorentini alla corte di Alfonso el Sabio, una volta tornato a Firenze, avrebbe potuto riassumere al suo discepolo Dante il Libro, o qualche sua parte. Ma oggi gli studi sull'islamismo medievale sono molto più approfonditi, e sappiamo persino di vere scuole di arabo, in Inghilterra, a Hereford, o nel Convento di Miramar a Maiorca, oltre naturalmente alla scuola di Toledo. Il prodotto più consistente di questi circoli di studiosi è la Collectio Toletana, un'antologia di testi arabi, tra cui il Corano, tradotti in latino, e ampiamente diffusi nell'Europa medievale. Anche la convinzione che in Italia il Libro fosse sconosciuto, già smentita dai versi di Fazio degli Uberti, che nel Dittamondo (1336) cita un «Libro che Scala ha nome» e riassume in qualche verso i costumi musulmani, è ora solennemente confutata (2011) da Luciano Gargan, che ha trovato il Libro citato in un catalogo bolognese del 1312, che elenca i libri di un frate domenicano, Ugolino.Ma insomma Dante ha conosciuto o no il Libro della Scala? Tutti i critici, anche la Corti e la Longoni, hanno cercato, con equilibrio, le prove più consistenti. Certo, Dante, come tutti i grandi, è capace di trovare spunti e suggerimenti ovunque, e può aver raccattato qualcosa anche da lì. Però bisogna rendersi conto delle sue prospettive e delle sue presupposizioni culturali. Cosa poteva trovare in un libro nettamente popolare, dove il gusto dell'iperbole («misura in lunghezza quanto potrebbe percorrere un uomo in cinquecento anni»; «ognuno di questi serpenti ha in bocca diciottomila denti, ciascuno dei quali è grande tanto quanto una di quelle piante chiamate palme») si mescola con quello dei colori, sicché Maometto avanza tra quinte di veli colorati? C'è qualche scena grandiosa, ma l'unico sentimento che suscita è lo stupore. Noi siamo vittime del gusto moderno per il primitivo, e abbiamo tutto il diritto di accostare il Libro della Scala alla Commedia. Ma quanto a metterli sullo stesso piano, a qualcuno è lecito essere riluttante.

«Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici». L'accusa di Gherush92 organizzazione di ricercatori consulente dell'Onu, scrive “Il Corriere della Sera”. in alternativa alcune parti del capolavoro andrebbero espunte dal testo. La Divina Commedia deve essere tolta dai programmi scolastici: troppi contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici. La sorprendente richiesta arriva da «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti.

ANTISEMITISMO - «La Divina Commedia - spiega all'Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo». Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore» (così scrive De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è poi esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. «Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». E ancora, prosegue l'organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti».

MAOMETTO - Ma attenzione. Il capolavoro di Dante conterrebbe anche accenti islamofobici. «Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perchè il corpo "rotto" e "storpiato" di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa».

OMOSESSUALI - Anche gli omosessuali, nel linguaggio dantesco i sodomiti, sarebbero messi all'indice nel poema dell'Alighieri. Coloro che ebbero rapporti «contro natura», sono infatti puniti nell'Inferno: i sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. «Non invochiamo nè censure nè roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono».

CRIMINI - «Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. È nostro dovere segnalare alle autoritá competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti». Certo c'è da chiederci cosa succederebbe se il criterio proposto da «Gherush92» venisse applicato ai grandi autori della letteratura. In Gran Bretagna vedremmo censurato «Il mercante di Venezia» di Shakespeare? O alcuni dei racconti di Chaucer? Certo è che il tema del politicamente corretto finisce sempre più per invadere sfere distanti dalla politica vera e propria. Così il Corriere in un articolo del 1996 racconta come, al momento di scegliere personaggi celebri per adornare le future banconote dell'euro, Shakespeare fu scartato perchè potenzialmente antisemita Mozart perché massone, Leonardo Da Vinci perché omosessuale. Alla fine si decise per mettere sulle banconote immagini di ponti almeno loro non accusabili di nulla.

Dante "razzista", follia Onu: bandire Divina Commedia. L'associazione Gherush92, consulente delle Nazioni Unite: "Offende ebrei, musulmani, gay. Non va studiata a scuola", scrive di Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. L’hanno recitata a migliaia, ovunque nel mondo; l’hanno citata, letta, studiata, commentata in milioni di volumi e per intere generazioni. È persino diventata una sorta di fenomeno sociale, dopo che Vittorio Sermonti prima e Roberto Benigni poi l’hanno declamata a un pubblico sempre più numeroso, fino ad approdare in tv. Ma nessuno, fino a oggi, si era mai immaginato di poter parlare della Divina Commedia in questi termini: ossia come un’opera piena di luoghi comuni, frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. Definisce così il contenuto di numerose terzine dantesche “Gherush92”, organizzazione  di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e   che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia. E proprio secondo questa organizzazione il poema di Dante andrebbe eliminato dai programmi scolastici o, quanto meno, letto con le dovute accortezze. Sotto la lente censoria sono finiti, in particolare, i canti dell’Inferno XIV, XXIII, XXVIII e XXXIV. Il canto XXXIV, spiega l’organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell’apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico   pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio,   persona infida, traditore». Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo. E ancora, prosegue l’organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù;  i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti». Il poema, spiega  Valentina Sereni,  presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra  miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno  Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi   considerati un’offesa». La stessa Sereni, da noi ricontattata, ci spiega che lo studio sulla Divina Commedia è stato eseguito dai ricercatori  di Gherush92 «dopo alcuni mesi di riflessione». Il gruppo «si finanzia con le quote dei soci iscritti». Alla domanda se esistono nuovi studi su altre opere letterarie, risponde: «Ci stiamo lavorando e più avanti saranno diffusi». Nessun timore che, utilizzando simili criteri di analisi, tutta la letteratura italiana delle origini possa essere considerata razzista, omofoba e antisemita? «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente  razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che deve essere contestualizzato e siccome viene insegnata e proclamata oggi, il contesto è oggi. Oggi possiamo e dobbiamo fare queste osservazioni sul razzismo nella Divina Commedia e in altre opere d’arte. D’altra parte il razzismo contro le stesse entità esisteva tanto allora quanto oggi». Tutto chiaro e preciso. Ma pur essendo Gherush92 consulente dell’Onu, status di tutto rispetto e cosa che non è concessa proprio a tutte le organizzazioni, la sede a Roma, segnalata  nel sito dell’United Nations Department of Economic and Social Affairs, è inesistente: a quell’indirizzo non risulta nessuna organizzazione. Lo abbiamo scoperto personalmente. Una zona di quasi campagna, nella periferia nord della Capitale, tra villette e piccoli capannoni aziendali. Il numero civico non corrisponde, anzi non esiste. Chiediamo in giro. «Associazione Gherush92? Mai sentita, qui non c’è», risponde una ragazza che esce da un cancello. In effetti, ci viene confermato dalla stessa associazione che quell’indirizzo non è valido e non ce n’è un altro cui fare riferimento...

Il nemico che trattiamo da amico. (Questo articolo fu pubblicato sul Corriere della Sera il 16 luglio 2005). All’indomani dell’attentato terroristico di matrice islamica che ha insanguinato la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriscono nel dibattito pubblico di queste ore, le riflessioni di Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e Occidente. L’articolo fu scritto dopo la strage alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 da Oriana Fallaci.

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell' Europa. Un' Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell' evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi terroristi vogliono distruggere i nostri valori, che questo stragismo è di tipo fascista ed esprime odio per la nostra civiltà».

Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall'antiamericanismo all'antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine che esaspera i toni della Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch'io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un' identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».

Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell' estrema sinistra inglese, che assolveva l'apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il criminale, il più grande criminale della Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l'11 settembre la guerra in Iraq non c'era. L'11 settembre la guerra ce l'hanno dichiarata loro. Se n'è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l'attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all'Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l'Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la magnifica varietà che Allah ha creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non trovi un inglese nemmeno a pagarlo oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se ci trovi una bionda con gli occhi azzurri è una circassa». (Davvero?!? Chi l' avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).

Continua anche la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d'Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l'assessore all'urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell' arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l' espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell' 8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all'ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora ci lasci lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.

La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c'è il terrorismo, c'è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha fatto benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell' Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l'Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l'illusione dell'Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un' esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.

Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'avevamo in casa l'11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l'avevamo in casa l'11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l' avevamo in casa l'1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l'avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s'eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell' umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest'anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l'imam.

Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l' esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l'Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l' alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s'intende, dell' arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all'Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).

Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s'intende, dell'arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un'infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.

L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l' esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l'indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irriducibile volontà di sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Tutte e tre basate sul concetto del Dio Unico, tutte e tre ispirate da Abramo. Il buon Abramo che per ubbidire a Dio stava per sgozzare il suo bambino come un agnello. Ma quale patrimonio in comune?!?

Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l' amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell' amore insegna l' odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli. Quindi come si fa a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l' islamismo, come si fa a onorare in egual modo Gesù e Maometto?!? Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell' immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l' errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l' essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell' Islam. Io in questi quattr' anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell' impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell' impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell' ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...

Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama il nemico tuo come te stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l' altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell' autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l' assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l' immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell' autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l' intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti? Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d' accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l' Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no.

La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D' ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim' ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant' Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.

La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all' Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l' esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi costringerete i romani alla resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l' imbarazzo della scelta».

Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all' erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d' arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d' essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall' indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l' autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d' essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l' attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa degli americani, colpa di Bush.

Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all' attacco contro l' Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s' intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s' intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro di Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d' arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.

Oriana Fallaci a una terrorista. «Un neonato per te è un nemico?». La giornalista e scrittrice nel 1970 intervistò Rascida Abhedo, palestinese, che fece esplodere due bombe in un mercato di Gerusalemme provocando una carneficina, scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista del 1970 all’attentatrice palestinese Rascida Abhedo.

Sembrava una monaca. O una guardia rossa di Mao Tse-tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta sebbene fosse tutt’altro che brutta. Il visino ad esempio era grazioso: occhi verdi, zigomi alti, bocca ben tagliata. Il corpo era minuscolo e lo indovinavi fresco, privo di errori. Ma l’insieme era sciupato da quei ciuffi neri, untuosi, da quel pigiama in tela grigioverde, un’uniforme da fatica suppongo, di taglia tre volte superiore alla sua: quella sciatteria voluta, esibita, ti aggrediva come una cattiveria. Dopo il primo sguardo, ti apprestavi con malavoglia a stringerle la mano, che ti porgeva appena, restando seduta, costringendoti a scendere verso di lei nell’inchino del suddito che bacia il piede della regina. In silenzio bestemmiavi: «Maleducata!». La mano toccò molle la mia. Gli occhi verdi mi punsero con strafottenza, anzi con provocazione, una vocetta litigiosa scandì: «Rascida Abhedo, piacere». Poi, rotta dallo sforzo che tal sacrificio le era costato, si accomodò meglio contro la spalliera del grande divano in fondo al salotto dove occupava il posto d’onore. Dico così perché v’erano molte persone, e queste le sedevan dinanzi a platea: lei in palcoscenico e loro in platea. Una signora che avrebbe fatto da interprete, suo marito, un uomo che mi fissava muto e con sospettosa attenzione, un giovanotto dal volto dolcissimo e pieno di baffi, infine Najat: la padrona di casa che aveva organizzato l’incontro con lei. Come lei, essi appartenevano tutti al Fronte Popolare, cioè il movimento maoista che da Al Fatah si distingue per la preferenza a esercitare la lotta coi sabotaggi e il terrore. Però, al contrario di lei, eran tutti ben vestiti, cordiali e borghesi: invece che ad Amman avresti detto di trovarti a Roma, tra ricchi comunisti à la page, sai tipi che fingono di voler morire per il proletariato ma poi vanno a letto con le principesse. La signora che avrebbe fatto da interprete amava andare in vacanza a Rapallo e calzava scarpe italiane. Najat, una splendida bruna sposata a un facoltoso ingegnere, era la ragazza più sofisticata della città: in una settimana non l’avevo mai sorpresa con lo stesso vestito, con un accessorio sbagliato. Sempre ben pettinata, ben profumata, ben valorizzata da un completo giacca-pantaloni o da una minigonna. Non credevi ai tuoi orecchi quando diceva: «Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla perché il Kalashnikov rincula in modo violento». Stasera indossava un modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la monaca in uniforme risultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina. Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la cafeteria della Università Ebraica. Era colei che per tre mesi aveva mobilizzato l’intera polizia israeliana e provocato Dio sa quanti arresti, repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola. La fotografia appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La patente di eroe. Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione di gran sufficienza: la stessa che certe dive esibiscono quando devono affrontare i giornalisti curiosi. Mi accomodai accanto a lei sul divano. Lasciai perdere ogni convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida. Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che fai». Alzò un sopracciglio ironico, tolse di tasca un fazzoletto. Si pulì il naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola. Sospirò. Rispose.

«Sono nata a Gerusalemme, da due genitori piuttosto ricchi, piuttosto conformisti, e assai rassegnati. Non fecero mai nulla per difendere la Palestina e non fecero mai nulla per indurmi a combattere. Fuorché influenzarmi, senza saperlo, coi loro racconti del passato. Mia madre, sempre a ripetere di quando andava a Giaffa col treno e dal finestrino del treno si vedeva il Mediterraneo che è così azzurro e bello. Mio padre, sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un braccio e me nell’altro braccio. E poi a dirmi dei partiti politici che c’erano prima del 1948, tutti colpevoli d’aver ceduto, d’aver deposto le armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi la nostra vecchia casa al di là della linea di demarcazione, in territorio israeliano. Si poteva vederla dalle nostre finestre e penso che questo, sì, m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a Natale guardavo gli arabi che si affollavano al posto di blocco per venire dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano brutti, senza orgoglio, e ti coglieva il bisogno di fare qualcosa. Questo qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento nazionale arabo, il Fronte Popolare di oggi. Avevo quindici anni, non dissi nulla ai miei genitori. Si sarebbero spaventati, non avrebbero compreso. Del resto si faceva poco: riunioni di cellula, corsi politici, manifestazioni represse dai soldati giordani» .

Come eri entrata in contatto con quel movimento?

«A scuola. Cercavano adepti fra gli studenti. Poi venne il 1967: l’occupazione di Gerusalemme, di Gerico, del territorio a est del Giordano. Io in quei giorni non c’ero, ero nel Kuwait: insegnavo in una scuola media di una cittadina sul Golfo. C’ero stata costretta perché nelle scuole della Giordania c’era poca simpatia pei maestri palestinesi. L’occupazione di Gerusalemme mi gettò in uno stato di sonnolenza totale. Ero così mortificata che per qualche tempo non vi reagii e ci volle tempo perché capissi che agli altri paesi arabi non importava nulla della Palestina, non si sarebbero mai scomodati a liberarla: bisognava far questo da soli. Ma allora perché restavo in quella scuola a insegnare ai ragazzi? Il mio lavoro lo amavo, intendiamoci, lo consideravo alla stregua di un divertimento, ma era necessario che lo abbandonassi. Mi dimisi e venni ad Amman dove mi iscrissi subito al primo gruppo di donne addestrate dall’FPLP. Ragazze tra i diciotto e i venticinque anni, studentesse o maestre come me. Era il gruppo di Amina Dahbour, quella che hanno messo in prigione in Svizzera per il dirottamento di un aereo El Al, di Laila Khaled, che dirottò l’aereo della TWA, di Sheila Abu Mazal, la prima vittima della barbarie sionista» .

La interruppi: anche questo nome m’era familiare perché ovunque lo vedevi stampato con l’appellativo di eroina e sui giornali occidentali avevo letto che era morta in circostanze eccezionali. Chi diceva in combattimento, chi diceva sotto le torture.

Rascida, come morì Sheila Abu Mazal?

«Una disgrazia. Preparava una bomba per un’azione a Tel Aviv e la bomba scoppiò tra le sue mani» .

Perché?

«Così» .

Raccontami degli addestramenti, Rascida.

«Uffa. Eran duri. Ci voleva una gran forza di volontà per compierli. Marce, manovre, pesi. Sheila ripeteva: bisogna dimostrare che non siamo da meno degli uomini! E per questo in fondo scelsi il corso speciale sugli esplosivi. Era il corso che bisognava seguire per diventare agenti segreti e, oltre alla pratica degli esplosivi, prevedeva lo studio della topografia, della fotografia, della raccolta di informazioni. I nostri istruttori contavano molto sulle donne come elemento di sorpresa: da una ragazza araba non ci si aspettano certe attività. Divenni brava a scattar fotografie di nascosto ma specialmente a costruire ordigni a orologeria. Più di ogni altra cosa volevo maneggiare le bombe, io sono sempre stata un tipo senza paura. Anche da piccola. Non m’impressionava mai il buio. I corsi duravano a volte quindici giorni, a volte due mesi o quattro. Il mio corso fu lungo, assai lungo, perché dovetti anche imparare a recarmi nel territorio occupato. Passai il fiume molte volte, insieme alle mie compagne. A quel tempo non era difficilissimo perché gli sbarramenti fotoelettrici non esistevano, ma la prima volta non fu uno scherzo. Ero tesa, mi aspettavo di morire. Ma presto fui in grado di raggiungere Gerusalemme e stabilirmici come agente segreto» .

Dimmi delle due bombe al supermarket, Rascida.

«Uffa. Quella fu la prima operazione di cui posso rivendicare la paternità. Voglio dire che la concepii da sola, la preparai da sola, e da sola la portai fino in fondo. Avevo ormai partecipato a tanti sabotaggi del genere e potevo muovermi con disinvoltura. E poi avevo una carta di cittadinanza israeliana con cui potevo introdurmi in qualsiasi posto senza destare sospetto. Poiché abitavo di nuovo coi miei genitori, scomparivo ogni tanto senza dare nell’occhio. L’idea di attaccare il supermarket l’ebbi quattro giorni dopo la cattura di Amina a Zurigo, e la morte di Abdel. Nella sparatoria con l’israeliano, ricordi, Abdel rimase ucciso. Bisognava vendicare la morte di Abdel e bisognava dimostrare a Moshe Dayan la falsità di ciò che aveva detto: secondo Moshe Dayan, il Fronte Popolare agiva all’estero perché non era capace di agire entro Israele. E poi bisognava rispondere ai loro bombardamenti su Irbid, su Salt. Avevano ucciso civili? Noi avremmo ucciso civili. Del resto nessun israeliano noi lo consideriamo un civile ma un militare e un membro della banda sionista» .

Anche se è un bambino, Rascida? Anche se è un neonato? (Gli occhi verdi si accesero d’odio, la sua voce adirata disse qualcosa che l’interprete non mi tradusse, e subito scoppiò una gran discussione cui intervennero tutti: anche Najat, anche il giovanotto col volto dolcissimo. Parlavano in arabo, e le frasi si sovrapponevan confuse come in una rissa da cui si levava spesso un’invocazione: «Rascida!». Ma Rascida non se ne curava. Come un bimbo bizzoso scuoteva le spalle e, solo quando Najat brontolò un ordine perentorio, essa si calmò. Sorrise un sorriso di ghiaccio, mi replicò).

«Questa domanda me la ponevo anch’io, quando mi addestravo con gli esplosivi. Non sono una criminale e ricordo un episodio che accadde proprio al supermarket, un giorno che vi andai in avanscoperta. C’erano due bambini. Molto piccoli, molto graziosi. Ebrei. Istintivamente mi chinai e li abbracciai. Ma stavo abbracciandoli quando mi tornarono in mente i nostri bambini uccisi nei villaggi, mitragliati per le strade, bruciati dal napalm. Quelli di cui loro dicono: bene se muore, non diventerà mai un fidayin. Così li respinsi e mi alzai. E mi ordinai: non farlo mai più, Rascida, loro ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro. Del resto, se questi due bambini morranno, o altri come loro, mi dissi, non sarò stata io ad ammazzarli. Saranno stati i sionisti che mi forzano a gettare le bombe. Io combatto per la pace, e la pace val bene la vita di qualche bambino. Quando la nostra vera rivoluzione avverrà, perché oggi non è che il principio, numerosi bambini morranno. Ma più bambini morranno più sionisti comprenderanno che è giunto il momento di andarsene. Sei d’accordo? Ho ragione?»  

No, Rascida.

La discussione riprese, più forte. Il giovanotto dal volto dolcissimo mi lanciò uno sguardo conciliativo, implorante. V’era in lui un che di straziante e ti chiedevi chi fosse. Poi, con l’aiuto di alcune tazze di tè, l’intervista andò avanti.

Perché scegliesti proprio il supermarket, Rascida?

«Perché era un buon posto, sempre affollato. Durante una decina di giorni ci andai a tutte le ore proprio per studiare quando fosse più affollato. Lo era alle undici del mattino. Osservai anche l’ora in cui apriva e in cui chiudeva, i punti dove si fermava più gente, e il tempo che ci voleva a raggiungerlo dalla base segreta dove avrei ritirato la bomba o le bombe. Per andarci mi vestivo in modo da sembrare una ragazza israeliana, non araba. Spesso vestivo in minigonna, altre volte in pantaloni, e portavo sempre grandi occhiali da sole. Era interessante, scoprivo sempre qualcosa di nuovo e di utile, ad esempio che se camminavo con un peso il tragitto tra la base e il supermarket aumentava. Infine fui pronta e comprai quei due bussolotti di marmellata. Molto grandi, da cinque chili l’uno, di latta. Esattamente ciò di cui avevo bisogno» .

Per le bombe?

«Sicuro. L’idea era di vuotarli, riempirli di esplosivo, e rimetterli dove li avevo presi. Quella notte non tornai a casa. Andai alla mia base segreta e con l’aiuto di alcuni compagni aprii i bussolotti. Li vuotai di quasi tutta la marmellata e ci sistemai dentro l’esplosivo con un ordigno a orologeria. Poi saldai di nuovo il coperchio, perché non si vedesse che erano stati aperti e...»  

Che marmellata era, Rascida?

«Marmellata di albicocche, perché?»

Così... Non mangerò mai più marmellata di albicocche. . (Rascida rise a gola spiegata e a tal punto che le venne la tosse).

«Io la mangiai, invece. Era buona. E dopo averla mangiata andai a dormire» .

Dormisti bene, Rascida?

«Come un angelo. E alle cinque del mattino mi svegliai bella fresca. Mi vestii elegantemente, coi pantaloni alla charleston, sai quelli attillati alla coscia e svasati alla caviglia, mi pettinai con cura, mi truccai gli occhi e le labbra. Ero graziosa, i miei compagni si congratulavano: «Rascida!». Quando fui pronta misi i bussolotti della marmellata in una borsa a sacco: sai quelle che si portano a spalla. Le donne israeliane la usano per fare la spesa. Uh, che borsa pesante! Un macigno! L’esplosivo pesava il doppio della marmellata. Ecco perché negli addestramenti ti abituano a portare pesi» .

Come ti sentivi, Rascida? Nervosa, tranquilla?

«Tranquilla, anzi felice. Ero stata così nervosa nei giorni precedenti che mi sentivo come scaricata. E poi era una mattina azzurra, piena di sole. Sapeva di buon auspicio. Malgrado il peso della borsa camminavo leggera, portavo quelle bombe come un mazzo di fiori. Sì, ho detto fiori. Ai posti di blocco i soldati israeliani perquisivano la gente ma io gli sorridevo con civetteria e, senza attendere il loro invito, aprivo la borsa: «Shalom, vuoi vedere la mia marmellata?». Loro guardavano la marmellata e con cordialità mi dicevano di proseguire. No, non andai dritta al supermarket: dove andai prima è affar mio e non ti riguarda. Al supermarket giunsi poco dopo le nove. Che pensi? (Pensavo a un episodio del film La battaglia di Algeri, quello dove tre donne partono una mattina per recarsi a sistemare esplosivi su obiettivi civili. Una delle tre donne è una ragazza che assomiglia straordinariamente a Rascida: piccola, snella, e porta i pantaloni. Passando ai posti di blocco strizza l’occhio ai soldati francesi, civetta. Chissà se Rascida aveva visto il film. Magari sì. Bisognava che glielo chiedessi quando avrebbe finito il racconto. Ma poi me ne dimenticai. O forse volli dimenticarmene per andarmene via prima). Pensavo... a nulla» .

Cosa accadde quando entrasti nel supermarket, Rascida?

«Entrai spedita e agguantai subito il carry-basket, sai il cestino di metallo dove si mette la roba, il cestino con le ruote. Al supermarket c’è il self-service, ti muovi con facilità. La prima cosa da fare, quindi, era togliere i due bussolotti di marmellata dalla mia borsa e metterli nel carry-basket. Ci avevo già provato ma con oggetti più piccoli, non così pesanti, coi bussolotti grandi no e per qualche secondo temetti di dare nell’occhio. Mi imposi calma, perciò. Mi imposi anche di non guardare se mi guardavano altrimenti il mio gesto avrebbe perso spontaneità. Presto i bussolotti furono nel carry-basket. Ora si trattava di rimetterli a posto ma non dove li avevo presi perché non era un buon punto. Alla base avevo caricato i due ordigni a distanza di cinque minuti, in modo che uno esplodesse cinque minuti prima dell’altro. Decisi di mettere in fondo al negozio quello che sarebbe esploso dopo. L’altro, invece, vicino alla porta dove c’era uno scaffale con le bottiglie di birra e i vasetti» .

Perché, Rascida?

«Perché la porta era di vetro come le bottiglie di birra, come i vasetti. Con l’esplosione sarebbero schizzati i frammenti e ciò avrebbe provocato un numero maggiore di feriti. O di morti. Il vetro è tremendo: lanciato a gran velocità può decapitare, e anche i piccoli pezzi sono micidiali. Non solo, la prima esplosione avrebbe bloccato l’ingresso. Allora i superstiti si sarebbero rifugiati in fondo al negozio e qui, cinque minuti dopo, li avrebbe colti la seconda esplosione. Con un po’ di fortuna, nel caso la polizia fosse giunta alla svelta, avrei fatto fuori anche un bel po’ di polizia. Rise divertita, contenta. E ciò le provocò un nuovo accesso di tosse» .

Non ridere, Rascida. Continua il tuo racconto, Rascida.

«Sempre senza guardare se mi guardavano, sistemai i due bussolotti dove avevo deciso. Se qualcuno se ne accorse non so, ero troppo concentrata in ciò che stavo facendo. Ricordo solo un uomo molto alto, con il cappello, che mi fissava. Ma pensai che mi fissasse perché gli piacevo. Te l’ho detto che ero molto graziosa quella mattina. Poi, quando anche il secondo bussolotto fu nello scaffale, comprai alcune cose: tanto per non uscire a mani vuote. Comprai un grembiule da cucina, due stecche di cioccolata, altre sciocchezze. Non volevo dare troppi soldi agli ebrei» .

Cos’altro comprasti, Rascida?

«I cetriolini sottaceto. E le cipolline sottaceto. Mi piacciono molto. Mi piacciono anche le olive farcite. Ma cos’è questo, un esame di psicologia?»

Se vuoi. E li mangiasti quei cetriolini, quelle cipolline?

«Certo. Li portai a casa e li mangiai. Non era un’ora adatta agli antipasti e mia madre disse, ricordo: «Da dove vengono, quelli?». Io risposi: «Li ho comprati al mercato». Ma che te ne importa di queste cose? Torniamo al supermarket. Avevo deciso che l’intera faccenda dovesse durare quindici minuti. E quindici minuti durò. Così, dopo aver pagato uscii e tornai a casa. Qui feci colazione e riposai. Un’ora di cui non ricordo nulla. Alle undici in punto aprii la radio per ascoltar le notizie. Le bombe erano state caricate alle sei e alle sei e cinque, affinché scoppiassero cinque ore dopo. L’esplosione sarebbe dunque avvenuta alle undici e alle undici e cinque: l’ora dell’affollamento. Aprii la radio per accertarmene e per sapere se... se erano morti bambini nell’operazione» .

Lascia perdere, Rascida. Non ci credo, Rascida. Cosa disse la radio?

«Disse che c’era stato un attentato al supermarket e che esso aveva causato due morti e undici feriti. Rimasi male, due morti soltanto, e scesi per strada a chiedere la verità. Radio Israele non dice mai la verità. La verità era che le due bombe avevan causato ventisette morti e sessanta feriti fra cui quindici gravissimi. Bè, mi sentii meglio anche se non perfettamente contenta. Gli esperti militari della mia base avevano detto che ogni bomba avrebbe ucciso chiunque entro un raggio di venticinque metri e, verso le undici del mattino, al supermarket non contavi mai meno di trecentocinquanta persone. Oltre a un centinaio di impiegati» .

Rascida, provasti anzi provi nessuna pietà per quei morti?

«No davvero. Il modo in cui ci trattano, in cui ci uccidono, spenge in noi ogni pietà. Io ho dimenticato da tempo cosa significa la parola pietà e mi disturba perfino pronunciarla. Corre voce che ci fossero arabi in quel negozio. Non me ne importa. Se c’erano, la lezione gli servì a imparare che non si va nei negozi degli ebrei, non si danno soldi agli ebrei. Noi arabi abbiamo i nostri negozi, e i veri arabi si servono lì» .

Rascida, cosa facesti dopo esserti accertata che era successo ciò che volevi?

«Dissi a mia madre: «Ciao, mamma, esco e torno fra poco». La mamma rispose: «Va bene, fai presto, stai attenta». Chiusi la porta e fu l’ultima volta che la vidi. Dovevo pensare a nascondermi, a non farmi più vedere neanche se arrestavano i miei. E li arrestarono. Non appena il Fronte Popolare assunse la paternità dell’operazione, gli israeliani corsero da quelli che appartenevano al Fronte. Hanno schedari molto precisi, molto aggiornati: un dossier per ciascuno di noi. E tra coloro che presero c’era un compagno che sapeva tutto di me. Così lo torturarono ma lui resistette tre giorni: è la regola. Tre giorni ci bastano infatti a metterci in salvo. Dopo tre giorni disse il mio nome, così la polizia venne ad arrestarmi ma non mi trovò e al mio posto si portò via la famiglia. Mio padre, mia madre, mia sorella maggiore e i bambini. Mia madre e i bambini li rilasciarono presto, mio padre invece lo tennero tre mesi e mia sorella ancora di più. Al processo non ci arrivarono mai perché in realtà né mio padre né mia sorella sapevano niente» .

E tu cosa facesti, Rascida?

«Raggiunsi una base segreta e preparai la bomba per la cafeteria dell’Università Ebraica. Questo accadde il 2 marzo e purtroppo io non potei piazzare la bomba, che non ebbe un esito soddisfacente. Solo ventotto studenti restaron feriti, e nessun morto. In compenso le cose peggiorarono molto per me: la mia fotografia apparve dappertutto e la polizia prese a cercarmi ancor più istericamente. Fu necessario abbandonare la base segreta e da quel momento dovetti cavarmela proprio da me. Mi trasferivo di casa in casa, una notte qui e una notte là, per strada mi sembrava sempre d’esser seguita. Un giorno un’automobile mi seguì a passo d’uomo per circa due ore. Esitavano a fermarmi, credo, perché ero molto cambiata e vestita come una stracciona. Riuscii a far perdere le mie tracce e, in un vicolo, bussai disperatamente a una porta. Aprì un uomo, cominciai a piangere e a dire che ero sola al mondo: mi prendesse a servizio per carità. Si commosse, mi assunse e rimasi lì dieci giorni. Al decimo, giudicai saggio scomparire. Ero appena uscita che la polizia israeliana arrivò e arrestò l’uomo. Al processo, malgrado ignorasse tutto di me, fu condannato a tre anni. È ancora in prigione» .

Te ne dispiace, Rascida?

«Che posso farci? In carcere ce l’hanno messo loro, mica io. E io ho sofferto tanto. Tre mesi di caccia continua» .

Ci credo, avevi fatto scoppiare tre bombe! E come tornasti in Giordania, Rascida?

«Con un gruppo militare del Fronte. Si passò le linee di notte. Non fu semplice, dovemmo nasconderci molte ore nel fiume e bevvi un mucchio di quell’acqua sporca. Sono ancora malata. Ma partecipo lo stesso alle operazioni da qui e l’unica cosa che mi addolora è non poter più mettere bombe nei luoghi degli israeliani» .

E non vedere più i tuoi genitori, averli mandati in carcere, ti addolora?

«La mia vita personale non conta, in essa non v’è posto per le emozioni e le nostalgie. I miei genitori li ho sempre giudicati brava gente e tra noi c’è sempre stato un buon rapporto, ma v’è qualcosa che conta più di loro ed è la mia patria. Quanto alla prigione, li ha come svegliati: non sono più rassegnati, indifferenti. Ad esempio potrebbero lasciare Gerusalemme, mettersi in salvo, ma rifiutan di farlo. Non lasceremo mai la nostra terra, dicono. E se Dio vuole...»  

Credi in Dio, Rascida?

«No, non direi. La mia religione è sempre stata la mia patria. E insieme a essa il socialismo. Ho sempre avuto bisogno di spiegare le cose scientificamente, e Dio non lo spieghi scientificamente: il socialismo sì. Io credo nel socialismo scientifico basato sulle teorie marxiste-leniniste che ho studiato con cura. Presto studierò anche Il Capitale: è in programma nella nostra base. Voglio conoscerlo bene prima di sposarmi» .

Ti sposi, Rascida?

«Sì, tra un mese. Il mio fidanzato è quello lì» . (E additò il giovanotto dal volto dolcissimo. Lui arrossì gentilmente e parve affondare dentro la poltrona).

Congratulazioni. Avevi detto che nella tua vita non c’è posto per i sentimenti.

«Ho detto che capisco le cose solo da un punto di vista scientifico e il mio matrimonio è la cosa più scientifica che tu possa immaginare. Lui è comunista come me, fidayin come me: la pensiamo in tutto e per tutto nel medesimo modo. Inoltre v’è attrazione fra noi ed esaudirla non è forse scientifico? Il matrimonio non c’impedirà di combattere: non metteremo su casa. L’accordo è incontrarci tre volte al mese e solo se ciò non intralcia i nostri doveri di fidayin. Figli non ne vogliamo: non solo perché se restassi incinta non potrei più combattere e il mio sogno più grande è partecipare a una battaglia, ma perché non credo che in una situazione come questa si debba mettere al mondo bambini. A che serve? A farli poi morire o almeno restare orfani?»

(Allora si alzò il fidanzato, che si chiamava Thaer, e con l’aria di scusarsi venne a sedere presso di me. Guardandomi con due occhi di agnello, parlando con voce bassissima, dolce come il suo viso, disse che conosceva Rascida da circa tre anni: quando lei insegnava nel Kuwait e lui studiava psicologia all’università. «Mi piacque come essere umano, pei suoi pregi e i suoi difetti. Dopo la guerra del 1967 le scrissi una lettera per annunciarle che sarei diventato fidayin, per spiegarle che l’amavo, sì, ma la Palestina contava più del mio amore. Lei rispose: “Thaer, hai avuto più fiducia in me di quanta io ne abbia avuta in te. Perché tu m’hai detto di voler diventare fidayin e io non te l’ho detto. Abbiamo gli stessi progetti, Thaer, e da questo momento mi considero davvero fidanzata con te”.» «Capisco, Thaer. Ma cosa provasti a sapere che Rascida aveva ucciso ventisette persone senza un fucile in mano?» Thaer prese fiato e congiunse le mani come a supplicarmi di ascoltarlo con pazienza. «Fui orgoglioso di lei. Oh, so quello che provi, all’inizio la pensavo anch’io come te. Perché sono un uomo tenero, io, un sentimentale. Non assomiglio a Rascida. Il mio modo di fare la guerra è diverso: io sparo a chi spara. Ma ho visto bombardare i nostri villaggi e mi sono rivoltato: ho deciso che avere scrupoli è sciocco. Se invece d’essere uno spettatore obbiettivo tu fossi coinvolta nella tragedia, non piangeresti sui morti senza il fucile. E capiresti Rascida.») Certo è difficile capire Rascida. Ma vale la pena provarci e, per provarci, bisogna avere visto i tipi come Rascida nei campi dove diventano fidajat: cioè donne del sacrificio. Lunghe file di ragazze in grigioverde, costrette giorno e notte a marciare sui sassi, saltare sopra altissimi roghi di gomma e benzina, insinuarsi entro reticolati alti appena quaranta centimetri e larghi cinquanta, tenersi in bilico su ponticelli di corde tese su trabocchetti, impegnarsi in massacranti lezioni di tiro. E guai se sbagli un colpo, guai se calcoli male il salto sul fuoco, guai se resti impigliato in una punta di ferro, guai se dici basta, non ce la faccio più. L’istruttore che viene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Cina, non ha tempo da perdere con le femminucce: se hai paura, o ti stanchi, ti esplode una raffica accanto agli orecchi. Hai visto le fotografie. Ch’io sappia, neanche i berretti verdi delle forze speciali in Vietnam, neanche i soldati più duri dei commandos israeliani vengono sottoposti ad addestramenti così spietati. E da quelli, credi, esci non soltanto col fisico domato ma con una psicologia tutta nuova. Dice che in alcuni campi (questo io non l’ho visto) le abituano perfino alla vista del sangue. E sai come? Prima sparano su un cane lasciandolo agonizzante ma vivo, poi buttano il cane tra le loro braccia e le fanno correre senza ascoltarne i guaiti. Dopo tale esperienza, è dimostrato, al dolore del corpo e dell’anima non badi più. Al campo Schneller conobbi una fidajat che si chiamava Hanin, Nostalgia. La intervistai e mi disse d’avere venticinque anni, un figlio di sei e una figlia di due. Le chiesi: «Dove li hai lasciati, Hanin?». Rispose: «In casa, oggi c’è mio marito». «E cosa fa tuo marito?» «Il fidayin. Oggi è in licenza.» «E quando non c’è tuo marito?» «Qua e là.» «Hanin, non basta un soldato in famiglia?» «No, voglio passare anch’io le linee, voglio andare anch’io in combattimento.» Poi ci mettemmo a parlare di altre cose, del negozio di antiquariato che essi possedevano a Gerusalemme, del fatto che non gli mancassero i soldi eccetera. La conversazione era interessante, si svolgeva direttamente in inglese, e io non mi curavo del lieve sospiro, quasi un lamento, che usciva dalle pieghe del kaffiah. I grandi occhi neri erano fermi, la fronte era appena aggrottata, e pensavo: poverina, è stanca. Ma poi l’istruttore chiamò, era giunto il turno di sparare al bersaglio, e Hanin si alzò: nell’alzarsi le sfuggì un piccolo grido. «Ti senti male, Hanin?» «No, no. Credo soltanto d’essermi slogata un piede. Ma ora non c’è tempo di metterlo a posto, lo dirò quando le manovre saranno finite.» E raggiunse le compagne, decisa, col suo piede slogato. Per capire Rascida, o provarci, bisogna anche avere visto le donne che hanno fatto la guerra senza allenarsi: affrontando di punto in bianco la morte, la consapevolezza che la crudeltà è indispensabile se vuoi sopravvivere. In un altro campo conobbi Im Castro: significa Madre di Castro. Im essendo l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano per le donne, e Castro essendo il nome scelto da suo figlio maggiore: fidayin. Im Castro era un donnone di quarant’anni, con un corpo da pugile e un volto da Madonna bruciata dalle intemperie. Acqua, vento, sole, rabbia, disperazione, tutto era passato su quei muscoli color terracotta riuscendo a renderli più forti e più duri anziché sgretolarli. Contadina a Gerico, era fuggita nel 1967 insieme al marito, il fratello, il cognato, due figli maschi e due femmine. Qui era giunta dopo Karameh e qui viveva sotto una tenda dove non possedeva nulla fuorché una coperta e un rudimentale fornello con due pentole vecchie. Le chiesi: «Im Castro, dov’è tuo marito?». Rispose: «È morto in battaglia, a Karameh». «Dov’è tuo fratello?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dov’è tuo cognato?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dove sono i tuoi figli?» «Al fronte, sono fidayin.» «Dove sono le tue figlie?» «Agli addestramenti, per diventare fidajat. » «E tu?» «Io non ne ho bisogno. Io so usare il Kalashnikov, il Carlov, e queste qui.» Sollevò un cencio e sotto c’era una dozzina di bombe col manico. «Dove hai imparato a usarle, Im Castro?» «A Karameh, combattendo col sangue ai ginocchi.» «E prima non avevi mai sparato, Im Castro? » «No, prima coltivavo grano e fagioli.» «Im Castro, cosa provasti ad ammazzare un uomo?» «Una gran gioia, che Allah mi perdoni. Pensai: hai ammazzato mio marito, ragazzo, e io ammazzo te.» «Era un ragazzo?» «Sì, era molto giovane.» «E non hai paura che succeda lo stesso ai tuoi figli?» «Se i miei figli muoiono penserò che hanno fatto il loro dovere. E piangerò solo perché essendo vedova non potrò partorire altri figli per darli alla Palestina.» «Im Castro, chi è il tuo eroe?» «Eroe è chiunque spari la mitragliatrice.» Le guerre, le rivoluzioni, non le fanno mai le donne. Non sono le donne a volerle, non sono le donne a comandarle, non sono le donne a combatterle. Le guerre, le rivoluzioni, restano dominio degli uomini. Per quanto utili o utilizzate, le donne vi servono solo da sfondo, da frangia, e neanche la nostra epoca ha modificato questa indiscutibile legge. Pensa all’Algeria, pensa al Vietnam dove esse fanno parte dei battaglioni vietcong ma in un rapporto di cinque a venti coi maschi. Pensa alla stessa Israele dove le soldatesse son così pubblicizzate ma chi si accorge di loro in battaglia se non sono una figlia di Moshe Dayan. In Palestina è lo stesso. Dei duecentomila palestinesi mobilitati da Al Fatah, almeno un terzo son donne: intellettuali come Rascida, madri di famiglia come Hanin, signore borghesi come Najat, contadine come Im Castro. Però quasi tutte sono in fase di riposo o di attesa, pochissime vivono nelle basi segrete, e solo in casi eccezionali partecipano a un combattimento. È indicativo, ad esempio, che tra i fidayin al fronte non ne abbia incontrata nessuna e che l’unica di cui mi abbian parlato sia una cinquantaquattrenne che fa la vivandiera per un gruppo di Salt. È indiscutibile, inoltre, che l’unica di cui si possa vantare la morte sia quella Sheila cui scoppiò una bomba in mano. A usare le donne nella Resistenza non ci sono che i comunisti rivali di Al Fatah i quali le impiegano senza parsimonia per gli atti di sabotaggio e di terrorismo. La ragione è semplice e intelligente. In una società dove le donne hanno sempre contato quanto un cammello o una vacca, e per secoli sono rimaste segregate al ruolo di moglie di madre di serva, nessuno si aspettava di trovarne qualcuna capace di dirottare un aereo, piazzare un ordigno, maneggiare un fucile. Abla Taha, la fidajat di cui si parlò anche alle Nazioni Unite per gli abusi che subì in prigione sebbene fosse incinta, racconta: «Quando mi arrestarono al ponte Allenby perché portavo esplosivo, gli israeliani non si meravigliarono mica dell’esplosivo. Si meravigliarono di scoprirlo addosso a una donna. Per loro era inconcepibile che un’araba si fosse tolta il velo per fare la guerra». La stessa Rascida, del resto, spiega che al corso di addestramento le donne venivano incluse come «elemento di sorpresa ». Il discorso cui volevo arrivare, comunque, la morale della faccenda, non è questo qui. È che la sorpresa su cui gli uomini della Resistenza palestinese contavano per giocare il nemico, ha colto di contropiede anche loro. «Tutto credevamo,» mi confessò un ufficiale della milizia fidayin «fuorché le donne rispondessero al nostro appello come hanno fatto. Ormai non siamo più noi a cercarle, sono loro a imporsi e pretendere di andare all’attacco.» «E qual è la sua interpretazione?» gli chiesi. L’ufficiale non era uno sciocco. Accennò una smorfia che oscillava tra il divertimento e il fastidio, rispose: «Lo sa meglio di me che l’amore per la patria c’entra solo in parte, che la molla principale non è l’idealismo. È... sì, è una forma di femminismo. Noi uomini le avevamo chiuse a chiave dietro una porta di ferro, la Resistenza ha aperto uno spiraglio di quella porta ed esse sono fuggite. Hanno compreso insomma che questa era la loro grande occasione, e non l’hanno perduta. Le dico una cosa che esse non ammetterebbero mai in quanto è una verità che affoga nel loro subcosciente: combattendo l’invasore sionista esse rompono le catene imposte dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli. Insomma dal maschio». «E sono davvero brave?» «Oh, sì. Più brave degli uomini, perché più spietate. Abbastanza normale se ricorda che il loro nemico ha due facce: quella degli israeliani e la nostra. » «E crede che vinceranno?» «Non so. Dipende dal regime politico che avrà la Palestina indipendente. Capisce cosa voglio dire?» Voleva dire ciò che dice, silenziosamente, Rascida. La società araba non è una società disposta a correggere i suoi tabù sulla donna e sulla famiglia. Le tradizioni mussulmane sono troppo abbarbicate negli uomini del Medio Oriente perché a scardinarle basti una guerra o il progresso tecnologico che esplode con la guerra. Finché dura l’atmosfera eroica, lo stato di emergenza, può sembrare che tutto cambi: ma, quando sopraggiunge la pace, le vecchie realtà si ristabiliscono in un battere di ciglia. Lo si è visto già in Algeria dove le donne fecero la Resistenza con coraggio inaudito e dopo ricaddero svelte nel buio. Chi comanda oggi in Algeria? Gli uomini o le donne? Che autorità hanno le Rascide che un tempo piazzavano le bombe? Perfino gli ex guerriglieri hanno quasi sempre sposato fanciulle all’antica, senza alcun merito militare o politico. Maometto dura: dura più di Confucio. Sicché tutto fa credere che i palestinesi, pur essendo tra gli arabi più europeizzati e moderni, commettano in futuro la stessa scelta o ingiustizia degli algerini: «Brave, bravissime, sparate, aiutate, ma poi via a casa». Ma, sotto sotto, le loro donne lo sanno e, poiché la Storia non offre solo l’esempio dell’Algeria, corrono fin da ora ai ripari. Come? Buttandosi dalla parte di coloro che abbracciano l’ideologia della Cina maoista: cioè il Fronte Popolare di George Abash. In Cina le donne non sono mica tornate a lavare i piatti; stanno anch’esse al potere, hanno vinto. Per vincere è necessario annullare ogni sentimento, incendiare le case dei vecchi, gli ospedali dei bambini, il più innocuo supermarket? E va bene. Per vincere è necessario imbruttirsi, sacrificare i genitori, credere nel socialismo scientifico, rendersi odiose? E va bene. Ciò che conta è non ricadere nel buio come le algerine, quando la pace verrà. Ciò che conta è non rimettere il velo quando gli uomini saranno in grado di cavarsela, come sempre, da soli. Può sembrare un paradosso, e forse lo è. Ma vuotando quei due bussolotti di marmellata e ficcandoci dentro esplosivo, Rascida non fece che comprarsi il domani. In fondo le ventisette creature che essa maciullò a Gerusalemme morirono perché lei si togliesse per sempre il velo e lo trasferisse sul volto dolcissimo del suo fidanzato, l’ignaro Thaer. Amman, marzo 1970 (Tratto da Intervista con il potere, Rizzoli 2009)

"Decapitazioni e orrore, Medusa tra di noi". Il sentimento di Marco Belpoliti per il 2015. Il suo sguardo era scomparso da secoli dall’iconografia collettiva, ma le immagini con le decapitazioni dell’Isis lo hanno fatto tornare. E di nuovo ci pietrifica. Lo scopo dei carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo. Esattamente come accadeva nei supplizi precedenti l’Illuminismo, scrive Marco Belpoliti “L’Espresso” Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati un altro reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita l’intera platea televisiva occidentale. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Basta? No. Pochi giorni fa la notizia che un commando di talebani pakistani entra in una scuola a Peshawar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, per poi essere a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. L’orrifico è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso da due secoli almeno dalle piazze del Vecchio Continente ha fatto così la sua cruenta riapparizione - per quanto negli ultimi anni ci siano state molte altre decapitazioni, per esempio nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia così come in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: ma non sempre furono così platealmente visibili all’opinione pubblica, e soprattutto non prevedevano la “serializzazione” che caratterizza orrendamente le decapitazioni di oggi. Che appaiono quasi come puntate di una atroce serie, in cui ciascun episodio contiene l’annuncio del successivo. All’inizio del suo volume “Sorvegliare e punire” (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese. Nel sistema giuridico americano, dove tutt’ora esiste la pena di morte cancellata invece in Europa, ha ricordato di recente Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel Paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’Isis proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Uganda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti. In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’Isis sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Questo nonostante che nella nostra tradizione iconografica sia ben presente l’immagine della decollazione, quella di san Giovanni Battista, o quella di Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in “La testa senza il corpo” (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese. Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo pochi giorni fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino. L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’Isis vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Caravero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il suo tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio, a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro “Orrorismo” (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo che colpiscono chi è esposto a spettacoli orripilanti. Primo Levi, all’inizio della “Tregua”, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura, una forma di ribrezzo che in un libro, “Poteri dell’orrore” (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso - gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio - viene trasformato in roccia. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’Isis sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Caravero, che non il terrore. C’è un’altra figura mitologica che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei, che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una fuga dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava. Non conteneva gioielli o oggetti, ma il cadavere di suo figlio. Sebald riporta altri casi in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi dai bombardamenti. Nella disperazione, scrive l’autrice, in cui l’orrore le aveva immerse, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione. Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto – non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricordato Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi.

Fatwa e morte. Così uccidono la satira, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Si dice che quando l'uomo con la penna incontra l'uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Si dice, però. Perché la scia di sangue che ha macchiato libri, pellicole e paginate di giornale fresche d'inchiostro è ben più lunga di quella freschissima lasciata sulle vignette di Charlie Hebdo. Il settimanale che, ironia del destino, nel 2006 aveva deciso di mandare in edicola per solidarietà, insieme a numerosi quotidiani europei, anche italiani, le caricature di Maometto pubblicate l'anno prima sul quotidiano danese Jyllands-Posten e successivamente sul giornale norvegese Magazinet. In uno dei disegni, il profeta dell'Islam era raffigurato con una bomba al posto del turbante (il vignettista Kurt Westergaard da allora vive sotto costante protezione della polizia e solo per miracolo i tentativi di assassinio ai suoi danni non sono riusciti). Alla pubblicazione di quelle immagini, successe il finimondo: dall'Africa, al Medioriente, all'Afghanistan, all'Indonesia esplosero le proteste di piazza. In Nigeria morirono 130 persone negli scontri. A quel punto, il premier norvegese Anders Fogh Rasmussen all'inizio del 2006 raggiunse un accordo con la Lega Araba per la distribuzione di una lettera che era sostanzialmente di scuse e che, pur difendendo il principio della libertà di espressione, stigmatizzava la «demonizzazione» di alcuni gruppi in base all'appartenenza religiosa ed etnica. Il 30 gennaio giunsero le scuse anche del direttore del Jyllands-Posten. L'8 febbraio, una provocazione dell'allora ministro leghista Roberto Calderoli legata alle vignette incriminate, portò ad una violenta protesta in Libia e ad un attacco al consolato italiano di Bengasi, nel quale morirono 11 manifestanti. Ancor prima, il 2 novembre del 2004, c'era stato l'omicidio di Theo van Gogh, il regista olandese di “Submission”, un cortometraggio che aveva fatto scandalo nel mondo islamico per la scelta di scrivere dei versi di una sura del Corano sulla schiena della protagonista. L'assassino, Mohammed Bouyeri, in possesso della doppia cittadinanza olandese e marocchina, intercettò van Gogh nel centro di Amsterdam, esplodendo contro di lui otto colpi di pistola. Gli tagliò anche la gola e gli piantò nella pancia due coltelli, in uno dei quali era conficcato un documento contenente minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, deputata di origini somale ed autrice del film insieme a van Gogh. Il film fu ritirato e anche il produttore, Gijs van Vesterlaken, subì gravi minacce. Fino ad allora, l'unica condanna a morte nei confronti di un intellettuale inviso al regime islamico risaliva al 1989 ed era stata spiccata nei confronti dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, all'epoca già una star affermata della narrativa internazionale. Nel suo libro, “I versetti satanici”, aveva fatto allusivamente riferimento alla figura del profeta Maometto. Fu per questo che a febbraio di quell'anno l'ayatollah Khomeini emanò una fatwa nella quale condannava a morte Rushdie, colpevole, a giudizio della massima autorità iraniana, di bestemmia. I killer non riuscirono a trovarlo ma nel 1991, fu accoltellato a morte da uno sconosciuto il traduttore giapponese dell'opera, Hitoshi Igarashi; e nello stesso anno, fu ferito anche il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre nel 1993 fu la volta dell'editore norvegese del libro. Dopo la morte di Khomeini, la fatwa fu confermata nel 2005 dall'ayatollah Ali Khamenei, ma lo stesso Rushdie ammise che la condanna a morte aveva ormai un valore più retorico che reale. Anche se, nel 2012, lo scrittore fu costretto a rinunciare alla partecipazione al festival internazionale di letteratura di Jaipur, in India. I fanatici della Mecca erano tornati a farsi vivi.

Giannelli: «Non sapremo reagire La nostra società si è assuefatta al peggio», scrive “Luca Rocca su “Il Tempo”. L’uccisione dei giornalisti satirici del Charlie Hebdo, a Parigi, non sorprende Giannelli. Di una cosa il vignettista appare certo: stanno cercando di intimidirci. Ed è anche convinto, inoltre, che l’Occidente sia così assuefatto al peggio, che neanche di fronte a una strage di questa portata sarà in grado di reagire.

Giannelli, tre terroristi imbracciano un kalashnikov e colpiscono al cuore la nostra libertà.

«In questo mondo non mi stupisce più niente. La barbarie del nostro tempo supera qualsiasi immaginazione. Chi mai, fino a pochi anni fa, poteva immaginare che saremmo entrati in un tunnel così buio? Bisognerebbe scavare a fondo alla vicenda, capire le radici di questo odio, da dove proviene».

Nella sua carriera, si è mai imbattuto nell’intolleranza dell’Islam?

«Tanti anni fa, quando collaboravo con Repubblica, io e Forattini fummo convocati da Eugenio Scalfari, il quale ci raccomandò di andarci cauti con le vignette sull’Islam. Ho pensato che avesse ricevuto messaggi allarmanti. Personalmente però non ho mai ricevuto minacce».

Perché colpire la satira?

«L'integralismo islamico è intolleranza all'ennesima potenza, non riguarda solo la satira. Ma è vero che verso lo humor l’Islam ha una chiusura ermetica. Credo, però, che un attacco come quello al Charlie Hebdo rappresenti soprattutto un’intimidazione. Dopo una strage come quella avvenuta in Francia, infatti, anche se inconsciamente, prima di pubblicare un'altra vignetta contro Maometto, ci pensi due volte».

Saremo capaci di reagire?

«Io sono vecchio, ero ottimista e non lo sono più. Ho la sensazione che le reazioni della nostra società siano sempre meno frequenti. Siamo capaci di assuefarci a tutto. Ciò che un tempo ci sarebbe sembrato enorme, adesso ci appare quasi accettabile».

Quello di ieri è l’11 settembre della stampa?

«In un certo qual modo è così, ma non vedremo la stessa reazione vista dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle. E sa perché? Perché sono passati più di 10 anni, e lentamente ci siamo abituati a ogni efferatezza».

Krancic: «Per proteggere l’Islam l’Occidente si sta suicidando» , scrive “Il Tempo”. È una tappa del suicidio dell’Occidente. A dirlo, nel giorno in cui gli integralisti islamici assaltano il cuore dell’Europa uccidendo dei disegnatori di satira che la loro «libertà di matita» la indirizzavano anche contro Allah, è uno dei maggiori vignettisti italiani, Alfio Krancic, che si dice sconvolto.

Qual è stato il suo primo pensiero alla notizia della la strage nella redazione del Charlie Hebdo?

«Sono ancora frastornato. Aver colpito un settimanale simbolo della trasgressione satirica, è indicativo del clima di odio che si è scatenato verso le manifestazioni di libertà dell'Occidente».

Lei ha mai realizzato vignette sull'Islam?

«Certo, anche sull’Isis e il “califfo nero” al Baghdadi, prendendo sempre le parti di Assad, Gheddafi, Saddam. Meglio quei regimi arabi laici che salvaguardano le altre religioni e ci proteggono dal fanatismo islamico. Perché quando in quei paesi le dittature cadono, non arriva la democrazia. E lo dimostra anche l'attentato in Francia».

Hai ricevuto minacce per quelle vignette?

«No. In Italia, fortunatamente, la minaccia islamica non ha mai preso di mira la satira, ma qualche giornalista, come Magdi Allam, o qualche politico, come Roberto Calderoli, rei di avere idee non in linea con il pensiero islamico e di manifestarle come desiderano».

Perché la satira sull’Islam provoca morte?

«La colpa è anche del politicamente corretto. Corretto unilateralmente, visto che protegge alcune espressioni religiose, come l'Islam, ma non la nostra religione, il cristianesimo. Una forma sadomasochistica ha pervaso le menti dell'Occidente. Siamo persino arrivati a contemplare il reato di islamofobia. L'Occidente si sta suicidando».

Un massacro come quello di ieri può segnare la fine del multiculturalismo in Europa?

«È molto difficile. Le forze culturali e intellettuali che dominano in Europa sono troppo forti. Impediranno ad alcuni movimenti politici e culturali di prendere il sopravvento sul multiculturalismo. Al contempo, però, la strage inevitabilmente aumenterà l'intolleranza verso gli intolleranti».

Vauro: «Difendo il diritto al gioco della libertà e alla libertà del gioco», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. «La satira è tale perché da sempre sbeffeggia i potenti ed i prepotenti». Vauro, vignettista e satirico a sinistra da una vita (da Il Manifesto a Servizio Pubblico, su La7) - che trent'anni e passa fa, come racconta a Il Tempo, «ha lavorato pure al Charlie Hebdo» - il giorno dopo l'attentato dei fondamentalisti islamici al giornale satirico francese, è sconvolto ed addolorato. «Sono fuori di me, perché la satira è la libertà assoluta e nessuno deve violentarla. Mai. Perché la satira è da sempre contro tutti i tipi ed ogni forma di fondamentalismi».

Gli chiediamo cosa, secondo lui, toscano che attinge la propria ironia da Cecco Angiolieri in avanti, rappresenti per le nostre libertà ciò che è successo a Parigi.

«Si è colpita un'arte – risponde –, la satira, che è la cosa meno violenta che si possa immaginare perché qualsiasi tema affronti è sempre un gioco. C'è sempre un elemento di gioia e di poesia nell'ironia satirica e l'irruzione di una violenza così assurda e demente incarna un attentato contro la fantasia degli uomini e delle donne. È come se i terroristi assassini avessero fatto irruzione durante l'ora di ricreazione in una scuola, compiendo una strage efferata di bambini, Erodi contro ogni libertà, perché vede, la satira ha sempre una propria componente infantile. E poi devo dirle che che c'è un'altra cosa, ancora, che mi preoccupa...».

Che cosa?

«Quello che mi preoccupa è che sento già parlare di scontri e di guerre di religione. Io – aggiunge – vorrei sperare che la satira non diventi arruolabile da nessuno, mai. Vede, sui social media ieri mi sono arrivati inviti a fare vignette contro Maometto, per dimostrare di avere le palle. Ma io non credo si possa fare satira per dimostrare di avere le palle, perché la forza del ridere deve essere più forte della fine, anche della morte. Quello che voglio ostinatamente difendere, continuare a difendere, è il diritto al gioco della libertà ed alla libertà del gioco. Perché dopo l'attentato vigliacco di Parigi al Charlie Hebdo siamo tutti meno liberi. Ed anche meno felici».

Vincino: «L’Islam non c’entra? Certi soloni vadano a quel paese», scrive ancora Lenzi. «La cosa tragica e divertente, sa quale è? È ascoltare certi Soloni dire che l'Islam non c'entra niente, perché è buono e non c'entra che i killer, uccidendo, hanno gridato di vendicare Maometto, con la frase di rito "Allah akbar": ma andate tutti quanti a quel paese, ipocriti!». Vincino, vignettista de Il Foglio ed anticonformista da una vita intera, non si rassegna all'ecatombe delle libertà che si è consumata ieri nel cuore di Parigi, e alla mollezza di certe reazioni italiane ed occidentali. «Ieri hanno centrato ed ucciso un posto come verità, e non come simbolo. Perché il Charlie Hebdo era il luogo dove è nata la libertà di satira in Europa, ed anche la mia. "Il Male" con i suoi autori nacque anche grazie a loro, tutte la rubriche delle copertine rifiutate ad esempio, una colonna straordinaria con 4 vignette terribili in cui potevi mettere le cose più libere ed inimmaginabili». Poi Vincino si sofferma sulle persone, e spiega che «all'interno di Hebdo trovavi poeti veri, come Georges Wolinski, figlio di un polacco e di un'italiana emigrati in Tunisia, un poeta dell'amore e del sesso. E vedere Wolinski morire durante una riunione di satira mi commuove». Perché Vincino, sulla satira, come spiega al nostro giornale, «ha fatto un festival, a Roma, all'epoca di Nicolini. Wolinski era come tutti i veri umili, semplice e generoso. Ma liberi totalmente. E questo vale per il Charlie Hebdo, che perciò va a cozzare con le religioni. Sempre. Poi, oggi, ci sono le religioni che sono un po' più buone ed altre in alcune parti del mondo, più cattive. Cattivissime. L'Hebdo non ha mai ceduto un centimetro sulla vivisezione delle religioni, sia cattolica che islamica. Avevano capito per primi la questione della libertà poste dalle vignette pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten su Maometto, e seguite da mobilitazione contro nei paesi arabi. Roberto Calderoli, una vignetta se la mise su una maglietta sotto la giacca. Noi, comunque sia, speriamo di non finire mai in una maglietta di Calderoli ma quello che ieri è stato attaccato sono l'illuminismo e la nostra civiltà».

Ecco i nomi delle dodici vittime dell'attacco del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo:

- Stephane Charbonnier, alias Charb, vignettista e direttore;

- Georges Wolinski, vignettista;

- Jean Cabut, alias Cabu, vignettista;

- Bernard Verlhac, alias Tignous, vignettista;

- Philippe Honoré, vignettista;

- Bernard Maris, economista ed editorialista;

- Elsa Cayat, psicologa e giornalista;

- Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand;

- Mustapha Ourrad, correttore di bozze;

- Fréderic Boisseau, addetto alla portineria;

- Franck Brinsolaro, poliziotto;

- Ahmed Merabet, poliziotto.

Decapitato l’umorismo francese. Quattro celebri vignettisti tra le vittime: Charb, Cabu, Tignous e Wolinski Sull’ultimo numero la caricatura di un terrorista: «Gli auguri entro gennaio», scrive Antonio Angeli su “Il tempo”. Cinque minuti di puro terrore, un muro di piombo e fuoco: alla fine in terra, senza vita, restano in 12. Parigi e il mondo piangono il più grave e sanguinoso atto di terrorismo degli ultimi anni: sono rimasti uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite della redazione e il portiere dello stabile. Delle vittime alcuni sono celebri: vignettisti, inguaribili umoristi, di quelli che se cerchi di mettergli il bavaglio diventano più tenaci, e gli è costata cara, soni diventati bersaglio di una violenza inaudita; una strage che ricorda quella all’inizio di un vecchio film di spionaggio: «I tre giorni del Condor».

Ucciso il direttore del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo», Stéphane Charbonnier detto «Charb» , celebre disegnatore satirico, classe 1967, in passato già minacciato più volte per le vignette su Maometto, e per questo messo sotto la protezione della polizia. Non gli è servito, non è stato sufficiente. Nel numero uscito proprio la scorsa settimana c’è la sua ultima vignetta, profetica e agghiacciante, ora che si è consumato il massacro. Il titolo dell’illustrazione: «Ancora nessun attentato in Francia», sotto il pupazzetto che raffigura un terrorista islamico, con la barba e il mitra sulle spalle, che dice: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Caduti sotto il fuoco dei terroristi i tre più importanti vignettisti della testata: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia, da anni. Nell’attentato è rimasto ucciso anche l’economista Bernard Maris, azionista della testata parigina.

Jean Cabut meglio noto come Cabu , 76 anni, antimilitarista e di spirito anarchico, ha collaborato con tutte le principali testate francesi come caricaturista e disegnatore di fumetti. Attualmente disegnava sia per «Charlie Hebdo» che per il suo principale concorrente, «Le Canard Enchainé». Per «Pilote», una delle principali riviste francesi di fumetti, aveva creato il personaggio del «Grand Duduche», liceale maldestro. Era il padre del cantante Mano Solo, morto di malattia nel 2010. Charb, 47 anni, disegnatore satirico, collaborava anche con il quotidiano del partito comunista «L’Humanité» e due delle principali riviste francesi di fumetti, «Fluide Glacial» e «L’Echo des Savanes». Sue le strisce, irriverenti e al limite del pornografico, del cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Ucciso anche Bernard Verlhac, detto Tignous , 57 anni. I suoi disegni venivano pubblicati da «Charlie Hebdo», «Marianne» e «Fluide Glacial».

E poi c’era il più famoso di tutti, fumettista e vignettista noto, non solo in Francia, ma anche in Europa, per il suo caratteristico taglio caustico nel rappresentare la quotidianità. È Georges Wolinski , con «Charlie Hebdo» collaborava da anni. Nato a Tunisi il 28 giugno del ’34, Wolinski aveva esordito come disegnatore per la rivista «Hara-Kiri», dalla quale era poi passato a «Action», «Paris-Presse», «Hara-Kiri Hebdo», «L’Humanité», e infine «Paris-Match». Attualmente era anche capo redattore di «Charlie Mensuel». Wolinski aveva ottenuto la popolarità con i fatti del maggio del ’68, attraverso la rivista «Action». La sua cifra stilistica era costituita dalla capacità di porre l’accento sui personaggi, dall'ampio uso di doppi sensi, anche sessuali - tanto da farlo conoscere a molti come l'umorista del sesso - e dal taglio caustico nel rappresentare il cinismo quotidiano. Il fumettista era anche noto per avere collaborato, negli anni ’70, con Georges Pichard creando il personaggio di Paulette.

Bernard Maris era invece un professore d’economia allo Iep di Tolosa e attualmente insegnava anche all’Istituto di studi europei dell’università Parigi-VIII. Il 68enne era anche una firma per diversi giornali, come «Le Monde», «Le Figaro Magazine» e «Le Nouvel Observateur». Del settimanale satirico era stato uno dei fondatori, con l’11% delle azioni, e fino al 2008 direttore aggiunto. Era uno dei principali studiosi della globalizzazione «etica e sociale». Un grande intellettuale francese, tra le sue attività, anche la scrittura, con la pubblicazione di diverse opere letterarie.

Non tutte le firme del settimanale satirico sono state messe a tacere. È una carneficina che «ha decapitato» il settimanale, come succede in «Siria e in Iraq»: così ha reagito Bernard «Willem» Holtrop, vignettista di «Charlie Hebdo», scampato all’assalto che ricorda che le vittime «non sono dei colleghi, sono degli amici». E la carneficina del settimanale parigino ha scatenato una silenziosa, gigantesca reazione, a livello mondiale. In Francia tantissime persone sono scese in strada con un cartello: «JeSuisCharlie», «Io sono Charlie», con il chiaro riferimento alla testata. L'ambasciata americana a Parigi ha anche cambiato la sua icona Twitter in #JeSuisCharlie, in segno di sostegno alla Francia. «La libertà di espressione è un diritto umano», ha twittato Amnesty Italia.

Charlie Hebdo, una storia di satira irriverente. La testata è nota per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo, scrive “Il Tempo”. Charlie Hebdo è un settimanale satirico di tradizione libertaria, dal tono irriverente e anticonformista. Il giornale difende le libertà individuali e ha un orientamento di sinistra, fortemente anti religioso. Charlie Hebdo è noto per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. Anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia neanche i partiti di sinistra francesi. Secondo l'attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette "tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell'astensionismo".

Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Nella settimana precedente le illustrazioni avevano suscitato proteste in alcuni Paesi musulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta.

Nel 2011 la sede del giornale venne colpita da alcune bombe molotov; l'attacco fu lanciato prima dell'uscita nelle edicole di un numero con in copertina un'altra vignetta satirica con Maometto. Il sito web del settimanale fu invece preso di mira da hacker. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni '60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi "un giornale stupido e cattivo".

La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, a novembre del 1970 la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina "Bal tragique à Colombey - un mort", ossia 'Ballo tragico a Colombey, un mortò, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell'Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì.

Matite satiriche. Satiriche come le penne di sinistra che alzano le sopracciglia quando si parla di satira di destra.

Charlie Hebdo, parlano Staino, Altan, Vauro e Makkox: «La satira non si fa intimidire». Dopo l'attentato al giornale satirico francese, che ha causato dodici vittime, parlano alcuni dei più celebri fumettisti italiani. Che piangono gli amici scomparsi e dicono: "Questi omicidi devono far crescere la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo", scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. Hanno la voce rotta. Cercano le parole giuste. Promettono che nulla cambierà nel loro lavoro, ma temono che niente sarà più come prima. Alcuni dei più noti vignettisti italiani, da Staino a Altan, da Vauro a Makkox, commentano al telefono con “l'Espresso” la tragedia parigina, l'assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”.

Il dolore più grande è quello di Sergio Staino, che nell'attacco ha perduto un amico, il disegnatore Georges Wolinski. «La mia prima reazione è stata di andare a vedere se tra le vittime ci fosse Georges. Lo reputavo improbabile, visto che non lavora all'interno della redazione. E invece hanno ammazzato anche lui, significa che sapevano che oggi era prevista la riunione», racconta Staino: «Avevo conosciuto Wolinski all'inizio degli anni Ottanta, quando ero andato a visitare la redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi. Poi era stato più volte mio ospite, e aveva anche partecipato a un mio film del 1992, “Non chiamarmi Omar”, con Ornella Muti, ricordo che si era innamorato di Stefania Sandrelli». Staino, storico disegnatore dell'“Unità”, ha fatto vignette su Hamas e l'Islam politico, ma mai sulla religione musulmana in sé. Tuttavia ha sempre difeso il diritto alla libertà di espressione, anche quando, dice, «le vignette erano artisticamente di scarso valore, come quelle su Maometto, una peggiore dell'altra, pubblicate in Danimarca dallo“Jyllands Posten”». La cosa che più lo colpisce è che i terroristi abbiano voluto colpire i più deboli: «Non sono andati a colpire che ne so la Cia, ma dei vignettisti. È come attaccare la Croce Rossa, è una cosa da vigliacchi». E ora? Cambierà qualcosa nel mondo della satira? I vignettisti si autocensureranno? «No, non succederà mai», risponde Staino: «La nostra molla sono la ricerca della verità, lo sberleffo dei fondamentalisti, il dubbio, l'antidogmatismo. Questi omicidi accresceranno la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo». 

È d'accordo anche Vauro, storica matita del “Manifesto” prima e di “Servizio pubblico” e “Annozero” poi. «Non credo che reagiremo con quella forma tremenda di censura che è l'autocensura. Noi che viviamo di satira siamo, che piaccia o no, degli istintivi. In noi domina quell'elemento ludico, infantile, anche inopportuno come spesso sono inopportuni i bambini, un elemento che non si fa intimorire dalle minacce di un gruppo di intolleranti». Vauro conosceva Wolinski, e dice di essere rimasto annichilito davanti alla notizia dell'attacco. Lo hanno colpito molto anche certi inviti che gli sono arrivati sui social network, che gli dicevano «Ora disegna Maometto se hai le palle». «Io ho disegnato Maometto, e ho anche “affrescato” i muri dell'ospedale di Emergency a Kabul al tempo dell'oscurantismo talebano. Non mi farò fermare dai fondamentalisti islamici, ma non devo neanche dimostrare niente a nessuno».

Anche Francesco Tullio Altan, storico vignettista di “Espresso” e “Repubblica”, ha perso degli amici oggi. Non nasconde che ora possa diventare più difficile, per un vignettista, ironizzare sull'Islam, ma non crede che l'attacco sia da intendersi contro il mondo della satira: «Come gli attentati alle metropolitane o ai treni, questo non è che un episodio della grande guerra contro la libertà in generale». 

Makkox, infine. Il disegnatore del “Post” e di “Gazebo” ammette di aver sentito crescere in sé una rabbia davanti alla notizia. «Quei nomi, quei colleghi di cui a casa ho i libri...», dice incredulo, per poi confessare il suo tormento interiore: «Oggi cambia tutto. Questo attacco ci radicalizzerà tutti, spingerà tutti noi a essere manichei, è come una chiamata alle armi. Il discorso pubblico verrà sconvolto. Da un lato vorrei dire liberamente che non mi piacciono le vignette contro Maometto o Gesù, che non le trovo efficaci, che il problema sono l'Isis e i preti pedofili e non le religioni, però poi penso subito che un'opinione così non potrò più esprimerla, perché potrei essere accusato di stare dalla parte dei “nemici”. Dall'altra la rabbia che provo mi spinge a prendere posizione, a non tirarmi indietro». La satira si farà più cauta? «Sì farà magari meno cauta, si radicalizzerà, il rischio è che perderemo tutti un po' il senso critico, vincerà l'estremista che è in noi, mentre proprio ora avremmo bisogno di essere razionali». 

Tutti sono consapevoli dei tanti rischi che si aprono. Dice Vauro: «Quello che è successo a Parigi, una vera azione militare, non deve innescare nuove guerre, non dobbiamo inventare nuovi nemici dove non ce ne sono e generare nuovi conflitti armati». Guardando all'Italia, Staino aggiunge: «Il pericolo è ora che nella vicenda inzuppino il pane i fondamentalisti di casa nostra, la destra becera e intollerante. A destra come a sinistra abbiamo bisogno che le persone più illuminate guidino il dibattito, e aiutino la parte migliore del mondo musulmano a farsi sentire».

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Charlie Hebdo siamo tutti noi. La strage nel giornale parigino è un attacco alla nostra stessa idea di civiltà. Una sfida portata dall’estremismo fondamentalista che l’occidente deve affrontare e vincere. Perché in gioco c’è il nostro modello di convivenza, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Hanno sparato e ucciso nella sede del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ma è come se lo avessero fatto nelle case di noi tutti. Perché quelle pallottole sono idealmente indirizzate contro uno dei valori su cui si regge la nostra idea di civiltà, progresso, democrazia. È un pilastro fondativo della modernità occidentale il considerare che la satira è, deve essere, libera e nessun potere, fosse anche un potere che fa ascendere la propria fanatica legittimità direttamente da un dio, si può arrogare il diritto di imbrigliarla. “Charlie hebdo” ha avuto il coraggio di ribadirlo, nella sua gloriosa e travagliata storia (irridente anche nei confronti dei regnanti di Francia), davanti alle minacce per i titoli, gli editoriali e le vignette che hanno avuto come bersaglio l’Islam e Maometto (l’ultima, pubblicata sul sito pochi minuti prima dell’assalto, la vedete qua sotto). La vignetta di “Charlie Hebdo” con il califfo che augura: “e soprattutto la salute”Ma l’estremismo fondamentalista non tollera lo sberleffo, mette al bando il sorriso. Vuole pervadere di cupezza censoria e regolare nei dettagli la vita di sudditi da ridurre all’obbedienza. Tutto il contrario di quanto l’Europa e i suoi cittadini hanno deciso per se stessi, almeno dai Lumi in poi, da quando la libertà di espressione è diventata un diritto inalienabile accanto agli altri che definiscono la dignità degli umani. Che l’attacco a queste conquiste, a questo modo di intendere la partecipazione alla vita pubblica, avvenga a Parigi, aggiunge una suggestione simbolica che rende ancor più potente l’atto e chiama a una reazione altrettanto decisa e coesa. La capitale francese è il luogo dove i valori alla base della nostra convivenza hanno trovato la culla. Anche quello dove la laicità si è declinata in quella dottrina dell’assimilazionismo per cui coloro che abitano nel Paese sono perciò “citoyen de la République”, tutti uguali davanti alla legge secolare, con l’opportunità di esercitare il culto che preferiscono a patto che non interferisca coi supremi diritti dello Stato. Un modello di integrazione che ha coinvolto mezzo milioni di ebrei, cinque milioni di musulmani e recentemente entrato in sofferenza anche, e soprattutto, a causa di una crisi economica che ha contrapposto immigrati vecchi e nuovi e francesi delle classi meno agiate. Mai tuttavia, nemmeno nelle rivolte delle banlieue datate 2006, era stato messo in discussione l’ordine dei valori. Anzi: i disperati rivoltosi chiedevano di essere “più francesi”, di avere le stesse chance degli altri “citoyen”. ma ora che il conflitto si è radicalizzato in Medioriente, ora che lo Stato Islamico offre una terra, un credo e un irresistibile richiamo alla violenza nichilista, ecco che alcune frange esportano la guerra in Europa in un furore iconoclasta che ha l’obiettivo di radere al suolo, e a casa nostra, ciò che rende l’occidente un originale e riuscito paradigma di emancipazione. Non siamo ancora a quella catarsi catastrofista che lo scrittore Michel Houellebecq tratteggia nel suo ultimo romanzo “Sottomissione”, ma il livello dello scontro col fanatismo islamista si è alzato con “Charlie Hebdo” e merita che si aprano finalmente gli occhi. Ci si renda conto della realtà emergenziale e si chiami alla comune difesa di un modo di vivere a cui non vogliamo rinunciare, gli stessi fratelli islamici europei non infatuati del Jihad. Per fortuna, la stragrande maggioranza.

1. MOSTRARE O CENSURARE I DISEGNI DI CHARLIE HEBDO: ORA I MEDIA SI DIVIDONO. Enrico Franceschini per “la Repubblica”. Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo. «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times, definisce «editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma: «Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei redattori?».

2. MA PER L’AMERICA I DISEGNI SUL PROFETA MANCANO DI RISPETTO. Paolo Mastrolilli per “La Stampa”. L’attacco terroristico di Parigi sta spaccando i media americani. Non nella condanna dell’attentato, ovviamente unanime, ma nella opportunità di ripubblicare le vignette del periodico Charlie Hebdo, che hanno provocato la furia degli estremisti. I grandi giornali come New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e Usa Today hanno scelto di non farlo. La linea usata dai loro direttori è abbastanza simile: non pubblichiamo immagini che sono state pensate con lo scopo dichiarato di offendere la religione e mancarle di rispetto. Descriverle basta, per compiere il servizio di informazione dovuto al lettore. Questa posizione per certi versi si riflette nella prudenza che la stessa Casa Bianca aveva usato nel settembre del 2012, quando la diffusione di un video giudicato offensivo verso Maometto aveva generato proteste in molti Paesi del Medio Oriente. Era seguito poi l’assalto al consolato americano di Bengasi, che però in seguito si è scoperto essere un’operazione premeditata di un gruppo terroristico. Allora il portavoce del presidente Obama, Jay Carney, aveva commentato proprio alcune vignette pubblicate da Charlie Hebdo, dicendo che non metteva in discussione il diritto di stamparle, ma il giudizio della direzione che aveva deciso di farlo. In altre parole, la libertà di espressione andava sempre difesa, ma forse si potevano evitare le provocazioni. Più dura ancora è stata la reazione ieri del gruppo cattolico conservatore Catholic League. Il suo direttore, Bill Donohue, ha detto che «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati». Naturalmente Donohue non giustifica l’attentato, però aggiunge che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo». Questa linea non è stata condivisa da tutti, nelle redazioni dei giornali americani. La pagina degli editoriali del Washington Post, che nella tradizione dei media Usa ha una gestione separata e autonoma dalla direzione, ha pubblicato una vignetta di Charlie Hebdo, e lo stesso ha fatto l’edizione online del Wall Street Journal. Usa Today invece ha optato per mettere le altre vignette che hanno condannato l’attacco di Parigi, mentre diversi giornali hanno stampato foto in cui si vedono i disegni contestati del periodico francese. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha commentato così: «Se qualcuno vuole ammazzarti per una cosa che vuoi dire, significa che quella cosa va detta». Il dibattito dunque è aperto, fra l’opportunità di prendere decisioni editoriali che non siano apertamente mirate a creare guai, e il dovere di evitare sempre la censura e difendere la libertà.

3. PLANTU: “CONTINUEREMO A PRENDERE IN GIRO. CON LE MATITE DENUNCIAMO LE VIOLENZE”. Cesare Martinetti per “la Stampa”. E adesso? «Il faut continuer se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni. Dunque la satira vive, a Parigi, a cominciare dal grande bureau di Jean Plantu, al settimo piano di Le Monde. Il suo studio è una foresta popolata dalle sagome dei suoi personaggi, la sua scrivania un accumulo di bruillon, schizzi, prove, colori. Plantu ci mostra la vignetta che ha appena concluso per il giornale di oggi: una macchia rossa in strada, il tricolore a mezz’asta sulla tour Eiffel, la bandiera di Charlie Hebdo sull’ingresso dell’Eliseo, una Marianna in lacrime, due barbuti che si allontanano con il kalashnikov sulle spalle e il topolino (l’alter ego del disegnatore) che li guarda reggendo un cartello: «gros connards», diciamo grandi bastardi.

Plantu dal 1985 disegna la vignetta sulla prima pagina di Le Monde e dieci anni fa ha creato «Cartoonist for peace». Che fate?

«Cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati».

Nel vostro programma c’è l’impegno ad essere rispettosi dei credenti. Ci riuscite sempre?

«Ci sono mille modi di raccontare le cose, ho passato la notte qui al giornale a ricevere disegni dal medioriente, dal maghreb di tutte le religioni. C’è l’immagine seria e rispettosa e ci può essere quella un po’ folle. E noi vogliamo tentare di essere più forti degli intolleranti, essere impertinenti senza offendere i credenti. Bisogna continuare la battaglia avendo rispetto per il dolore delle persone che vivono in Iraq o in Afghanistan e smettere di dire che la guerra è lontana. No è qui, a casa nostra».

Ma se c’è di mezzo la religione tutto si complica. Come si superano queste divisioni?

«A noi non interessa sapere se Gesù Cristo ha camminato sulle acque o cosa ha fatto Maometto. Quello che ci interessa è: c’è una donna lapidata? Non è un problema di religione ma di diritti umani, e prendiamo matite e pennarelli per denunciare le violenze. E capita che ci riusciamo perché l’arte e la creatività sono sempre più forti dell’intolleranza».

Lei ora si sente un bersaglio?

«Non lo considero un problema. Io lavoro molto con le scuole. Un disegno è qualcosa che ognuno vede, se ne appropria, ci si può esprimere in mille modi, lascio la mia matita a qualcun altro. Oggi siamo con tutto il cuore con Charlie Hebdo e tutti possono firmare questo disegno, la mano è anonima».

A Charlie Hebdo qualcuno aveva passato il segno del rispetto?

«Io penso che gli artisti abbiano tutti i diritti, di disegnare e fare il ritratto di chiunque. Ciò detto siamo nel 2015, e bisogna fare attenzione perché laggiù all’angolo della strada c’è un mascalzone che aspetta soltanto che gli facciamo un regalo per liberare la sue folle armate di kalashnikov e granate. Abbiamo creato l’associazione dieci anni fa per battere l’imbecillità dei farabutti».

I quattro di Charlie erano nell’associazione?

«Solo Tignous».

4. LA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Francesco Merlo per “la Repubblica”. Non ci piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hebdo , anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo pieno diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta e disinteressata, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze dinanzi al quale, scriveva Italo Calvino «mi faccio piccolo piccolo». «Perché — aggiungeva — supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, confinando con una concezione tragica del mondo». E tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione, anche se, sbeffeggiando il profeta Maometto, più che bestemmia in senso stretto quelle caricature erano empietà aggressiva in una città, Parigi, dove tantissime jeunes filles musulmane passeggiano per gli Champs-Élysées con i capelli al vento. A Parigi sono musulmane le studentesse universitarie, le impiegate, le giornaliste, e sono arabi musulmani i grandi chirurghi e i piccoli venditori di frutta, le star del pop e i professori universitari, gli edicolanti e i camerieri dei ristoranti. Tutti laici come i calciatori eredi di Zidane e come il poliziotto finito con un colpo di Kalashnikov dal fanatico terrorista, con un accanimento selvaggio che offende tutti i codici militari e in nome di un Dio killer che svilisce qualsiasi Dio. Di sicuro al Dio macellaio la stragrande maggioranza dei musulmani francesi non crede e non crederà mai. Dunque sono un pretesto le vignette blasfeme. Se Charlie Hebdo non fosse mai esistito i terroristi avrebbero sparato in un bar, in una stazione del metrò o in un aeroporto. Le vignette sono l’alibi dell’attacco e del ricatto all’Occidente, più insidioso per noi, spaventati da una violenza irriducibile dalla quale è difficile difendersi, che per le frustrazioni nazionaliste, etniche e religiose di quella minoranza di profughi ribelli e di barbuti arrabbiati e confusi dalla quale provengono i terroristi in cerca di una scusa per uccidere. Dal punto di vista militare questo nuovo terrorismo diffuso prova a rilanciare, a partire dalla città più civile tollerante e laica d’Europa, il famoso scontro di civiltà. Ma la strage nella sede di un giornale rischia di armare di più i francesi tentati da Marine Le Pen che i francesi musulmani che, per la verità, non sono tentati né dallo Stato Islamico né da Al Qaeda. La bestemmia diventa così uno di quei dispositivi accidentali della storia, come il naso di Cleopatra per esempio. E basta guardare la felicità dei leghisti italiani e le reazioni scomposte dei fanatici delle Leghe Sante. I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane. La paura sui cui soffiano è quella dall’islamizzazione immaginata nel romanzo Sottomissione da Houellebecq, preso in giro proprio dalla copertina di Charlie Hebdo: «Le predizioni del mago Houellebecq: “Nel 2015 perdo i denti... ” (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e “nel 2022, faccio il Ramadan!”». La verità è che persino la rabbia delle squadracce di banlieue a Parigi, anche se araba e violenta, non è governata dagli integralisti islamici. E in fondo questi terroristi così barbari sono quelli che non ce l’hanno fatta, gli scarti feroci di un’integrazione che è invece riuscita, non solo in Francia. E sono due volte disadattati, sia in Francia sia nelle milizie islamiche dove devono sempre conquistarsi i quarti di nobiltà terrorista sgozzando e massacrando più degli altri. Ieri a caldo una vignetta di Charlie Hebdo mostrava un energumeno tutto bardato di nero incappucciato e sudato che entrava in Paradiso mitragliando e gridando: «dove sono le mie vergini?». Riceveva questa risposta al tempo stesso canzonatoria e malinconica: «Sono nel paradiso dei vignettisti ». Disadattato anche là. È già stato scritto che Charlie Hebdo aveva deriso, e certamente avrebbe continuato a farlo, anche i simboli delle altre religioni. E ricordo bene le natiche del Papa, il matrimonio omosessuale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la masculinità di Shiva, senza risparmiare neppure Buddha, un dio “parzialmente scremato”. Si rideva forte e facile con Charlie Hebdo, perché la scurrilità di Maometto, raffigurato prono con le stelline sulle terga, quando ti arriva sotto gli occhi, è più veloce del pensiero. E certo è ancora libertà d’espressione la violazione dei codici del rispetto delle religioni. Ma non avere stampato le bestemmie è stato il nostro codice di libertà di espressione, coniugata, ancora di più adesso che siamo tutti sotto choc, con il controllo degli istinti. La laicità e la secolarizzazione comportano infatti anche un governo dell’invocazione e dell’imprecazione: della preghiera, che non è un selvaggio rito collettivo, e della bestemmia, soprattutto del Dio altrui. Ma viviamo in una parte del mondo — ecco la differenza — dove la libertà è la cosa più importante. Non conta che gli altri la pensino come me: ma che siano liberi di pensare e di esprimere le loro idee con il solo limite del rispetto delle leggi. Ecco perché difendiamo la libertà di Charlie di esprimersi secondo la sua natura e le sue modalità, le sue libere scelte, anche quando non sono le nostre. Facciamo sapere a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunzieremo alla critica e alla satira, anche delle religioni, e non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione fisica delle bestemmie, al medioevo islamico. Anche se non diventeremo mai, come vorrebbero gli estremisti islamofobi, tutti sbeffeggiatori di Maometto.

Terrorismo islamico a Parigi: massacro al giornale Charlie Hebdo. Due terroristi fanno irruzione nella redazione di Charlie Hebdo armati di kalashnikov, poi fuggono a Reims. Tra i dodici morti c'è il direttore Charb. Un poliziotto giustiziato per strada, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Armati di kalashnikov due terroristi hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo. Cinque minuti di sangue e quello che è l'attentato più cruento commesso in Francia dal 1961, ai tempi della guerra di Algeria, fa ripiombare Parigi e l'intera Europa nell'incubo del fondamentalismo islamico. Al grido di "Vendicheremo il Profeta" due uomini incappucciati e vestiti di nero hanno fatto irruzione nella reception del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. A terra i cadaveri crivellati di colpi di dodici persone. Tra questi il direttore Stephane Charbonnier, che firma le vignette Charb, e altri sette giornalisti. Una raffica di colpi, almeno una trentina, con i mortali AK47. Dodici morti a terra e i giornalisti in fuga sui tetti. Un assalto che porta la firma della jihad islamica. La colpa di Charb e dei disegnatori di Charlie Hebdo? Aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Già nel 2011 la redazione fu distrutta da una molotov. L’attentato, che non provocò vittime, avvenne nel giorno dell'uscita del numero speciale dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia. Il titolo "Maometto direttore responsabile di Charia Hebdo" era un gioco di parole sulla sharia. Anche nell'ultimo numero non è mancata la provocazione: in copertina campeggia una foto dello scrittore Michel Houellebecq, al centro di polemiche per il romanzo Sottomissione che racconta l’arrivo al potere in Francia di un presidente islamico. A fare irruzione è stato un commando armato formato da Said e Cherif Kouachi, due fratelli franco-algerini di 32 e 34 anni legati alla rete terrorista yemenita e da poco tornati dalla Siria. Oltre a Charb i due hanno ammazzato otto giornalisti (tra questi Jean Cabut detto Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Bernard Maris e Philippe Honoré), il poliziotto Franck D., un ospite della redazione (Michel Renaud) e il portinaio. Tra gli undici feriti c'è il giornalista Philippe Lançon. Dopo il blitz sono scappati a bordo di una Seat guidata dal 18enne Hamyd Mourad. Durante la fuga hanno investito un passante e hanno ingaggiato un secondo scontro a fuoco con le forze di polizia. Immagini di violenza inaudita che sono state riprese dai tetti: l'agente Ahmed Merabet è stato giustiziato con un colpo alla testa mentre si trovava, inerme, ferito a terra. Solo dopo diverse ore le teste di cuoio dei reparti Raid sono riuscite a localizzarli a Reims. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di "attentato terroristico di eccezionale barbarie, un attentato alla nostra libertà". Un attentato che arriva a stretto giro da altri tre inquietanti attacchi al grido "Allah hu Akbar". Il 22 dicembre a Nantes, nella Francia nord occidentale, un camion è stato lanciato sul tradizionale mercatino natalizio ferendo undici persone. Nemmeno ventiquattr'ore prima a Digione, nel nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio aveva travolto la folla mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di "Allah hu Akbar". Vicende troppo simili e troppo vicine per non metterle in relazione tra loro. A queste va poi aggiunta una terza, quella di Jouè-lès-Tours dove un convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. Una scia di sangue nel nome di Allah.

Dal direttore Charb al mitico Wolinski, la strage della satira nella redazione di Charlie Hebdo. Tra le dodici vittime dell'assalto anche cinque celebri vignettisti: il direttore, il vecchio e storico creatore di "Paulette", Cabu, Tignous e Honoré, scrive Francesco Fasiolo su “La Repubblica”. Un giornale satirico simbolo della libertà di stampa e di espressione. Questo è diventato Charlie Hebdo nel corso degli anni. E per questo è tragicamente divenuto anche l'obiettivo simbolo del terrorismo. Dieci collaboratori uccisi in redazione, tra loro alcuni dei grandi vignettisti famosi ben oltre i confini francesi. Una storia cominciata nel 1960, quando nacque Hara-Kiri, definito dai suoi fondatori (tra cui Cabu e Georges Wolinski, tra le vittime dell'attentato) "un giornale stupido e cattivo", da subito protagonista di innumerevoli battaglie e censurato un paio di volte dalla magistratura francese. E' nel 1970 che lo stesso gruppo, dopo l'ennesimo scandalo (una copertina che ironizzava sulla morte di Charles De Gaulle e che costò al giornale il blocco delle pubblicazioni) diede vita al "Charlie Hebdo", riferimento al celebre Charlie Brown dei Peanuts. Da allora sono stati attacchi, sarcasmo e ironie contro la destra, ma anche la gauche, su tutti i fronti e tutti i temi.

Vignette su Maometto. È però nel 2006 che l'Hebdo diventa noto al pubblico internazionale con la scelta di ripubblicare le dodici controverse vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Immediate arrivarono le proteste di esponenti del mondo islamico, il giornale fu incriminato per razzismo e l'allora direttore Philippe Val fu assolto nel 2008 da un tribunale francese. Nel novembre 2011 esce "Charia Hebdo", il numero speciale dedicato alla vittoria degli islamisti in Tunisia. In copertina una immagine di Maometto che promette "Cento frustate se non morite dal ridere". Prima che l'edizione arrivasse nelle edicole, la sede della rivista viene distrutta da un incendio provocato da un lancio di molotov. Il numero vende 400.000 copie, il direttore Charb viene minacciato di morte e messo sotto protezione.

Le vittime. Charb era il nome d'arte di Stéphane Charbonnier, 47 anni, alla guida del settimanale dal maggio 2009. Insieme a lui, nell'attentato sono morti anche altri quattro vignettisti: Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski. E' proprio quest'ultimo il nome più noto anche fuori dalla Francia. Controcorrente e provocatorio Wolinski, nato a Tunisi nel 1934, lo è sempre stato. Gli italiani lo hanno conosciuto sin dagli anni 70, quando leggevano su Linus le sue storie dissacranti. Disegnatore e sceneggiatore, con Georges Pichard crea il personaggio di Paulette, inizialmente su Charlie Mensuel e poi protagonista di pubblicazioni autonome. La protagonista è una giovane ricchissima, che ha almeno due particolarità: è di sinistra e appare spesso, in pratica sempre, nuda o seminuda. Le sue storie sono sempre in bilico tra l'erotico e il politico, perché la ragazza, in opposizione con la sua vantaggiosa situazione economica e sociale, è pienamente calata nel clima degli anni '70, tra lotte studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, suggestioni hippy. Se in passato Wolinski è stato al centro di polemiche, accusato di immoralità o pornografia per le nudità e le tematiche trattate (tra i suoi libri "Il porcone maschilista" e "Le donne pensano solo a quello") , a 80 anni era uno dei nomi più importanti del fumetto mondiale. Una fama che gli è stata riconosciuta nel 2005, con la vittoria del Grand Prix di Angouleme, in pratica l'equivalente nel mondo dei comics dell'Oscar alla carriera, e con una grande retrospettiva del 2012 alla Bibliotheque Nationale de France, dove sono custoditi tutti i suoi archivi.  Cabu, vero nome Jean Cabut, 76 anni, era uno dei pilastri di Charlie Hebdo, sin dalla fondazione di Hara-Kiri. Il suo nome era rimbalzato sui media di tutto il mondo quando nel febbraio 2006, in piena polemica per le vignette danesi su Maometto, disegnò in copertina il Profeta che insultava i fondamentalisti. Tra i suoi lavori, molto famoso in Francia è "Mon Beauf", serie su un francese medio, razzista e maschilista. Bernard Verlhac era invece il vero nome di Tignous, 57 anni, che lavorava anche per Fluide glacial, storicamente uno dei più importanti magazine francesi di fumetti. Al suo attivo otto libri. Il più recente, intitolato "5 ans sous Sarkozy" (Cinque anni sotto Sarkozy) è stato pubblicato nel 2011. Fa venire i brividi oggi l'ultima vignetta di Charb, pubblicata sull'ultimo numero di Charlie Hebdo, mostrava un terrorista islamico sotto la scritta: "Ancora nessun attentato in Francia". "Aspettate" diceva l'uomo armato "Abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri".

Il dissacrante Charlie Hebdo, nato alla sinistra della sinistra, scrive Anna Maria Merlo su “Il Manifesto”. Il settimanale. Da sempre indipendenti, dagli industriali e dalla pubblicità. Vignette e reportage corrosivi. Non solo contro l’islam: il primo bersaglio sono state la chiesa cattolica e l’estrema destra. Cabu e Wolinski, che sono stati assassinati ieri assieme al più giovane Charb, nell’attentato che ha fatto 12 vittime nella redazione del settimanale Charlie Hebdo, sono stati protagonisti fin dagli anni ’60 dell’avventura, iniziata con Hara-Kiri, della stampa satirica libertaria francese della seconda metà del XX secolo. All’inizio, c’erano personalità come Topor, Reiser, lo scrittore François Cavanna, che hanno l’idea di pubblicare la versione francese di Linus italiano. Nel ’70, dopo varie censure di cui è vittima Hara-Kiri – l’ultima, a novembre, dopo la morte di De Gaulle, per un titolo dissacrante – il gruppo fonda Charlie Hebdo (dal nome di un personaggio di Schultz e con un riferimento ironico a Charles De Gaulle). Della prima versione di Charlie Hebdo usciranno, fino all’81, 580 numeri. Un altro numero uscirà nell’82. Nel ’92, la testata rinasce. Fa effetto oggi, di fronte agli avvenimenti, ricordare che la società costi­uita allora per il rilancio si chiamava Les Etitions Kalachnikof. Nel ’92 partecipa già Charb, che dal 2009 era diret­ore della pubblicazione. Charlie Hebdo ha radici nella sini­tra della sinistra, ma non ha mai avuto una linea editoriale precisa. La sua storia è fatta di battaglie, di scontri, di abbandoni, di ostracismi, di ritorni. E di molte polemiche, anche interne alla redazione: nel 2002, un articolo a difesa del libro La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, viene subito criticato. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ci sono prese di posizione conflittuali contro una parte dell’estrema sinistra, accusata di non aver condannato gli islamisti per antiamericanismo. Philippe Val, che all’inizio degli anni 2000 diventa direttore della pubblicazione, accusa Tariq Ramadan di essere un propagandista antisemita. Val nel 2005 difende il «sì» al referendum sul Trattato costituzionale europeo, altri difendono il «no» – che sarà vitto­rioso – sulle pagine del settimanale. Charlie Hebdo non si limita alla satira, ma pubblica anche reportage sulla società e sulle grandi questioni dell’attualità mondiale (in particolare, alla fine degli anni ’70, importanti inchieste sull’estrema destra). Oncle Bernard (l’economista Bernard Maris, assassinato anch’egli ieri) ha firmato cronache economiche sempre di grande interesse. La caratteristica di Charlie Hebdo, con le sue vignette corrosive che molto spesso hanno disturbato, è sempre stata l’indipendenza, dalle ideologie come dal denaro. «Non vogliamo ricchi industriali come azionisti – aveva detto Charb nel 2010 – e non vogliamo neppure dipendere dalla pubblicità. Non prendiamo quindi gli aiuti di Stato che vanno ai giornali cosiddetti “di deboli introiti pubblicitari”, visto che non abbiamo pubblicità. L’indipendenza, l’indipendenza totale, ha un prezzo». Charlie Hebdo ha sempre lottato contro tutti i fanatismi. Il primo bersaglio è stata la chiesa cattolica, in quanto religione maggioritaria in Francia. Le vignette sono state sempre corrosive, a volte anche con una certa pesantezza. Il settimanale molte volte è stato denunciato, dai politici, dai cattolici, di recente dai musulmani. Charb ha sempre precisato: la critica è sull’«alienazione delle fede», qualunque essa sia. Nel 2006, Charlie Hebdo pubblica le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten, arricchite da altre vignette firmate dai disegnatori del settimanale. Il Consiglio francese del culto musulmano chiede la censura del numero e sporge denuncia. L’allora presidente, Jacques Chirac, condanna le «provocazioni manifeste». Ne seguirà un processo nel 2007, dove ha testimoniato, a favore della libertà di stampa, anche François Hollande, non ancora presidente. La storia delle caricature di Maometto, che sembra all’origine del massacro di ieri, era già stata la causa di un incendio criminale di cui era stata vittima la sede di Charlie Hebdo nel novembre 2011. La redazione, allora, era stata ospitata per due mesi da Libération. Altre caricature di Maometto susciteranno polemiche e denunce nel 2012. La copertina in edicola di Charlie Hebdo questa settimana prende in giro lo scrittore Michel Houellebecq, di cui ieri è uscito l’ultimo libro, Soumission, che racconta dell’elezione di un islamista alla presidenza della Repubblica francese nel 2022.

L'attentato che spazza via le certezze della sinistra. L'attentato terroristico di Parigi è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani hanno fallito: ha risvegliato la coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Tutto, compreso quello moderato, scrive Roberto Bettinelli su “L’Informatore”. Il massacro nella redazione del giornale satirico Charles Hebdo è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani in tutto il mondo hanno fallito: ha risvegliato l’ottusa coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Michele Serra su Repubblica ha evocato «la terza guerra mondiale» sentenziando che «esiste un fanatismo islamista terrificante contro il quale l’Islam per primo è chiamato a mobilitarsi». Fino ad ora nessuno mai nel campo della sinistra, e men che meno un esponente illustre della sua intellighenzia come l’ex direttore di Cuore, si era spinto fino a pronunciare una condanna che per la prima volta varca il confine fra l’Islam moderato e l’Islam dei terroristi. Serra l’ha fatto, e nel farlo, ha sicuramente interpretato lo stato d’animo di gran parte del popolo della sinistra che è stato scosso in profondità e con una forza mai provata in precedenza dalla ferocia di un fondamentalismo che ha preso di mira un valore intoccabile come la libertà di stampa e di satira. Una reazione inedita che rivela come per la cultura politica che anima Repubblica esista una gerarchia delle libertà. E fra queste la libertà di stampa e di satira, uno dei generi prediletti dalla sinistra, siano da collocare su un gradino più alto della libertà di religione. La prova che non ci sbagliamo è che in questa occasione Serra e il giornale più letto e autorevole della sinistra italiana hanno preso posizione contro tutto l'Islam, anche quello moderato, rompendo con la lettura ideologica che li separa nettamente e che non è disposta a tollerare nessuna sovrapposizione. E sono stati costretti a farlo da una macabra beffa che cade tragicamente a poche settimane dalla risoluzione del parlamento europeo che ha riconosciuto, per iniziativa del Pse, il diritto alla Palestina di costituire uno stato autonomo. Un'azione diplomatica che sembrava assicurare la pace ma che ha contribuito a innescare la risposta dei terroristi che hanno attaccato il giornale diretto da Stephan Charbonnier, colpevole di aver ripetutamente pubblicato vignette e fumetti contro Maometto e Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo scenario non poteva essere più chiaro. Da un lato l'Europa che, sulla spinta di un’adesione incondizionata e irresponsabile al dogma del multiculturalismo, riconosce il diritto palestinese di formare un proprio stato nonostante la massiccia presenza di formazioni legate ad Al Quaeda nella striscia di Gaza e in Cisgiordania; dall’altro il terrorismo islamico che colpisce a morte una delle capitali più importanti dell’Unione Europea, uccide 12 persone tra giornalisti e poliziotti, getta nell’incubo perenne degli attentati l’intero occidente. Adesso che i ‘lupi solitari’ hanno travolto con la loro furia omicida un simbolo della libertà di stampa e di satira come Charles Hebdo, la sinistra insorge e attacca l’Islam, tutto, che dovrebbe ribellarsi e comportarsi «come fece la sinistra con le Brigate Rosse». Così suggerisce Serra stabilendo un parallelo fra quello che avrebbe fatto il Pci negli anni di piombo e quello che dovrebbero fare oggi i mussulmani che non si riconoscono nella brutalità di Al Quaeda e dell’Isis. Il consiglio di Serra è apprezzabile, ma ha l’odore fastidioso dell’ipocrisia. A sconfiggere le Brigate Rosse non fu il Pci ma furono i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa. L’Italia divenne il teatro di uno scontro spietato. Vinse lo Stato. E per un solo motivo: fra i due contendenti fu il più duro e implacabile. Lo stesso deve valere per i terroristi che ammazzano e muoiono nel nome di Allah. Ci saranno altri attentati e altri morti. L’alleanza dell’Islam moderato può essere utile ai fini della vittoria finale. Ma non può bastare. L’Europa e l’occidente, se non vogliono soccombere, non hanno altra scelta che porre fine alle illusioni di un multicuralismo che è l'esatto contrario del rispetto delle identità dei popoli. Ma soprattutto devono accettare di avere di fronte un nemico che vuole la loro fine con tutti i mezzi disponibili. E fare altrettanto. 

Charlie Hebdo, quella satira “cattiva” che disturbava i perbenisti. Il giornale francese è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani per le sue vignette su Maometto. Venne più volte chiuso e poi riaperto, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Un simbolo del giornalismo francese, un giornale nato e cresciuto negli anni 70, che si autodefiniva con ironia “bete e méchant”, bestiale e cattivo, iconoclasta, un giornale che disturbava l’opinione pubblica perbenista, capace anche di ironizzare su Charles De Gaulle il giorno della sua morte e che per questo chiuso per un po’. Nato dalle ceneri di Hara-Kiri, lanciato da Georges Bernier e François Cavanna, Charlie Hebdo è un giornale a fumetti satirico che ha fatto della provocazione la sua cifra costituente. “Journal bete et méchant”, secondo l’autodefinizione degli autori. Vi hanno lavorato negli anni caricaturisti come Francis Blanche, Topor, Fred, Reiser, Wolinski, Gébé, Cabu. Più volte chiuso e poi riaperto in seguito a denunce e a crisi editoriali. Il nome Charlie viene scelto nel 1969 quando il giornale appare sostanzialmente come versione francese dell’italiano Linus e come quest’ultimo prendi il nome da un personaggio dei Peanuts (Charlie Brown). Nel 1992 assume l’attuale identità. Il giornale è sostanzialmente espressione di una sinistra culturale. Tuttavia vi si trovano le opinioni e le posizioni più diverse e anche contrapposte. Nel 2002 aveva preso posizione a favore di Oriana Fallaci quando venne pubblicata in Francia “La rabbia e l’orgoglio”, il suo pamphlet contro i cedimenti occidentali all’islamismo. Nel 2006 CB pubblicò le famose vignette di satira su Maometto e i costumi musulmani che erano uscite sul settimanale danese Jyllands-Posten provocando manifestazioni violente di protesta in tutto il mondo islamico. Disegnatori e giornalisti danesi vennero minacciati ripetutamente. Charlie Hebdo scelse di pubblicare quelle vignette aggiungendone altre francesi per solidarietà e per marcare una linea di libertà di espressione contro tutte le intolleranze religiose. La pubblicazione provocò proteste nella comunità musulmana francese, il Consiglio del culto musulmano chiese che il giornale venisse sequestrato, lo stesso presidente della Repubblica Jacques Chirac censurò la scelta di Charlie Hebdo. Da allora il giornale – che pure tratta con articoli e vignette tutti i temi di società - è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani. Da allora un presidio di polizia era stato istituito davanti alla sede del giornale.

Charlie Hebdo, la storia della rivista già colpita per le vignette su Maometto. Il settimanale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. Pubblicato la prima volta nel 1970, scatena subito polemiche all'indomani dei funerali del generale Charles de Gaulle. Nel 2011 la sede viene incendiata, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Satirico, irriverente e anticonformista. E’ questo lo spirito di Charlie Hebdo, il settimanale francese che questa mattina è stato preso di mira da un commando di terroristi armati che hanno compiuto una strage nella sede parigina. Il giornale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. E si pone l’obiettivo di difendere le libertà individuali. La rivista è soprattutto nota per le sue vignette e illustrazioni politicamente scorrette, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. E anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia i partiti di sinistra francesi. Secondo l’attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette “tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell’astensionismo”. Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten e vendendo 400.000 copie. In Italia le vignette vennero riprese dal ministro delle Riforme Roberto Calderoli che in un’intervista televisiva indossò una maglietta con le illustrazioni, un episodio che scatenò forti reazioni popolari nel mondo arabo, culminate con alcuni morti in Libia. Il numero di Charlie Hedbo incendiò proteste violente nei Paesi mussulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta. A fine 2011, la redazione venne completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale venne attaccato dagli hacker dopo un numero speciale denominato Sharia Hebdo. Attacchi di matrice islamica, secondo gli inquirenti. Temporaneamente, la redazione si trasferì nei locali del quotidiano Liberation, per poi migrare in nuovi locali; l’attacco fu lanciato prima dell’uscita nelle edicole di un numero con in copertina un’altra vignetta satirica con Maometto. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni ’60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi “un giornale stupido e cattivo”. La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, uscì in edicola per la prima volta nel 1970, ispirato a Charlie Brown. A novembre dello stesso anno la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina ‘Bal tragique à Colombey – un mort’, ossia ‘Ballo tragico a Colombey, un morto’, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell’Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì, ha una tiratura media settimanale di 100.000 copie, con 15.000 abbonati.

Giuliano Ferrara alza i toni l’8 gennaio 2015 durante «Servizio Pubblico» su La7. Il direttore de Il Foglio ritiene che la strage di Parigi non sia "terrorismo" ma che faccia parte di un'ampia strategia voluta dal mondo islamico per «andare contro l'Occidente cristiano-giudaico». «Questa è una Guerra Santa, se non lo capite siete dei coglioni!», tuona Ferrara.

Vietato parlare di Islam, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dopo la strage di Parigi esiste ancora la libertà di stampa? Si può ancora pubblicare oppure no un’opinione anche quando questa è politicamente scorretta? Ieri tutti i quotidiani traboccavano di articoli di fondo inneggianti alla libertà minacciata dall’assassinio a sangue freddo del direttore e dei principali collaboratori di Charlie Hebdo. E però gli stessi quotidiani si guardavano bene dal prendere di petto la questione, preferendo nascondere se non cancellare la parola islam. Sulla prima pagina del Corriere per trovarla ci si doveva sottoporre a una vera caccia al tesoro. Il titolo a tutta pagina non parlava di strage islamica o di terrorismo islamico, ma di «Attacco alla libertà. Di tutti». Ah sì? E da parte di chi? Per scoprirlo bisognava leggere il sommario su una colonna: «Al grido di “Allah è grande” tre terroristi assaltano il giornale delle vignette satiriche su Maometto: 12 vittime». Per capire poi che l’islam c’entra qualcosa, l’occhio doveva cascare sull’occhiello sfumato (una colonna) che sovrastava l’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia: «Islam, la vera questione». Ecco, la notizia era lì, nell’occhiello. Solo allora si scopriva che l’islam c’entra qualcosa in quello che è accaduto a Parigi, perché Galli della Loggia scriveva che esiste un problema islam, «un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani dove nel complesso (nel complesso perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo». Questo è il punto. Ma il Corriere ha pensato bene di nasconderlo il più possibile, titolando sull’11 settembre dell’Europa, di cui peraltro nell’articolo non si fa nemmeno cenno e che comunque sarebbe sbagliato perché l’Europa ha già avuto i suoi 11 settembre con le bombe nel metrò di Londra (52 morti) e sui treni alla stazione di Madrid (191 morti). 

Vietato illudersi: l'islam è il nemico, continua Belpietro. "È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità". Sono passati dieci anni da quando Oriana Fallaci scrisse queste frasi sulla prima pagina del Corriere. La più conosciuta e stimata giornalista italiana era appena stata denunciata per vilipendio all’Islam, perché nei suoi libri e nei suoi articoli si era permessa di metterci in guardia contro il Mostro, così lo chiamava, e di mettere in dubbio la fandonia dell’Islam buono contro quello cattivo. Oriana si opponeva alla nascita della moschea di Colle val d’Elsa, sosteneva che il mondo occidentale era in guerra e doveva battersi, attaccava il multiculturalismo, la teoria dell’accoglienza indiscriminata, la dottrina cattolica che insegna ad amare il nemico tuo come te stesso. E per questo, per quel che scriveva, fu considerata pazza dall’intellighezia progressista mondiale, quasi che l’integralista fosse lei, lei armata di penna e taccuino e non gli islamici armati di esplosivi, coltelli e kalashnikov che noi abbiamo invitato nelle nostre case e nelle nostre città, consentendo loro - in virtù della libera circolazione imposta dal trattato di Schengen - di viaggiare a loro piacimento, senza controlli e con la possibilità di organizzare qualsiasi massacro. Oriana è morta da anni, ma le sue nere profezie si stanno realizzando puntuali come erano state previste. Quel che è accaduto ieri nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, una delle poche testate che anni fa difesero nel silenzio generale il coraggio della scrittrice toscana, è esattamente ciò che lei aveva immaginato.

Il lungo incubo di Coco: «Ho aperto quella porta e hanno sparato a tutti». Parla la vignettista che per prima ha incontrato i due attentatori del «Charlie Hebdo» I due boia incappucciati le hanno puntato i kalashnikov alla testa, scrive Elisabetta Rosaspina “Il Corriere della Sera”. «Faccio attenzione quando si tratta di religione. Ci penso due volte prima di fare un disegno. Ma non mi autocensuro, è fuori questione» garantiva tre anni fa «Coco» al sito della cittadina di Carquefou (Loira Atlantica) dove ogni anno, dal 2000, si organizza il festival dei caricaturisti. Era stata lei, Corinne Rey, giovane disegnatrice, allora non ancora trentenne, ma già affermata nel mondo della stampa, a disegnare il manifesto dell’happening del 2011. Un signore dalle grandi fauci che inghiotte il mondo infilzato su uno stecchino, come fosse un’oliva. È lei, Corinne Rey, la mamma cui mercoledì mattina, sotto gli uffici di Charlie Hebdo , a Parigi, i due boia incappucciati hanno puntato i kalashnikov alla testa, ingiungendole di comporre il codice d’ingresso alla sede della redazione, l’ultimo ostacolo tra i killer e le loro prede. Gli assassini non l’hanno riconosciuta come una delle firme del settimanale e, forse, l’hanno risparmiata per questo. O perché, come invece ha ipotizzato lei, non si sono accorti che scivolava al riparo di una scrivania. Ma quella carneficina resterà negli occhi della giovane donna per sempre. «Superato l’ingresso hanno sparato a Wolinski poi a Cabu. Erano seduti uno accanto all’altro. Tutto è durato cinque minuti, forse anche meno. Una pioggia di colpi», ha rivissuto poco dopo il suo incubo, parlando al telefono con i colleghi de «L’Humanité ». Sotto choc, ma anche sotto protezione, come testimone diretta e ravvicinata di quel bagno di sangue, Coco si è salvata perché era andata a prendere la figlioletta all’asilo. Come lei, è scampata al massacro anche un’altra disegnatrice della redazione decimata, Catherine Meurisse, arrivata in provvidenziale ritardo alla riunione settimanale. Catherine ha fatto in tempo a incrociare i due uomini mascherati mentre fuggivano dal palazzo e ha intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. Anche se qualche altro passante si era fermato incuriosito, convinto che si stesse girando un film d’azione. È salva Coco, anche se ha visto e sentito morire i suoi colleghi e se non potrà più togliersi dalle orecchie e dalla memoria le urla di soddisfazione dei carnefici che gridavano i nomi delle loro vittime mentre sparavano, come in un sordido appello: «Pagherete per aver insultato il Profeta».

Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», E questo è il suo vero obiettivo finale. L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa, in particolare, tiene il piede in due scarpe, scrive  di Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.

Domanda. Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?

Risposta. Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.

D. Vale a dire?

R. Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.

D. Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?

R. Centra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.

D. Ma a quale trionfalismo si riferisce?

R. Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.

D. Si riferisce a quel dibattito piuttosto animato che ha avuto in dicembre durante una puntata di Announo (in cui Luttwak, collegato dagli Usa, si toglieva l'auricolare quando parlava una giovane esponente musulmana in studio, ndr)?

R. Non mi riferisco a niente in particolare. Dico che queste persone vendono falsità a cominciare dall'etimologia stessa di Islam, che vuol dire «sottomissione», mentre loro dicono che significhi «amore».

D. Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?

R. No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.

D. Non c'è possibilità di discussione, quindi?

R. È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.

D. Sfrondare come?

R. Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.

D. Nessuno la fa, secondo lei?

R. Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.

D. E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?

R. L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.

D. Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?

R. Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.

D. Di chi parliamo?

R. Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.

D. Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?

R. Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.

Macellai islamici. Una dichiarazione di guerra all'Europa e alla libertà. Ma noi #nonabbiamopaura, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è guerra. Altro che islam buono e islam cattivo, altro che multiculturalismo come risorsa e porte aperte all'immigrazione come dovere, altro che «cani sciolti». Hanno fatto strage di giornalisti nel cuore di Parigi, cioè nel cuore dell'Europa, in nome di Allah. Qualcuno li ha addestrati, qualcuno li ha istruiti, qualcuno li ha mandati a sparare agli inermi colleghi del settimanale satirico Charlie Hebdo (la cui testata oggi è affiancata alla nostra in segno di solidarietà). E siccome loro hanno urlato, tra una raffica e l'altra, che il mandante è Allah, ecco allora io dico: per loro Allah è il capo dei terroristi che vogliono sopprimere le basilari libertà dell'Occidente. Dico che l'immigrazione selvaggia è il grimaldello per entrare nella nostra storia, nelle nostre città. Dico che non ci sarà mai possibilità di integrazione, perché come scriveva Oriana Fallaci «non è vero che la verità sta sempre nel mezzo, a volte sta da una sola parte». E non ho dubbi che la parte giusta è la nostra, quella di una «civiltà superiore» (sempre per citare Oriana) che mai si sognerebbe di alzare un dito su Crozza per le sue imitazioni satiriche di Papa Francesco. Abbiamo un problema di polizia, di servizi segreti che fanno acqua, ma prima ancora abbiamo un problema politico e culturale di soggezione (vero presidente Boldrini?) nei confronti dei nostri carnefici, passati (vedi le scuse per Guantanamo), presenti (le cautele e i distinguo di oggi) e futuri. Io odio questa gente, così come gli uomini liberi hanno odiato nazisti e stalinisti. Il problema non è farsi ammazzare, ma farlo in silenzio. È spalancare le porte di casa senza nulla chiedere in cambio al nemico che si presenta con la faccia affamata e sofferente del profugo. È rinunciare a crocefissi, presepi e tradizioni per non offenderli. È inculcare - anche da parte di eminenti cardinali della Chiesa - nei nostri bambini l'idea che Gesù e Allah pari sono. È stato rinunciare - e lo dico da laico - a inserire le «radici cristiane» nella Costituzione europea. È non capire che siamo sull'orlo di una guerra civile europea tra islamici di passaporto europeo e il resto d'Europa. Non kamikaze invasati, ma banditi con tecniche brigatiste che vogliono salvare la loro vita, togliendola agli altri in nome di Allah. Per ribadire la nostra libertà, oggi ripubblichiamo quelle vignette che sono costate la vita ai colleghi francesi, senza che una sola di esse violasse le leggi di quel Paese. A noi i terroristi non hanno mai fatto paura. Ci fanno più paura le «attenuanti culturali» con cui la nostra magistratura troppo spesso giustifica le violazioni delle nostre leggi. E il termine «inarrestabile» usato per arrendersi all'immigrazione selvaggia. Avanti così, qui di «inarrestabile» ci sarà solo la fine dell'Occidente. E a questo gioco, noi non ci staremo mai. Che piaccia o no ad Allah.

L'editoriale-shock del Financial Times: "Stupidi i giornalisti di Charlie Hebdo", scrive “Libero Quotidiano”. È una voce fuori dal coro, una presa di posizione durissima e controcorrente mentre tutto il mondo condannava la strage nella redazione di Charlie Hebdo stringendosi alle famiglie dei morti. E' quella del quotidiano britannico Financial Times, che in un editoriale sul suo sito online afferma che i giornalisti e i vignettisti della rivista satirica francese si sono comportati in modo “stupido”. Il Ft accusa il magazine, che in passato era stato già colpito per la pubblicazione delle vignette su Maometto, di aver peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione“, si legge ancora. Sui social network gli altri media offrono giornalisti e solidarietà, ma il giornale della City invece attacca chi ha con quelle vignette causato la reazione terroristica. “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi”. L'editoriale si chiede anche “quale impatto” gli omicidi “avranno sul clima politico, e in particolare le sorti di Marine Le Pen e il suo estrema destra Fronte Nazionale“.

Altro che moderati. Nel Corano i precetti dei killer. La carneficina della redazione del giornale francese mostra all'Occidente la verità che ci rifiutiamo di vedere. È il Corano a prescrivere l'omicidio contro gli "infedeli", scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo , la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale. Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia. A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten . Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov. Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo. La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso. Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza. Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto. Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto». Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam. La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia. Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.

Quell'islam moderato che dietro le quinte finanzia la guerra santa. Dai movimenti che in Italia bruciano false bandiere dell'Isis a Turchia e Qatar, che fingono amicizia con l'Occidente e danno soldi alla jihad, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Non ho mai avuto dubbi che i musulmani possono essere delle persone moderate, essendolo stato per 56 anni. Ma non credo affatto nei militanti del cosiddetto «islam moderato». Quelli che ad esempio lo scorso 21 settembre in Piazza Affari a Milano, usando uno stratagemma e ingannando il pubblico credulone compresi i giornalisti, diedero alle fiamme non la bandiera dell'Isis, che reca la scritta «Non vi è altro dio al di fuori di Allah» e «Maometto è l'inviato di Allah», bensì un drappo nero su cui avevano scritto a mano in italiano «Isis». Eppure stampa e tv hanno titolato: «I musulmani moderati bruciano la bandiera dell'Isis»! La verità è semplice: di islam ce n'è uno solo, Allah è lo stesso per i moderati e per i terroristi, Maometto è il profeta a cui si rifanno tutti i musulmani indistintamente. Bisogna ammettere che in fatto di bandiere fasulle i musulmani nostrani eccellono. Quando il 5 gennaio 2009 circa un migliaio di islamici arruolati dall'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) occuparono lo spazio antistante la Basilica di San Petronio a Bologna (che custodisce l'affresco di Giovanni da Modena con Maometto all'Inferno tra i seminatori di discordie, così come lo volle Dante), e diedero alle fiamme le bandiere israeliane, la Procura di Bologna li assolse perché erano da considerarsi «un drappo artigianalmente predisposto con un simbolo grafico», che deve essere ritenuto «un simulacro» e «un tentativo di emulazione», ma non la bandiera israeliana ufficiale! In realtà la contiguità tra i militanti del sedicente «islam moderato» e i terroristi islamici non si limita alla devozione dei nomi di Allah e di Maometto che fanno sì che la bandiera dell'Isis non possa essere bruciata, ma abbraccia l'insieme di un'ideologia che promuove la conversione all'islam, l'instaurazione della sharia e la riesumazione del Califfato. Il caso eclatante è quello della Turchia del regime islamico di Erdogan. A partire dal 2005 l'Occidente si è affidato totalmente alla Turchia nell'illusione che sarebbe riuscito a portare l'«islam moderato» dalla sua parte nella guerra contro Al Qaida. Assecondando la volontà di Erdogan, Stati Uniti e Unione Europea legittimarono politicamente i Fratelli Musulmani che sono riusciti a prendere il potere nei Territori palestinesi con Hamas, in Tunisia con Ennahda, in Libia e in Egitto, mentre in Siria hanno scatenato la guerra del terrore contro Assad. Ebbene la verità è che i turchi sono presenti in massa al vertice e nelle fila delle organizzazioni terroristiche, 2000 in seno a Jabhat al Nusra, affiliata ad Al Qaeda in Siria, e 3000 in seno all'Isis, forti del sostegno di Erdogan che fornisce loro assistenza militare, cure mediche e denaro in cambio del petrolio estratto nello «Stato islamico». Altro caso significativo della contiguità tra l'«islam moderato» e il terrorismo islamico è quello del Qatar, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo e dei gruppi terroristici affini in Siria, Libia e Tunisia, particolarmente impegnato negli investimenti in Europa come copertura alla più massiccia campagna di costruzione di moschee. Soltanto in Italia, a fronte dell'acquisto di alberghi di lusso, il St. Regis e l'InterContinental a Roma, il Gallia a Milano, il Four Seasons a Firenze e i resort sulla Costa Smeralda, il Qatar Charity Foundation ha donato 6 milioni di dollari ai centri islamici in Sicilia, mentre altre decine di milioni di dollari sono state donate - così come si legge sul suo sito - ai centri islamici a Saronno, Colle Val d'Elsa, Frosinone, Lecco, Roma, Ferrara, Bergamo, Sesto San Giovanni, Modena, Città di Castello, Vicenza, Verona, Torino, Mortara, Olbia, Mirandola, Taranto, Milano, Argenta (Ferrara), Gavardo (Brescia), Quingentole (Mantova). La verità è che il loro jihad, la guerra santa islamica, si traduce comunque nella nostra sottomissione: noi «perdiamo la testa» sia quando i terroristi ci decapitano, sia quando i «moderati» ci condizionano a tal punto da impedirci di usarla per salvaguardare la nostra civiltà.

Il predicatore radicale Choudary: "L'islam non crede alla libertà di pensiero". Dopo l'attacco a Charlie Hebdo difende l'idea che ci debbano essere dei limiti. "Le conseguenze sono note a tutti", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". La pensa così Anjem Choudary, un predicatore radicale tra i più ascoltati in Europa, intervistato su queste pagine alcuni mesi fa da Barbara Schiavulli, per un reportage nell'Europa estremista. Dopo l'attacco contro la redazione del Charlie Hebdo, in cui sono morte dodici persone, tra le quali giornalisti e il direttore del magazine satirico, ha riassunto in una lettera pubblicata da Usa Today il suo pensiero sui fatti, in netta contraddizione con opinioni molto più moderate espresse da altri imam e fedeli musulmani. "Persino i non musulmani che sposano l'idea della libertà di pensiero sono d'accordo sul fatto che comporti delle responsabilità", scrive Choudary, che ammonisce: "Le potenziali conseguenze dell'insultare il Messaggero Muhammad sono note a musulmani e non musulmani". Parole che suonano come un tentativo di giustificare fatti impossibili da legittimare. "Proprio perché l'onore del Profeta è qualcosa che tutti i musulmani vogliono difendere, molti prenderanno la legge nelle proprie mani", aggiunge il predicatore radicale, che ricorre poi a un argomento molto utilizzato da chi si colloca su posizioni estremiste come le sue. "I governi occidentali sono contenti di sacrificare libertà e diritti quando complici di torture e rendition - scrive - o quando limitano la libertà di movimento ai musulmani, sotto le mentite spoglie della difesa della sicurezza nazionale". E al governo francese chiede perché "mettere a rischio i propri cittadini" continuando a provocare il mondo islamico, come accusa il Charlie Hebdo di avere fatto. Parole, quelle del predicatore, che stupiscono fino a un certo punto. Già in passato aveva lodato gli attentatori dell'11 settembre e al Giornale aveva detto: "Bin Laden è il nostro eroe. Purtroppo è morto, ma la lotta continua anche senza di lui".

Chi l'ha visto il servizio pubblico sulla carneficina dei giornalisti? La figuraccia della Rai, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Il servizio pubblico della Rai? Chi l'ha visto?. Ma anche L'apprendista stregone e Che Dio ci aiuti . Sono i programmi trasmessi nella serata della strage terroristica di Parigi, definita da molti osservatori l'11 settembre dell'Europa. Niente speciali, zero edizioni straordinarie. Titoli che, riletti oggi, svelano un sapore autocritico verso quella che è una delle pagine più nere dell'informazione pubblica. Facevi zapping da un canale all'altro, mercoledì sera, e trovavi un programma di cronaca nera, un film qualsiasi, su Raiuno addirittura la replica di una fiction. L'informazione può attendere. E il famigerato approfondimento, totem dei talk show che sgomitano quotidianamente nei nostri teleschermi, può mettersi in fila. Senza spingere. Quando invece ci sono dodici morti causati da un atto terroristico nella redazione di un giornale della capitale francese, tutti assenti. In vacanza o chissà. Dopo i tg che hanno conquistato ascolti ben al di sopra della media, lo Speciale TgLa7 di Enrico Mentana è stato un approdo obbligato come lo zapping sulle reti all news , a cominciare da Rainews24 , la più solerte fin dal mattino a rendersi conto della gravità dell'accaduto. Su Mediaset, Retequattro ha aperto una lunga finestra dopo il tg con Mario Giordano e Paolo Del Debbio, mentre Matrix di Luca Telese è andato in onda in edizione straordinaria. In Rai solo a notte inoltrata arriverà uno spezzone di Porta a Porta nel tentativo di tamponare una falla gigantesca. Ma dopo il collegamento con Di Bella e le dichiarazioni del ministro Alfano, vedere Gigi D'Alessio e Lina Sastri commuoversi per la scomparsa del povero Pino Daniele aveva un inevitabile effetto-extraterrestre. Servizio pubblico latitante. Lacunoso. Ritardatario. Sui social network è un diluvio di proteste, di lamentele contro un canone - il cui pagamento la Tv pubblica ricorda in questi giorni con petulanza - purtroppo non corrisposto da servizi all'altezza in un momento storico come questo. Il ritardo sulla notizia si è accumulato fin dalla tarda mattinata quando, come ha notato tal Nicolino Berti su Twitter , «solo Raitre in edizione straordinaria su Parigi, Raiuno deve prima far scolare la pasta alla Clerici». I telegiornali Rai hanno fior di corrispondenti nella Ville Lumière, anche uno di lunga esperienza come Antonio Di Bella. Ma quella di mercoledì 7 gennaio, prima giornata post-festività, rimarrà una pagina buia. Il giorno dopo, la polemica infiamma. Il sindacato dei giornalisti Rai si straccia le vesti («Come si può parlare di riforma se poi di fronte a una vicenda di questa portata, il servizio pubblico non reagisce mettendo in campo almeno su una delle tre reti uno speciale di prima serata?»). Proteste arrivano da quasi tutte le forze politiche che hanno deciso di chiedere spiegazioni al dg Luigi Gubitosi. Riflessi appannati dai troppi dolciumi nelle calze della befana? Sottovalutazione dell'accaduto? Disabitudine alle dirette su fatti internazionali? Intoppi o veti burocratici sembrano da escludere. Non risulta, infatti, che siano state avanzate richieste di modifica dei palinsesti della prima serata dai vari direttori di rete o di testata ai quali compete la valutazione degli avvenimenti. Spostare la replica di Che Dio ci aiuti non sarebbe stato difficile nemmeno per i vertici di Viale Mazzini. Ora, dopo l'ennesima giornata nera, ci si augura che qualcosa cambi. E che Dio aiuti la Rai.

Toh, sui giornali i terroristi non sono più «islamici», scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. I «terroristi islamici» non esistono. Oggi vengono occultati dai mezzi di comunicazione di massa con l'eufemismo «jihadisti». Ma quanti italiani sanno che cosa significhi «jihadisti» o «jihad»? Il motto dei Fratelli musulmani evidenzia il significato più genuino del jihad : «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra aspirazione massima». Il divieto di usare il termine «terrorismo islamico» fu formalizzato nel 2006 (...)(...) dall'Unione europea. È sconvolgente il fatto che mentre i terroristi islamici sgozzano, decapitano e massacrano in ottemperanza ai versetti coranici e ai detti e fatti attribuiti a Maometto, l'Occidente - pur di negare l'evidenza - si sia spinto fino a «scomunicare» i terroristi islamici. Lo scorso 14 settembre, dopo la decapitazione dell'ostaggio britannico David Haines, il premier Cameron ha detto che i terroristi islamici dell'Isis «non sono musulmani ma mostri», «dicono di fare questo in nome dell'islam. È assurdo, l'islam è una religione di pace». Anche il presidente americano Obama, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu lo scorso 24 settembre, ha scagionato l'islam: «Gli Stati Uniti non saranno mai in guerra contro l'islam. L'islam insegna la pace». Ma lo sanno Obama e Cameron che il capo supremo del sedicente «Stato islamico», l'autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, oltre ad essere musulmano ha un dottorato di ricerca in Scienze islamiche? Secondo loro questi tagliatori di teste se non sono musulmani che cosa sarebbero? Di quale islam parlano? Il Corano è unico e di Maometto ce n'è solo uno. Il vescovo di Mosul, Emile Nona, intervistato da l'Avvenire lo scorso 12 agosto, ha detto che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam». Eppure il 23 ottobre, sotto l'egida della presidente della Camera Laura Boldrini, la stampa cattolica ( L'Avvenire , Famiglia Cristiana e la Fisc), hanno promosso la campagna «Anche le parole possono uccidere», in cui si denuncia anche l'uso della parola «terrorista» in rapporto ai musulmani. Sempre la Boldrini aveva sponsorizzato nel 2007, da portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, la «Carta di Roma», in cui si chiede di sostituire la parola «clandestino» con «migrante». Ebbene, dopo che nessun mezzo di comunicazione di massa usa più la parola «clandestino», ci ritroviamo in un'Italia in cui la clandestinità non solo non è più reato ma in cui risorse nazionali sono spese per favorire l'auto-invasione. Inevitabilmente accadrà lo stesso con l'abolizione della parola «terrorista islamico». Già oggi i terroristi islamici con cittadinanza europea, che rientrano dopo aver ucciso, sgozzato e decapitato in Siria e Irak, vengono accolti con la disponibilità riservata al figliol prodigo della parabola evangelica. Consentiamo che nelle moschee e sui siti Internet si predichi l'odio e la violenza nei nostri confronti, concependolo come libertà d'espressione fintantoché non si traduce concretamente nella nostra morte. Di questo passo finiremo per giustificare i terroristi islamici fino a legittimarli, sottoscrivendo noi stessi il nostro suicidio e la fine della nostra civiltà.

L'unica paura della sinistra? Che vincano gli "islamofobi". Dal Pd agli intellettuali progressisti il grande timore non è per la diffusione del radicalismo omicida islamico, ma per la crescita di consensi della destra, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una minaccia paurosa, un nemico dentro casa, travestito da anonimo cittadino ma pronto a colpire con la forza cieca dell'odio: è lui, l'«islamofobo». Sì c'è qualche terrorista islamico armato di kalashnikov e lanciarazzi che stermina innocenti, ma il vero problema, il vero pericolo che corrono Francia, Italia ed Europa, adesso, più che l'ascesa degli islamisti, è l'ascesa dei terribili «islamofobi», che con la scusa degli sterminii in nome di Allah rischiano di prendere parecchi voti, e questo l'Occidente non può accettarlo. Bernardo Valli su Repubblica , in un commento a caldo sui dodici morti di Charlie Hebdo, ha subito ravvisato, con un brivido lungo la schiena, il vero rischio implicito nell'attentato: «Attizzare l'islamofobia». Un pericolo da combattere con uno spiegamento di forze speciali, intelligence, ed editorialisti istruiti per educare il volgo, che sennò si impressiona e poi vota male. Scende in campo anche Federico Rampini, sempre sul giornale di De Benedetti, con la domanda che in queste ore attanaglia l'Europa dopo gli attentati jihadisti e le minacce di nuovi morti: «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». Cioè la domanda non è «E adesso come ci difendiamo?» o «Adesso che fare con il radicalismo islamico», ma «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». La sconvolgente conseguenza politica della carneficina, osserva l'esperto di esteri di Repubblica , è infatti che si rafforzano «i partiti xenofobi in tutta l'Europa», mentre sarebbe bene si rafforzasse il centrosinistra che piace più a De Benedetti. Adesso «una vittoria di Marine Le Pen nella corsa all'Eliseo è più probabile», mentre la Lega Nord e le formazioni «anti-immigrati» in ascesa ovunque «raccoglieranno più consensi». Ci sarebbe da arrestare i terroristi solo per il favore fatto a Le Pen e Salvini. Terrorizzato anche Khalid Chaouki, deputato Pd di origine marocchina, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d'Italia : «Questa tragedia rischia di trasformarsi in un'occasione d'oro per l'estrema destra francese e italiana e per gli ambienti antislamici - scrive preoccupato su Il Garantista - Temo che Marine Le Pen non si lascerà sfuggire l'occasione di cavalcare l'ondata emotiva francese e soffiare sul fuoco pericoloso dell'islamofobia; perciò è doveroso ribadire con forza che noi siamo contro il terrorismo di qualsiasi matrice ma anche contro l'islamofobia, che ne è l'altra faccia». Le feroci cellule islamofobe, fagocitate dai famosi «ambienti antislamici». Gente pericolosa da cui difendersi. Nessun problema culturale di integrazione dell'Islam trova invece l'ex ministro (per mancanza di prove, direbbe Dagospia ) Cécile Kyenge, miracolata da un seggio all'Europarlamento, che invece ravvede una seria minaccia nei fondamentalisti delle brigate Salvini, riconoscibili dalle felpe: «L'unico problema culturale lo ha creato chi come Salvini e la Lega Nord avvelena la società con i suoi proclami di odio e emargina il diverso, stigmatizzandolo» spiega l'ex ministra di origine congolese, che poi mette sullo stesso piano l'Isis e la Lega Nord. «Dobbiamo fermare tutti i moderni califfi fomentatori di odio, inclusi i nuovi professionisti dell'odio politico» come l'odiato Salvini. Sempre dal Pd è il giorno di Lia Quartapelle, giovane promessa di partito alla Farnesina e poi sfumata, che su La7 ha ripetuto la vecchia storia sulle paure sfruttate dagli estremisti di destra, «che fanno lo stesso gioco dei terroristi», mentre «nessun terrorismo è di matrice religiosa». Tutti allievi, però, di Laura Boldrini, che vorrebbe persino epurare il dizionario: «la parola “clandestino” - spiegò - andrebbe cancellata, è carica di pregiudizio e negatività». Gli islamofobi, invece, direttamente ai campi di rieducazione.

A Servizio Pubblico l'islam che sta coi macellai di Parigi: "Fascisti, se la sono cercata". Gli inviati di Santoro nelle banlieue francesi danno voce alla rabbia dei musulmani: "Hanno fatto bene ad ammazzarli, erano razzisti", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È la storia di due ragazzi di banlieue sprofondati nell’abisso dell’estremismo e del terrore. Sono Cherif e Said Kouachi, i due franco-algerini di 32 e 34 anni, che ieri hanno insanguinato la Francia nella strage contro Charlie Hebdo.  Eppure, il primo era ben noto all’antiterrorismo di Parigi, condannato nel 2008 per aver partecipato alla filiera delle Buttes-Chaumont, cellula islamica del nord della capitale che tra il 2003 e il 2005 era impegnata nella recluta di combattenti per al Qaeda in Iraq. Ed è proprio in queste banlieue che, ieri sera, Servizio Pubblico ha portato le proprie telecamere. Nel salotto di Michele Santoro va in scena il volto violento dell'islam. "Hanno fatto bene ad ammazzarli - tuona un intervistato - erano razzisti". "Non sono stati gli islamici - fa eco un altro - è tutta una trappola". La strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo fa da margine. Eppure le dodici persone ammazzate gridano ancora vendetta. I jihadisti che le hanno fatte fuori a colpi di kalashnikov sono ancora a piede libero. E a Servizio Pubblico c'è pure chi li giustifica, chi li difende, chi è pronto a stare dalla loro parte. Dalla parte dei violenti. Per Santoro, invece, è l'occasione buona per invitare i francesi a non votare il Front National di Marine Le Pen. Perché, a conti fatti, l'unica paura della sinistra è che alla fine vincano i partiti che loro considerano "islamofobi". Dal Partito democratico all'intellighenzia progrsessista non c'è una voce che grida contro il violento diffondersi dell'estremismo islamico. Sono tutti concentrati a tuonare contro la destra che, dall'Italia alla Francia, vede crescere i propri consensi di giorno in giorno. Eppure gli stessi servizi trasmessi dagli inviati di Servizio Pubblico parlano chiaro. Il quartiere di Saint Denis è la fotografia della polveriera su cui siede l'intera europa. Qui la concentrazione di immigrati è altissima. La stragrande maggioranza sono di fede islamica. E sono pronti a difendere, anche davanti alle telecamere, il massacro alla redazione di Charlie Hebdo. "Adesso daranno la colpa a noi - si lamenta un giovane - è sempre così". "Se è successo quello che è successo - fa eco un altro - è perché qualche colpa quelli di Charlie Hebdo ce l'hanno avuta". E ancora: "Se si offende il Profeta è naturale che qualcuno si vendichi". Mentre nelle piazze parigine si manifesta al grido Je suis Charlie, a Saint Denis di solidarietà per le dodici persone ammazzate non c'è spazio. Anche a Reims, città dei fratelli Said e Cherif Kouachi, la musica è la stessa. Nel quartiere di Croix Rouge, dove vivevano i due terroristi islamici, sono molti disposti a difenderli: "Li conoscevo, non sono terroristi". "Non possono essere stati loro - assicura un altro - è tutto un complotto".

Non eravate americani, ora non siete Charlie. Ieri come oggi dichiararsi tutti paladini della libertà è una menzogna vigliacca. Perché abbiamo rinunciato da tempo alla certezza di stare dalla parte giusta, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Bugiardi, quelli che dicono o scrivono «Siamo tutti Charlie Hebdo». Mentono ora, come hanno mentito quasi 14 anni fa, quando scrivevano o dicevano «siamo tutti americani», all'indomani dell'11 settembre. È una vigliacca menzogna e qui non si parla del sentirsi oggi paladini della libertà di stampa e di satira. Qui si parla di molto di più. Dell'Occidente che si mette sul petto o sull'account dei social network lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta. Ci abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato che passasse la filosofia dei «distinguo». Il fanatismo islamico non conosce differenze: colpisce Stati e persone, militari e civili, cultura e satira. Uccide senza pietà, come ha fatto a Parigi. E la nostra risposta è il dubbio che in fondo ce la siamo cercata. O di più: che magari ci sia sotto la complicità o la manina di chissà quale potere o servizio segreto. La teoria del complotto sulla strage di Charlie Hebdo adesso appartiene a Beppe Grillo, ma presto penetrerà un pezzetto alla volta esattamente come è accaduto 14 anni fa per le Torri Gemelle. È uno dei sintomi della nostra sconfitta preventiva, questo. Aiuta la rimozione, la presa di distanza dall'evento che sconvolge le nostre coscienze nell'immediato, ma poi passa via. Il paragone con l'11 settembre sta in questo: è un ricordo sbiadito, una memoria residua, una rievocazione appannata. Dov'è finito il «siamo tutti americani» del giorno dopo? Non c'è: è sparito così in fretta da non lasciare più spazio nemmeno alla retorica. Quattordici anni sono pochi per ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, eppure non c'è un altro fatto che sia diventato passato con la stessa velocità. Sembra che l'Occidente abbia un pudore tutto suo ad alimentare la memoria e a piangere i propri morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Ricordiamo ossessivamente il 25 aprile, nonostante molti di noi non fossero neanche nati quel giorno e invece dimentichiamo l'11 settembre che invece abbiamo vissuto in diretta. Il secondo sintomo della nostra sconfitta sta nell'incapacità di accettare che a una guerra sporca si risponde con leggi straordinarie e a volte anche con qualcosa che sta al confine con la legge. L'hanno fatto tutti i Paesi occidentali quando hanno battuto il terrorismo domestico. Con il terrore internazionale no. Di più, abbiamo messo in discussione tutto: l'apertura di Guantanamo, gli interrogatori ai presunti terroristi, gli arresti dei sospetti. Abbiamo fatto passare i servizi segreti di tutto il mondo per criminali. Abbiamo rinunciato di fatto alla guerra in Afghanistan, convinti che i presupposti fossero sbagliati. Così via alla guerra del drone che ha pulito molte coscienze, ma in realtà ha fatto molti più morti. Anche la clamorosa campagna di autocritica sulle torture è stata un errore colossale. Noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i governi avessero usato o usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? No. Anzi, forse è il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. I fondamentalisti attaccano nel centro di una metropoli europea con i kalashnikov e noi applichiamo leggi ordinarie? Non abbiamo capito. Non capiamo. Non capisce soprattutto la politica, assente da 14 anni nel dibattito sulla guerra al terrorismo. Guardate l'imbarazzante reazione dell'Europa ai fatti di Parigi: non una sola voce comune, né tantomeno una voce forte di condanna o di presa d'atto che si tratta di una guerra dichiarata sul nostro territorio. L'Europa non esiste, punto. E più che sull'euro, sulla crisi, sull'austerità, lo dimostra sul terrorismo. Siamo in balia della nostra apatia e della nostra ideologia remissiva: la verità è che ci siamo autoconvinti che l'Occidente sia colpevole. Le immagini di Parigi hanno fatto rimbalzare quelle di Londra 2013, quando due inglesi di origine nigeriana uccisero sgozzandoli due agenti nell'indifferenza collettiva. Nessuna reazione. Paura, punto. L'Occidente si protegge chiedendo scusa. Perché? Ci siamo dimenticati che non siamo noi quelli dalla parte sbagliata. Ci siamo dimenticati che noi siamo le vittime.

Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci. L'odio per l'Occidente, il fallimento dell'integrazione: in queste righe sembra di leggere la cronaca di oggi, scrive Oriana Fallaci su “Il Giornale”. Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma, com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:

Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare". Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.

"La forza della ragione" (2004) voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.

Oriana Fallaci intervista se stessa (2004).  “Scrivere per libertà e disobbedienza”: è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l’Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un’accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.

Un atto di giustizia rileggerli oggi che il quadro è ancora più chiaro e molti, che le davano della pazza, sono costretti ad ammettere che invece ci aveva visto giusto.

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Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l'Orgoglio . Continuai con La Forza della Ragione . Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse . I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia.

Il nemico è in casa. Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be', il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel-nostro sistema sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.

Il crocifisso sparirà. Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.

Dialogo tra civiltà. Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.

Una strage in Italia? La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.

Multiculturalismo, che panzana. L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.

Conquista demografica. Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.

Addio Europa, c'è l'Eurabia. L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.

Integrazione impossibile. La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».

L'islam moderato non esiste. Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro Ragione.

Ecco cos'è il Corano. Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.

La Parigi della Fallaci capitale d'Eurabia e dei collaborazionisti. Nella Trilogia, molti passi sulla Francia ormai contro-colonizzata dall'immigrazione musulmana. Colpa (anche) degli intellettuali,, scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Secondo Oriana Fallaci, Parigi era la capitale d'Eurabia. Quest'ultimo termine, introdotto nel dibattito dalla storica Bat Ye'Or (in Eurabia , Lindau), descrive il futuro del Vecchio Continente dilaniato al suo interno dallo scontro con l'islam. Alla radice ci sono gli accordi di cooperazione tra Europa e Paesi arabi firmati negli anni Settanta. L'Europa avrebbe fornito tecnologia ai Paesi arabi in cambio di greggio e manodopera. Si teorizzava la necessità di una forte immigrazione, presto diventata accesso incontrollato, verso le nostre sponde. La massiccia presenza di stranieri in Europa, secondo la Fallaci, era il cavallo di Troia di una colonizzazione al contrario. Rileggiamo La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004). Per i difensori dell'Occidente, Parigi è persa. «Non è facile avere coraggio in un Paese dove esistono più di tremila moschee» e i musulmani sono così numerosi (ben oltre l'ufficiale dieci per cento della popolazione). In Francia «il razzismo islamico cioè l'odio per i cani-infedeli regna sovrano e non viene mai processato, mai punito». Gli imam dichiarano di voler sfruttare la democrazia «per occupare territorio» e sovvertire le leggi laiche in favore della sharia. L'antisemitismo è in crescita. I quartieri di troppe città, stravolte dal cambiamento demografico, hanno perso l'identità francese per acquisire quella magrebina. Di fronte a queste tesi, l'intellighentia scese compatta in campo per screditare la Fallaci. La giornalista fu tra i primi, in Europa, a sperimentare strumenti ed effetti del politicamente corretto. Ripercorriamo questa vicenda esemplare. La Rabbia e l'Orgoglio (Rizzoli) esce a Parigi nel maggio 2002. Mentre la prima tiratura di 25 mila copie va esaurita in due settimane, gli intellettuali si esibiscono sui giornali. Ad aprire la polemica è il settimanale Le Point . Secondo il filosofo Bernard-Henri Lévy, il libro della Fallaci è paragonabile alle peggiori opere antisemite come Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline: «È un libro razzista. Con meno talento, è un Bagatelle antiarabo». Stessa linea per Françoise Giroud su Le Nouvel Observateur : «La Fallaci tocca nel lettore qualcosa di profondo, d'inconfessato, che egli negherà sempre di aver pensato ma che queste pagine cariche di odio e di disprezzo rischiano di illuminare brutalmente». Il sociologo Gilles Kepel su Le Monde imputa al libro di aver sancito la vittoria di Osama bin Laden, trascinando l'Occidente sul campo della reazione isterica. Una voce fuori dal coro? Charlie Hebdo ammette la verità di fondo del libro. Ma anche il settimanale satirico, di fronte alla reazione dei lettori, è costretto a «ritrattare» (in parte). All'inizio di giugno, la Fallaci risponde sul Corriere della Sera . L'articolo Eppure con la Francia non sono arrabbiata è accompagnato da brani composti in francese per La Rabbia e l'Orgoglio e ora tradotti in italiano. In breve: la specie tutta europea dei «voltagabbana» (o collaborazionisti) trova la sua origine e massima espressione in Francia fin dal Medioevo. Tra i voltagabbana più abili nello schierarsi sempre dalla parte vincente, ci sono gli intellettuali. Oggi ha vinto il politicamente corretto. E quindi... «Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi». Gli intellettuali hanno rimpiazzato l'ideologia marxista con la «viscida ipocrisia» che «in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori». La cultura è il regno delle mode. La moda «o meglio l'inganno che in nome dell'Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani». La moda «o meglio la demagogia che in nome dell'Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo». La moda «o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini “operatori ecologici”». La moda «o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce “tradizione locale” e “cultura diversa” l'infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani». La moda di magnificare le conquiste culturali dell'islam per farlo apparire superiore all'Occidente. E infine la moda «che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine “razzismo”. Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso». Passano dieci giorni. Tre associazioni francesi denunciano la Fallaci per islamofobia e incitazione al razzismo. Era accaduto, poco prima, anche a Michel Houellebecq, a causa dei duri giudizi sull'islam contenuti nel romanzo Piattaforma (Bompiani) e ribaditi in un'intervista. Il tribunale di Parigi assolve la Fallaci mentre La Rabbia e l'Orgoglio supera le duecentomila copie. Quanta fatica sprecata per liquidare la Fallaci. Oriana guardava lontano mentre gli intellettuali non si sono accorti dei processi storici e delle ideologie di morte che hanno davanti agli occhi.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. L i chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera , nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

La guerra siriana si combatteva in Italia. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista con obiettivo soprattutto i cristiani. A rivelarlo è un'indagine della polizia e dai magistrati anti-terrorismo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un piccolo spezzone della guerra civile siriana si è combattuto in Italia. Ma era ancora troppo presto per capirlo. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista: ferimenti, aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, devastazioni, minacce e intimidazioni. Le vittime appartengono alle minoranze politico-religiose più perseguitate dalle milizie islamiste in Siria: le violenze in Italia hanno colpito soprattutto cristiani. A rivelarlo è un'indagine, avviata dalla polizia e dai magistrati anti-terrorismo di Milano, che viene ricostruita in un articolo del settimanale “l'Espresso”. Da quando è esplosa la guerra civile in Siria, le forze di polizia di tutti i Paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare le partenze degli estremisti verso i fronti di guerra. A Milano la Digos ha messo sotto controllo, in particolare, un gruppo di siriani residenti da anni tra Milano, Como e Monza: spariti dall’Italia, sono ricomparsi, mitra in pugno, in una serie di foto e video pubblicati su Internet tra febbraio e luglio del 2012. Solo a quel punto la polizia, ricostruendo le loro precedenti attività in Italia, ha scoperto che quegli stessi jihadisti siriani avevano già colpito, segretamente, anche a casa nostra. L’unica azione visibile si è svolta nella notte del 10 febbraio 2012 nel centro di Roma: un plotone di oppositori siriani ha dato l’assalto all’ambasciata di Damasco, che è stata occupata e devastata. Quel raid di protesta contro il regime del presidente-dittatore Bashar El-Assad è stato organizzato proprio dal gruppo di estremisti che poi sono partiti per la guerra in Siria. Nei mesi successivi le indagini della polizia hanno collegato alla stessa cellula jihadista molte altre azioni violente, mai denunciate per paura. Tra le vittime, due siriani di fede cristiana, che gestivano un bar a Cologno Monzese. Il loro locale è stato devastato nell'estate 2011 da un commando di oltre trenta uomini armati di bastoni e spranghe di ferro. Sulla saracinesca è poi comparsa una scritta in arabo: «Per tutti i siriani: quelli che sono a favore del presidente devono stare attenti. In Siria ci penseremo noi. Quelli che ammazzano nel jihad, vivono con Dio». Nella primavera 2012, dopo altre gravi intimidazioni, i due cristiani hanno ceduto il bar e si sono trasferiti. Un altro agguato di stampo jihadista ha colpito due siriani che lavorano regolarmente tra Milano e la Brianza: uno è cristiano, l’altro della minoranza sciita-alauita, ma i loro amici più cari sono sunniti. Il 16 luglio 2011 hanno partecipato a una fiaccolata filo-Assad organizzata da un'associazione di cui fanno parte anche cittadini italiani. Mentre tornavano a casa in macchina, sono stati circondati e picchiati ferocemente da almeno 15 sprangatori jihadisti. Le due vittime, sanguinanti a terra, sono state salvate dall'arrivo dei carabinieri. Il cristiano è stato ricoverato al San Raffaele con una gamba spappolata e operato più volte. A una spedizione punitiva è sfuggito anche un religioso legato alla Fratellanza Musulmana, il partito allora al potere in Egitto, che aveva messo al bando le sette jihadiste dalle moschee milanesi. A quel punto l’ala dura dei salafiti siriani lo ha minacciato di morte: «Sei un traditore.... Ti uccideremo a coltellate... Ti sgozzeremo come un cane». Dopo mesi di indagini, la Digos ha smascherato gli esponenti più violenti del gruppo jihadista milanese. Ma a quel punto erano già partiti tutti per la guerra. Uno dei più sanguinari è stato identificato in due video-choc, girati in Siria nel maggio 2012 (e scoperti da un fotoreporter della Rai): con il mitra a tracolla, si è fatto riprendere con un plotone di uomini armati, mentre uccidevano con un colpo alla testa sette prigionieri di guerra, legati e torturati.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.

Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.

Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.

Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola.I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.

Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto ai bambini Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà di espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».

Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.

Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.

E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.

Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?

«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».

Lei l'ha conosciuta?

«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».

Fu una visione? O udì una voce?

«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».

Che cosa sa della mistica?

«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».

Ma che ha di speciale L'Evangelo ?

«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».

L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.

«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».

Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.

«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».

L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».

«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».

Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.

«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».

È vero che Pio XII stimava la Valtorta?

«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».

Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?

«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».

Sorprendente.

«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».

Perché me lo racconta?

«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

Papa Francesco condanna la strage di Charlie Hebdo, ma "non si può insultare la fede", scrive “Libero Quotidiano”. "È una aberrazione uccidere in nome di Dio" ma "non si può insultare la fede degli altri". Con queste parole, pronunciate a bordo dell’aereo diretto nelle Filippine e riferite da Radio Vaticana, Papa Francesco interviene sull’azione dei terroristi islamici a Parigi contro Charlie Hebdo. "Non si può prendere in giro la fede", avverte il Papa.  "C’è un limite, quello della dignità di ogni religione". Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata "sono due diritti umani fondamentali". Alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva "fino a che punto si può andare con la libertà di espressione", il Pontefice ha chiarito: sì alla libera espressione "ma se il mio amico dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Questo il limite che secondo il Papa regola la libertà religiosa: "Non si giocattolizza la religione degli altri", dice Bergoglio. Francesco ha ricordato che la "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure, dice il Papa, "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza". Poi ha spiegato, "senza mancare di rispetto a nessuno" che "dietro ogni attentato suicida c'è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano". In una nota diramata subito dopo la strage Bergoglio aveva condannato "ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". Il Papa aveva precisato che "qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile e la vita e la dignità di tutti vanno garantire e tutelate con decisione. Ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato". E ancora: tre giorni fa Bergoglio, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, aveva detto che "la tragica strage avvenuta a Parigi" è una dimostrazione che "gli altri non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti: l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro e perfino di forme fuorviate di religione". Rispetto alle minacce dirette dai terroristi fondamentalisti di matrice islamica contro il  Vaticano e il pontefice, Papa Francesco assicura di affrontare questo pericolo "con una buona dose di incoscienza". Il Papa - come riferisce ancora Radio Vaticana - afferma semmai di "temere soprattutto per l’incolumità della gente", con migliaia di fedeli che tradizionalmente affollano le sue udienze generali in piazza San Pietro e gli ’Angelus’ dal Palazzo Apostolico e sottolinea che "il miglior modo per rispondere alla violenza è la mitezza".

Ferrara su Papa Francesco: "Le sue parole su Charlie non sono una gaffe. Sono molto peggio", scrive “Libero Quotidiano”. "Se dici una parolaccia su mia mamma ti devi aspettare un pugno", ha detto ieri Papa Francesco a proposito della libertà di espressione e della blasfemia. "È aberrante uccidere in nome di Dio", ha detto il gesuita Bergoglio, ma è sbagliato anche "insultare le religioni". Parole molto forti pronunciate mentre era in aereo in volo verso le Filippine che hanno in qualche modo hanno stupito cattolici e non. E proprio a quelle parole Giuliano Ferrara dedica oggi il suo editoriale sul Foglio sottolineando che "il fantasma di Voltaire e della sua irrisione delle religioni, dai maomettani ai papisti agli ebrei, il fantasma di un Charlie del Settecento, è ancora troppo vivo, nonostante si faccia finta di averne cancellato anche il ricordo con il Concilio ecumenico vaticano II". "Perché il Papa ha parlato in modo da essere identificabile come il tutore dell' autodifesa della dignità delle religioni invece che come il custode della sacralità della vita umana e del diritto alla libertà d' espressione?", si chiede il direttore del Foglio. La risposta arriva un paragrafo più sotto: "Non credo sia una gaffe, modalità a parte, ché il magistero posta aerea è effettivamente un po' troppo colloquiale per valere erga omnes. Non ha perso la brocca, il Papa, il che sarebbe umano, possibile, riparabile. C' è dell'altro. C'è la convinzione, comune al Papa e a molta cultura irenista occidentale, che si debba convivere con l'orrore, che il distacco concettuale e spirituale dell'islam dalle pratiche violente del jihad è una conquista che spetta eventualmente all'islam di realizzare, che non esiste alternativa alla sottomissione o all'abbandono al dialogo interreligioso". Del resto, spiega Ferrara nell'articolo firmato con l'elefantino rosso, "per quanto si voglia essere Papa del secolo e nel secolo, per quanti omaggi si facciano, anche per i creduloni, alla libertà piena di coscienza come fondamento della fede, della possibilità della fede, alla fine quel che conta è non perdere il contatto con l'universo islamico, e la chiesa sa bene, ben più e meglio di altri, che il nemico violento non è il terrorismo ma l'idea coranica radicalizzata di cui il terrorismo è il frutto". "Parole e gesti del Papa, le risate risuonate nella carlinga del suo aereo, la metafora del pugno risanatore che colpisce e ripara l'offesa alla dignità, la declamazione tra pause teatrali del concetto "è normale, è normale", tutto questo non è gaffe", conclude Ferrara. "E' di più e peggio". "La piazza araba militante, gli imam che predicano nelle moschee e riluttano a un rigorosa condanna della decimazione con fucile a pompa di redazioni di giornale e negozi ebraici, da ieri si sentono meno isolati, meglio protetti dalla convergenza con il Papa di Roma".

Giuliano Ferrara: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly, vi spiego perché provo pena e ammirazione per gli stragisti di Parigi", scrive “Libero Quotidiano”. Controcorrente. Sempre. Sin dal principio della questione, che ne è anche il presupposto, ossia quell'idea di essere in "guerra santa" contro l'islam gridata negli studi di Servizio Pubblico, idea espressa pochi minuti dopo l'attacco al Charlie Hebdo in un videoeditoriale sul sito del Il Foglio. "Guerra santa", appunto, il presupposto di Giuliano Ferrara, un concetto rifiutato con sdegno da gran parte dell'auditorio, da chi opera dei distinguo forse necessari, ma non per l'Elefantino. E sul tema, Ferrara, ci torna nel suo editoriale su Il Foglio di lunedì, pur prendendolo da una prospettiva diametralmente opposta che emerge sin dal - controverso - titolo: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly: ecco perché". Il direttore parafrasa lo slogan #JeSuisCharlie e lo dedica ai tre protagonisti dell'orrore di Parigi, ai tre terroristi islamici. Ferrara spiega nell'attacco: "Una pena profonda e un'ammirazione per il loro fanatico coraggio mi legano ai nemici, ai fratelli Said e Sherif Kouachi e Amely Coulibaly. In un certo senso di origine cristiana, #JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly". L'Elefantino prosegue: "Hanno assassinato persone più o meno come me, libertini della mia razza culturale e civile, gente che disegnava e rideva e sbeffeggiava, con una tinta blasfema che non ho ma che comprendo perfettamente nella dismisura anarchica e fragile e folle del loro essere artisti in una società secolarizzata e nihilista". Il direttore traccia nitidamente i contorni del suo sentimento, della "pena" e dell'"ammirazione", e sottolinea: "Mi vengono non da quella abbondanza di misericordia e di accoglienza che è diventata una pappa senza intimo rigore logico, senza giustizia linguistica, senza verità che non sia sentimentale. Non dal cuore ma dalla testa. Perché non è vero che tutto questo, come ha infelicemente detto Francois Hollande e come ripete lo stolto collettivo sul teatro mondiale della correttezza politica, non ha nulla a che fare con l'islam". I dettagli multiculturali - Ferrara nel suo editoriale si addentra nel "diritto come sharia, come legge divina", parla di Egitto, di Torquato Tasso dell'eroe cristiano Tancredi. Un lungo presupposto per rimarcare come "i dettagli meno multiculturali della storia tragica di Parigi sono come scomparsi". E secondo lui, senza comprendere a fondo quei "dettagli", non si può comprendere a fondo l'intera vicenda, che come Ferrara ha ripetuto negli ultimi giorni non è "terrorismo", bensì "guerra santa". Tornando sui terroristi, l'Elefantino ricorda come "hanno scelto di eseguire un ordine divino che impone di castigare la blasfemia come è accaduto a Charlie Hebdo". E ancora: "Hanno scelto la morte degli altri, e la loro, in un rito culturale di conversione e arruolamento, di esecuzione della legge coranica, al quale hanno saputo corrispondere fino alla fine nella follia della testimonianza di gioventù, uscendo allo scoperto e sparando all'impazzata davanti alla falange dei gendarmi di cuoio, oppure pregando alle cinque, ora del blitz, e correndo poi verso l'esecuzione nel negozio kosher". I dettagli, appunto. Ferrara insiste ancora sui dettagli, e nella conclusione dell'articolo di fondo ribadisce: "Sono dettagli importanti, sono il punto di vista che conta, più della rapida capacità di allineamento menzognero al mainstream politico islamo conformista di un capo Hezbollah o di un presidente iraniano che si dissociano a sorpresa". Il punto, per il direttore, è che il pensiero buonista e dominante rischia di far perdere il fuoco dell'obiettivo. Così Ferrara sottolinea, riferendosi ai terroristi: "Se li degradate a lupi, degradate voi stessi. Disconoscete il nemico. Non sarete mai capaci di combatterlo né di amarlo. Al posto del vangelo, libro eccelso, primitivo e terribile e selvaggio, metterete il prontuario della cultura del piagnisteo, una specie di ideologia che fa dello scontro di religione e di civiltà in atto una storiaccia di cronaca nera e di impazzimento terrorista". Ma per Ferrara, bene ribadirlo ancora una volta, è tutt'altro: è "guerra santa".

Mario Giordano: Basta, ecco perché non posso più dire "Je suis Charlie Hebdo", scrive su “Libero Quotidiano”. Scusate, ma devo dire una cosa un po’ difficile, forse persino un po’ dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Je ne suis pas Charlie. Je ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po’. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico. Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlie, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po’. Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radical-nullista, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l’esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l’idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po’ schifo. E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamico diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterci in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell’Occidente. Non un foglio che l’Occidente, al contrario, lo disprezza. Invece si sta compiendo proprio questo. Un po’ per interesse (operazione Hollande), un po’ per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell’Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l’errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterci sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterci imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.

Dopo Charlie Hebdo: perché bisogna fermare la censura dei buoni. Si comincia a ritenere che chi critica vignette blasfeme sia contro la libertà. E chi ha una posizione culturale ben definita ostacoli l'integrazione, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Temo che dalla grandiosa marcia parigina nasca un nuovo tipo di censura. La censura dei buoni. La censura di quelli che vogliono abbassare i toni; quelli che se dici che siamo di fronte ad una guerra e non a dei terroristi, fomenti l’odio; quelli che sanno ciò che è opportuno dire e cosa no e se non collabori, allora sei un guerrafondaio, un estremista, un fondamentalista anche tu. Oppure un cretino. La censura dei buoni è funzionale al disegno del potere: nessun leader europeo (Hollande è scusato) ha osato esprimere un’opinione diversa dal “sono terroristi, la religione non c’entra” e così i assassini diventano “sedicenti islamici” e a chi fa notare che mentre macellavano innocenti gridavano “Allah Akbar” viene tacciato di perseguire lo scontro di civiltà. Ecco perché i terroristi sono diventati "sedicenti islamici". Davanti a chi ha una posizione diversa i buoni sono pronti a sventolare il ditino inquisitore spiegando che così non si fa il bene dell’umanità che consiste nell’integrazione e nel dialogo. E siccome l’ostacolo maggiore al dialogo sarebbe avere una posizione culturale, religiosa, sociale ben definita, allora la colpa della mancata integrazione è tua. L’unica posizione culturale accettata diventa così quella laica che, indifferente a tutto, non fomenta l’odio. Perciò bisogna, adesso più di prima, stare attenti a non cadere nell’eccesso contrario facendo passare l’idea che Charlie Hebdo è un giornale di anarchici scapigliati e va difeso mentre chi ritiene le sue vignette volgari, blasfeme e ripugnanti sta armando le mani degli assassini. Bisogna stare attenti a non accusare chi esercita la propria libertà di critica di intelligenza con il nemico. Bisogna vigilare, perché questo tipo di censura dei buoni è in grado di devastare lo spazio pubblico togliendo libertà a chi non è allineato con il pensiero mainstream. Quello secondo il quale solo chi non crede in niente accetta tutto ed è pronto a dialogare con chiunque. Per dirsi cosa, poi, non si sa. La censura dei buoni è quella che pensa che la pace nel mondo, che si raggiunge con l’integrazione, è un fine talmente nobile che della libertà della singola persona si può anche fare a meno.

Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo , che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?

Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.

Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.

L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di “pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis  pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).

Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebberosequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”

Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.

Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.

Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto  che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo:  ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.

15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia.  Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.

Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due giovanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto pericolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarisce che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non fronteggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.

Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.

Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………

Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi? ? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.

Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.

Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.

Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.

Giuseppe T. Che se le tenessero!

Giulio S. Tenetevele.

Donatella N. Ah si? Tenetevele.

Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.

Angelo M. Per queste due nessuna pietà. ….all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto. ….tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.

Michele C. Ma fanculo stateve a casa.

Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.

Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.

Bartolomeo A. …. due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…

Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!

Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.

Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!

Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese , dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.

Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.

….. qualche timida voce fuori dal coro si trova ….

Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.

Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.

Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…

Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.

Marianna L. Cercasi umanità

Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.

“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.

Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse ( m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari,da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata,chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No,erano sicure:avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad,e loro stavano coi buoni,i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa:a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.

La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network.  "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali delle possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.

Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.

Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.

Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’ intelligence , come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.

Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l' esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell' Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".

Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.

Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy».Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.

Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.

Greta e Vanessa, due ingenue o due fiancheggiatrici del terrorismo? Si chiede Milano Post. Greta e Vanessa, due ragazze ventenni, lombarde volontarie del Progetto Horryaty, una Onlus fondata da Roberto Andervill poche settimane prima del presunto rapimento delle due cooperanti. Progetto Horryaty opera in maniera del tutto svincolata dalle varie Ong presenti in territorio siriano e, stando alle dichiarazioni ufficiali dei responsabili della Onlus, in Italia si occupano di raccolta fondi e sensibilizzazione, in Turchia comprano gli aiuti, teoricamente materiale sanitario, che vengono poi distribuiti in zone diverse della Siria. Questo ufficialmente, scavando e cercando la verità troviamo un Roberto Andervill nel cui profilo Facebook, al momento chiuso, si leggevano frasi di odio verso i presidenti delle Comunità Ebraiche italiane, contro Magdi Allam e, giusto per non deludere la sua sinistra ideologia, messaggi di pace (eterna) verso gli Ebrei. Detto questo passiamo direttamente ad osservare Greta e Vanessa e vi siete mai chiesti cosa c’è scritto sul cartello che reggono in quella famosa foto in cui vengono ritratte avvolte dalla bandiera siriana in Piazza Duomo?

Sveliamo l’arcano, il quel cartello c’è scritto:” Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se D-o vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Chi sono gli eroi di Liwa Shuhada? Presto detto: Liwa Shuhada Al-Islam, in italiano Brigata dei martiri dell’Islam, è un’organizzazione, secondo i maggiori esperti di terrorismo internazionale, terroristica di stampo jihadista, molto vicina al Fronte Al-Nusra, il nome di Al-Qaeda in Siria per intenderci, e responsabile di numerosi attentati a Damasco. Inoltre, stando alle ultime indiscrezioni, pare, dalle varie intercettazioni in mano ai R.O.S., che le due ragazze avesse già intessuto da tempo rapporti con cellule del fronte anti-Assad, in Italia, cellule che oggi chiamiamo “foreign fighters” e che in Francia hanno seminato morte e terrore pochi giorni fa. Quindi ho forti dubbi che si trattasse di due ventenni ingenue e sprovvedute, considerato che erano già state in Siria, che avevano già dato aiuti ai “guerriglieri” e che si stavano recando ancora in Siria per distribuire kit di pronto soccorso ai membri della Brigata dei Martiri dell’Islam, probabilmente gli stessi che le hanno “rapite”, o sarebbe meglio dire nascoste da occhi indiscreti, messe all’ingrasso per poi richiedere il solito riscatto per la “liberazione” dei presunti ostaggi. Certo però che rispetto alle due Simone, in Iraq, e della Sgrena, Greta e Vanessa sono state decisamente più “professionali”. Mentre le prime hanno fruttato alla causa del terrorismo “solo” undici milioni di dollari (5 per le due cooperanti e 6 per la Sgrena), Greta e Vanessa hanno da sole fatto regalare ai terroristi ben 12 milioni di dollari, anche se negati dal ministro degli Esteri Gentiloni, si sa che Italia, Francia, Germania e Spagna preferiscono pagare. “Non c’è nulla per cui si debba chiedere scusa” queste le parole del padre di Vanessa. Eh no caro signore, c’è invece da chiedere scusa. Sua figlia e la sua amica devono chiedere scusa ai cittadini italiani, visto che i soldi pagati per “liberarle” da una prigionia a pane e kebab, provengono dalle tasse che egli italiani pagano. Devono porgere le loro scuse, implorando il perdono, a tutte quelle famiglie che perderanno un loro caro ed a tutte le innocenti vittime che quei 12 milioni di dollari, regalati al terrorismo islamico, causeranno in Medio Oriente o in Europa.

Vanessa e Greta, cosa non torna nella loro storia: le quattro accuse di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Il governo si è dato da fare per smentire di aver pagato un riscatto in cambio della liberazione di Vanessa e Greta. «Solo illazioni» ha dichiarato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il quale subito dopo ha però aggiunto che nel caso delle due cooperanti italiane l’esecutivo si è comportato come i precedenti (che infatti pagavano), precisando che per Palazzo Chigi e dintorni dà la priorità al salvataggio di vite umane (tradotto: pazienza se ci sono costate 12 milioni, tanto sono soldi dei contribuenti). Con il rientro delle due ragazze e le rassicurazioni del ministro si vorrebbe così chiudere la faccenda, mettendo una pietra sopra l’imbarazzante trattativa con i terroristi. Si dà il caso che però la vicenda sia tutt’altro che archiviabile ma necessiti di ulteriori approfondimenti, soprattutto dopo la rivelazione di una serie di antefatti. Ieri in un articolo del Fatto quotidiano si dava conto dell’esistenza di una informativa dei Ros sulla missione siriana di Vanessa e Greta. Non un rapporto compilato dopo la sparizione delle due ragazze, ma una nota predisposta prima della partenza. Quanto prima? Leggendo l’articolo non è dato sapere, ma si capisce che la relazione del reparto operativo dei carabinieri risale al periodo in cui le due giovani lombarde stavano organizzando il viaggio. Vi state chiedendo perché l’Arma si occupasse di due esponenti di un’organizzazione non governativa intenzionate a partire per la Siria? Perché le due entrano in contatto con un pizzaiolo emiliano che i Cc tengono d’occhio ritenendolo un militante islamico. Così, per caso, intercettano Vanessa e Greta che si mettono d’accordo con il tipo e a lui raccontano nel seguente ordine due cose: di voler partire per la Siria per consegnare kit di pronto soccorso alla popolazione civile ma anche ai combattenti islamici, così che gli oppositori al regime di Assad possano curarsi in caso di ferite. Secondo, Greta in una conversazione spiega di godere di una specie di lasciapassare, in quanto sostenitrice della rivoluzione e protetta dall’Esercito Libero. La ragazza non dice al telefono di essere in contatto con gente dello stato islamico, anzi, assicura che quelli dell’Esercito Libero non impongono neppure il velo alle donne. Come è finita si sa, con un sequestro che le ha consegnate nelle mani di una banda vicina ad Al Qaeda, cioè l’organizzazione che poi l’avrebbe rapita. Nell’articolo si fa cenno anche a un universitario in collegamento con i ribelli ed anche ad un medico. Risultato: leggendo il Fatto si apprendono le seguenti informazioni. La prima, forse scontata ma fino a ieri non molto documentata, è che sul territorio italiano operano dei militanti che inviano denaro e aiuti ai combattenti islamici. Due: Vanessa e Greta non sono partite per la Siria per andare ad aiutare i bambini, per lo meno non solo: in Siria sono andate per consegnare kit di pronto soccorso ai miliziani, che se non è un aiuto a chi combatte poco ci manca. Tre: le giovani appoggiavano la rivoluzione e consegnando i medicinali volevano contribuire materialmente a sostenerla. Quattro: se sono finite nelle mani di tagliagole che le hanno rapite e segregate per più di cinque mesi, liberandole solo in cambio di un riscatto multimilionario, è perché qualcuno dei loro amici le ha tradite. Ne consegue che i carabinieri sapevano tutto, del viaggio e anche dei contatti con i militanti islamici, ma nessuno ha fatto niente, lasciando partire le ragazze e dunque facendole finire nelle mani dei rapitori. Non solo: qualcuno in Italia si dà addirittura da fare per agevolare la partenza e poi forse per agevolare anche il sequestro, così che la fiorente industria dei rapimenti ad opera dei militanti islamici possa prosperare e soprattutto finanziare la guerriglia e il terrorismo. Infine, come spiegava ieri il nostro Francesco Borgonovo, risulta evidente da questo rapporto che molte delle organizzazioni non governative in apparenza dicono di voler aiutare chi soffre, ma nella sostanza hanno rapporti poco trasparenti con chi combatte. Altro che ragazzine finite in un gioco più grande di loro. Greta e Vanessa pensavano di fare la rivoluzione e invece sono finite in una prigione dalle parti di Aleppo, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala e se poi è islamica si va a pranzo con il boia. Risultato: la faccenda è tutt’altro che chiusa e il governo non può pensare di cavarsela con l’intervento reticente del ministro Gentiloni. Essendoci di mezzo la sicurezza nazionale (la gente che aiuta i combattenti l’abbiamo in casa) e soprattutto i soldi dei contribuenti vorremmo andare fino in fondo. E state sicuri che per quanto ci riguarda faremo di tutto per farlo.

Crolla l'alibi pacifista. Ecco tutte le prove delle amicizie jihadiste. Altro che pacifiste: i kit di pronto soccorso portati in Siria somigliano più a quelli militari. Ed erano destinati a gruppi di combattimento, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Il ministro Paolo Gentiloni, protagonista in Parlamento di una difesa a spada tratta di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbe fatto meglio a consultarsi prima con i carabinieri del Ros. Carabinieri che, magari, avrebbero potuto mostrare pure a lui le intercettazioni delle telefonate, pubblicate da Il Fatto Quotidiano , tra le due suffragette lombarde e alcuni fiancheggiatori dei gruppi jihadisti siriani. Telefonate assai scomode e imbarazzanti. Telefonate da cui emerge con chiarezza come le due ragazzine non ambissero al ruolo di crocerossine neutrali, ma piuttosto a quello di militanti schierate e convinte. Militanti tradite dai propri stessi «amichetti» e riportate a casa solo grazie al trasferimento nella cassaforte della formazione al qaidista di Jabat Al Nusra, o di qualche altro gruppetto jihadista, di una decina di milioni di euro sottratti ai cittadini italiani. Milioni con cui i fanatici siriani, o quelli europei passati per le loro fila, potrebbero ora organizzare qualche atto di terrorismo in Italia o altrove nel Vecchio Continente.

Che Greta e Vanessa progettassero di mettere in piedi qualcosa di diverso da una normale organizzazione umanitaria, Il Giornale lo aveva intuito subito dopo il sequestro. Esaminando su Facebook le gallerie fotografiche di «Horryaty» - l'associazione creata assieme al 46enne fabbro di Varese Roberto Andervill - quel che più saltava agli occhi era l'aspetto chiaramente «militare» dei «kit di pronto soccorso» distribuiti da Greta e Vanessa in Siria. I kit, contenuti in tascapane mimetici indossabili a tracolla, assomigliavano più a quelli in dotazione a militanti armati o guerriglieri che non a quelli utilizzati da infermieri o personale paramedico civile. Anche perché la prima attenzione di medici e infermieri indipendenti impegnati sui fronti di guerra non è quella di mimetizzarsi ma piuttosto di venir facilmente identificati come personaggi neutrali, non coinvolti con le parti in conflitto. Un concetto assolutamente estraneo a Greta Vanessa. Nelle telefonate scambiate prima di partire con Mohammed Yaser Tayeb - un 47enne siriano trasferitosi ad Anzola in provincia di Bologna ed identificato nelle intercettazioni del Ros come un militante islamista - Greta Ramelli spiega esplicitamente di voler «offrire supporto al Free Syrian Army», la sigla (Esercito Libero Siriano) che riunisce le formazioni jihadiste non legate al gruppo alaaidista di Jabat Al Nusra o allo Stato Islamico. L'acquisto dei kit di pronto soccorso mimetici da parte di Greta e Vanessa è documentato dalle ricevute pubblicate sul sito di Horryaty il 12 maggio di quest'anno, subito dopo la prima trasferta siriana delle due «cooperanti». La ricevuta, intestata a Vanessa Marzullo, certifica l'acquisto in Turchia di 45 kit al costo di 720 lire turche corrispondenti al cambio dell'epoca a circa 246 euro. La parte più interessante è però la spiegazione sull'utilizzo di quei kit. Nel rapporto pubblicato su Horryaty, Greta e Vanessa riferiscono con precisione dove hanno spedito o portato latte, alimenti per bambini, medicine e ogni altro genere di conforto non «sospetto». Quando devono spiegare dove sono finiti quei tascapane mimetici annotano solo l'iniziale «B.» facendo intendere di parlare di un avamposto militare dei gruppi armati il cui nome completo non è divulgabile per ragioni di sicurezza. Nelle telefonate con l'«amichetto» Tayeb registrate dai Ros, Greta Ramelli si spinge invece più in là. In quelle chiacchierate Greta spiega che i kit verranno distribuiti «a gruppi di combattimento composti solitamente da 14 persone». Spiegazione plausibile e circostanziata visto che in ambito militare una squadra combattente, dotata di uno specialista para-medico, conta per l'appunto dalle 12 alle 15 unità. L'elemento più inquietante, annotato dai Carabinieri del Ros a margine delle intercettazioni, sono però i contatti tra l'«amichetto» Tayeb e Maher Alhamdoosh, un militante siriano iscritto all'Università di Bologna e residente a Casalecchio del Reno. Con Maher Alhamdoosh s'erano coordinati - guarda un po' il caso e la sfortuna - anche Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabous, i giornalisti italiani protagonisti nella primavera 2013 di un reportage in Siria conclusosi anche in quel caso con un bel sequestro. Un sequestro seguito da immancabile ed esoso riscatto pagato, anche allora, dai generosi contribuenti italiani. Quel silenzio su Giovanni Lo Porto rapito tre anni fa in Pakistan. Il cooperante palermitano sparito il 19 gennaio 2012 durante una missione per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Oggi 19 gennaio 2015 sono tre anni che Giovanni Lo Porto è sparito. Era arrivato da tre giorni in Pakistan per fare il suo lavoro - ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione del 2010 - per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Il 19 gennaio 2012 l’hanno rapito insieme al collega Bernd Muehlenbeck, che lo scorso ottobre è stato liberato dalle forze speciali di Berlino: si sa che non era più insieme a Giovanni da un anno e nulla di più. Intorno al cooperante palermitano, un silenzio che ha oscillato tra la prudenza d’obbligo e la reticenza pelosa. Il governo chiede il basso profilo, parenti e amici non ci stanno e lanciano appelli che raccolgono migliaia di adesioni. Un segnale è arrivato finalmente dal ministro degli Esteri, che rispondendo venerdì in Parlamento su Greta e Vanessa ha ricordato sia padre Dall’Oglio sia Giovanni, «due vicende alle quali lavoriamo con discrezione giorno per giorno». Lo Porto ha un profilo inattaccabile perfino dagli sciacalli del web: 40 anni, studi solidi tra Londra e Giappone, esperienze sul campo in Croazia, Haiti e anni prima nello stesso Pakistan, dove nel 2012 era tornato con un progetto finanziato dall’Ue. Insomma, tutto fuorché un avventuriero. Gentiloni va preso alla lettera, fino a prova contraria: l’Italia non lascia indietro nessuno dei suoi cittadini e per nessuno lesina mezzi. Tre anni dopo, è il minimo che si deve a Giovanni Lo Porto.

Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa  che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".

"Pagato riscatto da 12 milioni" Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times , Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».

Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta! 

Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.

Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.

5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?

2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?

3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).

4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.

5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette. 

In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica , afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.

Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.

L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.

Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell' Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».

De Luca, quando la rivolta è un "marchio" da vendere. Dopo decenni di marxismo, sopravvive l'idea che uno scrittore debba essere militante. Ma di tanto impegno restano solo narcisismo e nostalgia attira-lettori, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. L'hashtag è #iostoconerri, e ci mancherebbe non stessi con lui, processato per essersi pronunciato contro la TAV e aver detto che secondo lui sabotarla è giusto. Uno potrà dire quello che vuole? Si può dire che gli Stati Uniti si sono abbattuti le Torri Gemelle da soli, si può essere perfino pro-Isis, Giulietto Chiesa è ancora stalinista, e portiamo in tribunale Erri De Luca? E poi sfiliamo con i cartelli Je suis Charlie? Ecco, Je suis Errì. Oddio, che effetto. E però che bello. È uno di quegli scrittori che invidio, e in Italia ce ne sono tantissimi. Non hanno bisogno di scrivere grandi opere, neppure opere medie. Errì poi scrive dei librini così tascabili che in tasca ce ne vanno venti, una pacchia. L'ultimo di Errì si intitola La parola contraria . Quattro euro e ve lo portate via, generosa la Feltrinelli. Piccolo ma denso: dentro c'è tutta la coscienza contraria di Errì. Per esempio Errì spiega che «può darsi che nella mia educazione emotiva napoletana ci fosse la predisposizione a una resistenza contro le autorità». Una cosa tipo: «Io i tass' nun le pag, ma vattenne và, accà niusciun'è fess». Oppure: «Chiust'o tren' che sa vò muov' veloce sa da fermà, compà». Je suis Errì, e un'altra cosa assurda è l'accusa di istigazione: ma vi pare che Errì possa aver istigato qualcuno a fare qualcosa? Casomai è stato istigato lui a diventare Errì. Come sono istigati tutti gli scrittori italiani, convinti da centocinquant'anni di marxismo intellettuale che si debba essere impegnati civilmente per essere intelligenti. Anzi peggio ancora: intellettuali. Non per altro perfino Aldo Busi, che non è di Napoli ma di Montichiari, su Alias denuncia il progresso tecnologico e rimpiange i casellanti. E Antonio Moresco, che non è di Napoli ma di Mantova, ha organizzato una nuova marcia della nota serie Cammina Cammina, la Repubblica Nomade, per essere tutti migranti. Che cagate. No, pardon, Je suis Errì. Che figate. Je suis Errì, e quanto erano belli i tempi di Lotta Continua. Dove c'erano tutti i migliori intellettuali, scrive Errì. Anche Pasolinì. E lo stesso Errì. Io non sono mai stato di Lotta Continua, neppure a favore di Lotta Continua, ma poi per caso ho scoperto che il mio amore Sasha Grey si è dichiarata simpatizzante di Lotta Continua. E quindi perfetto, je suis Errì, non voglio più essere Parente, che schifo. «Voglio essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino». Uno di quegli scrittori «che fa alzare d'improvviso e lasciare il libro perché è montato il sangue in faccia, pizzicano gli occhi e non si può continuare a leggere». E io che pensavo fosse l'allergia e stavo cercando un antistaminico. Invece è perché je suis Errì, il libro sta cominciando a fare effetto, mi sto trasformando in un giovane cittadino con dei sentimenti di giustizia e un'educazione emotiva napoletana con il sangue montato in faccia. A questo serve la letteratura. Per cui, siccome je suis Errì, ho buttato il libro e mi sono messo a protestare contro uno che ha parcheggiato sulle strisce pedonali, per sentimento di giustizia. Però poi mi sono accorto che il proprietario della macchina era negro, pardon di colore, e siccome je suis Errì mi sono scusato, sarà arrivato sicuramente da Lampedusa, e Errì dice che «dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi». Ma come gli vengono, a Errì, questi giochi di parole? Val di Susa/Lampedusa, un genio. E poi ho pensato: chissà cosa succederebbe a scaricare qualche migliaio di profughi al mese direttamente da Lampedusa in Val di Susa, chissà dove lo manderebbero Errì, i valsusini. Ma poi ho pensato che era una malignità, i valsusini accoglierebbero tutti con rose e fiori e canti popolari e cantantando je suis Errì. Perché, questo il senso profondo delle parole del libro di Errì, «a ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro».

E quando avrete finito di leggere il libro avrete una bellissima mescola, vi assicuro. E anche voi potrete dire: Je suis Errì.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

La Camorra nel business degli abiti usati. Così i boss lucravano sui cassonetti gialli. Un'organizzazione legata alla malavita campana ha fatto milioni gestendo il giro d'affari dei vestiti lasciati per beneficenza dai cittadini nei contenitori ai lati delle strade. Un giro gestito da cooperative sociali borderline e per cui sono finite in manette 14 persone. E sullo sfondo il ruolo di Carminati e Buzzi e la gestione anomala dell'Ama, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Vestiti usati, stracciati, sporchi, sono oro per la camorra. Magliette, pantaloni, maglioni e giubbotti, che finiscono nei cassonetti gialli ben visibili ai lati delle strade di ogni quartiere sono il nuovo business per i clan e di Mafia Capitale. Così hanno saputo trasformare una merce senza più alcun valore in una montagna di quattrini. La scoperta della Squadra Mobile di Roma guidata da Renato Cortese e coordinata dalla procura antimafia di Roma ha dell'incredibile. Ma rende bene l'idea di come le cosche sappiano sfruttare qualunque possibilità di fare soldi. In manette sono finite quattordici persone accusate di traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere che aveva tra i suoi scopi quello di raccogliere, trasportare, cedere e gestire una quantità enorme di indumenti usati grazie agli appalti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche che senza gara hanno affidato ad alcune cooperative il servizio. Lavori conquistati a Roma, in Abruzzo, in Campania. Ma il traffico vero e proprio aveva come terminali il Sud Africa, i Paesi del Nord Africa e l'Est Europa. A capo dell'organizzazione, secondo gli inquirenti, il boss della camorra Pietro Cozzolino elemento di vertice del clan di Portici-Ercolano (Napoli) e il fratello Aniello. Uno dei promotori sarebbe invece Danilo Sorgente, titolare della cooperativa New Orizon, una delle due coop che a Roma hanno gestito da monopoliste il settore del recupero degli abiti usati. «Un sistema collaudato di “rete” mediante il quale le imprese riescono ad acquisire affidamenti diretti per il servizio di raccolta della frazione tessile differenziata presso i Comuni di Lazio, Campania e Abruzzo, attraverso compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazione degli affidi» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale della Capitale. Complicità politiche dunque, molte delle quali ancora tutte da scoprire. Sindaci, assessori, consiglieri comunali, che avrebbero intrattenuto, non solo a Roma e dintorni, rapporti con gli indagati e con le cooperative pigliatutto. In rapporto sia con Legacoop che con la Caritas per quanto riguarda il recupero degli indumenti usati. Imprese sociali che godevano anche di uno speciale regime fiscale e di agevolazioni per l'assunzione di persone svantaggiate, come per esempio i detenuti. La gestione dell'affare prevedeva il finto recupero della merce raccolta e la sistematica falsificazione dei documenti di trasporto e dei certificati di «igienizzazione»: la legge prevede che gli abiti raccolti prima di poterli reinserire nel mercato vadano disinfettati e ripuliti. L'associazione scoperta dalla polizia, invece, per risparmiare non avrebbe effetuato questo passaggio e spediva direttamente all'estero i prodotti, che senza questo passaggio potevano diventare nocivi per la salute. Un esempio: una delle cooperative coinvolte, Lapemaia onlus, nei primi otto mesi del 2012 ha smerciato quasi tre tonnellate di abiti usati tra la Tunisia la Polonia e la Campania, guadagnando mezzo milione di euro. Il ricarico su ogni chilo venduto all'estero andava dai 35 ai 58 cent. Spiccioli che vanno moltiplicati per le 12 mila tonnellate: a tanto corrisponde, secondo uno degli indagati, il business. La spedizione, dai porti di Salerno e Civitavecchia, avveniva attraverso società di intermediazione che servivano a facilitare la falsificazione dei documenti e la spedizione verso Nord Africa e Europa dell'Est. Il meccanismo insomma è sempre lo stesso. Il tipico giro bolla che permette di declassificare i rifiuti. Un meccanismo che gli imprenditori della camorra conoscono molto bene. Con questo meccanismo è stata infatti avvelenata la provincia di Caserta trasformandola in Gomorra. I documenti raccolti dalla squadra Mobile coinvolgono indirettamente la società partecipata dal Comune di Roma Ama Spa, l'ente che affida il servizio già coinvolta nell'indagine Mafia Capitale . Il giudice per le indagini preliminari ha un giudizio netto su come è stata gestita la società e punta il dito sul potere che esercita il braccio destro del boss Massimo Carminati sull'azienda : «Tutti (gli indagati ndr) trovano la premessa del loro agire nella disfunzionale gestione di Ama SpA, nel fattuale potere gestorio in essa esercitato dal referente di tutte le cooperative sociali, Salvatore Buzzi, il cui assenso è stato la premessa della ripartizione del territorio comunale per la raccolta del tessile». In altre parole è stato necessario il permesso del ras delle cooperative romane, Buzzi, perché la camorra e gli imprenditori indagati potessero lucrare sugli abiti usati. A Buzzi, pur non facendo parte di questa associazione scoperta dalla Mobile, «si deve, tuttavia, l’operatività del sistema», grazie a lui è possibile l'aggancio all'ambito istituzionale, al mondo di sopra. Insomma è Buzzi «il raccordo terminale delle consorterie che si dividono l’affare dei rifiuti tessili a Roma», e lo farebbe tramite un imprenditore, tale Mario Monge, presidente dell'importante consorzio Sol.co che dal Comune di Roma ha pure ottenuto la gestione di un bene confiscato alla mafia, il nuovo cinema Aquila. Così come la stessa cooperativa Horizons, che fa parte di Sol.co e che gestisce quello che un tempo era il quartier generale di Enrico Nicoletti, il cassiera della banda della Magliana. È Monge. secondo gli inquirenti, che organizza l'incontro tra i titolari delle cooperative coinvolte nel traffico, l'ex assessore della giunta capitolina ai tempi di Veltroni Dante Pomponi e i rappresentati della Coin, per programmare un eventuale affidamento del servizio a Roma Sud ed Est. Buzzi e Monge, stando agli atti dell'indagine, dialogano e sono in rapporti. Anzi gli investigatori su questo sono più precisi: «Chi vuole vincere non paga più – come un tempo – solo alla Pubblica Amministrazione, in un contesto che è solo corruttivo, ma paga al titolare di poteri di fatto all’interno della Pubblica Amministrazione, poteri che sono correlati al dominio della strada(cioè Buzzi e "er Cecato ndr), e che si proiettano nel mondo istituzionale, condizionandolo anche con la corruzione, poteri che sono, in una parola, di stampo mafioso». A conferma di ciò riportano un episodio: «Le cooperative che risultano vincenti all’apertura delle buste 2013 (per la raccolta degli indumenti usati) sono quelle che hanno rinunciato all’appalto per la raccolta del rifiuto multimateriale, e sono quindi gratificate dal Buzzi». Ama Spa è per gli investigatori roba di Carminati. «Ama S.p.a. società posseduta dal comune di Roma, all’interno della quale – sotto l’occhiuta regia di Carminati  - si è svolta la collocazione in posizione apicale di soggetti che rispondono a un’organizzazione che non può che dirsi mafiosa, per i mezzi che utilizza, per i soggetti che la praticano e per la finalità che la animano». Parole pesanti che si aggiungono ai risultati dell'inchiesta su Mafia Capitale. Ma non finisce qui: «Buzzi , interfaccia economico di Carminati, che costituisce il regista anche dell’Ati Roma ambiente, aggregato di consorzi di imprese cooperative che è costola del più ampio disegno di ripartizione degli appalti distribuiti dall’Ama spa, in materia di verde pubblico , raccolta multimateriale dei rifiuti, raccolta del tessile». L'ipotesi della procura è che oltre a Mafia Capitale in Roma Ambiente ci sia anche la camorra guidata dal boss Cozzolino, uno degli artefici del grande traffico internazionale. Per questo secondo i detective della Mobile «vi è una concreta emergenza documentale, che consentono di chiarire che nemmeno gli appalti per i rifiuti tessili, connotati, peraltro, da un giro d’affari di milioni d’euro, sono sfuggiti alla regola della programmazione e del controllo nell’erogazione; e alla stura, anche, ad attività di interesse della criminalità organizzata, che hanno compromesso totalmente i beni della salute e dell’igiene pubblica, pur di massimizzare i profitti, nei Pesi esteri destinatati dell'invio».

Il business milionario degli abiti usati. Ogni anno circa 10mila tonnellate di vestiti finiscono nei cassonetti gialli presenti in tutte le città italiane. Ma solo una piccola parte arriva a chi ne ha davvero bisogno o viene utilizzata per sostenere progetti di solidarietà. Su questo enorme giro d'affari, grazie a regolamenti poco chiari e all'assenza di controlli, spuntano molte associazioni ambigue e la stessa criminalità organizzata. Come confermano anche gli ultimi sviluppi dell'inchiesta su Mafia Capitale che hanno portato all'arresto di 14 persone, scrivono Luigi Dell'Olio e Clemente Pistilli, con un commento di Carlo Ciavoni suLa Repubblica”.

Le troppe ambiguità di un circuito opaco scrive Luigi Dell'Olio. "Raccolta indumenti usati: grazie per il vostro aiuto", recita l'adesivo a caratteri cubitali apposto sul cassonetto giallo. Una scena che si può incontrare a Roma, Milano, Napoli, così come in centinaia di centri italiani di piccole e medie dimensioni. Ogni giorno decine di persone si recano presso i cassoni e vi depositano gli abiti che non utilizzano più, convinti di dare conforto ai più poveri. Complice la presenza di didascalie negli adesivi relativi alle principali destinazioni. Peccato che le cose non vadano sempre così: la maggior parte degli abiti raccolti, infatti, finisce nel circuito del riciclo, venduta a negozi specializzati in abiti vintage o a chi gestisce le bancarelle del mercato. Nel migliore dei casi, una piccola quota viene destinata a organizzazioni caritatevoli, ma la rendicontazione in merito è molto deficitaria e solo pochi (che fanno della trasparenza un tratto distintivo della loro attività) accettano di parlare. Così non sorprende che sul business si siano fondate organizzazioni criminali, che operano attraverso truffe ai cittadini e intimidazioni nei confronti degli operatori onesti. L'ultima conferma arriva dai 14 arresti eseguiti giovedì 15 gennaio dai carabinieri nell'ambito dell'inchiesta su Mafia Capitale. La raccolta differenziata dei rifiuti tessili è cresciuta sensibilmente negli ultimi tempi fino a raggiungere il 12% del totale (che si aggira su 80mila tonnellate annue), pari a 2 kg a persona, secondo stime dell'Ispra (ministero dell'Ambiente). Che tali rimangono, dato che non esiste un censimento ufficiale proprio per la carenza informativa di cui si è già accennato. Gli operatori del mercato formano un ventaglio molto ampio: vi sono enti caritatevoli così come organizzazioni senza fini di lucro attive nella cooperazione internazionale, ma anche aziende commerciali, oltre che cooperative sociali. Senza trascurare i casi di società for profit che agiscono in collaborazione con associazioni per i poveri, ma destinando a queste ultime solo poche briciole (spesso gli impianti di raccolta vengono collocati strategicamente accanto alle chiese). Il tratto comune a quasi tutte queste iniziative è che quasi mai gli abiti raccolti finiscono per coprire e scaldare i più poveri. Anche se va riconosciuto che donare gli abiti resta un valore, così come l'attività di chi utilizza i proventi della rivendita per finalità sociali/caritatevoli. La maggior parte dei comuni italiani ha affidato il servizio a operatori che raccolgono gli abiti dai cassonetti e li vendono a ditte di stoccaggio per pochi centesimi al pezzo (da 20 a 30, in base alla loro qualità). Il trattamento degli abiti raccolti prevede prima la selezione (escludendo i capi destinati al riutilizzo, ad esempio perché troppo rovinati) e poi l'igienizzazione, da effettuare prima che gli abiti siano rimessi nel ciclo post consumo. Diverse inchieste della magistratura hanno però messo in luce la non corretta gestione della filiera degli abiti usati (senza le giuste autorizzazioni per lo stoccaggio e per  il trasporto). Il fatto che non si abbia il pieno controllo della filiera presta il fianco ad  attività di trattamento illecito di rifiuti. Un fenomeno che ha portato anche a diversi arresti e accertamenti da parte dei carabinieri per l'ambiente. La scorsa primavera la Procura di Roma ha aperto un'indagine in merito, rilevando il diffuso interesse della camorra per questo business (i cassonetti gialli sono 1.800 nella Capitale, per un incasso annuo intorno ai 2 milioni di euro), che si è manifestato anche attraverso intimidazioni alle aziende impegnate nella filiera, dirette a eliminare la concorrenza. Partendo da alcune denunce anonime, il sostituto procuratore della Capitale, Alberto Galanti, ha scoperto che gli abiti usati, una volta prelevati, venivano rivenduti (soprattutto all'estero) senza i dovuti trattamenti di igienizzazione che la normativa impone prima della commercializzazione. Un filone di questa indagine è passato sotto la competenza della Direzione Investigativa Antimafia, che messo nel mirino i presunti legami tra i clan camorristici e diverse aziende impegnate nell'igienizzazione dei capi, con sede a Capua e San Sebastiano al Vesuvio, che avrebbero rilasciato attestati di trattamenti conformi alla legge, in realtà mai avvenuti. Per la mala campana non si tratta di una novità dato che già nel 2011 la Dda di Firenze aveva eseguito un centinaio di arresti dopo la scoperta di un traffico illecito di indumenti usati provenienti dalla raccolta sul territorio, in larga parte gestito dal clan camorristico Birra-Iacomino di Ercolano. Il processo che è seguito ha portato per la prima volta alla condanna di mafia per un imprenditore toscano "per condotta connessa alla sua attività imprenditoriale". Raccolti alla rinfusa e imballati, spiega il Report Ecomafie di Legambiente, gli abiti erano stati messi in vendita al pubblico nelle bancarelle dei vari mercati rionali, senza alcuna precauzione igienica, saltando dunque le fasi di selezione, cernita e igienizzazione, previste dalla procedura. Nello stesso filone si è mossa anche l'indagine New Trade, che lo scorso anno ha portato la Dda di Firenze a indagare il titolare di una ditta di Prato, che avrebbe messo in piedi un sistema di traffici illeciti di rifiuti plastici e abiti usati verso Cina e Tunisia. Gli indumenti venivano rivenduti senza trattamenti igienico-sanitari in Africa e nei mercatini vintage italiani. Il traffico è stimato per migliaia di tonnellate. Secondo gli inquirenti, a gestire il traffico una rete organizzata di trafficanti, che parallelamente aveva messo in atto sul territorio anche attività di stampo mafioso come estorsioni e usura.  Sono in attesa di processo anche gli imprenditori denunciati a Potenza in seguito all'operazione Panni Sporchi, che ha scoperto un flusso illegale di scarti tessili, con proiezioni anche verso l'Albania e alcuni paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Fingendo un'attività umanitaria, gli indumenti usati venivano raccolti e rivenduti illegalmente in Italia e all'estero. L'operazione ha portato al sequestro preventivo di 18 automezzi impiegati nel trasporto in tutta la penisola e alla denuncia di 57 persone, indagate per associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa, per un giro d'affari valutato dai forestali "in alcuni milioni di euro l'anno". Tra i denunciati, anche 15 funzionari comunali che hanno autorizzato la raccolta degli stracci senza aver verificato il possesso delle relative autorizzazioni da parte degli addetti alla raccolta. "Girando di casa in casa o attingendo ai cassonetti adibiti al recupero di indumenti  -  scrivono gli investigatori del Corpo forestale dello Stato  -  i presunti responsabili hanno raccolto abiti usati per commercializzarli sul territorio nazionale e internazionale".  Inoltre, spesso capita che qualcuno tiri fuori i sacchetti dai cassonetti e si appropri dei pezzi migliori, lasciando a terra il resto. Si tratta di illeciti, commessi da persone che vivono di espedienti: alcuni tra loro prelevano gli abiti per indossarli, ma la maggior parte li usa per venderli nei mercatini abusivi. Complessivamente, il danno alla raccolta è minimo, anche se questo produce un disordine ambientale. Vi è poi un mercato parallelo relativo alle aree private. Sarà capitato a tutti di trovare, affissi su portoni e citofoni, volantini per la raccolta di indumenti usati, con l'indicazione del giorno e dell'ora per il ritiro. Si tratta per lo più di biglietti anonimi o con indicazioni approssimative, che difficilmente consentono di risalire a chi gestisce il servizio. In questi casi, la raccomandazione è di segnalare il fatto alle autorità. A San Donato (Milano), addirittura, sono stati scoperti cassonetti abusivi collocati sui marciapiedi cittadini, di colore e conformazione simile a quelli ufficiali, ma abusivi (privi di logo e posizionati senza autorizzazioni). Le indagini dei carabinieri sono partite proprio grazie alla segnalazione di un cittadino. Al di là degli illeciti, la sensazione diffusa è di una scarsa trasparenza nel mercato. In pochi accettano di raccontare il proprio business, di spiegare quanta parte dell'incasso genera profitti e quanto invece viene destinata ad azioni caritatevoli. "Occorrerebbero normative per obbligare gli operatori del mercato a una maggiore trasparenza informativa nei confronti della comunità", osserva Karina Bolin, presidente dell'organizzazione umanitaria Humana People to People Italia, che nella Penisola gestisce 4.788 contenitori all'interno di 946 comuni e impiega 120 persone, con una raccolta che lo scorso anno è stata di 15,45 tonnellate. "Pubblichiamo ogni anno un bilancio delle attività svolte", rivendica Bolin ricostruendo la filiera: "Gli abiti estivi in buono stato vengono inviati in Africa (1,034 tonnellate lo scorso anno), dove sono regalati solo in casi di emergenza. Negli altri casi sono venduti a prezzi accessibili per ottenere fondi da impiegare per i progetti sociali attivi localmente. Gli abiti non adeguati all'invio in Africa, vengono venduti in Italia e in altri paesi europei, sia al dettaglio sia all'ingrosso. Con i fondi ricavati, oltre ad autofinanziare la nostra attività, impieghiamo gli utili per i progetti di sviluppo nei Paesi emergenti (pozzi, scuole e interventi sanitari) e per azioni sociali e di tutela ambientale in Italia. Andrebbe inoltre imposto l'obbligo di trasparenza dell'intera filiera, dalla raccolta degli abiti usati fino alla loro destinazione finale, e una rendicontazione adeguata", prosegue Bolin. "Anche perché non è giusto trarre in inganno i cittadini, inducendoli a pensare che i vestiti siano destinati a un'attività sociale: al contrario in questo settore si muovono molti operatori non in regola, spesso non controllati dalle istituzioni per la mancanza di adeguati strumenti di verifica".

Le mani della Camorra sugli stracci di Roma, scrive Clemente Pistilli. Gli abiti usati a Roma non hanno più la puzza degli stracci e neppure quell'odore acre ma caldo della beneficenza. Sulle pezze è ormai forte il profumo dei soldi e a imprimerlo sono state le mafie, camorra napoletana in testa. Un affare da oltre due milioni di euro l'anno quello dei 1.800 bidoni gialli sparsi nella capitale, dove i romani svuotano il guardaroba. Troppo ricco per sfuggire ai clan, che da circa un decennio - in base alle ultime indagini condotte dall'Antimafia capitolina - starebbero cercando di imporre la loro legge a suon di minacce e attentati, a partire da quelli alle tre principali cooperative che raccolgono i vestiti vecchi per conto dell'Ama, municipalizzata incaricata dell'igiene urbana, fino a trovare anche qualche forma di intesa con quelle che erano le loro vittime e a rientrare nella spartizione degli appalti pubblici con regista Mafia Capitale. Un business ideato dalle mafie ad Ercolano, in Campania, esportato in Toscana, a Prato, e infine nel Lazio e in Abruzzo, con protagonisti ex collaboratori di giustizia fuori controllo. I tentacoli stretti dai clan sulla capitale sono stati scoperti dopo due anni di indagini compiute dalla Mobile di Roma sulle tonnellate di stracci dirette in Africa e nell'Europa dell'Est, secondo la Dda senza disinfettare e ripulire gli abiti usati raccolti, e con una denuncia presentata nella scorsa primavera ai carabinieri di Cisterna di Latina da un imprenditore del posto, Alfonso Balido, originario di Napoli, impegnato nella Balidex, società che stocca vestiti vecchi. Un anello della catena delle pezze. L'Ama ha dato l'appalto per svuotare i cassonetti degli stracci a due consorzi, per i quali lavorano cinque cooperative. Le coop vendono i vecchi vestiti alle aziende come quella di Cisterna, che a loro volta li cedono a società campane che si occupano della cernita. E di passaggio in passaggio il valore delle pezze cresce. Basta poi evitare la sterilizzazione, o imporre i prezzi alle ditte di stoccaggio, e le somme schizzano verso l'alto. Proprio quello che fa la camorra. A Balido un gruppo di campani ha cercato di imporre il pizzo, furiosi perché aveva iniziato ad acquistare dalla coop New Horizons, prima appannaggio di una loro azienda con sede a Ferentino, nel frusinate. L'imprenditore, con la sua denuncia, il 12 giugno ha fatto arrestare dai carabinieri i fratelli Simone e Pietro Cozzolino, ex pentiti in libertà, e i nipoti dei due, Vincenzo Cozzolino e Vincenzo Scava. Le indagini sono poi andate avanti e le prove dell'estorsione mafiosa, per il pm antimafia romano Lina Cusano, sono talmente evidenti che ha chiesto e ottenuto dal gip Anna Maria Gavoni il giudizio immediato per i quattro, difesi dagli avvocati Giuseppe Bucciante e Giusi Grigoli, un processo iniziato il 16 dicembre a Latina. Gli inquirenti però hanno scoperto anche il cuore dell'infiltrazione della camorra delle pezze. Alla coop Lapemaia, tra il 2004 e il 2009, il deposito è stato bruciato tre volte e alla New Horizons una volta. Il titolare de Lapemaia, Marcelo Rodolfo Ocana, cinque anni fa, denunciò alla polizia: "Temo seriamente per la cooperativa, per la mia incolumità e quella dei miei venti dipendenti, considerando che, notoriamente, il mercato in questione interessa le organizzazioni criminali, camorra in particolare". Ma le intimidazioni sarebbero continuate. "Cozzolino a Cisterna fece capire  -  ha dichiarato lo scorso anno Ocana ai carabinieri  -  che la piazza di Roma era sua". Minacce infine anche alla coop Rau, come confermato agli inquirenti da un socio della cooperativa, Biagio Di Marzio: "Cozzolino mi minacciò in un bar sulla Prenestina Nuova". Ma c'è di più. A un tratto alcune delle coop vittime delle intimidazioni, come Lapemaia e la New Horizons, avrebbero preso parte all'affare illecito degli stracci che, senza alcuna sanitizzazione, venivano spediti all'estero, sotto la regia sempre di Pietro Cozzolino, e del fratello Aniello, latitante dal 2008, tanto che anche manager, come Ocana, e dipendenti delle cooperative sono stati arrestati giovedì scorso. Senza contare che per l'Antimafia sporchi sarebbero anche gli stessi appalti affidati dall'Ama per raccogliere gli stracci, frutto di "compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazioni degli affidi", in cui avrebbe avuto un ruolo di primo piano sempre quel Salvatore Buzzi ritenuto la cassaforte dei fasciomafiosi. E Balido? "La metà dei clienti che avevo a Napoli non vuole più lavorare con me", ci ha confessato due mesi fa, attendendo l'esito del processo in corso a Latina. Il prezzo che si paga denunciando la camorra. Come distinguere gli operatori seri. Come si è detto, nel settore della raccolta di indumenti usati regna la confusione in merito alle modalità di valorizzazione dei capi e dei ritorni per la comunità. Ma la situazione non è del tutto trasparente nemmeno sul fronte dei cassonetti perché, accanto a quelli posizionati in accordo con le amministrazioni comunali, spesso vi sono iniziative estemporanee, nelle quali è difficile persino capire chi sono i promotori e chi si occupa della raccolta. Alcuni accorgimenti possono aiutare a fare una scelta consapevole: sul contenitore per la raccolta degli indumenti devono essere indicati gli estremi della società o associazione che si occupa della raccolta, con un numero di telefono (se c'è solo un cellulare e non un fisso qualche sospetto può essere legittimo), l'indirizzo della sede e il sito Internet. È fondamentale, inoltre, che sia indicata la finalità dell'iniziativa di raccolta. Chi ha dubbi sulla conformità del cassonetto, può verificarne la regolarità telefonando al proprio Comune, che possiede la mappatura completa dei contenitori autorizzati. In alcuni centri queste indicano si trovano anche online.

Ogni città raccoglie a modo suo, scrive Luigi Dell'Olio. La situazione è molto diversificata a livello nazionale, quanto a modalità della raccolta e soggetti impegnati nell'attività. Il tratto comune (tranne poche eccezioni) è la scarsa trasparenza in merito all'incasso della raccolta e alla quota destinata effettivamente a iniziative sociali.

A Torino la municipalizzata Amia ha messo a punto un prontuario online con indicazioni puntuali: il materiale da conferire (abiti, maglieria, biancheria, cappelli, coperte, borse,  scarpe e accessori per l'abbigliamento), le modalità ("gli abiti usati devono essere riposti in sacchetti o imballaggi ben chiusi") e le destinazioni ("il materiale in buono stato viene gestito da aziende che lo mandano nei Paesi in via di sviluppo, mentre ciò che resta viene riciclato per l'ottenimento di materie prime, quali ad esempio la lana rigenerata").

Genova si è dotata di un sistema di tracciabilità che privilegia la trasparenza. Collegandosi al sito Staccapanni si ricavano informazioni sul servizio  -  curato dalla Fondazione Auxilium e dalla Caritas Diocesana, in collaborazione Amiu (Azienda Multiservizi e d'Igiene Urbana) e della cooperativa sociale Emmaus, che cura materialmente il servizio. Nello spazio Web sono presenti i numeri dell'attività (260 contenitori, 1.400 tonnellate raccolte), oltre alla destinazione dei capi, che segue tre strade: una parte viene selezionata e distribuita alle persone in stato di bisogno. Quello che avanza e risulta in buono stato, viene venduto ad operatori del mercato dell'abito usato, mentre il materiale in pessimo stato viene ritirato come pezzame industriale, senza che ciò produca ricavi economici.

A Milano la raccolta è affidata a un gruppo di cooperative sociali organizzate da Caritas Ambrosiana e Compagnia delle Opere, che provvedono al loro riutilizzo o riciclaggio. La capofila è la onlus Vesti Solidale, che ha messo a punto il sito Internet "Dona Valore", la stessa scritta che campeggia sui cassonetti che aderiscono all'iniziativa, con la rendicontazione delle attività svolte. "Complessivamente impieghiamo circa 50 lavoratori provenienti da situazioni di disagio", spiega il responsabile dalla onlus Carmine Guanci. "Dall'amministrazione comunale non riceviamo nulla; l'80% dei proventi della rivendita serve per coprire i costi del servizio e pagare gli stipendi. Il resto finisce nelle iniziative sociali". Nel 2013 sono stati destinati 290mila euro a sostegno dei progetti presentati dalle cooperative promosse da Caritas Ambrosiana e socie del Consorzio Farsi Prossimo. Un dato in crescita rispetto ai 228mila euro del 2012.

Il Comune di Padova ha affidato il servizio alla Caritas Diocesana, che ha predisposto il sito Internet "Che fine fanno", con l'intento di garantire trasparenza alla gestione del materiale riposto nei contenitori gialli. Il servizio è materialmente svolto da un gruppo di cooperative sociali  -  Città solare, Il Grillo, Cooperativa Ferracina, Montericco e Cooperativa Sociale insieme  -  che, attraverso accordi con alcuni comuni e con le società Etra, Acegas-Aps, Veritas, PadovaTre gestiscono la raccolta degli indumenti nel territorio della Diocesi patavina, che comprende cinque province venete. Al termine del processo di recupero e smaltimento le cooperative sociali destinano una parte degli utili derivanti dallo smaltimento o vendita (il 7%) per la realizzazione di alcuni progetti di Caritas Padova, rendicontati sul sito.

A Bologna hanno da poco debuttato i nuovi contenitori studiati da Hera, singolari per colorazione (il grigio, che si armonizza con i cassonetti stradali) e la "vestizione" (giocata su icone che hanno l'obiettivo di rendere facilmente comprensibile ai cittadini la funzione del cassone), con l'obiettivo di far crescere i numeri, dopo che già nel 2013 è stato raggiunto il livello ragguardevole di 647 tonnellate. Materialmente la raccolta è stata affidata al consorzio di cooperative sociali Ecobi, che è subentrato alla gestione frammentata che ha caratterizzato gli anni precedenti. Riunisce imprese locali, come La Fraternità (Ozzano), La Piccola Carovana (Crevalcore) e Pictor (Budrio). Vestiti e scarpe, per il momento, vengono stoccati presso gli impianti di due Onlus (Fraternità e Piccola Carovana). Una volta a regime, invece, Ecobi farà autorizzare a Ozzano un vero impianto di trattamento e selezione, che consentirà un puntuale controllo di tutta la filiera, dalla raccolta alla reimmissione sul mercato, posti di lavoro. Le cooperative infatti, potranno rivendere il materiale raccolto e tenere per le proprie attività sociali i ricavi. Questo sistema permette di non avere costi per Hera né, per il Comune.

A Roma lo scorso anno sono state raccolte 9.500 tonnellate di abiti usati (contro le 7.250 dell'anno precedente), attraverso 1.800 contenitori (nel 2008 erano appena 504), dislocati in tutto il territorio della capitale. Il prelievo (effettuato una volta a settimana, con l'impiego di 61 operai) viene svolto dall'associazione temporanea di impresa Roma Ambiente, composta da due consorzi, l'Alberto Bastiani e Il Solco. Entrambi contattati per questo servizio, non hanno voluto fornire numeri sulla raccolta e sulle destinazioni dei proventi. Di certo si sa che i numeri in gioco sono rilevanti: l'incasso stimato annuo è di 2 milioni di euro all'anno, tanto che ora l'Ama (spa del Comune di Roma) ha in corso il nuovo bando per l'assegnazione triennale del servizio, dal quale conta di incassare una somma consistente. La raccolta viene effettuata da un totale di 61 operatori (le coop danno lavoro anche a ex-detenuti, offrendo loro una possibilità di reinserimento), in media una volta a settimana. Il 15% circa degli abiti usati raccolti finisce nei negozi di vintage, il 45% nei Paesi in via di sviluppo soprattutto in Africa, il 25% viene impiegato come pezzame e il resto diventa scarto o finisce in beneficenza.

Infine a Napoli tre anni fa è stata bandita una gara d'appalto, che ha visto primeggiare il duo composto dalla Onlus Ambiente Solidale e della F. lli Esposito Sas. Gli aggiudicatari, che hanno posizionato un contenitore ogni 1.500 residenti, sono tenuti a corrispondere ad Asia (Agenzia servizi di igiene ambientale) Napoli 3 centesimi per ogni Kg di rifiuto raccolto. Somme che compongono un fondo impiegato per attività umanitarie.

Beffa atroce, ma resistiamo al cinismo, commenta Carlo Ciavoni. La solidarietà, il sentimento umano di aiutare il prossimo, che prende forma in azioni organizzate o individuali e spontanee, mostra a volte il suo volto fasullo, furbo, arcigno. Tutto così diventa più sgradevole, molto di più di quando ci si sente semplicemente fregati, da qualcuno che t'infila le mani in tasca per rubare, o ti raggira con un trucco. L'atto solidale, sospinto da ideali religiosi o laici che siano - quando viene tradito e sbeffeggiato, in chi lo compie si trasforma in un dolore acuto, come un chiodo nella propria intimità etica. La storia dei cassonetti gialli, con tutti quegli indumenti regalati a chi ne ha bisogno, si aggiunge ad altre beffe compiute alle spalle di chi cerca di cambiare in meglio la vita dei disgraziati di questo mondo i quali, senza chiederlo, dovrebbero ricevere senza troppi maneggi ciò che viene loro donato. Purtroppo, l'universo della Cooperazione e del volontariato nella sua complessità non è stato ancora analizzato a fondo. C'è da comprendere, infatti, quali proporzioni abbia davvero il fenomeno della speculazione sugli aiuti umanitari, se esiste, e che profilo ha il volto nascosto della Cooperazione, in ogni sua forma possibile. Si calcola, ad esempio, che nel mondo operino circa 50mila Organizzazioni non governative (Ong) e che le attività riferibili al cosiddetto Terzo settore (cioè Ong, Onlus, fondazioni, enti di carità, cooperative, soprattutto agenzie Onu) muovano un mare di denaro di circa 400 miliardi di dollari. Valentina Furlanetto - giornalista a Radio 24 - un paio d'anni fa ha scritto un saggio, assai contestato per la verità, anche con ottime ragioni, ma che ha avuto comunque il merito di accendere l'attenzione su un aspetto in questo ambito di cose, altrimenti nascosto dalla "nebbia" dei buoni sentimenti. Il saggio s'intitola L'industria della carità - Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto delle beneficenza - Chiarelettere - 243 pagine, 13.90 euro). La Furlanetto sferra un attacco frontale al mondo della Cooperazione e del volontariato. E traccia un elenco di organizzazioni da lei annoverate fra le più ricche: Save the Children, World Visione Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna). Poi si domanda da dove provengano quei soldi e si risponde che arrivano da enti pubblici o da donazioni private. La giornalista denuncia sprechi, ma anche i vuoti del nostro sistema d'assistenza e sottolinea come il Terzo settore sia lievitato negli ultimi quarant'anni: da una ventina che erano negli anni '60, le Ong italiane (una piccola porzione del Terzo settore) oggi riconosciute ufficialmente sono 248, coinvolte in 3.000 progetti in 84 Paesi del mondo, e impegnano 5.500 persone, con un budget gestito di circa 350 milioni di euro l'anno. Bene, detto tutto ciò, va però precisato che, semmai tutto questo "esercito" non ci fosse - e sono tutti a dirlo - quella parte del mondo, circa l'80% dell'umanità, non avrebbe compiuto enormi progressi per quanto riguarda la riduzione delle morti per fame, nel calo vistoso della mortalità infantile e della povertà in genere, oltre che aver aumentato complessivamente la scolarità. La macchina solidale costa: è vero. E sicuramente il rapporto tra quanto viene investito nei progetti di aiuto e il valore reale che resta sul terreno potrà (dovrà) migliorare di molto, a vantaggio dei beneficiari. Ma è altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei cooperanti (che non vanno confusi con i missionari) lavora compiendo scelte spesso difficili di distacco dal proprio ambiente, con stipendi nient'affatto faraonici (almeno nella stragrande maggioranza dei casi) e che comunque riescono sempre a portare a termine programmi di sviluppo o interventi d'emergenza in contesti spessissimo difficili e pericolosi. In casi come questo dei cassonetti di raccolta fasulli, dunque, sarebbe bene non dar sfogo a fantasie che mettano tutto e tutti nello stesso calderone, in una baraonda "de magna-magna" che davvero sarebbe sbagliato e ingiusto associare a questo complicatissimo mondo. La totalità delle organizzazioni che lavorano per aiutare il prossimo, nelle emergenze, nei progetti di sviluppo, o nel lavoro sottile e complesso di chi punta sulla crescita della consapevolezza dei diritti (ignorati da intere popolazioni nel modo povero) lo fanno in totale trasparenza. Tutto è migliorabile, certo, ma sarebbe un grave errore mescolare tutto questo patrimonio di passioni e competenze con fattacci di cronaca nera dai quali, come nella vicenda dei cassonetti gialli, non a caso, fa capolino anche la camorra.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.
Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un al'atro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?  

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

Travaglio: Così hanno truffato Di Bella. Dosi sballate e farmaci scaduti, la sperimentazione della cura Di Bella sarebbe viziata da gravi irregolarità, scrive "La Fucina". A quindici anni dalla fine della sperimentazione il Metodo Di Bella sta tornando a far parlare. Migliaia di pazienti si stanno rivolgendo a Giuseppe Di Bella, che sta portando avanti la terapia inventata dal padre Luigi, per essere curati. Ci sono, inoltre, migliaia di casi di guarigione e i tribunali di diverse città hanno imposto alle ASL locali di rimborsare le cure ad alcuni malati. La sperimentazione di questa terapia alternativa era stata bocciata a fine anni ’90, ma da un’indagine del PM Raffaele Guariniello era emerso che c’erano stati gravi errori nella sperimentazione. È significativo un articolo di Marco Travaglio pubblicato su Repubblica nel settembre del 2000, in cui il giornalista raccontava i lati oscuri della vicenda. Lo riportiamo di seguito: “La sperimentazione della cura Di Bella sarebbe viziata da gravi irregolarità. Peggio: alcuni dei 386 malati di cancro che provarono la “multiterapia” (Mdb) del medico modenese sarebbero stati usati come cavie, trattati con farmaci “guasti e imperfetti”, non si sa con quali effetti sulla salute. E l’ Istituto superiore di Sanità, pur sapendolo, non avrebbe avvertito 50 dei 51 ospedali d’ Italia che sperimentavano i protocolli. Sono queste le conclusioni della lunga e minuzionsa indagine aperta due anni fa dal procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, in seguito ad alcune denunce, sulla sperimentazione nei 4 “centri di riferimento” di Torino (Molinette, San Giovanni antica sede, Mauriziano e Sant’ Anna) e nei 4 della provincia (gli ospedali di Chivasso, Orbassano, Chieri e Cirè). Un’ indagine che non entra nel merito dell’ efficacia o meno della cura, ma si limita ad analizzare la regolarità della sperimentazione. Quattro gli accusati, tutti dirigenti dell’ Istituto superiore di sanità (Iss): Roberto Raschetti e Donato Greco, coordinatori della sperimentazione del 1998, Stefania Spila Alegiani, responsabile dei preparati galenici, ed Elena Ciranni, che curava i rapporti con i vari centri clinici. Grave l’ ipotesi di reato: “somministrazione di medicinali guasti o imperfetti” (punibile, secondo l’ articolo 443 del codice penale, con la reclusione fino a 3 anni). Il direttore Giuseppe Benagiano, a suo tempo indagato, è stato poi archiviato. Nessuna responsabilità per l’ ex ministro della Sanità Rosi Bindi, sentita come testimone in gran segreto, a Roma, all’ inizio dell’ anno. I 4 indagati hanno ricevuto l’ “avviso di chiusura indagini”. Una sorta di preannuncio di rinvio a giudizio, che poi però non è arrivato: grazie alla legge Carotti, i difensori hanno chiesto e ottenuto dal Pg della Cassazione Nino Abbate il trasferimento dell’ inchiesta a Firenze. Con la curiosa motivazione che i farmaci “incriminati” li produce l’ Istituto farmacologico militare fiorentino. Inutile l’ opposizione di Guariniello il quale, sentenze della Cassazione alla mano, ha ribattuto che il 443 non punisce la produzione o la detenzione, ma la somministrazione di farmaci guasti (avvenuta, appunto, a Torino). Spetterà dunque alla Procura di Firenze – che l’ anno scorso aveva già archiviato un’ altra inchiesta sui protocolli Di Bella – trarre le conclusioni: rinviare a giudizio o chiedere l’ archiviazione. Tutto dipenderà dall’ interpretazione delle irregolarità emerse a Torino: errori in buona fede o condotte dolose? Per Guariniello, la prova del dolo sarebbe in una lettera inviata nel ‘ 98 a un ospedale romano, che chiedeva lumi sulla conservazione e la composizione delle “soluzioni ai retinoidi” previste per i protocolli 1 e 9. Nella lettera i dirigenti dell’ Iss precisavano che quelle sostanze hanno una “validità” di soli 3 mesi, dopo di che “scadono” e vanno buttate. Peccato che la stessa direttiva non sia stata diramata agli altri 50 ospedali che sperimentavano la cura. E che infatti continuarono, ignari di tutto, a somministrare quelle soluzioni ampiamente scadute (addirittura vecchie di 4, 5, 9 mesi) e “deteriorate”. Non solo: un gravissimo errore tecnico avrebbe dimezzato il quantitativo di un componente, un principio attivo, fondamentale per l’ efficacia di quelle soluzioni: l’ “axeroftolo palmitato”. In pratica, per i due protocolli, quella sperimentata non era la multiterapia Di Bella, ma una “variazione sul tema” non dichiarata. Così com’ era emerso nel ‘ 98 per altri due protocolli, frettolosamente ritirati dopo che Guariniello vi aveva scoperto alcune sostanze mancanti e alcune altre (come il tamoxifene del professor Umberto Veronesi) aggiunte da una mano misteriosa. Ma quel capitolo è ancora aperto. A Torino.”

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

Cassazione su Ilva: «Giudici tarantini senza condizionamenti», scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.  Il processo sull’inquinamento provocato dall’Ilva si può tranquillamente e legittimamente fare a Taranto perché «non c’è una grave situazione locale tale da condizionarlo» e perché «l’esito non riguarderà il futuro produttivo dello stabilimento siderurgico e dunque anche quello economico-sociale di Taranto ma la condotta di singoli imputati». I provvedimenti adottati dai magistrati tarantini che finora si sono occupati della vicenda «non sono stati il frutto del condizionamento operato da una «grave situazione locale», ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo». La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha depositato le 15 pagine di motivazioni con le quali lo scorso 7 ottobre ha respinto l’istanza di rimessione proposta da 15 dei 52 imputati del processo «Ambiente svenduto». Il collegio presieduto da Umberto Giordano (consigliere relatore Margherita Cassano) ha sostanzialmente accolta la tesi del sostituto procuratore generale Enrico Delehaye e della stessa Procura di Taranto che aveva sollecitato, inviando una memoria firmata dal procuratore capo Franco Sebastio e dagli aggiunti che si sono occupati dell’indagine, la permanenza del processo a Taranto. A rivolgersi alla suprema corte erano state le società Riva Fire (guidata da Claudio Riva) e Riva Forni Elettrici (presieduta da Cesare Riva), imputate ai sensi della norma che disciplina la responsabilità giuridica delle imprese; e le persone fisiche Fabio e Nicola Riva, figli del patron Emilio morto lo scorso 30 aprile, l’ex presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, gli ex direttori del siderurgico Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, i dirigenti della fabbrica Ivan Dimaggio, Salvatore D’Alò, Salvatore De Felice, Angelo Cavallo, i fiduciari del gruppo Riva Lanfranco Legnani e Giuseppe Casartelli; l’ex responsabile dell’ufficio romana Caterina Vittoria Romeo; l’ex responsabile delle relazioni esterne Girolamo Archinà. A sorpresa, però, il giorno della discussione dell’istanza, aveva aderito alla richiesta di spostamento a Potenza del processo, tramite l’avvocato Luca Sirotti, anche il commissario dell’Ilva Piero Gnudi. L’azienda, sottoposta a commissariamento dal giugno del 2013, è imputata nel procedimento per i profili penali previsti dalla legge 231 del 2001 ma Enrico Bondi, primo commissario, non aveva firmato l’istanza di rimessione. Gnudi, nominato lo scorso giugno dal governo Renzi, aveva evidentemente deciso diversamente dal suo predecessore, dando mandato al suo legale di appoggiare la richiesta di spostamento del processo, con argomenti molto critici nei confronti del gip Patrizia Todisco e del gup Vilma Gilli. I giudici della Suprema Corte però hanno ritenute viziate le argomentazioni dei proponenti che «muovendo da indimostrate inferenze totalizzanti, valorizzano una logica presuntiva e dubita dell'imparzialità di un intero ufficio giudiziario non sulla base di fatti verificabili, ma di mere congetture che non trovano riscontro in circostanze obiettive». La Cassazione tornerà ad occuparsi di «Ambiente svenduto» il 4 febbraio, esaminando l’istanza di ricusazione del gup Vilma Gilli presentata dall’avvocato Michele Rossetti, legale dell’ex assessore provinciale Michele Conserva, uno dei 52 imputati.

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto : “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com. Il processo all’Ilva resterà a Taranto e non sarà trasferito a Potenza: lo ha deciso la Corte di Cassazione la sera del 7 ottobre 2014. A presentare la richiesta di rimessione ad altra sede, per legittimo sospetto, erano stati i difensori di alcuni dei 52 imputati per disastro ambientale. I legali di Riva Fire, Ilva spa e di 13 imputati (tra i quali gli avvocati Franco Coppi, Francesco Mucciarelli, Adriano Raffaelli, Nerio Diodà, Stefano Goldstein e Marco De Luca) avevano depositato l’istanza il 5 giugno 2014. Il rigetto è avvenuto il 7 ottobre 2014. In poco meno di 200 pagine, i legali avevano cercato di far perno sull'articolo 45 del codice di procedura penale. Ovvero, come recita l’articolo, "la sicurezza o l'incolumità pubblica", o ancora "la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali" che possono turbare lo svolgimento del processo stesso e non sono neppure eliminabili. Ovvero per “legittimo sospetto”. Dopo l’annuncio i colpevolisti hanno festeggiato, pensando di trovare a Taranto un humus giudiziario favorevole per le loro aspettative. Ma quale è la notizia? Il rigetto scontato dell’istanza? Non ne era convinto del buon esito il buon Franco Coppi, che già ci aveva provato per Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi. Ma ciò non gli ha impedito di presentare l’istanza insieme agli altri legali. Tarantini non lo sono e per questo hanno avuto il coraggio di presentare l’istanza di rimessione per legittimo sospetto che i magistrati del foro di Taranto non potessero essere sereni per il clima generato dalle campagne di stampa che hanno sobillato l’opinione pubblica. Quella stampa che prima era prona alla grande industria e come escort foraggiata. In attesa delle ovvie motivazioni degli ermellini, i giornalisti, degni di tale titolo facciano una ricerca approfondita dei precedenti ricorsi di Rimessione fatti in tutta Italia. Se non vi è capacità o volontà possono sempre attingere ai miei saggi di inchiesta: “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”. Il tema è stato trattato e ci si accorgerà che la legge Cirami mai è stata applicata. Perché la legge si applica per i poveri cristi e si interpreta per i poteri forti, specie se corporativi. Una norma disapplicata in abuso di potere ed a spregio dei diritti di difesa.

“L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state solo due.»

Di queste due istanze accolte, però, non ve ne si trova traccia per farne un attendibile riferimento.

Il collegio della prima sezione penale è stato presieduto da Umberto Giordano, consigliere relatore Margherita Cassano che entro trenta giorni, circa, depositerà i motivi del «no» al trasloco del processo Ilva. Senza successo, quindi, i difensori degli imputati - tra i quali il professor Franco Coppi - hanno sostenuto che i giudici tarantini non sarebbero sereni nell’affrontare una vicenda che coinvolge tanta popolazione della città pugliese dove sorgono gli insediamenti dell’acciaieria che riversa le sue polveri sui quartieri vicino agli stabilimenti.

Via libera al Gup Vilma Gilli, allora. Alla sbarra compaiono non solo i vertici Ilva, accusati di aver creato un’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale della città, ma anche politici, amministratori, funzionari regionali e del ministero dell’Ambiente: dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, all’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, al sindaco della città, Ippazio Stefano, per arrivare ad avvocati (c'è anche un legale Ilva), un poliziotto, un carabiniere e un sacerdote.

Per i manettari: Tutti dentro!!

L’accusa è portata dalla Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, al quale sono affiancati in questa inchiesta il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e quattro sostituti procuratori.

Da ricordare che mina la credibilità del pool d’accusa l’indagine della procura di Potenza a carico di Pietro Argentino per falsa testimonianza, come tutti sanno, per una deposizione resa a favore del’ex Pm di Taranto Matteo di Giorgio, condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale di Potenza.

Come ne sono tutti a conoscenza del conflitto interpersonale tra Sebastio ed Argentino. Nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino.

Quindi un iter giudiziario travagliato che, data la mia esperienza, mi permette, così come ho fatto per il processo Sarah Scazzi, di prevederne il finale: condanna per tutti, salvo prescrizione».

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.

Sarah Scazzi: perché il processo resta a Taranto, scrive Diana De Martino su “Golem Informazione”. In più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice. L’omicidio di Sarah Scazzi è uno di quegli eventi delittuosi che, per una serie di ragioni non tutte comprensibili, ha assunto una dimensione di enorme rilievo sugli organi di informazione, e di riflesso sull’opinione pubblica. Proprio tale abnorme interesse mediatico è stato posto alla base dell’istanza di rimessione presentata dalla difesa di Sabrina Misseri, come è noto imputata assieme alla madre Cosima Serrano, dell’omicidio della giovane Sarah. In sostanza i difensori hanno sostenuto che la campagna di stampa tuttora in corso, dai toni quanto mai accesi ed astiosi nei confronti delle imputate, nonché la pressione dell’opinione pubblica pesantemente schierata per la colpevolezza delle 2 donne, avevano determinato un oggettivo condizionamento nelle attività del Pubblico Ministero e nelle valutazioni del GIP nonché del Tribunale del Riesame di Taranto. A fondamento di tale prospettazione la difesa riepilogava una serie di anomalie riscontrate nell’attività della Procura quali la mancanza di vaglio critico degli interrogatori in cui Michele Misseri, modificando l’originaria versione, aveva accusato la figlia Sabrina; la mancata considerazione delle successive ritrattazioni di tali accuse; l’affidamento di ulteriori consulenze finalizzate ad allineare le conclusioni tecniche con le nuove prospettazioni accusatorie; le iniziative assunte nei confronti dei precedenti difensori di Sabrina Misseri, indagati per fatti inerenti all’esercizio del mandato difensivo; le limitazioni alla corrispondenza dei detenuti Michele e Sabrina Misseri nonché la perquisizione nella cella del Misseri e il sequestro di tutta la corrispondenza rinvenuta. L’attività inquirente era stata orientata, secondo la difesa, dal forte condizionamento che la Procura aveva subito di fronte ad un opinione pubblica ormai schierata contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Ma tale inquinamento si era esteso agli uffici giudicanti cosicché, ad avviso della difesa, proprio tale pesante condizionamento spiegava la revoca della misura cautelare nei confronti di Michele Misseri, che pure in numerose interviste continuava a proclamarsi l’unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi. L’istanza di rimessione formulata sulla base di tali elementi è stata rigettata dalla Corte di Cassazione, con una motivazione a mio avviso del tutto condivisibile, che mette in luce i vari profili di infondatezza degli argomenti difensivi. Va premesso che l’istituto della rimessione, previsto dall’art. 45 del c.p.p., ha la finalità di garantire l’imparzialità e l’indipendenza del giudice nonché l’inviolabilità del diritto di difesa. In pratica la norma stabilisce che quando, per gravi situazioni ambientali, si presenti come probabile un condizionamento dei giudici, che non potrebbero dunque determinarsi in piena libertà ed indipendenza, il procedimento debba essere trasferiti ad altra sede. Si tratta peraltro di uno strumento eccezionale, che non tollera interpretazioni estensive in quanto la conseguente “translatio iudicii” va a collidere con un altro principio costituzionale ovvero quello del giudice naturale. La prima osservazione che deve essere fatta è che le “gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo” devono anche essere “non altrimenti eliminabili”. Ciò vuol dire che vengono in rilievo non l’imparzialità o l’indipendenza del singolo giudice o dello specifico collegio, perché in tali ipotesi sono previsti gli abituali strumenti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione, tutti meccanismi destinati ad eliminare le situazioni che possono incidere sulla libertà di autodeterminazione e sull’indipendenza del singolo magistrato, senza incidere sul principio del “giudice naturale”. Perciò le “gravi situazioni locali” a cui fa riferimento la norma, e che legittimano il trasferimento del processo ad altra sede, devono essere tali da pregiudicare la libertà di determinazione del complessivo ufficio giudiziario. L’art. 45 c.p.p. dunque autorizza lo spostamento del processo nel caso in cui emerga che la grave situazione ambientale, alternativamente:

1) pregiudichi la libera determinazione delle persone che partecipano al processo;

2) metta in pericolo la sicurezza o l’incolumità pubblica;

3) determini motivi di legittimo sospetto.

Nella vicenda in esame si evidenzierebbero – secondo la prospettazione difensiva – le ipotesi di cui alle lettere a) e c). Al riguardo la giurisprudenza ha in più occasioni specificato che il pregiudizio alla libertà di determinazione degli attori del processo implica l’idea di una vera e propria coazione, fisica o psichica; mentre il legittimo sospetto coinvolge la probabilità, fondata su dati obiettivi e concreti, che risulti compromessa l’imparzialità di giudizio. In sostanza, poiché l’istituto della rimessione serve ad assicurare che il giudizio si svolga secondo gli irrinunciabili criteri di libertà e di indipendenza, esso può essere attivato soltanto in via eccezionale, quando, sulla base di elementi concreti, si possa ipotizzare che il giudice sia coartato fisicamente o psichicamente ad una determinata decisione ovvero vi sia il pericolo che possa essere condizionato.

Non sembra che tale situazione possa ravvisarsi a proposito del procedimento relativo all’omicidio di Sarah Scazzi per i seguenti motivi:

- in primo luogo la situazione che sarebbe alla base del sovvertimento del regolare svolgimento delle dinamiche processuali non è una situazione locale bensì nazionale. Proprio il clamore sulla stampa e sui mezzi televisivi - richiamato dalla difesa - ha evidentemente una ricaduta non sulla realtà del distretto di Taranto bensì su tutto il territorio nazionale: i talk show, i telegiornali, le interviste sui quotidiani, gli stessi social-network raggiungono ogni parte del territorio nazionale, cosicché lo spostamento del processo presso l’ufficio giudiziario di Bari (ai sensi dell’art. 11, richiamato dall’art. 45 c.p.p.) non risolverebbe in alcun modo la situazione di potenziale condizionamento.

- in secondo luogo, tale potenziale condizionamento dei magistrati di Taranto non è stato in alcun modo provato. Ed infatti gli argomenti evidenziati a tale proposito dalla difesa, da cui emergerebbe che l’attività inquirente è stata svolta con una sorta di accanimento o di “interpretazione meramente congetturale e illogica” delle emergenze, rappresentano in realtà - come la Cassazione ha riconosciuto - l’espletamento delle funzioni che l’ufficio di Procura è chiamato a condurre istituzionalmente. Analogamente i provvedimenti giurisdizionali indicati dalla difesa come “l’espressione di un pesante condizionamento ed inquinamento dell’attività giurisdizionale” non sono altro che le motivate e ponderate valutazioni dell’organo giudicante.

Si ha anzi l’impressione che la difesa tenti di ottenere – tramite l’istanza di rimessione – una nuova valutazione degli elementi posti alla base delle misure cautelari, in tale sede non consentita. È evidente che nel successivo corso processuale, il complessivo compendio probatorio dovrà essere sottoposto ad un vaglio particolarmente stringente in relazione alle varie ricostruzioni del delitto emerse nella fase di indagine, ma certo l’eventuale rivisitazione degli elementi emersi spetterà alla Corte d’Assise e non alla Cassazione, né può essere veicolata da un’istanza di rimessione.

Resta da aggiungere che in più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice.
Ed infatti chi svolge funzioni giudiziarie è abituato a compiere scelte ed attività che sono oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, e spesso di critica anche esasperata. Ma il giudice non per questo svolge le sue funzioni con un’indipendenza menomata o con un giudizio minato da imparzialità.

Sarah Scazzi. Mentre la Cassazione lascia il processo a Taranto in procura ci si interroga per capire qual è il sogno migliore, scrive Massimo Prati su “Volando Contro Vento”. Volevate il processo a Potenza? Per quale motivo visto che a Taranto, a parte il tribunale invivibile in estate (ma le udienze sono iniziate e siamo solo in autunno), si sta benissimo? E vero, a Potenza l'aria è  fresca e si è meno ossessionati, ma vuoi mettere il gustarsi il mare in inverno? Quindi si resta a Taranto, tutti se ne facciano una ragione perché, come ha detto il procuratore Franco Sebastio, anche fosse cambiata la sede il quadro accusatorio sarebbe rimasto invariato. Per cui, dato che il quadro rimarrà invariato ed il processo si celebrerà nel luogo di origine, dobbiamo aspettarci prima una condanna a 30 anni e poi un'assoluzione in Appello (ultimamente capitano queste cose in Italia)? Può sembrare io vada controcorrente dato che tutti i giornalisti ieri e ieri l'altro hanno scritto di una nuova vittoria delle Misseri (tutti tranne il solito noto che ha scambiato i giudici di Cassazione con quelli di Assise). E questo perché nel Palazzaccio romano si è stabilito che le decisioni dei giudici di Taranto devono essere riviste in quanto fallaci in quasi ogni punto. Ed è vero, la Cassazione ha cassato per l'ennesima volta i giudici di Taranto e, per essere onesti, li ha pure bacchettati di brutto. Ma a guardare bene il tutto non sono io ad andare controcorrente in quanto nella stessa sentenza si accreditano un sogno, basta decidersi e dire quale dei tre portati dagli inquirenti ai giudici si ritiene giusto, le testimonianze ex novo di chi in prima ed in seconda battuta aveva dato orari differenti, ed un range cronologico all'interno del quale Sarah sarebbe morta. Per lo meno si accredita la formula ed il metodo usati dai giudici nell'accettarli. E non può essere che così dato che non è compito della Cassazione andare nel dettaglio e decidere se quanto portato dalla procura ha basi solide, e ci sarà tempo e modo per l'Accusa di ribadirle a processo, le testimonianze, e cercare di farle diventare verità definitive, e ci sarà tempo e modo per la Difesa di provare a tornare alla prima tesi. Ed io credo non sia così complicato, perché se non paiono fallaci quattro testimonianze che cambiano nel tempo, inizialmente concordanti in tutto e per tutto, anticipando o spostando gli orari in modo da tornare ad essere concordanti per affrancare una nuova ricostruzione, significa che il modo di fare chiarezza è ambiguo e non idoneo ad entrare in un processo. Significa che nessun alibi portato a discolpa potrà mai ritenersi valido. E non solo a Taranto ma ovunque ed in qualsiasi processo lo si porti. Significa che ai procuratori basterà convincere chi indirettamente l'alibi l'ha fornito, meglio ancora se assecondato da chi fa tele-disinformazione, specialmente nei più seguiti programmi pomeridiani (vanno bene sia la D'Urso con gli onnipresenti avetranesi, a partire da Anna Pisanò, sia la Venier coi suoi opinionisti e psicanalisti tascabili, buoni per tutte le occasioni, escluso il Marazzita), per poter disporre di una diversa ricostruzione dei fatti, per poter disporre di un maggiore spazio temporale e di un alleato in più. E questo non è ciò che voleva chi ha scritto le tavole della legge. Non lo voleva ma è quanto avviene in Italia, ed è già avvenuto, da quando le indagini sono seguite ossessivamente dai media. Tanto che pare quasi un fatto normale, nei giorni o nei mesi, il cambiare le testimonianze acquisite. E che i giudici credano che il tempo agevoli il ricordo a me pare una presa per i fondelli bella e buona. Come può la mia mente, fra due tre o quattro mesi, ricordare meglio ciò che ha visto ieri o una settimana fa? Come può la mia mente dopo essere stata il bersaglio continuo dei programmi televisivi pregiudizievoli, programmi in cui mi hanno detto e ripetuto che i magistrati "hanno una montagna di prove così" e che quella determinata persona è un'assassina, programmi che mi hanno fatto cambiare idea sull'uomo che inizialmente ritenevo un orco ed ora ritengo manipolato, perché ha "solo" gettato il corpo della nipote in una cisterna piena d'acqua (è stato costretto il poverino)... ripeto, come può la mia mente essere tranquilla e neutrale ad ogni interrogatorio in cui mi si dice che quanto ho dichiarato precedentemente non ci sta nel quadro accusatorio già sistemato e concordante? Come può la mia mente non credere di essersi sbagliata visto che il tam tam mediatico mi continua a dire che non è quello l'orario in cui ho visto e che per essere giusto deve spostarsi di, addirittura, 35/40 minuti? Ma i giudici di Cassazione, oltre ad aver concordato con quelli di Taranto che le procedure giuridiche adottate per anticipare o spostare gli orari erano nelle regole, in un certo senso hanno reso valido, anche se in modo del tutto particolare, uno dei sogni del fioraio. Certo è che in procura devono decidere quale sogno e quale ricostruzione vogliano portare al processo, visto che al momento ne stanno utilizzando tre, ed è ora che optino per la ricostruzione che ritengono migliore. Ma qual'è la migliore? Quella della coppia Cerra/Pisanò che parla di un sequestro avvenuto in via Deledda con Sarah presa per i capelli e trascinata in casa, racconto che si dice fatto dal fiorista alla Cerra poi da questa a sua madre e da quest'ultima ai magistrati? Oppure la migliore è quella delle sorelle Scredo? In questa si è parlato di un sogno dove si diceva ci fosse stato uno strangolamento avvenuto in auto da parte di un ombra robusta dai capelli neri chiamata Sabrina Misseri. Anche nel caso in questione il tutto è partito dalle parole del fiorista, stavolta però da quelle dette alla moglie, che passando di bocca in bocca sono arrivate alla Giuseppina Scredo e sono state scoperte dagli inquirenti, grazie alle intercettazioni telefoniche, mentre la stessa le riportava alla sorella Anna. Ma non sarà che dopo averlo tolto dagli imputati del processo principale, ed averlo messo in stand-by in attesa di decisioni, verrà accettata la ricostruzione dello stesso Buccolieri che, sempre in via onirica, ha semplicemente detto di aver visto la Serrano intimare alla nipote di salire in auto? Perché c'è una enorme differenza fra una testimonianza e l'altra, è innegabile, ed a mio modo di vedere pare che nei giorni, anzi nei mesi, il racconto del fioraio sia stato ripreso da più persone e sia stato, in base a chi lo ha ascoltato e ripetuto, modificato più volte e da più bocche (il solito telefono senza fili). Ma forse la mia è una mente troppo pessimista e condizionata da quanto visto e letto nel tempo, perché la sentenza è sostanzialmente davvero favorevole alle donne ora in carcere. I giudici di Cassazione hanno scoperto quali trucchi sono stati usati da chi continuamente metteva in scena nuovi giochi di prestigio. Hanno scoperto che sarebbe potuto accadere (ma il mio è uno scrivere per assurdo) che Sabrina Misseri fosse processata e condannata due volte, visto che ha due imputazioni diverse per la stessa accusa. Hanno scoperto che non ci sono indizi validi a pronosticare una certa condanna e che, quindi, la ragazza sta in carcere da un anno in base al nulla. Hanno scoperto che non si sa ancora quale sia il luogo in cui i magistrati di Taranto vogliano collocare l'omicidio, in auto, in casa, in garage, sotto il fico, in piazza, dal fiorista? Hanno scoperto che al tribunale di Taranto dal 1987 non amano aggiornarsi sulle Leggi che periodicamente entrano a far parte del Codice Penale italiano. Hanno scoperto che non si è dato spazio alla perizia della Difesa, quella sulla localizzazione dei cellulari, preferendo non aprirla neppure e continuare con la perizia che più li agevolava. Hanno scoperto che a Taranto ci si è dimenticati di ascoltare il Misseri quando ne ha fatto richiesta ed anche dopo, sia quando ha cambiato versione che quando si è inserito agli atti un suo soliloquio, dando di questo un'interpretazione parziale senza chiedere all'occultatore cosa volesse significare in realtà con quelle parole. Hanno scoperto che non si è cercato di capire cosa intendesse dire Sabrina Misseri quando "confessava" la sua colpevolezza ad Anna Pisanò, preferendo accettare le dichiarazioni di quest'ultima senza approfondirne il significato. Hanno scoperto che non esiste motivo alcuno, i giudici di Taranto non l'hanno scritto, che spieghi la carcerazione di Cosima Serrano. Hanno scoperto che i magistrati pugliesi non sanno se questa fosse a conoscenza dello "sfrenato amore" di sua figlia nei confronti di Ivano, non ci sono risultanze che lo provino, hanno scoperto che la si è inserita nel delitto, sia avvenuto in auto oppure in casa o in qualsiasi altra parte, senza giustificarne i motivi. Perché Cosima Serrano avrebbe dovuto aiutare sua figlia ad uccidere la nipote? Per "amore di mamma"? Ed inoltre a Roma hanno capito, salvo poi chiedere ai giudici tarantini di decidere quale ricostruzione accettare (come ho scritto sopra), che non si può ascrivere alle indagate il "sequestro di persona" in base a tre modus operandi onirici differenti e difficilmente provabili. Insomma, il caos continua in quel di Taranto. Però, seppure ora i magistrati debbano mettersi in riga, studiare ed aggiornarsi maggiormente, dopo la sentenza che li ha cassati all'80% nell'animo hanno qualche speranza di condanna in più. Una nasce dai cellulari delle due arpie che il giorno successivo la scomparsa non stavano, come detto dai loro difensori, alla ricerca della nipote ma stazionavano nei pressi di una cisterna. Questo la Cassazione non l'ha cassato, ma per renderlo credibile dovranno trovare il modo di restringere il raggio d'azione della cella che ha agganciato i cellulari, al momento di una ventina di chilometri. Un'altra nasce dal fatto che a Roma non si sono permessi di entrare nello specifico, guardando solo la forma e la scrittura, ed hanno lasciato passare liscia l'affermazione che vuole l'omicidio avvenuto fra le 14.00 e le 14.40. Ciò però non significa che il delitto si sia compiuto fra le 14.05 e le 14.15 (come ha scritto il patologo e come affermano i procuratori) perché potrebbe essere avvenuto anche 25 minuti dopo e restare ugualmente in questo lasso di tempo. Perciò il dire che si possono accettare le ricostruzioni degli orari accertati dalla procura, a riguardo di quanto fatto da Sarah prima della sua morte, anche se pare una forzatura per via delle testimonianze postume, in realtà non è sbagliato. Per capirlo basta fare un ragionamento logico (come ho scritto non toccava alla Cassazione farlo o spiegarlo ma lo si farà in Assise... chi lo spiega questo al giornalista pugliese?). Gli inquirenti tarantini danno credito al dottor Strada che in perizia scrive la morte essere giunta ad un'ora dall'aver mangiato il cordon bleu. E tutto andrebbe a posto se Sarah l'avesse mangiato alle 13.10. Ma le nuove testimonianze della madre e della badante vogliono che la ragazzina lo abbia mangiato alle 13.30, dopo aver ricevuto (a suo dire) il messaggio della cugina e poco prima di prepararsi per uscire di casa (l'orario è agli Atti). Ebbene, in base a questo è capibile da tutti che l'aggressione non può essere iniziata che attorno alle 14.30, e non fra le 14.05 e le 14.15 come si ipotizza nella ricostruzione della procura (che ha inserito appositamente un sms ed una telefonata dell'amica, a cui Sarah non ha risposto, per far credere che alle 14.18 fosse già cadavere). E se l'aggressione si posiziona sulle 14,30, e con quanto portato in Cassazione (pur non volendolo dire) lo dicono i Pm che prendono come base la perizia di Luigi Strada e non io, i minuti disponibili per l'omicidio, parlo di quelli necessari a Sabrina Misseri, tornano ad essere insufficienti per lei ma sufficienti per altri. O vogliamo credere che mentre la figlia spediva e riceveva messaggi la madre faceva il "lavoro sporco"? Perché o crediamo questo o siamo bloccati dalla ricostruzione della procura. Ed a meno che i Pm non tornino da Concetta Serrano e dalla badante romena per cercare un diverso orario del pasto grazie ad altri sforzi mnemonici...

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.

Eppure si leggono queste cose.

PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e  del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento  alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori  dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.

«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

I SUPERDURI DELLE CARCERI: I GOM.

I superduri delle carceri ecco l’epopea nera dei Gom, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. E’ l’elite del corpo di polizia penitenziaria, una struttura simile ai servizi segreti. Si è trovata al centro di pesanti polemiche e denunce per la scia di pestaggi lasciati all’interno delle carceri dopo il suo passaggio, come quello nella struttura di San Sebastiano di Sassari dell’aprile 2000, e per le brutali perquisizioni nel carcere milanese di Opera (da presidente della commissione Giustizia della Camera, Giuliano Pisapia aveva denunciato senza mezzi termini gli «episodi di brutalità» avvenuti, parlando del passaggio di «un vero e proprio uragano che ha distrutto ogni cosa»), fino alla gestione della caserma Bolzaneto, con relative torture, durante il G8 di Genova 2001. Non sono mancate nemmeno le denunce da parte dei penalisti per aver messo sotto controllo, illegalmente, i colloqui con i detenuti. Parliamo del Gom, le guardie operative mobili (o Gruppo Operativo Mobile ndr). È un corpo speciale attualmente diretto dal generale Mauro D’Amico, fu istituito nel 1997 con un provvedimento firmato dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Michele Coiro, ma soltanto due anni dopo (con il decreto ministeriale del 19 febbraio 1999, firmato dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto) ebbe il suo definitivo riconoscimento. Il Gom nasce per provvedere al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis, il carcere duro. Tale norma legislativa venne introdotta nel 1992, nel cosiddetto “super decreto antimafia”, come risposta alle stragi mafiose da poco avvenute e che causarono la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e degli agenti delle loro rispettive scorte. Ufficialmente lo scopo del 41 Bis sarebbe quello di recidere ogni possibile contatto del detenuto con l’esterno, e quindi, con l’organizzazione criminale di riferimento. Proprio per far sì che ciò avvenisse, venne creato il Gruppo operativo mobile, che in realtà raccolse l’eredità di un altro reparto, lo “Scopp” (Coordinamento delle attività operative di polizia penitenziaria), istituito nei primi anni ’90 soprattutto per consentire la sicura esecuzione dei processi, e del “Battaglione Mobile” dell’allora corpo degli Agenti di custodia, che operò a cavallo fra gli anni ’70 e ’80.

MANSIONI “SPECIALI”. Tra le altre funzioni ufficiali di questa struttura vengono indicate il mantenimento dell’ordine e della disciplina negli istituti penitenziari, con priorità a interventi in occasione di “gravi situazioni di turbamento” tipo risse o rivolte dei detenuti; inoltre i Gom sono impegnati nel garantire la sicurezza delle traduzioni e piantonamento relativi a detenuti ed internati definiti ad altissimo indice di pericolosità e con particolare posizione processuale (collaboratori di giustizia e altri), che possono essere effettuati, per motivi di sicurezza e riservatezza, in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia, con particolari modalità operative. Infine al Gom competono i servizi di tutela e scorta del personale in servizio presso l’Amministrazione penitenziaria esposto a particolari situazioni di rischio personale (effettuati dal nucleo Tutela e scorte costituito da circa 50 unità), la traduzione di tutti i detenuti “collaboratori di giustizia”, ad altissimo rischio, la gestione del servizio di multivideocomunicazione (processi in videoconferenza) e gli interventi disposti dal direttore generale nei casi di emergenza previsti dall’articolo 41 bis (irruzioni nelle celle, intercettazioni). Il Gom, diretto dal generale D’Amico, è costituito da circa 700 uomini alle dirette dipendenze della direzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ufficialmente ha compiti di sorveglianza e protezione dei detenuti di massima pericolosità. Insomma è un fiore all’occhiello del corpo di polizia penitenziaria e gode di cospicui finanziamenti. Come abbiamo già scritto, il Gom nasce dalle ceneri dello Scopp, corpo speciale che oltre a sedare le proteste ha avuto la funzione, poi ereditata dal Gom, di acquisire informazioni. L’operato del Gom è stato sempre messo in discussione per i suoi metodi non propriamente democratici. Nel passato ci furono molte denunce da parte dei detenuti per il modo brutale delle loro ispezioni alle celle. Proprio per questo si era pensato a un coinvolgimento dei Gom nel pestaggio del carcere di Sassari dell’aprile 2000, sebbene sia poi emerso che la presenza di agenti Gom fosse limitata a poche unità. I Gruppi operativi mobili sono coperti dalla più totale impunità in quanto non rispondono delle loro azioni né alla direzione né al comando delle guardie dell’istituto penitenziario in cui intervengono, e godono dell’autorizzazione a intervenire direttamente dal ministero. Durante gli anni ’90 furono aperte due grandi inchieste per maltrattamenti avvenuti nelle carceri di Secondigliano e Pianosa. Vennero rinviati a giudizio 65 agenti dello Scopp diretti dall’allora generale Enrico Ragosa, poi passato al Sisde e successivamente alla direzione dell’Ugap (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che dirige l’attività dei Gom . Il carcere di Pianosa venne in seguito chiuso per intervento dell’ex direttore del Dap, Alessandro Margara. L’ex direttore, davanti alla Corte europea, utilizzò parole inquietanti e di estrema attualità: «I fatti accaduti nella prigione di Pianosa erano stati voluti o quanto meno tollerati dal governo in carica. In particolare i trasferimenti erano effettuati secondo modalità volte a intimorire i detenuti stessi. La famigerata sezione Agrippa era stata gestita ricorrendo ad agenti provenienti da altre regioni (ossia reparti speciali) che disponevano di carta bianca. Il tutto corrispondeva ad un preciso disegno ». Alessandro Margara fu poi sostituito da Giancarlo Caselli per volere dell’allora ministro Diliberto. Sì, lo stesso ministro che, una volta disciolto il famigerato Scopp, ha istituito il Gom. Non ha fatto in tempo a renderlo operativo che già scoppiarono degli scandali. Il primo accade nel 1998. Una quindicina di agenti Gom entrarono nel carcere milanese di Opera per effettuare una perquisizione straordinaria dove si arrivò perfino allo scontro con le guardie penitenziarie semplici. In quell’occasione, nei giornali, si utilizzò il paragone cileno: «Detenuti spogliati, qualcuno anche tre volte, costretti a ripetuti piegamenti, pure i cardiopatici e gli anziani; quindi raggruppati nel cortile, al freddo dalle 9.30 alle 13.30, chi in accappatoio, chi scalzo, mentre le celle venivano perquisite». «Alcuni agenti di Opera erano sconcertati, ed hanno raccontato di aver rischiato di arrivare alle mani con i loro colleghi del Gom». Le richieste di scioglimento dei Gom in quell’occasione non portarono a nessun risultato. Anzi, nel 1999, il solito ministro Diliberto, dopo aver posto ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria Giancarlo Caselli in sostituzione di Margara, fece nascere l’Ugap (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che attualmente dirige l’attività dei Gom. A capo dell’Ugap vienne messo l’allora generale Enrico Ragosa, già degli Scoop e del Sisde, che guiderà anche la spedizione di funzionari del ministero di Giustizia italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione e riorganizzazione post-bellica del sistema penitenziario kosovaro. L’altro scandalo prosegue nel marzo del 2000 dove agenti dei Gom intercettarono, in palese violazione della legislazione vigente, le comunicazioni tra un imputato e il suo avvocato durante un processo per associazione camorristica. Arriviamo poi ai giorni terribili del G8 di Genova, repressione definita da Amnesty International «la più grande sospensione dei diritti democratici, in un Paese occidentale, dalla fine della Seconda guerra mondiale ». Alla caserma Bolzaneto, dove furono trattenuti i manifestanti, avvennero delle indicibili violenze da parte dei penitenziari.  In particolar modo la spedizione punitiva (secondo l’allora magistrato, capo del Dap Alfonso Sabella, fu tutto regolare) era composta esattamente dai Gom. Dopo quei fatti, associazioni come Antigone chiesero l’immediato scioglimento del Gom, e magari di sostituirlo con un corpo controllato e trasparente. Insomma più democratico.

Le testimonianze.

Parla un celerino. "Le violenze alla Bolzaneto sono cominciate venerdì, con i Gom. "Faccetta nera"? L'ho sentita", scrive Francesco Paternò. Celerino, in forza a uno dei reparti impiegati a Genova nei giorni del G8, ha prestato servizio anche alla caserma Bolzaneto. Una storia e una cultura molto di sinistra ("no, non mi sento in contraddizione, come poliziotto penso di dover difendere le istituzioni democratiche"), un passato di tifoso ultrà di una squadra di calcio di serie A. Ha accettato di parlare con il manifesto di quei tragici giorni. Ne conosciamo ovviamente nome e grado. "Le violenze contro i manifestanti portati alla Bolzaneto - inizia il racconto - sono cominciate già il venerdì sera. A compierle, sono stati quelli della penitenziaria, i signori del Gom. Gente presa a calci con estrema violenza e in modo sempre più scientifico, fino al trasferimento all'interno dove nessuno di noi dei reparti mobili ha potuto vedere quel che succedeva. Anche se mi risulta che alcuni colleghi, finito il servizio, si siano uniti a loro nel picchiare. Per picchiare non intendo uno scappellotto, uno spintone, quello ci può stare. Poi c'è stato il pestaggio della domenica, frutto di un'operazione collettiva e fatto da personaggi esterni alla truppa dei reparti mobili. Chi canticchiava ai fermati Pinochet e cose razziste? Sicuramente personaggi esterni alla caserma, gente che conosce bene quel retroterra di destra estrema. Anche se 'Faccetta nera' nella suoneria di un telefonino l'avevo già sentita prima". Sotto accusa, dunque, torna a essere la figura del "personaggio esterno", riconducibile agli uomini della penitenziaria. Presenti a Genova in una settantina, provenienti da Roma. Perché loro? "Vengono utilizzati - risponde il nostro interlocutore - per operazioni delicate. I Gom sono addestrati all'applicazione di tutte quelle che sono le garanzie di sicurezza legate al trattamento di personaggi sottoposti a regime di carcere duro. Qui, credo, ci sia stato l'errore: è gente abituata a trattare mafiosi, e un mafioso picchiato non parla, a differenza di un manifestante politicizzato che sa di poter contare su referenti politici esterni. I Gom debbono gestire trattamenti di sicurezza particolari, badando anche a salvaguardare loro stessi. E possono passare da trattamenti duri ad altro, qualcuno può eccedere di questo regime anche se io ritengo si tratti esclusivamente di colpe personali. Non ci sono ordini scritti ed è impossibile rintracciare le responsabilità. Ma a questo punto è tutto un gioco di scaricabarile. A cominciare dal capo della polizia che è stato messo alle corde". Alla Bolzaneto sono dunque stati usati i Gom perché davano maggiori "garanzie", se così si può dire? "Lasciare dei fermati alla furia cieca di quattrocento persone di un reparto mobile impegnato in piazza ai limiti di una guerra civile è una responsabilità talmente grande, che avrebbe potuto portare anche a morti in caserma. Così i vertici devono aver pensato di affidare la gestione di questa cosa a chi ha le competenze. Per identificare, fermare, picchiare". Sabato notte, l'incursione dentro le scuole Diaz e Pertini. Perché? "Non so da chi è partito l'ordine. Di sicuro, lì non c'erano i reparti mobili, ma una settantina di agenti del 7 raggruppamento di Roma, l'élite, quelli del nucleo antisommossa. Io ho una personalissima opinione: questa operazione non sarebbe avvenuta con un governo di centrosinistra, perché non avrebbe mai promosso un'azione che poteva anche essere giusta ma con significati politici di una rappresaglia. In un'informativa ricevuta dai servizi segreti, c'era l'annotazione che dentro la Diaz erano nascosti 15 terroristi di livello internazionale. E invece è stata portata via dentro i sacchi a pelo gente sanguinante". E' stata rappresaglia anche domenica dentro la Bolzaneto, con i fermati picchiati e maltrattati per ore? "Chiamiamola così - continua il nostro interlocutore -certo c'è stata un'esacerbazione degli animi portata avanti due giorni, la violenza era nell'aria anche se il vertice era finito, c'erano ancora voci che si rincorrevano da una parta all'altra della città che trasformavano per esempio un carabiniere ferito a un occhio in un carabiniere morto". Questo è il dopo. E prima, come siete state preparati? "Ci hanno detto: per il G8, preparatevi alla guerra. In piazza, c'è chi aveva avuto la brillante idea di comunicare attraverso la posizione dei manganelli, i manifestanti hanno risposto provando ad accecarci con il sole riflesso negli specchietti per coprire, per esempio, un lancio di sassi. Prima che cominciasse il G8, la stragrande maggioranza dei poliziotti diceva che quando i manifestanti sarebbero arrivati, anzi, quando le zecche o i comunisti sarebbero arrivati, ci avrebbero massacrati. No, non lo si diceva per paura, ma per i numeri che sentivamo, centomila, duecentomila persone. Noi siamo consapevoli del nostro ruolo e della nostra preparazione, che ritengo adeguata anche se le dotazioni aggiuntive per Genova alcuni reparti non le hanno avute. Si tratta di protezioni rigide per il corpo, corpetti tipo quelli indossati dai giocatori di hochey su ghiaccio, solo i carabinieri le hanno avute tutti. Ci alleniamo ogni domenica allo stadio contro i tifosi violenti, sono tutte situazioni gestibili, mentre a Genova si è rasentato la guerra civile. Ma il clima generale non era 'li andiamo a massacrare', non c'era questa volontà. C'era la volontà di portare la pelle in salvo. Da molto tempo arrivavano informative dei servizi segreti che parlavano di possibili attentati nella città e di possibile uso da parte di alcuni centri sociali più estremi e di frange dell'anarchia nera di mezzi tipo acido muriatico o sangue infetto. Per persone che vanno dai 20 ai 30 anni, sapere di scendere in piazza in questo clima non per difendere il paese da chissà che ma per fare un lavoro che finisce giornalmente, un lavoro come un altro, è dura. Bisogna sapere che ci si arruola in polizia ancora soprattutto dal sud, perché bisogna fare i conti con una disoccupazione ai massimi livelli. Un celerino di base guadagna come un poliziotto, 1.864.000 lire al mese, poi ci sono competenze e indennità. In un mese di particolare lavoro si possono sfiorare i 3 milioni". Che tipo di cultura c'è dentro i vostri reparti? "La base ha una cultura di destra, una cultura militare. Alla Bolzaneto ci sono simpatizzanti di Forza Nuova, si vede in giro qualche svastica. Ma nella celere non si va per vocazione, è il settore operaio della polizia di stato. E' una scelta di prima destinazione, per chi esce dalle scuole e non ha calci per finire da qualche altra parte. Magari qualcuno chiede di andare in sedi particolari, lì c'è un reparto mobile e così ti ritrovi nella celere e sei stato pure accontentato. C'è cultura della violenza, a molti piace l'idea di picchiare. Il livello di cultura è medio basso anche tra gli ufficiali, tutti di destra. E si sentono discorsi che rasentano il limite dell'incostituzionalità, di sfiducia estrema nelle istituzioni democratiche. La violenza nasce da questo retroterra". (Il Manifesto, 1 agosto 2001).

"A Bolzaneto era la celere a pestare i prigionieri", scrive Claudia Fusani su “La Repubblica”.

"Ce li consegnavano pestati, sanguinanti, qualcuno piangeva, altri urlavano, altri ancora erano impietriti dalla paura e con gli occhi pesti. Un ragazzo straniero aveva i testicoli rotti dai calci, mi sembrava fosse tedesco, non ho mai visto tanto dolore sulla faccia di una persona. Ma noi non c'entriamo nulla: portavamo quei ragazzi in carcere così come ci arrivavano dai gabbioni della polizia. Due li abbiamo ricoverati in ospedale".

Intende dire che i fermati erano stati ridotti in quelle condizioni dalla polizia?

"Io non ho visto pestaggi con i miei occhi ma neppure potevo visto che stavo sempre chiuso dentro l'ufficio matricola. Spesso mi affacciavo nel corridoio che portava ai gabbioni della polizia distanti almeno cinquanta metri dal mio ufficio, sentivo urli e pianti dal fondo della palestra, ma non potevo vedere".

Cori e inni a Pinochet?

"No, sentivo urlare. Ma non so dire perché. C'era tanta gente e tanta confusione. Era una situazione molto particolare. Bisognava esserci per capire. Gli arrestati sono stati 288 ma da Bolzaneto, in tre giorni, sono passate più di 500 persone: molti sono stati mandati via dopo ore di fermo. Erano finiti lì per sbaglio". L'ispettore Paolo Tolomeo è in forza al Gom, il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, il reparto scelto del Dap che secondo alcuni poliziotti sono stati "i veri aguzzini" di quel lager chiamato Bolzaneto, la caserma del sesto reparto mobile della polizia di stato.

Ispettore, lei era in servizio a Genova durante il G8?

"Io sono stato in servizio alla caserma Bolzaneto dalla mattina del giorno 17 a mezzogiorno di lunedì 23 luglio. E per tre giorni, venerdì, sabato e domenica non sono mai smontato dal servizio se non per un paio d'ore".

Dunque un testimone diretto. Un poliziotto accusa il suo reparto, il Gom, di essere stato il vero responsabile dei macelli a Bolzaneto.

"Dare la colpa alla polizia penitenziaria è spesso la cosa più facile. Ora le spiego perché quello che dice l'agente di ps è tecnicamente impossibile".

Dica.

"Il Gom e gli agenti della polizia penitenziaria sono stati inviati a Genova, in tutto duecento persone, con l'unico incarico di provvedere alla immatricolazione e traduzione dei detenuti. Noi non siamo mai stati impiegati in ordine pubblico per strada e a Bolzaneto, territorio della polizia di stato. Avevamo il divieto di occuparci dei fermati. Noi li prendevamo in carico dopo ore che stavano ammassati in trentaquaranta dentro i gabbioni. Da noi arrivavano dopo l'identificazione e quando l'ufficiale di polizia giudiziaria aveva scritto il verbale di arresto. A quel punto passavano all'immatricolazione, si comunicava in quale carcere sarebbero andati a finire e venivano sottoposti a visita medica".

Dunque non c'erano contatti o zone miste fra voi e la polizia?

"Assolutamente no. Direi quasi che c'era una specie di limite invalicabile, territoriale e professionale".

E' difficile immaginare quello che dice visto che eravate tutti nello stesso ambiente, molto grande ma pur sempre lo stesso edificio.

"Dentro la grande palestra della caserma sono stati costruiti, apposta per il G8, nove gabbioni, celle con tanto di sbarre, tutte in dotazione della polizia e tutte destinate a trattenere i fermati prima dell'immatricolazione. La polizia penitenziaria aveva altri due gabbioni accanto all'infermeria gestita da tre medici e sei infermieri. Qui i giovani ormai arrestati aspettavano per andare verso le carceri di Alessandria e Pavia. E qui, solo qui, noi della polizia penitenziaria potevamo entrare".

Quanto tempo passava dall'arrivo dei fermati a Bolzaneto al passaggio all'ufficio matricola, cioè sotto la vostra giurisdizione?

"Dipende, in certi momenti, venerdì pomeriggio, sabato pomeriggio e sabato notte, anche ottonove ore. I blindati della polizia scaricavano trenta, quaranta persone per volta".

Numeri che raccontano veri e propri rastrellamenti.

"I numeri sono questi".

Un giovane arrestato dice che agenti della polizia penitenziaria si sono infilati guanti neri imbottiti e hanno picchiato per un'ora.

"Noi non avevamo guanti neri, solo quelli bianchi di lattice".

Una ragazza ha raccontato di essere stata minacciata di stupro dai Gom.

"I Gom in servizio a Bolzaneto erano sei per turno. Gli altri erano normali agenti di polizia penitenziaria e addetti al servizio traduzioni".

Lei è mai entrato in un gabbione?

"Nei nostri. Per quello che ci riguarda abbiamo offerto acqua, sigarette e cercato di tirarli un po' su di morale. Qualcuno sarà stato anche un duro ma i più sembravano ragazzini morti di paura".

Vi accusano di perquisizioni violente, ad esempio piercing strappati dal naso e capelli lunghi rasati di colpo.

"I piercing sono stati tolti con la pinzetta dal medico. Così come i braccialetti di spago ai polsi sono stati tagliati con le forbici. Capisco che anche queste sono violenze ma il regolamento penitenziario impone di non portare in cella certe cose".

Perché vi accusano?

"I ragazzi avranno confuso le divise. La polizia cerca di scaricare su di noi ma siamo gli unici a non aver fatto nulla". (27 luglio 2001).

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

Quando i magistrati amministrano la giustizia ed anche l'economia.

Nel corso di un procedimento penale, il Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero che conduce le indagini, può disporre, a titolo cautelare, il sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 e segg. Cod.proc. pen., di patrimoni, aziende, titoli, conti correnti, beni mobili ed immobili di cui è consentita anche la confisca. In tale ipotesi, al fine di assicurare la custodia, la conservazione e l'amministrazione dei beni in sequestro, il Giudice che ha disposto il sequestro, nelle more dello svolgimento delle occorrenti indagini e dell'istruzione del processo, allorquando sia sequestrata una o più aziende cui assicurare la continuità del ciclo produttivo ed i livelli occupazionali, procede alla nomina di un Amministratore di riconosciute esperienza e professionalità, ai sensi dell'art. 12 sexies, I, III e IV comma bis, DL 306/1992 convertito con modificazioni in legge 356/92. Tale disposizione normativa che regola i poteri e le facoltà concessi all'Amministratore Giudiziario è definita “norma di collegamento” atteso che essa richiama il disposto normativo di cui agli artt. 1 e segg. della legge fondamentale (Rognoni-La Torre) 575/65 e successive modificazione e integrazioni; in particolare delle disposizione che interessano la gestione e la destinazione dei beni sequestrati o confiscati. L'Amministratore Giudiziario opera in stretto rapporto con il Giudice, definito Giudice Delegato alla misura applicata, il quale autorizza, tra gli altri, di volta in volta ed a seguito delle relazioni/Istanze scritte dall'Amministratore Giudiziario, il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. L'Amministratore Giudiziario, nello svolgimento del suo incarico, è altresì obbligato al deposito di relazioni e di rendiconti periodici relativi all'attività svolta e, all'atto della definizione del procedimento, alla redazione del rendiconto finale nonché – in ragione degli esiti del detto procedimento - alla restituzione dei beni all'avente diritto o, nell'ipotesi in cui venga disposta la confisca, alla consegna all'Erario ed in tale ipotesi egli può assumere l'incarico di Amministratore Finanziario.

Credo di spiegarmi l’idolatria verso i magistrati dei comunisti e dei penta stellati para comunisti (perché chi è comunista, è cattivo ed invidioso dentro). Loro pensano, non avendo niente da perdere in termini di proprietà, che i “padroni” sono tali sol perché rubano. Se poi questi padroni ladri sono del sud Italia, ecco presentati al mondo i mafiosi. Da ciò deriva per i sinistroidi la voglia di dire “quello che è tuo, è mio, quello che è mio, è mio”. Per gli effetti ai comunisti serve un potere che sia al di sopra di quello economico-finanziario. Pensano di avere dalla loro parte i magistrati che li vendicano punendo i padroni. Per questo li assecondano in tutti i loro voleri. In questo modo i comunisti vedono nemici ovunque, ove non vi sia condivisione delle loro vedute. Non pensano, i fessi, che facendo così alimentano le ingiustizie sociali. Uno, perché in carcere ci sono solo indigenti, spesso innocenti. Due, perché in Italia il vero potere lo detengono i magistrati. Tre, dove vi è povertà, vi è ignoranza, quindi non si è liberi di conoscere per scegliere. In questo caso non si parla di democrazia, ma di magistocrazia. Inoltre, né i magistrati, né i comunisti vengono da Marte. Ergo, nel marcio italico si è tutti uguali. E' necessario non guardare fuori, ma guardarsi dentro. E non alimentare leggende metropolitane in simbiosi con i propri simili. Basta aprire al mondo il proprio cervello.

Da sempre auspico la realizzazione di una figura super partes che tuteli verità e giustizia. Un difensore civico giudiziario che abbia il potere del magistrato, ma che non sia uno di loro, corporativamente influenzabile. Uno che abbia il potere di aprire quel fascicolo e scoprire cosa c'è dentro. Altrimenti quel fascicolo rimasto chiuso cristallizza una verità mistificatrice.

La verità raccontata da un’altra prospettiva contro i maestrini dell’informazione, spesso di sinistra ed ammanicati con i magistrati. Ed i leghisti ci sguazzano nella verità artefatta.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it,  Lulu.com, CreateSapce.com e Google Libri.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta».

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

E' finita come doveva finire, visto che in appello perfino il procuratore Santamaria aveva chiesto l'assoluzione. Il tribunale, però, aveva deciso di arrivare a giudizio, condannando gli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana a un anno e sei mesi di reclusione per evasione fiscale. Condanna che oggi la Cassazione ha cancellato in via definitiva per che gli imputati "non hanno commesso il fatto". Insieme ai due stilisti è stato assolto anche il commercialista Luciano Patelli, scrive “Libero Quotidiano”. L'accusa di omessa dichiarazione dei redditi riguardava la società Gado, all'epoca dei fatti con sede in Lussemburgo, per gli anni 2004 e 2005. Secondo la tesi accusatoria della procura di Milano, la Gado sarebbe stata un caso di esterovestizione, basata in Lussemburgo solo per pagare meno tasse ma di fatto amministrata in Italia. La società era stata creata per la gestione dei marchi, tra cui Dolce&Gabbana, D&G Dolce e Gabbana, ceduti alla Gado dai due creatori di moda. La contestazione nei confronti della società - e degli imputati - era di non aver pagato tasse per un imponibile di 200 milioni di euro. In primo grado Dolce e Gabbana erano stati condannati a un anno e otto mesi ciascuno, con riduzione come detto di due mesi in appello. oggi l'assoluzione dopo oltre due anni di processo. Nel luglio 2013 il Comune di Milano aveva negato l'uso di uno spazio pubblico ai due stilisti perchè "evasori".

Prosciolti con la formula perché il fatto non sussiste Vito Gamberale, ex amministratore delegato di F2i; Mauro Maia, partner in F2i; e Vinod Sahai, il procuratore speciale di Srei Infrastructure Finance Ltd Behari, scrive “Il Corriere della Sera” il 24 ottobre 2014. Lo ha deciso il gup Anna Maria Zamagni davanti al quale si è tenuta l’udienza preliminare del procedimento per turbativa d’asta relativo alla vendita da parte del Comune nel dicembre 2011 del 29,75% della Sea a F2i. «La giustizia si è avverata in Italia, abbiamo sofferto per due anni e mezzo». Così l’ex ad di F2I, Vito Gamberale, ha commentato la sua assoluzione. «L’Italia non può tenere in piedi un giudizio di questo genere per due anni - ha spiegato - e oggi è venuto fuori che non c’era nulla, il vuoto torricelliano, e oggi rendiamo grazie alla giustizia italiana». Poi ha sferrato un attacco a Pisapia:«Il sindaco di Milano è un pover’uomo, con che faccia si è presentato come parte lesa... Milano merita altro».

L’origine dell’indagine. L’inchiesta sulla vendita della azioni Sea per cui si è tenuta l’udienza preliminare a Milano a carico del presidente del fondo F2i, Vito Gamberale e di altre due persone nasce dalla trasmissione, nell’ottobre del 2011 da parte della Procura di Firenze a Milano di un’intercettazione di tre mesi prima nella quale Gamberale parlava con il manager di F2i Mauro Maia (anche lui imputato nell’udienza preliminare). Pochi giorni dopo, Bruti mise quell’intercettazione in un fascicolo che assegnò al dipartimento reati economici guidato da Francesco Greco, che il 2 novembre lo affidò a un pm del suo pool, Eugenio Fusco. Il 6 dicembre 2011, Fusco segnalò a Bruti la necessità di trasmettere il fascicolo al dipartimento di Robledo, perché si poteva ipotizzare una turbativa d’asta. Bruti Liberati tre giorni dopo avvertì Robledo che gli avrebbe girato il fascicolo, ma alla fine gli assegnò l’indagine solo il 16 marzo 2012 e, dunque, con un ritardo di almeno tre mesi.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori. E comunque la mafia segue il denaro, ed al sud denaro ne è rimasto ben poco.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

"Io, vescovo rimosso dalla Santa Sede per la mia lotta contro mafia e massoni". Il caso di Francesco Miccichè, alto prelato di Trapani, rimosso dal suo incarico nonostante per i magistrati sia "parte lesa". Mentre la curia della città siciliana è al centro di uno scandalo sulla gestione di fondi e beni ecclesiastici. In una trama che vede protagonista anche lo Ior, scrive Piero Messina su “L’Espresso”. "Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”. Le parole sgorgano come pietre dal memoriale di Francesco Miccichè, documento di oltre cento pagine, redatto del vescovo alla guida della Diocesi di Trapani dal 1998 sino al 16 maggio 2012. Quel giorno la rimozione arriva, a firma di Adriano Bernardini, Nunzio Apostolico in Italia. E’ l’obbligo alle dimissioni. La nota inviata dalla Santa Sede – e classificata con il bollo di "segretissima” – ha il sapore della minaccia: senza  l’abbandono immediato della Diocesi, la destituzione si sarebbe celebrata con la pubblicazione sull’Osservatore Romano, entro 72 ore. Per un religioso, peggio di una fucilazione. Da quel momento, Monsignor Miccichè tenterà in tutti modi di aprire un canale con la Santa Sede, prima con Papa Benedetto XVI e poi con il Santo Padre Francesco. Senza ottenere nulla, se non un brevissimo incontro, alla fine dello scorso anno con Papa Bergoglio: "Ho chiesto al Papa udienza per poter raccontare la mia storia – ammette il prelato – e il Santo Padre mi ha pregato di rivolgere la richiesta al suo segretario particolare”. Non è successo nulla: Città del Vaticano, sul caso Miccichè, ha eretto il classico muro di gomma. Ora, in quel memoriale, il vescovo messo ai margini della comunità religiosa ripercorre la sua via crucis laica. Da oltre tre anni la Curia di Trapani è l’epicentro di una serie di inchieste giudiziarie che ruotano attorno alla gestione dei fondi e dei beni ecclesiastici. Sullo sfondo di quelle carte giudiziarie si intravede la lotta per il potere e per il controllo delle Diocesi siciliane, l’inviolabilità dello Ior e l’immancabile ipotesi di inquinamento mafioso. Con in più l’ombra della massoneria deviata. Dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife sono gli ingredienti di questo plot Vaticano in salsa siciliana, racchiuso nel dossier del vescovo. Ora che la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, si avvia a chiudere le indagini, resta l’interrogativo di quella rimozione ex abrupto di Monsignor Miccichè dalla Diocesi. Perché il vescovo siciliano, secondo la ricostruzione dei magistrati, è considerato, almeno sino ad ora, "parte lesa” in quei procedimenti giudiziari. Miccichè è convinto di pagare un conto dalla genesi antica. Sin dall’arrivo nella Diocesi, il vescovo siciliano ha messo nel mirino mafia e grembiulini. Nel marzo del 2000, attacca così le logge trapanesi e la mafia: ''La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le Diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella di Trapani, vivono in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”. Scoppia un putiferio, con la massoneria italiana che accusa il monsignore di oscurantismo. Miccichè sarà minacciato: "mi venne detto – da un padre della Società religiosa di San Paolo, ndr - che se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria avrei fatto una brutta fine. Tragica profezia”. Il vescovo di Trapani chiederà aiuto al Vaticano: "Chiesi udienza al Cardinale Joseph Ratzinger allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e fui ricevuto dall’allora Segretario della stessa congregazione Sua Eccellenza Mons. Tarcisio Bertone al quale riferii quanto mi era successo e a lui chiesi lumi su come comportarmi… Alla mia obiezione come mai non si mettesse un freno ai preti che andavano in tutta Italia a fare conferenze in favore della massoneria, Bertone mi rispondeva candidamente: Ma cosa vuole, Eccellenza, anche in Vaticano ci sono cardinali, vescovi e prelati iscritti alla massoneria”. Schizzi di fango colpiranno l’episcopato di Miccichè a Trapani di nuovo nel 2009, quando un esposto anonimo, il primo di una lunga serie, sarà recapitato alla Procura nazionale antimafia, allora retta da Piero Grasso, al Cardinale Bertone e al Cardinale Re. In quel documento si accusa Miccichè di avere al suo fianco come "segretario vescovile” un esponente di una famiglia della mafia rurale di Alcamo. In quel documento, per la prima volta, viene citata anche la Fondazione Auxilium, struttura sanitaria guidata dalla Diocesi di Trapani e convenzionata con la Regione siciliana. Miccichè respingerà ogni accusa e dimostrerà che quel "segretario”, era in realtà solo l’autista dalla Diocesi di Trapani, assunto prima del suo arrivo. Miccichè non nega di avere subito pressioni dalla mafia: "Anch’io da subito arrivato in Diocesi fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia, ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Nel mese di febbraio del 2011 la Diocesi di Trapani finisce al centro di uno scandalo finanziario. Si ipotizza un buco milionario nei conti della Curia. Sotto la lente delle Fiamme gialle finisce anche la gestione di due fondazioni della curia siciliana, la Auxilium e la Campanile, già fuse nel 2007. Auxilium è una struttura sanitaria con oltre 300 dipendenti e conta su una convenzione dal valore di 5 milioni di euro con la sanità regionale. Miccichè, nel 2009, ha nominato suo cognato come procuratore della fondazione. La giustizia italiana e quella vaticana si mettono in moto. Le indagini puntano anche al direttore degli uffici amministrativi della curia di Trapani, padre Ninni Treppiedi. Alla fine, nell’inchiesta della Procura di Trapani risulteranno 14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio. Treppiedi avrebbe aperto conti correnti allo Ior: da semplice sacerdote non li avrebbe potuti tenere. Su quelle transazioni la Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ancora oggi ferma su un binario morto. Il nome di Treppiedi apparirebbe anche nel memoriale dell’ex direttore generale dello Ior, Gotti Tedeschi. Sulla base di quelle indagini "laiche” Miccichè sospende a divinis don Treppiedi. La procedura verrà confermata e rafforzata da un decreto della  Congregazione del Clero del Vaticano. Tra le spese di quella gestione anche l’acquisto di auto di lusso, donate a cardinali delle alte sfere vaticane. Alla fine, Treppiede – legato un tempo a personaggi della politica siciliana come l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì – deciderà di collaborare con la giustizia. Un contributo, affermano dalla Procura di Trapani, "di assoluto valore”. Ma intanto contro Miccichè si scatena l’inferno. Treppiedi, dopo la sospensione a divinis, sporge denuncia contro il vescovo Miccichè, accusato di avere svuotato i conti della curia. Il Vaticano invia un visitatore apostolico, Monsignor Domenico Mogavero. Miccichè non potrà mai leggere il contenuto della relazione che porterà alla sua rimozione. Accusato di aver depredato la Curia, Miccichè si difende e mostra gli estratti bancari: "altro che senza un soldo, quando ho lasciato la Diocesi di Trapani sul conto c’era più di un milione di euro, mentre la Fondazione Auxilium disponeva di oltre otto milioni di euro”. Sempre in quel periodo, il vescovo deve difendersi da una campagna denigratoria costruita ad arte. Viene diffusa una lettera su carta intestata della Diocesi di Trapani. E’ indirizzata a Luigi Bisignani, l’uomo al centro dello scandalo P4. Nella missiva che reca la firma di Miccichè, si chiede l’intercessione in Vaticano da parte di Bisignani perché  "il Papa - a quel tempo Benedetto XVI, ndr - non è in grado di decidere più nulla e il potere è demandato nelle mani dei Salesiani e in particolare del Cardinale Bertone che lo esercita in modo delinquenziale e spregiudicato”. Quella lettera – lo dimostreranno i magistrati - è un falso. Monsignor Miccichè tenta la difesa e veste i panni dell’investigatore: si mette sulle tracce dell’attività svolta da Treppiedi allo Ior. In più, aiuta i magistrati ad accedere nei luoghi di culto coinvolti nell’indagine per  transazioni immobiliari sospette. Per la Santa Sede sono peccati mortali. Nel memoriale del vescovo siciliano appiedato dal Vaticano si legge: "Io stesso mi sono recato allo Ior per conoscere se in qualche modo la stessa Diocesi di Trapani o la mia persona fossero stati coinvolti, a mia insaputa, in operazioni di riciclaggio. Allo Ior non ho ottenuto alcuna informazione. Sono stato indirizzato dal Sostituto della Segreteria di Stato, Sua Eccellenza Mons. Giovanni Angelo Becciu, il quale non ha reputato opportuno ricevermi. Dalla mia visita presso lo Ior ho potuto accertare, però, che molti presso questo istituto conoscevano don Treppiedi. Per loro era capo ufficio alla Congregazione di Propaganda Fide”.

A conferma della gestione allegra dei beni sequestrati con decreti penali mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”.  Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo  14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei  beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60%  pari a  5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.

Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si  fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto  che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono  e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta.  In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano  ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice  per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.

L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il  prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro  fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.

Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha, anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati, restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione  e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non  diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag  a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto  diventare diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti,  detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia  di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione,  avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo “fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”.   Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata, potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è stata  a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene  che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte….  Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso  la mafia ha combattuto sulla strada e non da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema”.

Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una  Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio,  ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto  che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:

-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;

- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non  si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;

- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;

- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;

- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;

- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese,  del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da  ritardi, da momentanei malesseri e  da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;

-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.

Come si può notare, la richiesta più importante è quella di  distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico.  L’affidamento della gestione dei beni  ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare  corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.

La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con  sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata  alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene  dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro.  Grigoli chiede un aumento  del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata,  per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella.  Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari,  viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro.  E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza  stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39.  Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.   

Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara,  sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.

La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede,  innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato  una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour.  Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena,  ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo,  dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti,  di  associazione mafiosa.  Con strana sollecitudine il tribunale  dispone  il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che  si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad  ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco.  L’intraprendente Valenza  ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.

La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune  aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per  metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi.  Sul mercato c’è già  l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica.  Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità  che apre le porte alla Gas spa e al terzetto  Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi  direttamente gli appalti  senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani,  e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira,  è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a  disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello  ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli  sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale:  ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un  Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati  quasi tre anni, anzi, nel  dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state  indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di  associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano  un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena,  dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti.  Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della  Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.

E il caso di aggiungere a questa storia alcuni particolari:

Nel 1998 al  gruppo Cavallotti sono confiscate le aziende

- Comest  spa  (valore 50 milioni),

- Icotel  spa (valore 10 milioni), Imet srl (valore 10 milioni),

- Cei srl  (valore 2 milioni),

- Coip srl (valore 10 milioni:

nel 2012 di tutto ciò rimane solo un valore di 20 milioni per la Comest, mentre è o diventa  zero il valore delle altre aziende, anche di quelle ad esse collegate, come la Calcestruzzi Santa Rita, che aveva un valore di partenza di 5 miloni di euro e i gruppi Edil Forestale e D’Arrigo, che, per alcuni aspetti, sono soci in affari con il Modìca.
Il Modìca già nel 2009 è stato denunciato per truffa alla Guardia di Finanza di Palermo, ma della denuncia non s’è saputo più nulla. Intorno a lui e a suo fratello ruotano:

- la Advisor Services  For Bisness  srl, che agisce in stretto contatto con la Mac Consulting srl, di cui è legale rappresentante tal Fabio Uccello,

- la Lamb & Souce Real Estate srl, la Integre Sicilia, azienda oggi in liquidazione,  di cui sono soci la Advisor Service, Kodaleva Sonia, , moglie di Emanuele Migliore, socio di Modìca e Di Fiore Giuseppe, avvocato di fiducia di Modica.

- la CS immobiliare srl., del fratello Marco,

- la Immobiliare Il Borghetto srl.,

- la Gam Immobiliare, che fa da tramite per complesse partite di giro,con le aziende confiscate dei D’Arrigo di Borgetto e della Edil Forestale,

- la Servizi e Progetti srl, il cui legale rappresentante è Roberta Ponte, moglie di Andrea Modica,

- la Cogetec srl, azienda costituita per gestire i subappalti del gruppo Cavallotti, di cui risulta amministratore unico un certo Vincenzo Parisi.

Strettamente collegate alla Comest e alle aziende del Modìca  le vicende della TOSA costruzioni srl, azienda confiscata che acquista per due milioni di euro il ramo aziendale della Comest, mediante un rilevamento virtuale di debiti creati tramite fatture e parcelle: la Tosa vende i suoi debiti o i suoi presunti crediti alla Italgas per 22 milioni di euro ottenendo 5 posti di lavoro per compiacenti  amici del Modìca pronti a prestarsi alle sue manovre speculative. Dalla TOSA, sotto forma di anticipo escono i fondi per alcuni lavori, anche personali, effettuati a Baida, a Cinisi, a Marsala. Oggi la TOSA è stata restituita al demanio dello stato come una scatola vuota, senza una lira e senza che nessuno abbia pagato per la sua  dissoluzione. Di tutto l’impero della Comest è invece rimasto un giro di 700 mila euro di utile grazie alla gestione del metano nei comuni di Monreale, Altavilla Milicia, Santa Cristina Gela e Piana degli Albanesi. Nel 2012 il prefetto Caruso ha revocato a Modìca gli incarichi.

La AEDILIA VENUSTA. (ovvero, come l’Acqua santa può diventare acqua diabolica).  A Palermo, in via Comandante Simone Gulì n.43 presso la borgata Acquasanta si trova, anzi c’era una villa palermitana del 1700, ma dove si potevano notare  visibili tracce di una sua preesistenza  risalente  al 1.500, o addirittura al medioevo: qualche storico ha parlato addirittura  di reperti di origine etrusca. La villa si affacciava sul porticciolo e aveva tutte le finestre con vista sul mare. L’originaria proprietà fu della nobile famiglia dei Gravina, di origine normanna. Gli esponenti del  ramo siciliano dei Gravina, che presero il nome da quello di un feudo pugliese da cui provenivano, parteciparono alla prima crociata, ebbero diritto di essere seppelliti nel pantheon reale, furono Grandi di Spagna, possedevano 9 principati, 5 ducati, 7 marchesati, 3 contee ed oltre 24 baronie. Dentro  l’attuale edificio scorreva una sorgente di acqua minerale, sulfurea e purgativa, contenente sali alcalini, quali solfato di calcio e magnesio, e cloruro di calcio, sodio e magnesio, considerata miracolosa per i suoi benefici. Di lì il nome di “Acqua santa” dato a tutta la borgata . Attualmente l’acqua è stata incanalata in condutture che sfociano a mare. Da una ricerca pubblicata da Claudio Perna e curata dall’Associazione culturale “I Luoghi della Sorgente” apprendiamo che “la sorgente acquifera era situata in una grotta, un piccolo ambiente ipogeico, che un tempo fu santuario pagano, poi piccola cappella conosciuta come Palermo a S. Margherita di fora, dedicata a Santa Margherita, protettrice dai mostri marini, e infine intitolata alla Madonna della Grazie, come attesta il Mongitore che riferisce di un affresco raffigurante la Vergine, risalente al tempo dei Saraceni e rinvenuto nel 1022. Nel 1774 la grotta e i terreni furono concessi al Barone Mariano Lanterna, che acquistò dai benedettini del Monastero di S. Martino delle Scale il terreno circostante la grotta dell’Acquasanta e vi costruì una  tipica casina settecentesca di modeste dimensioni con un semplice impianto su due elevazioni: alcune sale interne mantengono gradevoli decorazioni a fresco tardo-settecentesche. Apprendiamo dalla stessa fonte che nel 1871 i fratelli sacerdoti Pandolfo acquistarono la villa e  fecero uno stabilimento per bagni e cure idroterapiche, che sfruttava le proprietà terapeutiche della sorgente di acqua minerale poco distante per la cura di malattie metaboliche. Nello  stabilimento  si potevano fare dei bagni  alla temperatura naturale dell’acqua di 18°-19° , ma grazie al processo di riscaldamento  anche i bagni caldi, a 25°-36°, e caldissimi fino a 42°. Successivamente i due sacerdoti decisero di commercializzare l’acqua che poteva anche essere bevuta, con 50 cent alla bottiglia. C’era anche la possibilità di fare delle docce che esercitavano la loro azione meccanica su un punto preciso del corpo con getti  d’acqua ascendenti, dal basso verso l’alto, discendenti, dal basso verso l’alto, e laterali in orizzontale. Lo stabilimento aveva in un edificio camerini da bagno distinti in familiari e singolari e nell’altro la macchina a vapore per il riscaldamento dell’acqua, le sale da soggiorno e da pranzo e gli ambienti di servizio. Tale istituto, accresciutosi nel 1892, fu attivo però per poche decine di anni. La struttura dei Bagni Minerali situati nella grotta e nei locali di Villa Lanterna era costituita da due edifici su tre piani collegati da una terrazza, tuttora è ancora visibile l’iscrizione “Fratelli Sacerdoti Pandolfo”, sormontata da un timpano con acroterio. Gli ambienti interni rispettavano l’originaria suddivisione e sul fianco sinistro del prospetto si trovava l’ingresso al mare preceduto da due piloncini, trasformato in abitazione. Le analisi dell’acqua hanno riscontrato proprietà analoghe a quelle della fonte Tamerici di Montecatini Terme. La fonte aveva una portata di 15 litri al secondo e consentiva di effettuare mille bagni al giorno, con continuo ricambio delle acque. Nel 1993 venne effettuato un sopralluogo dai vigili urbani e dalla sovrintendenza e si accertò che la sorgente era ancora utilizzabile e avrebbe potuto essere ripristinata, ma non se ne fece niente: la preziosa acqua, attraverso cunicoli sotterranei, oggi finisce a mare. Tutto questo complesso,  comprende le Terme, anch’esse adibite ad appartamenti, la grotta adiacente all’ex chiesetta, un piano terra di 70 mq, in vendita a 100 mila euro, un piazzale e altre tre più recenti costruzioni adibite ad abitazioni o uffici, di circa 250 mq. L’immobile, suddiviso in cinque unità è stato venduto a tre architetti e a una signora romana. Uno degli  architetti è Vincenzo Rizzacasa, già preside di un istituto d’arte di Santo Stefano di Camastra, che nel 2005 ha deciso di dar vita a un’impresa di costruzioni, la “Aedilia Venusta”, intestata al figlio Gianlorenzo, specializzata in ristrutturazioni, munita di certificato antimafia  e iscritta ad Addio Pizzo, fino a quando non si scopre che al suo interno lavoravano i mafiosi Francesco e Salvatore Sbeglia, legati al campo delle costruzioni e già oggetto di misure di prevenzione, di sequestri e di procedimenti giudiziari. Secondo i giudici gli Sbeglia sarebbero stati soci occulti di Rizzacasa e, attraverso la sua ditta, sarebbero tornati in attività, con metodi e sistemi di illecita concorrenza. Rizzacasa è legato al vicepresidente della Confindustria  Ettore Artioli, titolare di un’azienda, la Venti, che ha commissionato a Rizzacasa la ristrutturazione della Manifattura Tabacchi di Palermo. Nei progetti della Aedilia Venustas c’era anche la trasformazione dell’area della villa del Barone Lanterna in un residence di lusso con 15 appartamenti e due studi professionali, il tutto con regolare concessione, rilasciata nel 2009  e con tanto di visto da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali, che, per contro, avrebbe dovuto tutelare la conservazione di monumenti storici di questo tipo, cosa che in Sicilia scatta solo in certe circostanze.  Scattano le misure di prevenzione per Rizzacasa, al quale vengono sequestrati le imprese edili Aedilia Venustas, l’Immobiliare Sant’Anna, Verde Badia, un insieme di 33 immobili in via badia, una decina di appartamenti, la villa Barone Lanterna, sei magazzini e sette automezzi. Artioli si autosospende dalla Confindustria, ma continua la sua carriera manageriale, al punto che nel 2012 viene nominato, dal sindaco Leoluca Orlando, presidente dell’Amat. Per Rizzacasa, espulso da Confindustria,  inizia un iter giudiziario, una condanna in primo grado per favoreggiamento semplice, cioè senza l’aggravante dell’associazione mafiosa . In appello Rizzacasa è assolto e l’assoluzione è confermata, in via definitiva, nel febbraio 2014, in Cassazione. Assolti anche  i suoi consociati Lena e Salvatore Sbeglia. Rizzacasa ha rinunciato alla prescrizione per avere una sentenza di piena assoluzione. Per una di quelle anomalie tipiche della legge italiana e in particolare, di quella sui beni sequestrati alla mafia, il patrimonio immobiliare di Rizzacasa, per decisione del giudice delle misure di prevenzione, per il quale è sufficiente il “libero convincimento” che l’assoluzione non basta, rimane congelato sotto sequestro, malgrado l’ordine di dissequestro dell’azione penale. Ma siamo arrivati al punto: dopo le denunce del prefetto Caruso, è ormai noto che il giudice delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo  ha un rapporto privilegiato con lo studio legale di Cappellano Seminara, al quale ha già affidato una cinquantina di beni confiscati alla mafia. Cappellano, diventato amministratore giudiziario della Aedilia Venustas,  continua l’attività di smembramento della villa del barone Lanterna con la costruzione degli appartamenti in progetto: per risarcirsi del suo  “estenuante” lavoro, da lui stesso stimato in circa 800 mila euro, si impadronisce di due appartamenti: probabilmente ne disporrà la vendita per incassare il compenso. Da una visura notarile storica si rileva che “gli immobili citati vengono venduti a 250 euro al mq. per quanto riguarda la villa antica e le terme, quelli più moderni a 200 euro mq.” Se è vera questa notizia ci vuol poco a dedurre che, fissando un prezzo così basso, Cappellano Seminara può mettere le mani su tutto il complesso edilizio e impadronirsene. Da una nota della Camera di Commercio si deduce che “il fatturato di Aedilia Venustas s.r.l. stimato, nel 2011, tra i 300 e i 600 mila euro, durante il 2011 è diminuito, nello stesso anno,  del -1263% rispetto al 2009 e che il risultato netto ottenuto durante il 2011, dopo gli oneri finanziari, le tasse e gli ammortamenti è diminuito del -609,64% rispetto al 2009”. Il tutto grazie all’oculata amministrazione di Cappellano Seminara e a chi lo ha messo in quel posto.

La 6GDO e l’impero Despar. Quella di Giuseppe Grigoli sembra una storia comune, iniziata con l’apertura, negli anni 80 di una piccola attività di vendita di detersivi all’ingrosso e poi diventata, tra  gli anni ’80 e ’90  una grande  realtà economica, in grado di fatturare 600 milioni di euro l’anno, attraverso l’apertura di una serie di centri commerciali, da Trapani ad Agrigento, a Palermo, con il marchio Despar, in grado di gestire il 10% di tutto il fatturato Despar. La realtà più grossa è “Belicittà”, ovvero il più grande centro commerciale del trapanese, a Castelvetrano. Grigoli crea il gruppo 6GDO , una ditta che distrisce prodotti alimentari a vari supermercati. Si è detto e si è scritto che dietro questo impero finanziario ci sono i soldi  di Matteo Messina Denaro, ovvero c’è il riciclaggio di milioni di euro di oscura o illecita provenienza: si è anche parlato, ma senza particolari riscontri processuali, di  una gestione spesso intimidatoria nell’imporre, con sistemi mafiosi, particolari condizioni ai fornitori di merce. Il nome di Grigoli viene trovato nelle lettere di Matteo Messina Denaro nel covo di Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006.  Grigoli voleva aprire un Despar a Ribera, un paese sotto l’ala protettiva del boss locale Capizzi che, addirittura, gli aveva chiesto il pizzo: pare che Capizzi, in un primo tempo fosse stato assunto nel supermercato, ma che avesse contratto con Grigoli un debito di 297,28  mila euro, che si rifiutava di pagare. Così Messina Denaro si era, per iscritto, rivolto a Bernardo Provenzano chiedendogli di intervenire a favore del “suo paesano". Provenzano si era rivolto al boss di Agrigento Giuseppe Falsone che avrebbe dovuto mettere pace tra i due. E’ caratteristico il tono dei pizzini di Messina Denaro: "Capizzi prima restituisca i soldi che si è preso e dopo gli amici di Ag mi dicono cosa vogliono dal mio paesano ed io sono disponibile a sistemare il tutto. E' ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita".  E, nell’ultima lettera, : "Solo se Cpz comincia a pagare  il mio paesano paga 10 mila euro per ogni sito che ha ad Ag per ogni anno. In questo caso, dato che paga, non darà posti di lavoro. La mia seconda proposta: se il mio paesano non paga niente per come vuole il 28 (è il codice di Falsone - ndr) per rispetto a me, ed io lo ringrazio e gli sono grato per ciò e dica al 28 che io non dimenticherò mai questa gentilezza, allora se il mio paesano non paga, darà due posti come impiegati per ogni sito, impiegherà 2 persone che interessano ad Ag". Nel 2006 Grigoli è arrestato, processato e  condannato a 12 anni di carcere per associazione mafiosa: al processo vengono fuori  i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro,  i nomi di politici, come quello dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che chiede a Grigoli di vendere nei suoi supermercati alcuni vini prodotti da suoi “amici”,  o quello dell’ex deputato regionale  cuffariano, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere voti. A Grigoli si rivolge persino, per la vendita di ricotta il boss Vito Mazzara, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che attualmente sconta l’ergastolo. La confisca riguarda 12 società cominciando dalla capofila, il Gruppo 6GDO, punto di eccellenza un maxi centro commerciale, il Belicittà di Castelvetrano, e poi ancora 220 fabbricati tra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreni, uliveti e vigneti per un totale di 60 ettari. Tutte aree di campagna ricadenti in quell’area del Belice, da Zangara a contrada Seggio, dove i boss mafiosi siciliani a cominciare da Totò Riina, per continuare con Bernardo Provenzano e i Messina Denaro, avevano fatto incetta di terreni con l’idea che in quei luoghi doveva sorgere negli anni ’90 la “Castelvetrano 2”, un maxi complesso immobiliare che avrebbe dovuto ricalcare la più famosa “Milano 2” di marca berlusconiana. Il tutto viene affidato a un amministratore giudiziario, Nicola Ribolla. I suoi sette anni di amministrazione sono serviti a smantellare interamente un impero economico e a ridurre sul lastrico, senza lavoro, le 500 famiglie che vivevano all’interno delle attività confiscate. Al processo Ribolla ha tentato di giustificare il suo operato dicendo che “molti supermercati associati hanno chiesto di disdire il contratto con noi, i fornitori non ci hanno fatto più credito, e anche le banche ci hanno chiuso i rubinetti”. Sono in corso ancora trattative, stimolate anche in un incontri tra i lavoratori, ai quali è stata già mandata la lettera di licenziamento e  Sonia Alfano, in interventi  del sindaco di Castelvetrano  Felice Errante e della CGIL: il circuito comprende 43 supermercati Despar, più i 40 affiliati del gruppo 6GDO in provincia di Trapani : Despar, Eurospar, Superstore, Interspar ad Agrigento e Trapani.  Hanno già chiuso i supermercati più grossi di Marsala e Trapani, altri lo stanno facendo, poiché  non vengono più riforniti di merci, gli scaffali sono semivuoti. Addirittura, nel 2010 alla Prefettura di Trapani si era firmato un “protocollo di legalità” per salvare la “Special Fruit” una delle tante aziende del circuito di Grigoli e affidarne l’attività alla Coop, ma non se n’è fatto niente. La Special Fruit è stata messa in liquidazione, malgrado Ribolla ne avesse disposto un aumento di capitale stornandovi i soldi della 6GDO La chiusura delle banche ha prodotto la mancanza di liquidità per pagare fornitori e dipendenti, ma ha anche sospeso diversi crediti da riscuotere. Recentemente a Ribolla, forse in considerazione della sua scarsa capacità imprenditoriale, è stato aggiunto, come consulente, l’avvocato Antonio Gemma, vicino ad Angelino Alfano, ma la cosa non è servita a niente. L’amara conclusione di chi si trova sul lastrico è che quando c’era Grigoli tutto funzionava perfettamente,  l’azienda aveva un attivo di 600 milioni che sono scomparsi nel nulla con l’amministrazione giudiziaria: Insomma, ci troviamo davanti al volto nuovo di Cosa Nostra, così come si è potuto vedere anche col sequestro di un miliardo e 300 mila euro fatto al “re del vento” Vito Nicastri, di Alcamo, nel quale l’imprenditoria diventa l’elemento centrale per l’accumulazione del capitale, oltre le vecchie, ma sempre presenti pratiche del pizzo, e gli uomini d’onore, anche senza bisogno di esplicite affiliazioni, sono imprenditori e professionisti. Rispetto all’intraprendenza di costoro lo stato, avvolto nelle sue pastoie o rappresentato da gente incapace rischia di arrivare, quando arriva, con molto ritardo,  si trova davanti al proprio fallimento senza che si imputi tutto ai metodi di un’economia illegale: spesso, come nel caso dei lavoratori della 6DIGI , tutti messi in regola,  tutto funziona, almeno apparentemente, nel rispetto della legalità e all’interno di un circuito efficiente e produttivo.

Una parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul numero di marzo 2014 de “I Siciliani giovani”. Ringrazio per la collaborazione, nella realizzazione dell’inchiesta, la redazione di Telejato, ovvero Pino Maniaci e Christian Nasi.

In questo mio trattato mi preme parlare anche dell’affaire “Banca Marche”. Una domanda sorge spontanea: a quando la parola fine? Il caso dell'imprenditore Ciro Di Pietro e della sua famiglia. Mi interesso perchè, dopo anni dal suo arresto, ancora non si è addivenuti ad una condanna definitiva, tale da renderlo colpevole. Intanto il suo patrimonio è amministrato dalla magistratura. E per la stampa è e rimane solo un mascalzone.....con la sua famiglia, tra cui il figlio Amedeo, avvocato.

Ho cercato di trovare sul web notizie attinenti il caso e la persona. Nulla. Solo notizie conformi, come se uscissero dalla medesima velina. Non una versione diversa. Tutto rilasciato dalle conferenze stampa dell'accusa. Dare voce alla difesa, sia mai!

“Catch me” (Prendimi, dal titolo del noto film che vede Di Caprio nei panni di un truffatore): è questo il nome dell’operazione scelto dal sostituto procuratore Manuela Comodi per descrivere l’attività delle 7 persone che ruotavano intorno a Ciro Di Pietro, imprenditore napoletano dal forte “carisma”, scrivono Sara Minciaroni e Alessia Chiriatti su “Tuttoggi” del 9 novembre 2012. Secondo la ricostruzione fornita oggi in conferenza stampa dal capo della mobile Marco Chiacchiera, Di Pietro si sarebbe rivelato un affabulatore talmente abile da raggirare persino le banche. Ad insospettire gli inquirenti proprio la facilità con cui diversi istituti bancari permettevano l’accesso al credito all’imprenditore, senza che questi fosse di fatto munito di solide garanzie: un fiume di soldi pari a 20 milioni di euro, basato su false garanzie e, cosa ancor peggiore, mai restituito. 8 dunque gli arresti  eseguiti a Perugia, Napoli e Avellino. In queste città e a Belluno la squadra mobile del capoluogo umbro ha effettuato anche numerose perquisizioni sequestrando molti documenti al vaglio degli investigatori. Perquisita anche una sede di “Italiani nel mondo”, la Fondazione creata dal senatore De Gregorio, il parlamentare del pdl al centro di numerose inchieste per truffa, riciclaggio, favoreggiamento della camorra, corruzione e false fatturazioni. Con Di Pietro, detenuto nel carcere di Napoli, sono stati raggiunti dai provvedimento di custodia i suoi figli Amedeo (avvocato) e Anna,  il fedele commercialista  Nunzio Capri (descritto dagli inquirenti come il “braccio operativo”, essendo l’autore della falsificazione dei bilanci nonché il titolare di quasi tutte le società fittizie coinvolte nell’inchiesta), il faccendiere di Umbertide Salvo Tempobuono e l’architetto Leonardo Orsini Federici, che secondo l’accusa avrebbe fornito i Sal (stati avanzamento lavori) con cui richiedere alle banche i finanziamenti. Due i funzionari di altrettante banche finiti ai domiciliari: si tratta del trevano Carlo Mugnoz, direttore della filiale perugina di Banche Marche e dell’avellinese Giuseppe Parnoffi, ex vice direttore regionale di Bcc Napoli, licenziato lo scorso anno dalla Banca dopo le prime perquisizioni disposte dalla magistratura. A loro è attribuita la complicità nell’emissione del credito. Ciro Di Pietro non si è fermato a questi due istituti bancari: nel tempo ha preso contatti anche con banche estere, tentativi puntualmente falliti. E’ andata meglio con l’umbra Banca Popolare di Spoleto che, stando alla ricostruzione, ha anticipato al partenopeo 150mila euro a fronte di fatture rivelatesi poi false. L’istituto di piazza Pianciani sarebbe stato interessato solo da questa operazione che, al momento, non ravviserebbe responsabilità penali in capo a chi trattò la pratica. Di certo anche PopSpoleto è rimasta vittima del millantatore in abiti eleganti che avrebbe vantato una amicizia con l’allora n. 1 Giovannino Antonini, oggi presidente della holding Scs. Peggio, molto peggio è andata invece a Medioleasing e Unicredit, interessate rispettivamente da una esposizione per 5,1 e 1,5 milioni di euro. Le accuse per la cricca sono pesantissime: si va dalla associazione per delinquere ai delitti contro il patrimonio e l’amministrazione finanziaria, truffa a danno di istituti bancari, falso, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali, false fatturazioni, danno all’erario (per 3 milioni di euro). Inutile dire che sull’inchiesta aleggia il sospetto del riciclaggio. Sotto la lente di ingrandimento sono finite alcune operazioni immobiliari e ristrutturazioni che Di Pietro realizzava (quando non faceva finta di realizzare) in Umbria. Ecco quelle finite nel mirino: l’hotel Il Perugino a Ellera (nel 2009 fu la sede del Perugia Calcio di Leonardo Covarelli), le operazioni Ghinea, Villa Montemalbe (destinata a sede della Fondazione Italiani nel Mondo), Borgo San Giovanni, San Martino in Colle, Belvedere di Ripa e hotel Auronzo. Ristrutturazioni, compravendite  e costruzioni: il tutto per 20 milioni di euro arrivati nelle casse delle società di cui facevano parte Di Pietro & Co e di cui adesso si cerca di ricostruire tutti i passaggi. Stando all’inchiesta Il Perugino veniva usato come bene a garanzia per ottenere finanziamenti quattro volte superiori al reale valore dell’immobile. Le indagini hanno preso l’avvio dal commissariamento della Seas di Umbertide (l’azienda edile impegnata nella manutenzione stradale finita nell’inchiesta “Appaltopoli”), società che Ciro di Pietro tenta di scalare molto probabilmente grazie alle buone conoscenze che Tempobuono ha su Umbertide. L’obiettivo di Di Pietro era quello di farsi nominare d.g. di Seas, condizione necessaria affinche due suoi “amici” (non ancora identificati) finanziassero l’acquisto di quote societarie. L’inchiesta è destinata ad andare avanti e accertare eventuali connivenze fra l’imprenditore e la criminalità organizzata campana. Per la prima volta la polizia ha messo in atto il provvedimento di sequestro per equivalente: una volta stimata la truffa, l’autorità giudiziaria ha cercato tra i beni in possesso degli indagati per far fronte almeno al danno subito dallo Stato. Sotto i sigilli sono così finiti 2 appartamenti di proprietà degli indagati e quote societarie per un valore di 3 milioni di euro. Ai 20 milioni di euro, inclusi i 3 mln di evasione fiscale, la “cricca” Di Pietro è arrivata mettendo insieme tutta una serie di operazioni che hanno visto particolarmente colpita la Banca delle Marche, dove appunto ci sarebbe stata la complicità di Mugnoz, Medioleasing e Unicredit. Nel dettaglio: Banca Marche 10,3 milioni di € (3,5 mln per ristrutturare Borgo Baglioni a Collestrada; 1,5 mln per l’acquisto e la ristrutturazione di una villa a Montemalbe; 2,7 mln per l’acquisto di alcuni immobili a Corciano, 2,6 mln per un immobile a Ripa); Medioleasing Spa 5,1 mln per la ristrutturazione de Il Perugino. Banca Unicredit ha anticipato fatture per 1,5 mln di euro, così come il BCC Napoli (250mila), Bps (150mila) e Banca Popolare Ancona (50mila). Una curiosità: Banca delle Marche ha finanziato anche l’acquisto di un elicottero per 200mila euro, che Di Pietro non ha mai acquistato. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbero anche i rapporti intercorsi tra Di Pietro e ambienti politici campani, umbri e romani. Le intercettazioni telefoniche avrebbero messo in luce diversi nomi eccellenti. Solo il prosieguo dell’inchiesta consentirà di comprendere eventuali altre collusioni. Per il resto se Di Pietro sperava di farla franca ha trovato sulla sua strada il pm Manuela Comodi. “Cath me, if you can” era il titolo del film interpretato da Di Caprio: la procura di Perugia c’è riuscita.

In Italia per diventare professionista bisogna abilitarsi. Attenzione, non dimostrare di essere capace, ma mostrare di essere uguale agli altri. Devi essere omologato e non rompere il cazzo alla categoria ed al sistema di potere. E così è. Queste le notizie apparse sul web.

“Truffa delle case. Centinaia di Perugini raggirati. L’Operazione Catch me ha portato all’arresto di otto persone ed alla scoperta di un’appropriazione indebita di 20 milioni di euro”, scriveva Umberto Maiorca su “Il Giornale dell’Umbria” del 10 novembre 2012.

“Perugia, un inganno da 17 milioni. E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012.

Poi c'è anche la diatriba sulle comparsate in tv. Hotel Auronzo: «Colpo alla malavita». I carabinieri di Belluno spiegano la loro tranche di inchiesta sul caso Di Pietro. Ma è “gelo” con la procura. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno, scrive Cristina Contento l’11 novembre 2012 su “Il Corriere delle Alpi”. Otto arresti su ordine di custodia del gip di Perugia, ma anche una serie di indagati sui quali si stanno ancora effettuando accertamenti. Intrecci con la politica tutti da scoperchiare: non è indagato il senatore Sergio De Gregorio, ospite affezionato dell’hotel Auronzo, che partecipò anche all’inaugurazione del 31 gennaio 2010. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno. Ieri la conferenza stampa dell’Arma che avoca alla Compagnia di Belluno una prima tranche di inchiesta: quella relativa al patrimonio, condotta da nucleo investigativo e nucleo informativo del reparto. Tranche poi confluita nel fascicolo perugino già aperto. Il comandante provinciale Ettore Boccassini e il colonnello Brighi, comandante del reparto operativo, hanno spiegato il filone di inchiesta seguito dal Reparto carabinieri Belluno, culminato con il «Fascicolo portato da me personalmente con i ragazzi del reparto, alla procura di Perugia, dopo che il procuratore Labozzetta decise di trasmettere nel capoluogo umbro anche la parte di indagini seguita con il pubblico ministero Simone Marcon». Procura che, però, prende le distanze dalla conferenza stampa dei carabinieri: «Non è stata autorizzata dalla procura». Sembra calato il “gelo” tra organi inquirenti e istituzionali in merito alla vicenda, alla luce di queste parole: «Il contributo dei carabinieri è stato marginale rispetto alla complessità dell’indagine e all’attività svolta dalla Mobile di Perugia» spiegano ancora dalla procura di Belluno. «Motivo per cui non è stata affidato loro alcun tipo di misura di prevenzione o sequestro». Tant’è, i carabinieri ieri hanno spiegato la loro parte di indagine, che ha riguardato soprattutto la questione patrimoniale e l’accertamento dei sospetti, grazie anche alla “perizia” che hanno chiesto direttamente alla Banca d’Italia per i movimenti sospetti e i continui finanziamenti che venivano chiesti da Di Pietro. A Perugia già da tempo Ciro Di Pietro era “seguito” dalla locale squadra mobile, visto che il 55enne napoletano era stato accusato di analoghi reati qualche anno prima. In loco, prima di arrivare in provincia. Anche la squadra mobile bellunese, guidata dal vice questore Mauro Carisdeo, stava facendo accertamenti e indagini dopo le segnalazioni. Obiettivo dei carabinieri, come spiega il colonnello Brighi, «era l’aggressione del patrimonio da parte della criminalità: come avvenuto per Calatafimi e per altri reati. Qui abbiamo un soggetto pregiudicato arrivato nel 2009, estraneo alla provincia e al giro di affari locale, che acquisisce un albergo per 2,5 milioni di euro e ne presenta un ampliamento per 12 milioni». Doveva fare apart-hotel, Ciro Di Pietro, finito in carcere col figlio Amedeo di 32 anni, Nunzio Caprio di 49 anni e Sauro Tempobuono. Arresti domiciliari, invece, per Carlo Mugnoz di 61 anni, Leonardo Orsini Federici di 49 anni, Anna Di Pietro di 28 anni e Giuseppe Parnoffi di 44 anni, campani e umbri. Appartamenti e albergo, come va di moda, in Francia. Ma il Comune di Auronzo nicchia sull’investimento immobiliare, tanto è vero che, quando all’assessore Dorigo viene incendiata l’auto, si pensa a un avvertimento: «Ma così non è», spiegano i due colonnelli Boccassini e Brighi. «Quell’episodio non c’entra, c’è un altro indagato». «Ciro Di Pietro ha ottenuto il mutuo di 2,9 milioni, oltre la fidejussione dei due figli»: somme importanti e continui ricorsi al credito presso le banche, con un anomalo sistema di “anticipo fatture” e “l’ipotetica connivenza del personale bancario”, scrivono i carabinieri. Fatture che per i carabinieri sono false: il mutuo ha un piano di ammortamento di 15 anni per 60 rate trimestrali di cui saranno pagati solo 63 mila euro», continuano. Poi il balletto per ritardare i pagamenti, le fatture intestate a società di Perugia e la Banca d’Italia che segnala le operazioni sospette. La società fittizia di comodo è intestata a due prestanome, secondo i carabinieri, altri quattro nel tempo vedranno intestata la proprietà dell’hotel Auronzo. I carabinieri si accorgono di qualcosa che non va, perchè il reddito dichiarato dai quattro non permette un simile investimento. Avallano l’ipotesi investigativa i sospetti trasferimenti di denaro tra diversi conti correnti di società e persone che fanno capo alla famiglia di Di Pietro. Un Di Pietro che, quando «fu sentito da noi, si avvalse della facoltà di non rispondere». Malavita che tentava di organizzarsi in provincia. Ma non è finita qui.

Hotel Auronzo, sequestrata la società, continua Ma. Co. su “Il Corriere della Alpi”. In carcere con altri sette il proprietario Ciro Di Pietro. Pesanti accuse di associazione a delinquere, truffa, false fatture. Bufera sull’albergo Auronzo. L’imprenditore Ciro Di Pietro, napoletano con interessi in molte parti d’Italia tra cui Perugia e Auronzo, è finito in manette con pesanti accuse insieme con altri sette imprenditori, funzionari di istituti di credito, un architetto e un commercialista (quattro sono in carcere, quattro ai domiciliari). L’elenco delle accuse è lungo: a vario titolo le persone arrestate sono accusate di associazione a delinquere finalizzata alle truffe, alle frodi fiscali, appropriazione indebita, falso e false fatturazioni. Ciro Di Pietro, attraverso la società Hotel Auronzo srl, dal 2009 è proprietario dell’omonimo albergo, il più bello di Auronzo, sede del ritiro della Lazio da cinque anni. Ma i suoi ospiti, nei 140 anni di vita, sono stati grandi personaggi della politica, dello Stato, della cultura, della vita sociale italiana. L’indagine che ha portato in carcere a Perugia Di Pietro, è partita da Belluno ed è stata condotta per un anno dal Nucleo investigativo e dal Nucleo operativo del Comando provinciale dei carabinieri. Sono stati fatti molti accertamenti bancari e in questo hanno avuto un ruolo importante funzionari della Banca d’Italia. All’intera operazione, complessa e lunga, ha partecipato anche il Comando dei carabinieri di Cortina. L’indagine è partita alla fine del 2010, neanche un anno da quando Di Pietro è arrivato ad Auronzo, ed è stata coordinata dalla procura della repubblica di Belluno che ha trasferito poi il procedimento alla procura di Perugia che ieri ha dato il via ai provvedimenti. Oltre agli arresti sono stati sequestrati degli immobili in giro per l’Italia e dei conti correnti. Le vittime dell’intera operazione sono le banche, ai danni delle quali sono state emesse le false fatture che servivano per avere poi dei finanziamenti. Per quanto riguarda l’albergo Auronzo, non è stato posto sotto sequestro, ma è stato sequestrato il capitale sociale, di 100.000 euro. Di Pietro aveva speso una barca di soldi per acquistare e ristrutturare l’albergo Auronzo. Personaggio singolare, napoletano verace, aveva incantato molti auronzani con i suoi grandiosi progetti. Senza problemi aveva annunciato a più riprese il valore complessivo del suo investimento in valle d’Ansiei: 12 milioni di euro, disse, che dovevano servire in un paio di anni per dotare l’albergo di nuove suites, di appartamenti, della piscina. L’albergo a quattro stelle di Auronzo, unico in paese, rappresentava un ottimo biglietto da visita per i turisti che in questi anni (grazie alla presenza della Lazio ma non solo) hanno affollato il paese sulle rive del lago. L’arresto del titolare, il sequestro del capitale sociale, la chiusura dell’albergo sono una vera e propria botta, al termine tra l’altro di una stagione turistica estiva. tra le migliori degli ultimi anni e a poche settimane dalla partenza di quella invernale.

E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012. Truffe e frodi, restano in carcere gli imprenditori Ciro e Amedeo Di Pietro, il 28 novembre prossimo verranno interrogati dal pm Manuela Comodi, scrive di F.M. su “Umbria 24” del 22 novembre 2012. Restano in carcere l’imprenditore napoletano Ciro Di Pietro e il figlio Amedeo, arrestati dalla squadra mobile di Perugia nell’ambito di un’indagine che ha portato a gala l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alle truffe. Revocati invece gli arresti domiciliari per la figlia Anna. E’ quanto ha deciso il tribunale del riesame di Perugia dopo l’udienza di martedì mattina in cui Di Pietro, tramite i suoi legali, ha chiesto i tornare libero. Alla richiesta era arrivata l’opposizione del pubblico ministero titolare dell’indagine Manuela Comodi, che il 28 novembre prossimo, interrogherà Ciro e Amedeo Di Pietro nel carcere di Poggioreale. I due indagati principali secondo l’accusa avrebbero intascato 20 milioni di euro truffando istituti bancari chiedendo prestiti per operazioni immobiliari inesistenti. La misura cautelare era già stata revocata nei giorni scorsi per  i direttori di banca Carlo Mugnoz  e Giuseppe Parnoffi  e l’architetto perugino Leonardo Orsini Federici. Resta da definire la posizione del commercialista napoletano Nunzio Caprio.

Crac banca Marche: Tutte le denunce a scoppio ritardato, scrivono invece Sandra Amurri e Giorgio Meletti su "Il Fatto Quotidiano del 13 novembre 2013. Massimo Bianconi, direttore generale di Banca Marche dal 2004 al 2012, “figli di” ne ha assunti parecchi. Fabio Capanna è figlio di Agostino, generale dei Carabinieri e poi vicepresidente della Protezione civile regionale; Francesca Luzi è figlia di Vincenzo, procuratore capo di Ancona prima e di Camerino poi; Marco D’Aprile è figlio di Mario Vincenzo D’Aprile, presidente del Tribunale di Ancona; Serena Orrei è figlia di Paolo, ex prefetto di Ancona; Luca Di Matteo è figlio di Antonio, ex direttore della Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas) oggi commissariata. Dettagli, nella storia di una banca messa in ginocchio dai crediti facili alle aziende amiche (mentre chiudeva i rubinetti alle piccole imprese). Servono però alla trepidazione con cui le Marche che contano, dal presidente della Regione Gian Mario Spacca al decano degli imprenditori Francesco Merloni, si sono occupate della banca oggi commissariata.

RAINER MASERA è stato a suo modo vittima di tanta sollecitudine. Il banchiere di lungo corso è stato chiamato lo scorso aprile a Jesi come salvatore della patria. Il presidente Lauro Costa e il vicepresidente Michele Ambrosini si erano appena dimessi. I grandi azionisti, le fondazioni bancarie di Pesaro, Jesi e Macerata, vedevano che le perdite stavano ormai mangiando il capitale. Già a febbraio il presidente della fondazione di Macerata, Franco Gazzani, il primo a denunciare lo sconquasso, aveva scritto in una email riservata a un consigliere della banca: “Quello che ti posso dire, ma lo dico a te che sei persona intelligente, è che siamo a un passo dal commissariamento”. Le fondazioni di Pesaro e Jesi chiedono a Masera di assumere la presidenza della banca. L’ex numero uno dell’Imi ed ex ministro del Bilancio prende tempo. È a quel punto che Francesco Merloni, 87 anni, ex ministro dei Lavori pubblici, lo porta dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Negli austeri saloni di palazzo Koch, Merloni parla di una cordata di imprenditori pronta a investire subito 200 milioni di euro. Si mormorano i nomi di Adolfo Guzzini, Gennaro Pieralisi, dello stesso Merloni e anche di Diego Della Valle. Masera si lascia convincere, ma ben presto scoprirà che le condizioni della banca sono peggiori di quanto pensava e che gli imprenditori marchigiani, nonostante l’appello accorato di Spacca, non cacciano un euro. A fine agosto, subìta l’onta del commissariamento, Masera si dimette, confidando agli amici tutta l’amarezza di chi si è sentito tradito. Nel frattempo ispettori della Banca d’Italia, ispettori interni mobilitati dal direttore generale Luciano Goffi, che dall’estate 2012 ha preso il posto di Bianconi, e magistrati di Ancona passano al setaccio le carte della banca. È Goffi a mandare i primi due esposti alla Procura della Repubblica di Ancona, il 28 febbraio e l’8 marzo 2013. Quando il direttore tira una linea emerge che i crediti “deteriorati” ammontano a 4,7 miliardi, un quarto dell’erogato totale della banca. Basta scorrere qualche storia esemplare per capire come si è potuti arrivare a tale scempio.

CIRO DI PIETRO, costruttore napoletano, viene arrestato a Perugia il 9 novembre 2012 assieme ad altre persone, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata principalmente alla truffa ai danni di Banca Marche. Di Pietro avrebbe ottenuto crediti per 19,8 milioni di euro con l’aiuto di perizie addomesticate sugli immobili. Con lui viene arrestato il direttore della filiale di Perugia di Banca Marche, Carlo Mugnoz. Quattro giorni dopo Goffi cancella dall’albo interno dei periti estimatori l’ingegnere anconetano Giuseppe Lucarini, a cui è addebitata una perizia di favore su immobili della Cellulis, società di Di Pietro. Ma arrivano due colpi di scena. Mugnoz viene quasi subito rimesso in libertà dopo aver convinto il gip di Perugia della sua tesi difensiva: Di Pietro parlava direttamente con il direttore generale Bianconi. Intanto Lucarini scrive una accorata lettera a Goffi, in cui fa capire che i periti subivano pressioni dal vertice della Banca per aggiustare le valutazioni. Scrive Lucarini: “L’imprenditore di Cellulis è un bandito? E mica l’ho scelto io; Banca Marche sapeva già che era stato inserito nelle indagini per riciclaggio già prima di fare le indagini in questione”.

CANIO MAZZARO, imprenditore potentino di 54 anni, ha chiesto il primo finanziamento a Banca Marche il 26 agosto 2004: 2 milioni di euro per la Pierrel Farmaceutici, che allora controllava. La linea di credito è stata deliberata nel giro di 24 ore dal direttore generale Bianconi. Oggi il gruppo Mazzaro è esposto con l’istituto di Jesi per 19,4 milioni, di cui 18,8 già in sofferenza. Scrivono gli ispettori interni: “La motivazione delle richieste dell’appoggio di Banca Marche è stata quasi esclusivamente di natura finanziaria (aumenti di capitale e/o acquisizione di quote di maggioranza) ma in effetti le linee di credito sono state utilizzate per sopperire alla mancanza di liquidità delle società del gruppo”. Mazzaro, di fatto uscito dalla Pierrel, oggi controlla Bioera, società quotata nata dalle ceneri del gruppo Burani. Lui è amministratore delegato, la sua ex compagna e madre di suo figlio, Daniela Garnero Santanchè, è presidente. Ma fino all’anno scorso, Mazzaro era presidente e amministratore delegato era Luca Bianconi, figlio di Massimo. Scrivono gli ispettori della banca con qualche ironia: “Per quanto emerso dall’analisi delle singole proposte di fido e dalla documentazione acquisita, è plausibile che l’ex direttore generale Massimo Bianconi e l’ing. Canio Mazzaro si conoscessero”. Gli ispettori si sono occupati anche dell’immobiliare Bologna Uno, che fa capo all’imprenditore Stefano Mattioli. L’esposizione di 25 milioni circa presenta alcune criticità, tra le quali colpisce il fatto che azionista della società, con il 10 per cento, è l’Immobiliare Uffreducci, “riconducibile all’ingegner Fabio Tombari”. Tombari altri non è che il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, azionista di Banca Marche.

PIETRO LANARI è uno dei maggiori costruttori marchigiani. La sua esposizione con Banca Marche è di 236 milioni e, secondo gli ispettori Bankitalia, è uno dei clienti messi peggio, insieme ai gruppi Casale, Ciccolella, Minardi- Polo Holding e Foresi, in quanto “i tentativi di ristrutturazione non hanno dato esiti positivi”. Ma il costruttore non ci sta. Sostiene di aver ottenuto il finanziamento per importanti operazioni immobiliari nella regione, in particolare nelle aree turistiche di Numana, Senigallia e Potenza Picena, ma che “poco dopo l’inizio dei lavori la dirigenza di Banca delle Marche è stata sostituita e la nuova ha ritenuto di revocare ogni linea di credito ritenendo che i valori degli immobili fossero prossimi allo zero”. Lanari va oltre e avverte: “Non intendo essere mescolato con sporchi giochi di potere, vicende e vendette personali”.

VITTORIO CASALE, indebitato oggi per circa 60 milioni con Banca Marche, racconta di aver conosciuto Bianconi attraverso il comune amico Leonardo Ceoldo. Un giorno, racconta l’immo – biliarista, Bianconi lo invita nella sede di Banca Marche a Jesi, dove viene ricevuto dal presidente del collegio sindacale, Piero Valentini, e dal vicedirettore generale, Stefano Vallesi, che gli chiedono di salvare l’imprenditore calzaturiero marchigiano Giovanni Marocchi (esposto con la banca per 26 milioni) rilevando le sue quote nel resort Capo Caccia di Alghero. Bianconi chiede a Casale anche di nominare nel collegio sindacale una delle sue società Ludovico Valentini, figlio di Piero, il presidente del collegio sindacale di Banca Marche che gli aveva chiesto il “favore”. Poco dopo, nel 2011, Casale viene arrestato per la bancarotta della sua società Operae, e mentre è agli arresti fallisce anche Marocchi, cosicché l’espo – sizione dell’immobiliarista sale dai 20 milioni iniziali a 40, dopo aver assorbito quella di Marocchi. Appena uscito dal carcere viene nuovamente arrestato per la vicenda dell’albergo Capo Caccia, con l’accusa di essere il regista della bancarotta di Marocchi. “Bianconi, Valentini e Vallesi mi hanno fatto un bel pacco. Nessuno di loro si è più fatto sentire”, protesta oggi Casale, che si di ce pronto a dimostrare le sue accuse in tribunale, mentre l’esposizione di Banca Marche è lievitata a 60 milioni. Possibile che Bianconi abbia fatto tutto da solo? La storia di questo brillante banchiere che arriva a Jesi nel 2004 per dare slancio a una piccola banca regionale, è intessuta di amicizie importanti, in un ambiente politico-affaristico ad alto coefficiente massonico. Casale racconta di avergli chiesto chi lo avesse sponsorizzato, e di aver ottenuto in risposta un significativo elenco di grossi nomi del potere finanziario regionale e nazionale. Certo è che, mentre dà impulso agli affari della Banca Marche, Bianconi non trascura quelli di famiglia. Nel 2006 sua moglie, Anna Rita Mattia, sale agli onori della cronaca per l’acquisto in leasing di un immobile a Treviso che il giorno didopo viene affittato per 12 anni a Banca Popolare di Bari. Passa un anno e l’Espress o rivela la commistione di interessi con Danilo Coppola e Stefano Ricucci, quest’ultimo finanziato abbondantemente da Bianconi quando era in Bna, poi in Banca Agricola Mantovana e in Cariverona. Le oligarchie locali plaudono alla sua intraprendenza e non battono ciglio di fronte a stipendi d’oro e benefit da nababbo: accresce la clientela tra i costruttori, proprio mentre esplode la bolla immobiliare, promuove due aumenti di capitale, vende gli immobili della banca al Fondo Conero prendendoli in affitto con canoni pari al 7,5 per cento del valore. Nel giro di quattro anni affluiscono nel patrimonio della banca circa 600 milioni di euro. Ma i crediti in sofferenza stanno crescendo molto più rapidamente. BIANCONI fa una fine degna della sua forza passata. Per accompagnarlo alla porta la Banca d’Italia ha dovuto attendere la più classica delle bucce di banana. Durante un’ispezione alla Tercas gli uomini di Visco scoprono che il 7 maggio 2009 Bianconi manda un funzionario a cambiare un assegno circolare di Banca Marche da 160 mila euro con 32 assegni di 5 mila euro cadauno, poi versati sul conto personale del direttore generale. Questo tentativo di sfuggire alla tracciabilità viene giudicato da Bankitalia non coerente “con la deontologia professionale che deve connotare l’operato dell’alta dirigenza di una banca”. Così il 12 giugno 2012 il capo della vigilanza Luigi Signorini chiede a Banca Marche il siluramento di Bianconi. Il presidente Lauro Costa risponde che Bianconi faceva sempre così, perché amava una certa qual “riservatezza relativamente a una parte degli emolumenti percepiti”. Dopo Bianconi (coperto d’oro) anche Costa è stato accompagnato all’uscita. Adesso tocca alla magistratura capire com’è che ci sono voluti tanti anni per accorgersi dello scempio.

Ma chi è Ciro Di Pietro? Che sia vittima di un complotto?

«Poche parole e tanti fatti». Si legge su Forza Pergo. Si è presentato così, Sergio Briganti, nuovo presidente del Pergocrema (a sinistra nella foto mentre stringe la mano a Manolo Bucci, che gli ha ceduto la società gialloblù). E in effetti, di parole, nella conferenza stampa, ne ha fatte poche, nel senso che ha aggiunto poche informazioni a quelle già circolate in via non ufficiale nei giorni scorsi. «Insieme a me ci sono altri quattro soci — ha affermato il 42enne di Terracina, titolare di una società che si occupa di marketing — I loro nomi? Non sono importanti». Uno di questi è Ciro Di Pietro, imprenditore alberghiero, titolare dell’hotel di Auronzo dove va in ritiro la Lazio e dove andrà il Pergocrema. Presente in sala stampa, Di Pietro non ha però parlato. Anticipando quelle che sarebbero state domande inevitabili, Briganti ha poi precisato i ruoli di Claudio Lotito, presidente della Lazio, e di Ermanno Pieroni, ex presidente dell’Ancona, i cui nomi erano stati affiancati nei giorni scorsi al Pergocrema. «Con Lotito esiste un rapporto di lavoro, di amicizia e di rispetto; è una persona che sa fare calcio tenendo i conti a posto. Con Pieroni ho lavorato due anni ad Ancona e a Taranto; è un uomo capace, conosce bene i giocatori e ce ne proporrà, così come ce ne propongono tanti altri operatori di mercato». Presentato dall’addetto stampa Barbara Locatelli, Briganti, che dopo la conferenza ha salutato i tifosi e incontrato le istituzioni, ha poi illustrato il suo progetto. «La nostra è stata una trattativa limpida e trasparente. Abbiamo trovato una correttezza nella gestione che in altre società non avevamo visto. Abbiamo trattato altri club, scoprendo una marea di debiti. Il Pergocrema è pulito e questo ci permetterà di investire. Con il mio gruppo, che è solido, ho deciso di intraprendere questa avventura in una città dove si può lavorare senza pressioni, per proseguire il lavoro iniziato da Manolo Bucci. La nostra sarà un’azienda che fa calcio, sul modello della Lazio. Entro domani presenteremo tutto l’organigramma. Non avremo un direttore generale, perchè siamo tutta gente di calcio. Io sarò a Crema cinque giorni alla settimana e mi avvarrò della collaborazione delle persone cremasche che già hanno collaborato con Bucci. Allestiremo una squadra all’altezza della situazione. Non vendiamo fumo e non siamo qui per perdere tempo». (4 agosto 2011)

Nominato il curatore fallimentare. Ciro Di Pietro, l'imprenditore campano: "C'erano i soldi per fare tutto". E promette battaglia, scrive Francesco Galante su “Inviato Speciale”. Il Pergo e i suoi quasi 80 anni di storia sembrano agli sgoccioli. E' di oggi la notizia che il tribunale ha nominato ufficialmente Claudio Boschiroli quale curatore fallimentare della società. Ma Ciro Di Pietro, il capo della cordata campana che vorrebbe salvare il Pergocrema, è pronto a giocare il jolly opponendosi al pronunciamento. A comunicarlo è stato lo stesso imprenditore che, raggiunto telefonicamente, si è limitato a poche lapidarie parole: “Personalmente non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione in tal senso. Ma se questa è la decisione del tribunale di Crema, noi presenteremo opposizione”. “Nelle prossime ore prenderemo contatti con i nostri legali” prosegue Di Pietro, “affiancandoli con docenti universitari che già in passato hanno dato il loro appoggio a società di calcio invischiate in procedure fallimentari, e vedremo il da farsi”. Tra questi anche Sergio La Rotonda, indicato come presidente del Pergocrema. La strategia però sembra delineata: “Dimestreremo al tribunale che non esiste uno stato di insolvenza del Pergocrema, ma solo una momentanea illiquidità. Possiamo dimostrare di avere 350mila euro di titoli certi. E in totale, tra contratti di sponsor che non hanno onorato i loro impegni con la società, più la valorizzazione dei giocatori attualmente in rosa, arriveremmo a circa un milione di euro”. In sostanza, secondo Di Pietro, c'era il denaro per pagare gli stipendi arretrati e presentare la fideiussione per iscriversi alla Lega Pro. Ora però il tempo stringe, perché entro il 25 giugno almeno le pendenze con i tesserati andranno saldate. “Salvatore Cappelleri, Il presidente del tribunale è stato una persona eccezionale” aggiunge Di Pietro, “è la scorsa settimana ci ha consentito di accelerare un percorso che altrimenti sarebbe durato mesi. Sono certo che un paio di giorni ancora basteranno per risolvere la situazione e dimostrare che il Pergo è una società che può andare avanti. Se così non fosse, sarebbe la prima società a fallire con i soldi”.

Eppure la situazione è alle soglie del drammatico. In città danno i gialloblu per spacciati.

“Eppure non abbiamo trovato nessun cremasco disponibile ad affiancarci in questi giorni. Briganti invece di soldi ne ha messi, e anche tanti”.

Di chi è la colpa?

“Se dovesse andare male, il curatore fallimentare andrebbe a risalire fino a due anni indietro la situazione attuale. Quindi oltre Briganti, anche Bucci e Bergamelli saranno chiamati a spiegare cosa è successo. E lo stesso dicasi per gli sponsor che non hanno rispettato i contratti: dovranno spiegare perché”.

Di Pietro giura battaglia, e assicura: “Giovedì avremo in mano le carte per dimostrare che il Pergo non può e non deve fallire”.

Fallimento del Pergo, Di Pietro non molla: “Chi l’ha voluto?” , scrive “Crema Oggi”. “Il Tribunale si è riservato di decidere sull’istanza di fallimento”: queste le prime parole dell’avvocato Oreste De Donno appena uscito dall’aula dove si è tenuta l’udienza, per decidere sulle sorti future del sodalizio gialloblù. A questo punto, il destino sembra segnato e nei prossimi giorni si saprà, se è calato il sipario sul calcio professionistico a Crema. Ciro Di Pietro, accompagnato da Ernesto Rimonti, arrivano in Tribunale poco dopo le 11, per prendere parte all’udienza avente ad oggetto l’istanza di fallimento, presentata nelle scorse settimane,da due creditori del club gialloblù. Udienza prevista per le 11,30, ma durata pochi minuti, con l’avvocato Oreste De Donno, che all’uscita dice: “Il Tribunale si è riservato di decidere sul fallimento”. Fine dei giochi? Forse, ma l’imprenditore napoletano, Ciro Di Pietro che rappresenta il gruppo, che dovrebbe esprimere Ernesto Rimonti come nuove presidente del Pergocrema, non ci sta: “Non abbiamo nessuna intenzione di mollare. Si sta facendo fallire una società che vanta dei crediti. Nessuno si è fatto avanti”. L’imprenditore napoletano punta il dito sugli Istituti di Credito: “Con 350mila euro certi da incassare, non ci hanno voluto fare gli assegni circolari per 35 mila euro”, che sarebbero serviti per far fronte a parte delle richieste dei due creditori, che hanno presentato l’istanza di fallimento. Ma Di Pietro parla anche delle fatture, che devono saldare gli sponsor e non solo: “Briganti ha fatto più casino della grandine, ma a Crema non si è trovato nessuno che ha remato a favore del Pergo. Parecchie persone volevano sguazzare dentro, dalle banche agli sponsor. Bastava che un solo sponsor avesse pagato normalmente – aggiunge Di Pietro – e si poteva evitare il fallimento”. Quindi un pensiero rivolto ai due creditori: “Maosi e Nonsoloverde, che hanno attivato il procedimento, non prenderanno una lira, perché sono chirografari”. E poi, lascia il Tribunale con un interrogativo: “Di chi è la volontà di far fallire la squadra?”.

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società  sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012.  Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi. Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui».

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

Tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato, scrive Andrea Oleandri su “Il Garantista”.

10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese.

Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.

Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato.

Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi – due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni di un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone. “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”. Il processo parte solo nel luglio del 2011 – non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato.

Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Onu in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo.

Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR). Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata.

Papa Francesco contro il Carcere. Sono queste le dure parole, pronunciate lo scorso 23 ottobre 2014 da Papa Francesco, del discorso tenuto da Papa Bergoglio di fronte ai membri dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale.

Illustri Signori e Signore!

Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni.

Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico.

Introduzione

Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale.

a) Incitazione alla vendetta. Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.

b) Populismo penale. In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici:figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.

I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam. Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni.

II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine

a) Circa la pena di morte. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.

b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.

c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.

d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili. Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età.

III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità.

a) Sul delitto della tratta delle persone. La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM).

b) Circa il delitto di corruzione. La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.

Conclusione. La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.

Decreto Legge Carceri, 8 euro ai detenuti mentre si muore di carcere, scrive Cristina Amoroso su “Il Faro sul mondo”. Altri due detenuti suicidi nei giorni in cui la Camera si apprestava a discutere il decreto legge sulle carceri. Il primo a Padova, un detenuto di 44 anni trovato morto nella cella di un carcere in emergenza nazionale; il secondo a Trento, un detenuto di 32 anni suicida in quello che è considerato un carcere modello. Intanto il decreto legge sulle carceri è approvato in prima lettura alla Camera con 305 sì, 110 no e 30 astenuti. Il decreto completa il “Pacchetto normativo” già approvato nei mesi scorsi in risposta alla sentenza “Torreggiani” della corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri quattromila detenuti per sovraffollamento delle strutture carcerarie tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. Il provvedimento, che prevede un risarcimento giornaliero in denaro oppure uno sconto di pena ai detenuti che si trovano in condizioni degradanti ed umilianti ed abbiano quindi subito una violazione dei diritti umani, passa ora al Senato. Nel dettaglio, se la pena è ancora da espiare è previsto un abbuono di un giorno ogni dieci passati in celle sovraffollate. Qualora lo sconto di pena non è applicabile interviene il risarcimento in denaro pari ad otto euro giornalieri da consegnare ai detenuti già usciti dal carcere, per cui sono stati previsti 20,3 milioni di euro fino al 2016. Resta difficile non considerare il provvedimento uno “svuotarceri”, destinato a favorire anche mafiosi, nella convinzione dell’assoluta priorità di altri provvedimenti, come il reddito di cittadinanza o l’abolizione di Equitalia, come hanno dichiarato alcuni parlamentari, mentre con il contentino in denaro o lo sconto di qualche giorno non si affronta il problema reale delle carceri italiane: il disumano sovraffollamento in cui i detenuti vivono. Con otto euro passa la paura o passa la tortura? Intanto nel giro di una settimana l’Italia ha riportato altre due condanne. Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia). Entrambe a conferma della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni e molte storie rimangono soltanto dei numeri. Perché i detenuti non rimangono semplici nomi ha provveduto il Dossier 2000-2014, “Morire di carcere”, aggiornato fino al 25 luglio, ad opera di Ristretti Orizzonti, che ha evidenziato i casi di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, elencando i detenuti morti dal 2002 al 2014: per cognome, età, data e luogo del decesso. I morti totali nelle carceri dal 2000 al 2014 sono stati 2320, di cui 825 suicidi, nel 2014 i morti in carcere sono stati 82, di cui 24 suicidi. Il dossier “Morire di carcere” rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”, riuscendo a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Per altrettante persone, morte in carcere, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa “inosservato”, si legge nella presentazione del Dossier.

Carceri affollate, risarcimento ai detenuti. Così l'Italia prova a salvarsi dai ricorsi. La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l'Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle, scrive Federico Formica su “L’Espresso”. L'Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il “decreto Carceri”, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade:

Risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in violazione dell'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo;

Lo sconto di un giorno di pena residua per ogni dieci vissuti, appunto, nelle condizioni già citate.

Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di “abbuono” sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni “inumane o degradanti” per meno di quindici giorni. Lo sconto di pena invece si applicherà a chi è ancora ristretto - nelle condizioni già citate - nelle carceri del nostro Paese. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d'un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell'articolo 3. Non è difficile prevedere l'esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L'8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall'articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all'Italia un anno di tempo per mettere la famosa “pezza”. Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse “una riparazione effettiva” per le violazioni della Convenzione. “Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti” è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, “è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni”. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un'altra sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come “sentenza Sulejmanovic” - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l'assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento “disumano e degradante”. Stabilita l'entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand'è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. “Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione” spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. “I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento”. Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all'interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le “lesioni alla dignità umana” patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. “I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori,assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza”. Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un'altra legge, passata nell'aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l'affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l'approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di “indulto mascherato” mentre secondo il leghista Nicola Molteni “un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile”. “Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all'inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò”.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

La giustizia è ingiusta, scrive Giuseppe Rossodivita su “Il Tempo”. Dopo la condanna dei giudici di Strasburgo con la «sentenza Torreggiani» - ai quali occorrerà fornire risposte entro il prossimo 28 maggio - arriva anche quella dei parlamentari europei giunti in Italia per vedere con i loro occhi le condizioni delle nostre carceri. Peggio di noi solo Serbia e Grecia, scrivono nel rapporto i membri della Commissione Libertà Civili preoccupatissimi, come i giudici di Strasburgo, per l’abuso della detenzione preventiva, che è patologia del processo penale nostrano. Nei fatti è una vera e propria pena anticipata in assenza di condanna, la custodia cautelare in Italia, che pesa circa il 40% delle presenze in carcere. La metà di questo 40% sarà poi assolto, dicono le statistiche del Ministero della Giustizia e le decine di milioni di euro per risarcire le migliaia di ingiuste detenzioni sono prelevate dalle nostre tasse, giammai dalle tasche dei giudici che sbagliano con così tanta preoccupante frequenza. In realtà il carcere disumano e degradante italiano non è altro che il dietro le quinte di uno spettacolo quotidiano osceno: quello dello sfascio del sistema giustizia. Oggi sarà decisa la sorte di Berlusconi, affidamento ai servizi sociali o detenzione domiciliare, condannato eccellente che per vent’anni ha parlato di riforma della giustizia senza però mai muovere un dito.

Giudici che sbagliano e celle-loculi. In un anno quasi nulla è cambiato, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”. Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e «sicuri» colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de «Il Tempo». Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il «filtro» in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito «Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è «ammissibilità»: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Il 28 maggio 2014 è scaduto l’«ultimatum» della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto «svuota carceri», il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43 mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo «solo» per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa «vigilanza dinamica». E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 «braccialetti elettronici», prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che «alcuni magistrati di sorveglianza» stanno «rigettando» le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è «una ritenuta inammissibilità dei reclami» per le detenzioni pregresse» o quelle che «si protraggono in diversi istituti». Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile». Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla «possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un altro punto, infine, è se la superficie «vitale» (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.

Niente responsabilità del magistrato, il calvario dei risarcimenti, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Tempo di bilanci, delle mille promesse, delle mille assicurazioni, e dopo la quantità di battimani per la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giunto a inviare un solenne messaggio alle Camere, il suo primo e unico messaggio, dopo le clamorose sentenze della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni nazionali e internazionali; e dopo la clamorosa denuncia di papa Francesco che ha raccolto l’appello di Marco Pannella sulle carceri e levato la sua voce contro l’ergastolo, in concreto cos’è cambiato? Purtroppo poco o nulla. Innocenti continuano a languire dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei magistrati; per ulteriore beffa raramente vengono risarciti per il danno subito. I magistrati, a loro volta, quasi sempre se la cavano, nella maggior parte dei casi restano impuniti, e questo malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. Andiamo per punti: il disegno di legge sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà dello stipendio. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l'ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo; ma vanno considerate anche le domande rigettate: circa i due terzi del totale; arriviamo così, per approssimazione a circa 50 mila persone innocenti che per qualche tempo hanno soggiornato in carcere. Non consideriamo i danni fisici e psicologici, irrisarcibili e impagabili. Consideriamo solo i costi “vivi” del tenere un detenuto in carcere. Quei 50 mila sono costati alle tasche del contribuente almeno 600 milioni di euro. Tanto sono costati quei 50 mila detenuti innocenti. Compariamo altri dati. Nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni sono state 1.368, e per gli errori giudiziari 25; nei primi dieci mesi del 2014 le ingiuste detenzioni sono state 431 e nove gli errori (la fonte è il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. C’è una spiegazione: dal ministero dell'Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l'ammissibilità della domanda di risarcimento. Quindi non è che si sbaglia di meno, è che ci sono meno fondi per le vittime degli errori, e di conseguenza più richieste rigettate. Passiamo al sovraffollamento delle carceri. Nel maggio scorso è scaduto l'ultimatum della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. L’Italia ci ha messo una toppa con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l'espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. A Strasburgo hanno chiuso un occhio. Per ora. Ma dietro le sbarre c'erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Obietta la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, che da sempre segue le vicende della giustizia ed è unanimemente considerata un’autorità in materia, ci spiega che “dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti”. Se un anno fa, prima della verifica UE, l’Italia era fuorilegge per 17.414 detenuti in più, lo è "solo" per 4.848; e proseguono i suicidi tra i detenuti e, anche,  degli agenti di custodia: quest’anno già dieci (nel 2013 furono otto). Torniamo alla questione dei risarcimenti per ingiusta detenzione. La procedura è lenta, farraginosa; la dimostrazione di quanto la burocrazia possa essere insensata. Il diritto al risarcimento, secondo elementare logica, nasce da un danno subito ingiustamente, in questo caso la privazione della libertà. Una volta accertato che il cittadino è innocente, il risarcimento dovrebbe essere automatico. Diventa invece un calvario di burocrazia e di ostacoli che appaiono frapposti ad arte: la richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta, due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell'istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l'assoluzione dell'istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio,spesso si tratta di numerosi faldoni. Quando il richiedente cerca i documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio inizia nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla ricerca degli atti da allegare. Poi, una volta trovati bisogna chiedere che i fascicoli vengano inviati all'ufficio addetto al rilascio copie. Il personale spesso è carente, quindi occorrono giorni per soddisfare la richiesta. Quando finalmente tutti i documenti sono all'ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato il richiedente può compilare la richiesta copie. Quando poi finalmente il materiale necessario è raccolto, naturalmente corredato dall’istanza di risarcimento, i fascicoli ordinari e completi di indice, allora non resta che incrociare le dita e toccare ferro e tutto il toccabile. Bisogna attendere che l‘udienza sia fissata, e sperare che il risarcimento sia riconosciuto.

Per gli errori dei magistrati spesi 600 milioni in 20 anni. Prime Palermo e Catanzaro, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. La cifra media pagata è di 6-700 euro al giorno. L'anno peggiore è stato il 2011. Nel 1983 la lettera di Tortora che soffriva l'errore giudiziario sollevò il caso. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l'inferno del carcere preventivo: «La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati, scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell'estate, mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...».Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell'ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un'assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell'Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell'applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest'anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose,anche perché piccole, le corti d'Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, «di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell'errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip». Oggi i magistrati del caso Tortora, gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l'ex giudice istruttore Giorgio Fontana, non sono degli sconosciuti «ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?», è la domanda provocatoria di Costa: «Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all'origine dei risarcimenti». È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd.

Modifiche alla Legge Pinto: oltre al danno, la beffa! Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice, scrive Lucia Polizzi su “Leggi Oggi”. Il Decreto- legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in legge n.134/2012, cambia le regole e le procedure della celebre Legge Pinto (L. n. 89/2001), che consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo. Da un lato, la novella legislativa snellisce le modalità di ricorso: decide infatti, con decreto inaudita altera parte, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. La riforma introduce inoltre parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità). Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti , nell’accertare la violazione il giudice valuta:

- la complessità del caso,

- l’oggetto del procedimento,

- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge!- è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo, scrive Studio Legale De Vivo. Con l’articolo di oggi, iniziamo una serie di interventi dedicati a quella che comunemente viene definita Legge Pinto (dal nome del suo estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89). Tale legge disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo primo articolo ne esamineremo la nascita e la sua evoluzione con il decreto Legge n. 201 del 2002. Negli interventi delle prossime settimane andremo poi ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti e l’attuale situazione. La cosiddetta Legge Pinto  nasceva con l’intento di salvaguardare l’Italia dalle condanne della Corte di Strasburgo a fronte dei ripetuti ritardi nella definizione dei procedimenti giudiziari ed anche per evitare l’intasamento della Corte medesima per i tantissimi ricorsi provenienti dall’Italia. Veniva così “nazionalizzato” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, rendendo effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” introdotto dalla Costituzione italiana a seguito della riforma  dell’art. 111 ispirato all’art . 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a che la causa, di cui è parte, sia esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole e dell’art. 13 che afferma invece il diritto dei cittadini ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. Concretamente la legge disciplina il caso di chi in un procedimento civile, penale o amministrativo, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della convenzione suddetta, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata. Ligio alle direttive e dotato di buone intenzioni il legislatore italiano approntava una disciplina semplice e (fatto raro) di facile applicazione. Senza pagare nulla in termini di costi di accesso alla giustizia (bolli, notifiche, contributi unificati, tassazione degli atti, copie ecc.) seguendo un procedimento snello e semplice, si poteva proporre un ricorso alla Corte di Appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assumeva verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che concludeva il medesimo procedimento, era divenuta definitiva. Il danno liquidato è quello riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Senza disciplinare altro, era la giurisprudenza ad integrare le lacune legislative sulla scorta delle sentenze della Corte di Strasburgo, indicando alcuni parametri: innanzi tutto la durata consona di ogni grado di giudizio, ovvero per il primo grado 3 anni, per il secondo 2 anni, per il terzo 1 anno. Quindi la forbice entro la quale liquidare gli indennizzi variabile da 500,00 € a 1500,00 € per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Premesso che, parimenti alla legge in questione, il legislatore italiano avrebbe dovuto attivarsi per velocizzare i processi  ma che non è mai riuscito nell’intento, a seguito di una sempre maggiore mole di ricorsi ai sensi della legge Pinto il legislatore comprese subito di aver aperto la strada ad una pericoloso fronte per le esangui casse statali, impegnando oltremodo la giustizia delle Corti di Appello. E’ da questa preoccupazione che nacque e prese forma l’esigenza di un nuovo intervento effettuato con il decreto legge n. 201 del 2002, teso ad introdurre una “pregiudiziale conciliativa” nell’originario meccanismo della suddetta legge. Il decreto Legge n. 201 del 2002 introdusse, anche se per poco tempo, nel tessuto originario della legge Pinto una conciliazione stragiudiziale in cui gli unici protagonisti divenivano l’Avvocatura dello Stato e l’interessato danneggiato dall’eccessiva durata del processo. Il nuovo articolo 2 bis subordinava la domanda di un’equa riparazione del danno al fatto che fossero decorsi 90 giorni da quello della comunicazione della volontà di introdurre l’azione da parte del futuro ricorrente, diretta all’Avvocatura dello Stato. Al termine del suddetto incontro o le parti raggiungevano un accordo, sottoscrivendo il relativo atto di transazione, oppure non pervenivano ad un’intesa con l’ovvia conseguenza che l’interessato poteva così finalmente procedere all’azione per un’equa riparazione del danno.
Durante questa fase conciliativa il legislatore non aveva però previsto per il ricorrente l’assistenza di un difensore (necessario per affrontare e risolvere i diversi balzelli di questa fase introduttiva) che rimaneva, eventualmente, a carico esclusivo della parte. Il Decreto Legge 201 del 2002, inoltre, si occupava anche del regolamento delle spese della fase contenziosa giungendo ad autorizzare, nelle ipotesi più nefaste, l’eventuale deroga al criterio della soccombenza nel caso in cui una parte non avesse motivato il rifiuto di aderire alla proposta formulata in sede precontenziosa creando un incentivo psicologico e materiale ad accettare la proposta dell’Avvocatura. Tuttavia, come spesso accade alle riforme introdotte per decreto legge, in sede di conversione il legislatore con la Legge n 259 del 2002, decideva di sopprimere il capo I del Decreto legge n. 201 del 2002 disciplinante la suddetta condizione di procedibilità, determinando l’eliminazione del “neo-obbligo” di esperire preventivamente il discusso tentativo di conciliazione. Come prevedibile quindi, stante l’inefficienza della macchina della giustizia, si verificò una richiesta sempre maggiore di indennizzi che portò ad un lento ma inesorabile ritardo della loro liquidazione per mancanza di fondi, sicché al ritardo relativo ai tempi processuali si aggiunse il ritardo relativo ai tempi della liquidazione dell’indennizzo. Ritardi su ritardi! La situazione creatasi però, lungi dal costituire un disincentivo per i cittadini danneggiati, ne aumentava l’aggressività concretizzantesi nell’attuazione delle procedure esecutive nei confronti dello Stato e/o delle amministrazioni  e dei ministeri. Gli indennizzi e le aggiuntive spese per le esecuzioni rappresentavano un onere troppo grande per l’inefficiente Stato Italiano ed è per questo che con varie leggi venne assicurata l’impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia. A bloccare il credito del cittadino vi era anche un sistema di verifiche in base a cui  “…le amministrazioni pubbliche, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore e diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento …e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Ecco quindi che con tali leggi di dubbia legittimità costituzionale, si precludeva la soddisfazione del credito dei cittadini doppiamente lesi dallo Stato nel loro diritto all’equo processo. La prossima settimana vedremo come il Governo Monti, con il D.L n. 83 del 22 giugno 2012, ha inteso riformare tale situazione….

Continuiamo la serie di interventi dedicati alla Legge Pinto relativa al diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo continua Studio Legale De Vivo. In questo secondo articolo andiamo ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti. La riforma della Legge Pinto è avvenuta con il Decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 convertito in L. n. 134/2012. Positiva la parte di semplificazione procedimentale: decide infatti, con decreto inaudita altera parte da emettere entro 30 gg dalla proposizione del ricorso, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. Apprezzabile è anche la codificazione dei parametri già stabiliti dalla giurisprudenza sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio: il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Criticabile è invece la norma che limita l’indennizzo che non potrà mai essere superiore al valore della causa. Altrettanto criticabile è aver stabilito che il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità), quando precedentemente era sufficiente aver superato i soli 3 anni nel primo grado. Nel ribadire poi il termine decadenziale della domanda, secondo cui il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, è discutibile la limitazione che vieta di invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio come era stato finora possibile. Le altre modifiche normative  dilatano la discrezionalità decisoria del Giudice rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia: in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria; nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa; nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso; e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento. Criticabile è la previsione del comma 5 quater, laddove si minaccia che, qualora la domanda sia ritenuta dal giudicante inammissibile o manifestamente infondatail ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10. 000 euro in favore della Cassa delle Ammende! (Trattasi di un grande disincentivo, essendo ormai risaputa la vasta discrezionalità interpretativa dei giudici). Non solo! Altro aspetto degno rilievo (che stravolge l’iniziale giusta logica della gratuità dell’azione) è la modifica dell’art. 3, comma 3 della legge ai cui sensi “unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:a) l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.” Considerando che prima della modifica era possibile produrre copia semplice degli atti e/o chiedere l’acquisizione del fascicolo di causa, si può capire come la copia autentica costituisca un peso ulteriore che dovrà sopportare il ricorrente già danneggiato dallo Stato. Un comune cittadino può legittimamente pensare che il legislatore prima di varare una riforma si preoccupi della compatibilità della stessa con le norme di rango superiore e pensa anche che se la legge persegue una finalità la stessa legge non può frapporre ostacoli al conseguimento dei suoi scopi. Purtroppo questo cittadino o non è italiano oppure assomiglia al Pangloss “singolare” precettore del Candido di Voltaire secondo cui tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili! In realtà il fine non troppo recondito perseguito dal legislatore italiano è quello di ostacolare (per il tempo occorrente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma) l’esercizio del diritto riconosciuto per la risaputa ragione che lo Stato non è in grado né di far fronte ai pagamenti degli indennizzi né di evadere la gran mole dei ricorsi che per suoi inadempimenti si riversano nelle Corti di Appello competenti. Vediamo ora se le modifiche alla legge Pinto possano essere considerate compatibili e in che misura, con il sistema adottato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, così come ricostruito dai giudici della CEDU, al cui rispetto l’Italia è tenuta. Come abbiamo rilevato l’obiettivo perseguito con la modifica è lo snellimento del ricorso e delle procedure. E pare che almeno su questo punto il legislatore abbia centrato il suo scopo. Peccato che il ricorrente ora debba sopportare il costo delle copie autentiche degli atti quando nel sistema previgente questa spesa non era prevista.

Considerazioni critiche. Relativamente al quantum dell’indennizzo che non può superare il valore della causa o del diritto in concreto accertato dal giudice nel procedimento in cui è violata la ragionevole durata (art. 2 bis co. III) è bene chiarire che si tratta di un limite non previsto né dalla Convenzione né dalla giurisprudenza CEDU.

Altro punto critico attiene alla previsione contenuta nell’art. 2 comma 2 ter, secondo cui l’indennizzo può essere richiesto solo se il procedimento non si è concluso nell’arco di 6 anni. A tal proposito la giurisprudenza CEDU ha ripetutamente stabilito che anche i procedimenti di durata inferiore ai sei anni possono legittimare l’ottenimento dell’indennizzo (Pelosi / Italia n. 51165/99; Di Meo – Masotta / Italia n. 52813/1999; Nuvoli / Italia n. 41424/1998).

Altro punto critico è quello relativo all’art. 4 della novella in forza del quale la parte ricorrente è obbligata ad attendere la conclusione definitiva del giudizio prima di adire lo strumento previsto dalla legge Pinto. Anche questa limitazione è decisamente contraria alla giurisprudenza CEDU che ha più volte stabilito (per tutti LEsjak / Slovenia n. 33946/03) che si può richiedere l’indennizzo prima della conclusione definitiva del giudizio quando questo eccede la ragionevole durata.

Viene inoltre confermata la precedente previsione della legge in forza della quale il giudice liquiderà l’indennizzo solo in relazione al periodo di tempo eccedente la durata ragionevole (art. 2 bis comma 1). Però anche tale previsione contrasta con la giurisprudenza CEDU che ha più volte ribadito che, ecceduti i termini della ragionevole durata, il procedimento nel suo complesso risulta essere in violazione della convenzione europea (ex plurimis Apicella / Italia n. 64890/01; Cocchiarella / Italia n. 64886/01).

Appare criticabile la nuova previsione in forza della quale l’indennizzo è escluso se una parte abbia rifiutato la proposta di definizione effettuata dal giudice. Si tratta infatti di altro limite non previsto nella convenzione e nella giurisprudenza CEDU.

Le nuove previsioni di cui all’art. 2 co. 2 sembrano attribuire al giudice notevoli margini di discrezionalità (oltre a notevoli già connaturati) nella valutazione delle circostanze del caso e in relazione al comportamento delle parti. Tuttavia tali previsioni, insieme alla tipizzazione delle preclusioni (art 2 quinquies), sollevano dubbi di coerenza con il sistema della convenzione perché l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava sugli organi dello Stato che dovrebbero garantire un processo in tempi ragionevoli anche quando le Parti avessero assunto comportamenti dilatori.

Infine la previsione naturale per cui l’indennizzo viene pagato nei limiti delle risorse disponibili non è coerente con il sistema della convenzione europea, perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di realizzare un sistema di finanziamento adeguato per far fronte ai propri obblighi (sentenza Simaldone / Italia n. 22644/2003; Gaglione / Italia n. 45867/07).

Perplessità desta la previsione di cui al nuovo art. 5 quater che facoltizza il giudice se accerta che la domanda di indennizzo è inammissibile o manifestamente infondata di condannare il ricorrente al pagamento di una salata ammenda da 1.000 a 10.000 euro, svolgendo questa una funzione dissuasiva per la presentazione del ricorso .

RISARCIMENTO LEGGE PINTO: per farmi risarcire dallo Stato per le cause troppo lunghe mi tocca anche pagarmi l'avvocato? Forse, NO!, scrive l'avv. Alberto Vigani. I tempi della giustizia: la risposta: patto di quota lite o gratuito patrocinio? Tutti, ma proprio tutti, ormai sanno che in Italia i processi durano ere geologiche. E, siccome quasi tutti ci sono passati, anche i sassi hanno capito che non dipende dalle scelte delle parti processuali o dagli avvocati, ma dal sistema! La macchina ha smesso di funzionare già decenni fa, schiacciata dal peso dei troppi procedimenti e da regole che in passato erano ancor più farraginose di oggi. Non devi però credere che ora il meccanismo processuale sia stato snellito e si viva solo del peso delle colpe di ieri. Il codice processuale italiano targato anni 40 era stato concepito per una gestione processuale con tempi da carta carbone e 30.000 avvocati in tutta Italia. Oggi la produzione processuale viaggia sui ritmi del “copia incolla” e gli avvocati in Italia sono 220.000 con quasi 10.000.000 milioni di fascicoli processuali aperti, fra civili e penali. Le regole erano forse perfette allora, nella prima metà del 900, e non tenevano conto delle esigenze e dei ritmi del terzo millennio; senza calcolare che pure le riformette di questi settantanni hanno anche complicato il funzionamento arrivando a prevedere ben 33 percorsi processuali diversi a seconda della tipologia di lite. Insomma, la macchina processuale non funziona più e le cause si trascinano per tempistiche che sono ormai sconnesse dalla vita reale. Un processo civile dura di media una dozzina di anni (12) fra primo e secondo grado. Nella speranza che nessuno degli avvocati delle parti tenti il ricorso per cassazione, che si ruba da solo almeno altri 3 anni. E se una lite riesce a prolungarsi per 15 anni significa che si è presa un quarto della vita operativa di una persona. Questa non è giustizia. I romani, intesi come coloro che parlavano latino e non come tifosi di una squadra di calcio, riuscivano a sintetizzare brillantemente istanti della loro cultura in pochissime parole. Avevano pensato anche a questo con il brocardo: œiustitia dilatio est quam dilatio.

Una giustizia che arriva tardi è una negazione della giustizia. Per fare fronte a questa situazione inaccettabile per democrazie come quelle occidentali, la Comunità Europea ha sanzionato moltissime volte la nostra amata Repubblica Italiana imponendole almeno il risarcimento dei danni causati da questi ritardi ingiustificabili ai cittadini che hanno svolto richiesta. Alla stratificazione dei procedimenti sanzionatori, l'Italia ha risposto con una legge che tutela il cittadino: parlo della legge 89/2001, più conosciuta come Legge Pinto, che ha istituzionalizzato le modalità  del risarcimento. Oggi, se il tuo processo è durato più di 3 anni in primo grado e più di due in secondo, puoi chiedere un risarcimento per il danno subito sia che esso sia patrimoniale, e in questo caso va dimostrato per come effettivamente subito, sia nel caso di danno non patrimoniale, e in quest'altro caso esso è presunto. Si, hai capito bene. Anche se non sei in grado di dare esatta quantificazione del tuo danno economico hai comunque diritto a ricevere una somma di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo. L'importo annuale da calcolare in moltiplicazione per il numero di annualità di durata processuale è di euro 1.500,00, e ne hai diritto ha prescindere che tu abbia vinto o perso la causa. La somma è dovuta anche se il processo è ancora in corso ma ha già superato le durate massime previste per ogni grado. In quest'ultimo caso il risarcimento non sarà però definitivo e potrà essere integrato, con apposita richiesta, all'esito finale della causa. Le somme in gioco possono quindi essere di rilevante interesse perchè superano facilmente i 10.000,00 euro per ogni parte processuale. Vediamo assieme perchè.  Oggi una causa media dura in primo grado circa 6 anni e mezzo mentre in appello supera spesso i 5 anni e mezzo. Sommando le durate di primo e secondo grado arriviamo a 13 anni di durata media. E 1.500,00 per 13 anni fa ammontare il risarcimento richiedibili in 4.500,00: questo perchè la norma parla di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo, e non di risarcimento per gli anni che superano la normale durata. Ma anche a conteggiare solo gli anni che superano i limiti di legge, ovvero 3 e 2 anni per i primi due gradi, si arriva a 12.000,00 euro (13-5= 8 anni x 1.500 euro). Gli importi sono quindi di tutto rispetto per ogni famiglia italiana.

Come si fa ad averne diritto??? Semplice: devi fare causa allo Stato! E devi avere l'assistenza di un avvocato! Sembra quasi una beffa: dopo esser stato prigionieri di una causa che non finiva più, ti trovi a doverne iniziare un'altra per ottenere giustizia del ritardo! In questi condizioni, molti mollano! Mollano perchè non sono informati. Impauriti dall'iniziare un nuovo processo e dalla necessità di dotarsi di un altro avvocato, rinunciano ad un risarcimento sicuro perchè non sanno che la causa per avere l'indennizzo dura solo 4 mesi e l'avvocato possono averlo a costo zero. I due passaggi critici del processo, durata e costo, si risolvono fin dall'inizio perchè la legge prevede espressamente che il risarcimento deve essere deciso entro il termine massimo di 4 mensilità mentre l'avvocato può essere ottenuto sempre o con il gratuito patrocinio o con il patto di quota lite. Esatto, hai capito benissimo: il primo caso è quello dell’avvocato pagato direttamente dallo Stato in presenza dei requisiti di legge. Con il Dpr 115/2002 è previsto che tutte le persone con un reddito inferiore a 10.766,33 euro hanno diritto ad avere la difesa processuale sostenuta dallo Stato pur potendosi scegliere l'avvocato che preferiscono fra coloro che sono abilitati all'attività specifica. Tutte le volte in cui invece non si hanno i requisiti reddituali per avere l'assistenza a carico dello Stato, si può avvalersi dell'opportunità concessa dalla riforma Bersani. Si, hai letto bene: Bersani ha messo mani anche a questa materia eliminando le tariffe minime e rimuovendo il divieto di patto quota lite. Dal 2008 puoi concordare con il tuo avvocato il suo compenso pattuendo che lui incassi soltanto se vinci ed in ragione di una percentuale di quanto riesci ad ottenere a tuo favore in sentenza. Fine dei rischi!

Se vinci, paghi. Se perdi, amici come prima. Questo vale doppiamente per i ricorsi per la cosiddetta Equa Riparazione da eccessiva durata del processo:

non sono previsti costi processuali, perchè vi sono l'esenzione del contributo unificato, dei costi di notifica e dei bolli, il risarcimento è assicurato e quindi il tuo avvocato sa che non è un terno al lotto, potendo così facilmente accettare l'accordo che gli proporrai. In quel caso, infatti, nessuno rischia. Basta perciò concordare il compenso in una quota dell'indennizzo e presentare il ricorso entro il termine di legge. Questa è la cosa più importante e la ho lasciata per ultima appositamente perchè non sfuggisse all'attenzione: la richiesta di indennizzo deve essere presentata entro 6 mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che chiude la controversia processuale che ha avuto una durata irragionevole. Che sia la sentenza di primo grado, quella di appello od il decreto di chiusura del fallimento, dal momento in cui questo provvedimento del giudice diventerà definitivo e non sarà più impugnabile (ovvero passerà in giudicato) scatterà il decorso dei sei mesi entro cui potrai chiedere il tuo risarcimento. Ricordalo, è importante. Dopo quel termine (di 6 mesi) perderai il diritto ad ogni richiesta risarcitoria!

Ricapitoliamo: tutti hanno diritto ad essere risarciti per la prigionia processuale ed i soldi sono assicurati perchè il debitore è lo stesso Stato che ha causato il ritardo. Per ottenere l'indennizzo basta un tempo brevissimo (4 mesi) ma devi chiederlo entro 6 mesi dalla fine della causa con l’assistenza di un avvocato, che puoi avere anche senza costi aggiuntivi. Basta concordare prima il patto di quota lite o, se ve ne sono i presupposti reddituali, il patrocinio a spese dello Stato.

Durata ragionevole del processo: la ''Pinto su Pinto'' al vaglio della Consulta. Corte d'Appello Firenze, sez. II civile, ordinanza 13.05.2014. Pasquale Tancredi su “Altalex”. La Corte di Appello di Firenze con ordinanza del 13 maggio 2014 promuoveva giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della Legge 24 marzo 2001, n. 89 - “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” - nella parte in cui essi trovano applicazione anche ai procedimenti di equa riparazione previsti dalla stessa Legge n. 89 del 2001, per contrasto con gli artt. 111, comma 2, e 117, comma 1, Costituzione. L’ordinanza è stata infatti emessa a seguito della promozione di un c.d. giudizio “Pinto su Pinto”, in cui il ricorrente con ricorso ex art. 2, L. 89/2001 proponeva domanda di equa riparazione davanti la Corte di Appello di Firenze lamentando l’eccessiva durata di un precedente giudizio di equa riparazione svoltosi innanzi la Corte di Appello di Perugia, durato complessivamente anni 2, mesi 9, e giorni 16. La Corte di Appello fiorentina sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’articolo prima menzionato sulla scorta di valutazioni condivisibili. La Corte infatti ravvisava un contrasto tra la normativa vigente, in particolare tra:

l’art. 2, commi 2 bis e ter, i quali – a seguito delle modifiche del D.L. 83/2012 - prevedono che un giudizio di merito possa considerarsi dalla durata ragionevole allorquando abbia avuto una durata di tre anni in primo grado e comunque quando il giudizio sia stato definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Cassazione la quale invece individua per un procedimento di Equa Riparazione una durata ragionevole in circa un anno e sei mesi (per un grado di giudizio, più la fase dell’esecuzione) e in due anni e sei mesi (per due gradi di giudizio, compresa la fase di esecuzione). Secondo la Corte rimettente il “diritto vivente” (uniforme alla interpretazione di CEDU e Corte di Cassazione) individua la durata complessiva di un processo ex lege 89 in due anni e tale interpretazione trova tra l’altro conforto anche nella nuova formulazione della stessa legge la quale fissa un termine di 30 giorni per l’emissione del decreto nella fase monitoria (art. 4, comma 3) e un ulteriore termine massimo di quattro mesi per l’eventuale fase di opposizione (art. 5 ter, comma 5). Lo Corte fiorentina, inoltre, rilevava fondatamente che “l’individuazione del principio costituzionale della “ragionevole durata” di cui all’art. 111 secondo comma Cost. non può essere infatti avulsa dalla natura del procedimento stesso, e dalla sua “naturale” durata, che dipende in primo luogo dalla sua maggiore o minore complessità; in questo quadro, il procedimento di equa riparazione è per sua natura destinato a durare assai meno di un giudizio ordinario di cognizione, data la semplicità dei fatti che deve accertare (la durata di un procedimento, e le ragioni della sua protrazione, di regola evincibili dalla mera produzione degli atti processuali), e le finalità a cui tende (indennizzare la violazione di un diritto fondamentale leso proprio da una precedente eccessiva durata), oltre che per la mancanza di un doppio grado nel merito; la previsione di una “ragionevole durata” pari a sei anni risulta pertanto incongrua, e lesiva del predetto art. 111 secondo comma Cost., oltre che dell’art. 117 primo comma, per violazione degli obblighi internazionali derivanti all’Italia dall’art. 6 (CEDU) […]”. L’ordinanza si inserisce quindi all’interno di un dibattito giurisprudenziale attuale ed accesso in cui ultimamente anche le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (19 marzo 2014, n. 6313) hanno aderito ai principi della giurisprudenza CEDU precisando che “nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed è agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonché, specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012 citt.)”.

La Corte Costituzionale è quindi di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della Legge 89/2001. La stessa Corte nella sentenza n. 30 dello scorso 27 febbraio 2014 ne aveva fortemente criticato il contenuto invitando il legislatore a riformare il meccanismo indennitario disciplinato dalla legge Pinto in quanto “il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa […]”. Infine, ancor più di recente – con l’ordinanza 9 maggio 2014, n. 124 – il Giudice delle Leggi ha ribadito che l’indennizzo ex lege Pinto spetta anche alla parte soccombente del giudizio di cui si lamenta l’irragionevole durata “alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente”. (Altalex, 27 maggio 2014. Nota di Pasquale Tancredi)

Legge Pinto: e se lo Stato non paga? La risposta dell'Avv. Fabrizio Bartolini Vogliamo affrontare un problema particolare inerente i risarcimenti dovuti in base alla Legge Pinto e cioè quello legato alla effettiva riscossione del risarcimento una volta ottenuto. Infatti sia con la finanziaria del 2007 sia , successivamente con la L. 181/2008 lo Stato ha reso impignorabili i propri beni e quindi il danneggiato-creditore non potrà far altro che attendere i lunghi tempi di liquidazione subendo così, al danno, un altro danno sempre per lo stesso motivo. Questa pagina nasce da alcune denunce e richieste che ci sono state inoltrate  su questo problema ad oggi irrisolvibile se non ricorrendo alla Corte Europea che può condannare, come ha già fatto, al risarcimento lo Stato italiano per non aver provveduto in tempi congrui alla liquidazione. Pensiamo che però singoli ricorsi o testimonianze non diano un quadro ben preciso del problema ad oggi diffusissimo. E’ per questo che abbiamo deciso di raccogliere le vostre esperienze e testimonianze sul problema per poi inviarle, una volta raggiunto un numero ragguardevole, alla Corte Europea nonchè diffonderle via web. Una denuncia collettiva che potrà con il tempo far sentire questa nostra voce ad oggi flebile su questo problema che aggiunge al danno già subito la beffa di essere nuovamente danneggiati con tempi lunghi per attendere la liquidazione del dovuto.

UN ESEMPIO PRATICO

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 16 aprile scorso ha condannato il nostro Stato oltre che per la durata eccessiva dei processi anche per l’esiguità degli indennizzi ex Legge Pinto. Otto condanne in una sola sentenza per processi durati 22 anni e 4 mesi per un grado di giudizio in materia di successione in quanto la liquidazione non era stata calcolata sui criteri dettati da Strasburgo.Alla Corte si erano rivolti otto ricorrenti in quanto i processi erano durati troppo a lungo. Lo stato Italiano aveva sostenuto, costituendosi in giudizio. Che era stata violata la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Tale eccezioni è stata però respinta dai Giudici di Strasburgo i quali , tra l’altro, hanno considerata esigua la somma risarcitoria riconosciuta dallo Stato Italiano in base alla Legge Pinto. Inoltre gli indennizzi erano stati versati ben oltre in termine di 6 mesi fissato dalla legge: in 5 casi 21i mesi dopo il deposito della sentenza, in un procedimento dopo 30 mesi e negli altri due, rispettivamente 17 e 19 mesi dalla pronuncia. Quindi oltre a durare troppo i processi è troppo lungo il tempo di attesa per ottenere il risarcimento; di attesa si tratta, infatti, in quanto il danneggiato/creditore non ha azioni contro lo Stato per recuperare forzatamente il dovuto potendo solo attendere e denunciare la propria situazione ancora una volta alla CE. Da qui la condanna ad un doppio indennizzo. La Corte ha infatti stabilito che non solo lo Stato deve integrare l’indennizzo troppo esiguo disposto dai giudici interni ma deve anche versare una riparazione per i ritardi nel pagamento. La Corte ha quindi accordato euro 1.400 di risarcimento per il ritardo nel pagamento.

Carte e cavilli: ecco l’inferno di chi deve essere risarcito, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Si discute in questi giorni la riforma della responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari; la possibilità dell’erario di rivalersi sul magistrato che ha sbagliato, l’automaticità del meccanismo di rivalsa, la misura di essa. Si affronta il tema della qualificazione dell’errore rilevante, idoneo a comportare l’obbligo risarcitorio. Si annusa il solito trend di supina deferenza all’Anm a dispetto delle dichiarazioni di Renzi che circa un mese fa tuonava: «L’Anm è insorta? Brrrr, che paura. Noi andremo avanti… Deve valere la responsabilità civile dei magistrati: quando sbagliano, devono pagare». La sensazione è che si vada verso una riforma apparente e, nella sostanza, inutile che perseguendo la sacrosanta libertà dei magistrati ne preservi, infine, l’arbitrio. Eppure dagli errori giudiziari possono discendere autentici drammi umani, la completa ed irreversibile distruzione di vite. La carcerazione di una persona innocente è in sé sempre una tragedia che strazia una cellula viva della società. È un cancro, una necrosi, un fenomeno distruttivo con effetti di portata devastante che si dispiegano senza esaurirsi nel nucleo in cui si produce e si sviluppa. La tutela per chi ha subito ingiustamente il carcere – al di là delle ipotesi di sanzione a carico del magistrato che ha determinato la condizione patologica – è lenta, oltremodo farraginosa e scoraggiante, connotata da una burocratizzazione cavillosa e spesso insensata. Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un equo risarcimento del danno subito. Riparazione per ingiusta detenzione, questo l’istituto giuridico. Sembra facile: sei stato in carcere e poi assolto con pronuncia definitiva? Verrai risarcito. Un risarcimento che prescinde dalle responsabilità del giudice che aveva emesso la misura custodiale o la pronuncia di condanna poi riformata. Il diritto al ristoro economico nasce da una lesione di oggettiva gravità: la compressione immotivata di un diritto supremo, la libertà. Inizia, invece, un calvario di burocrazia e di ostacoli di varia natura che appaiono frapposti ad arte per rendere meno accessibile il doveroso rimedio. La richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta: due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell’istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, di atti dibattimentali e pre-dibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l’assoluzione dell’istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio (spesso si tratta di numerosi faldoni). Così quando lo sventurato richiedente va in cerca dei documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio ha inizio nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla disperata cerca di tutti gli atti da allegare. Occorrerà poi chiedere che i fascicoli vengano spostati da dove si trovano all’ufficio addetto al rilascio copie. Ci vogliono giorni! Il personale manca. L’interessato – o il suo avvocato – non può per ragioni di privacy e sicurezza portare a termine questa delicata operazione di trasferimento. Finalmente tutti i documenti sono all’ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato con scientifica progressione numerica (dell’indice, spesso, rade tracce). Lo speranzoso richiedente compila infine la richiesta copie. Il rilascio è gratuito, anche per quelle autentiche. Il personale di cancelleria, però, avverte che la gratuità delle copie fa sì che loro non possano spendere in tale attività il loro tempo. All’avventore sconfortato – l’interessato o il suo difensore – verrà detto: “se le faccia lei”. Ed ecco allora che il malcapitato si trova per ore in un ufficio polveroso a togliere spille, slacciare documenti con meticolosa attenzione, affrontare macchine fotocopiatrici e risme di carta con la collaborazione (se finisce la carta, se si inceppa la macchina) amabile del personale di cancelleria, interrotto centinaia di volte perché la macchina che sta usando deve assolvere anche a tante altre esigenze più importanti e urgenti: c’è gente ancora da condannare, deve avere la priorità! Infine, quando avrà raccolto il necessario, corredato l’istanza come di dovere, predisposto fascicoli ed indice, aspetterà la fissazione dell’udienza e forse anche il risarcimento.

IN MORTE DELLO STATO. STEFANO CUCCHI & COMPANY, UCCISI DA SOLI.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,...e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare. (Niemöller)

Blasfemo di Fabrizio De Andrè (Dietro Ogni Blasfemo, C'è Un Giardino Incantato).

Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,

più non arrossii nel rubare l'amore

dal momento che Inverno mi convinse che Dio

non sarebbe arrossito rubandomi il mio.

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,

non avevano leggi per punire un blasfemo,

non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,

mi cercarono l'anima a forza di botte.

 

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,

lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,

nel giardino incantato lo costrinse a sognare,

a ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male.

 

Quando vide che l'uomo allungava le dita

a rubargli il mistero di una mela proibita

per paura che ormai non avesse padroni

lo fermò con la morte, inventò le stagioni.

 

... mi cercarono l'anima a forza di botte...

 

E se furon due guardie a fermarmi la vita,

è proprio qui sulla terra la mela proibita,

e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato,

ci costringe a sognare in un giardino incantato.

 

31 ottobre 2014. Caso Cucchi, nessun colpevole. I giudici: «Prove insufficienti».

Le vittime del reato in giudizio sono rappresentate dallo Stato, con il Pubblico Ministero. Il magistrato requirente, se ha svolto bene le indagini, dirigendo le attività della polizia giudiziaria, porterà le prove a sostegno dell'accusa costringendo anche il magistrato decidente più ostile a decidere secondo forma e sostanza.

Presidente del collegio d'appello, Mario Lucio D'Andria;

Consigliere a latere, Tiziana Gualtieri;

Procuratore Generale, Mario Remus.

La sorella di Stefano comincia a pubblicare gli audio delle udienze sul social network. "Lungi dall'essere una persona sana e sportiva - dice ad esempio il pubblico ministero Francesca Loy durante la requisitoria finale del 1° grado - Cucchi era un tossico da 20 anni". Siamo stanchi degli attacchi e degli insulti alla memoria di Stefano. Abbiamo subìto un processo che si è rivelato un massacro”. Ilaria ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Vi annuncio che da oggi pomeriggio provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo.

«Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto. Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà». Avv. Fabio Anselmo.

Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?

La sorella di Stefano Cucchi commenta l’assoluzione di tutti gli imputati in appello nel processo per la morte del fratello: «Stefano, morto di giustizia».

Dopo la lettura della sentenza legata al caso Stefano Cucchi, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, qualcuno, alcune persone hanno reagito così, con il dito medio alzato, contro gli amici e i parenti della famiglia Cucchi. La sorella di Stefano, Ilaria, ha definito questi gesti terribili.

Cucchi, il legale della famiglia: "Troppa omertà, sembra un processo di mafia''. "Sembra che ci sia stata una regia che abbia fatto un ping-pong di responsabilità tra carabinieri e agenti di polizia penitenziaria. Alla fine la pallina è uscita dal campo". Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, commenta così la sentenza del processo d'appello sul decesso di Stefano Cucchi. "C'è un clima che assomiglia molto ai processi di mafia - ha aggiunto - 170 persone hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla. Di cosa possiamo parlare se non di omertà?", scrive di Francesco Giovannetti su “La Repubblica”.

Senta, lei dice che è convinto che non siano stati i tre carabinieri che lo hanno arrestato, ma quindi è convinto che siano stati i tre della polizia giudiziaria?

«Noi abbiamo chiesto la loro condanna in primo grado ed abbiamo chiesto la loro condanna in secondo grado e la restituzione degli atti. Noi siamo profondamente convinti che i responsabili siano loro. Oggi ce lo ha confermato lo stesso giudice Minichini. Lo stesso Minichini oggi ha detto oggi una cosa eclatante, nel senso che ha detto “quando lui ha visto Stefano, Stefano aveva solo due ematomi sotto gli occhi e non aveva niente, quando il suo difensore in tutto il processo ha sostenuto che Stefano era già stato pestato dai carabinieri. Ora, il fatto di dire che Stefano non avesse niente, è una grande bugia. E se tu dici questa grande bugia, ti sottrai a qualsiasi esame, interrogatorio dibattimentale. Ti avvali della facoltà di non rispondere e poi usi la dichiarazione spontanea al termine del processo per non essere messo in condizione di giustificare e mi dici questa grande bugia: tu sei responsabile.»

Quante sono le speranze in vista della Cassazione?

«In questo momento è un pronostico che non posso fare. Questo è un processo, purtroppo, nato storto. E’ un processo nato storto, mal gestito, con tante, tante polpette avvelenate. Vero, questo hanno ragione i pubblici ministeri. Sembra proprio che ci sia stata una regia ad arte. Vi è stata una sorta di ping pong di responsabilità tra carabinieri ed agenti di polizia penitenziaria ed alla fine la pallina è uscita dal campo. Io credo che un po’ ci si debba forse vergognare. Ribadisco. Non per la sentenza. Non è la sentenza che abbiam voluto. Dico che ci si debba vergognare di come sono state gestite tutte le attività di indagine e tutto questo caso Cucchi. Credo che sia un fallimento totale, inammissibile ed intollerabile. Perché Stefano non è morto nel deserto del Sahara. Stefano è morto dentro un’aula del tribunale. E’ morto quando era affidato allo Stato. E se lo Stato non è nemmeno capace di chiarire ciò che esso stesso fa, con i suoi uomini fa. Ma in che Stato viviamo noi?»

Ma con l’esito di questa sentenza sarà sempre confermato il detto “cane non morde cane", "cane non mangia cane"?

«Io, se mi è consentita, l’esito di questa sentenza posso dire che il clima in cui vengono fatti questi processi. Ma non quello di oggi. Proprio il clima con cui vengono svolte le indagini, vengono escussi i testimoni, è un clima che assomiglia molto, mia percezione, poi mi sbaglierò, ad un processo di mafia. Assomiglia molto».

Troppa omertà…..

«Se pensiamo il numero di persone. Credo ne abbiano contate 170 che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla, nessuna denuncia, nessuna annotazione di servizio, nessun rapporto di autorità giudiziaria: beh di cosa possiamo parlare se non di omertà».

Stefano Cucchi, tutti assolti in appello. «Mio figlio è morto ancora una volta». Sono passati cinque anni dall'ottobre in cui il trentunenne, arrestato, morì con il volto e la schiena coperti di lividi all'ospedale Pertini di Roma. La corte in primo grado aveva assolto i poliziotti e condannato per omicidio colposo i medici. Ora sono stati tutti assolti per insufficienza di prove, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Una gigantografia del volto tumefatto di Cucchi esposta durante il processo Tutti assolti. Medici, infermieri e poliziotti. Per insufficienza di prove. Questa la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma nel processo di secondo grado per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, con il volto, gli occhi e la schiena coperti di lividi, e lesioni ovunque. «Non ci arrenderemo mai finchè non avremo giustizia», hanno commentato i genitori, piangendo: «Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli. Noi vogliamo sapere esattamente chi siano i responsabili». «Per quale motivo sarebbe allora morto Stefano?», ha chiesto il padre, Giovanni: «Mio figlio era sano, non è possibile quello che è successo». «È una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha pianto la madre, Rita Calore: «Lo Stato si è autoassolto. Per lui, unico colpevole sono le quattro mura». Ilaria, la sorella, ha aggiunto, in lacrime: «La giustizia ha ucciso Stefano. Mio fratello è morto in questo palazzo cinque anni fa, quando ci fu l'udienza di convalida del suo arresto per droga, e il giudice non vide che era stato massacrato». «Stefano», ha continuato: «si è spento da solo tra dolori atroci. Di sicuro andrò avanti e non mi farò frenare perché pretendo giustizia. Chi come mio fratello ha commesso un errore deve pagare, ma non con la vita». Il legale di famiglia, Fabio Anselmo, ha già annunciato il ricorso: «Era quello che temevo», ha detto: «Vedremo le motivazioni, e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte». In primo grado i giudici avevano condannato per omicidio colposo i medici e assolto i tre agenti che lo avevano avuto in custodia, scrivendo che Stefano era morto per una «sindrome di inanizione», ovvero per malnutrizione, e che i 5 medici e l'infermiere condannati avevano agito con «imperizia, imprudenza e negligenza». Oggi i giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria, hanno assolto sia i medici (il primario del reparto detenuti del Pertini, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti) che i tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria, per insufficienza di prove. «Sono veramente felice di questa sentenza», ha commentato uno degli infermieri assolti anche in secondo grado, Giuseppe Flauto: «Sono felice non solo per me, ma anche per i medici del Pertini perché più volte è stato detto di loro che non erano degni di vestire il camice. Oggi c'è stata una giustizia vera; non era giusta la nostra assoluzione senza la loro».

Ilaria Cucchi in lacrime dopo la lettura della sentenza d'appello. «La verità la dicono le foto di mio fratello. È stato massacrato», aveva detto stamattina Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano: «Abbiamo di lui una foto segnaletica e le foto di quando ce l'hanno restituito, cadavere. Le ho guardate e riguardate tante volte. È stato massacrato. Ecco la verità». Il procuratore generale Mario Remus aveva chiesto alla Corte di condannare tutti gli imputati. Due dei poliziotti, Nicola Minichini e Antonio Domenici, avevano chiesto allora di poter fare dichiarazioni spontanee, le prime dopo cinque anni di silenzio. «Siamo innocenti», avevano detto questa mattina. «Dopo 25 anni di servizio», aveva letto Minichini: «riesco a riconoscere i segni dei pugni e posso dire che quei segni sotto gli occhi di Stefano Cucchi davano più l’impressione di una malattia, che non di pugni». «Sono innocente», aveva continuato il poliziotto: «ho solo avuto la sventura di avere effettuato il servizio in quel momento». «Provo rispetto», aveva concluso: «per la famiglia Cucchi, per il loro dolore. Nessuno potrà mai dire che io abbia avuto un atteggiamento poco educato nei loro confronti in questi anni nonostante le accuse infamanti e le numerose interviste rilasciate. Tutti hanno espresso solidarietà alla loro famiglia ma per noi nessuna parola, solo un uragano di fango». Alle richieste del procuratore si erano aggiunte durante il dibattimento quelle del legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: «Chiediamo che venga annullata la sentenza di primo grado e che vengano restituiti gli atti alla procura: si è fatto un processo per lesioni senza aver prima contestato il reato di omicidio preterintenzionale», aveva detto l’avvocato stamattina: «Stefano Cucchi faceva pena perchè aveva la schiena ridotta in quelle condizioni. Il suo ricovero non è avvenuto per magrezza ma per politraumatismo e questo non dimentichiamolo. I periti hanno spiegato che le condizioni di Stefano hanno rallentato il meccanismo di guarigione e allora come si può sostenere che quelle lesioni non abbiano avuto delle conseguenze anticipandone la morte?». «Cucchi», aveva aggiunto: «non era un tossicodipendente come è stato descritto, lo era nel 2003, ma in quei giorni svolgeva una vita del tutto normale come ci hanno riferito alcuni testimoni».

«L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio. Intanto a Roma è stata approvata la mozione del gruppo Sel del Campidoglio per dedicare una piazza o una via della capitale a 'Stefano Cucchi, ragazzo". «Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009 per evidenti responsabilità istituzionali durante la custodia cautelare conseguente al fermo di polizia» ha spiegato Gianluca Peciola, capogruppo Sel e primo firmatario della mozione votata: «A cinque anni dalla sua morte l'intitolazione di una piazza o di una via è un importante riconoscimento da parte dell'Assemblea Capitolina alle battaglie della famiglia per la verità e la giustizia». «Quello che è accaduto a Stefano», ha aggiunto Peciola: «non deve succedere mai più. Nel nostro sistema carcerario devono trovare cittadinanza lo Stato di Diritto e il rispetto dei diritti umani. Questo atto serva da monito a quanti nelle nostre Istituzioni continuano a perpetrare la violenza nei confronti delle persone che sono prese in custodia». Ma nemmeno questa battaglia è passata indenne alle polemiche dopo la sentenza d'assoluzione della Corte d'Assise d'Appello di Roma per tutti gli imputati al processo. Il presidente del sindacato di polizia Sap infatti ha chiesto «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l'intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».

Reazioni dal mondo politico e dai sindacati di polizia dopo la sentenza d'Appello, che ha assolto tutti gli imputati. Giovanardi: "Non c'è stato pestaggio. Ma rimangono responsabilità morali: Cucchi morto di fame e di sete", scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”.

La sentenza è il “fallimento della giustizia italiana”. Ma anche “una vergogna senza precedenti” che consente allo Stato di autoassolversi e fa morire Stefano Cucchi “un’altra volta”. La decisione della Corte d’Appello di Roma, che ha assolto tutti gli imputati del processo, ha profondamente scosso la famiglia della vittima. Ma ha anche suscitato aspre reazioni nel mondo politico. Al contrario, Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, esprime “piena soddisfazione” per la decisione della corte. Non solo. Perché in una nota scrive: “In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”. Il sindacalista rimarca inoltre “il nostro impegno e il nostro sforzo” per introdurre “in maniera sistematica e organica le videocamere e le garanzie funzionali, così da poter tutelare maggiormente i poliziotti, ma anche i cittadini, in tutte le situazioni”. E si augura “un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino“.
 Sconvolta dalla sentenza, invece, è la famiglia della vittima che assicura: “Andremo avanti”. In lacrime in aula la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria. “Nella sentenza di primo grado non si è detto che Stefano non è stato piccchiato, ma che la giustizia non era in grado di dire chi fosse stato tra gli agenti e i carabinieri – ha detto -. Ora, in appello, mi aspettavo un passo in avanti che non c’è stato. Da semplice cittadina mi chiedo cosa mi devo aspettare dalla giustizia“. Poi aggiunge: “Mio fratello è morto anche per colpa dei magistrati che non lo hanno guardato in faccia. Mio fratello – ha sottolineato – era un ragazzo come gli altri che ha commesso un errore e che, per questo, non doveva pagare con la vita. Io, mio fratello, la mia famiglia meritiamo giustizia”. Sbalordita anche la madre di Cucchi che parla di “sentenza assurda” e dice: “Mio figlio è morto ancora una volta”. Inoltre, per l’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, si tratta “il fallimento della giustizia italiana”. Ma dopo la lettura del dispositivo, dai banchi degli imputati in aula, si sono levate mani che mostravano il dito medio, rivolto a chi stava assistendo all’udienza. Un gesto documentato da una sequenza fotografica sul sito di Repubblica.it. Per Carlo Giovanardi, senatore Ncd che in passato è spesso intervenuto sula vicenda, “per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l’assoluzione, non essendoci stato il pestaggio. Per quanto riguarda i medici ribadisco quello che ho detto fin dall’inizio della vicenda: Stefano Cucchi doveva essere curato e alimentato anche coattivamente, in quanto non in grado di gestirsi a causa delle patologie derivanti dal suo complesso rapporto con il mondo della droga. Se la Corte d’Assise ha escluso responsabilità penali rimangono però le responsabilità morali rispetto ad una persona che è stata lasciata morire di fame e di sete”. Parla invece di “vergogna senza precedenti” e sentenza di “autoassoluzione dello Stato” il leader del Prc, Paolo Ferrero. “Nel corso del procedimento, infatti, si è dimostrata in modo evidente l’esistenza di un sistema violento nei confronti dei detenuti e di un sistema sanitario quanto meno superficiale. E’ surreale che tutti sappiano cos’è successo a Stefano Cucchi, tutti sanno che è stato pestato a sangue e che non gli sono state somministrate le cure adeguate, ma nessuno paga. L’assoluzione di queste persone è autoassoluzione di uno Stato sempre più autoritario. E’ straziante, l’hanno ucciso per la terza volta. Siamo vicini a Ilaria e a tutta la famiglia Cucchi”. “Ingiustizia è fatta” anche per la presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni, che su Twitter scrive: “Caso Cucchi: 5 anni passati e 0 responsabili. Ingiustizia è fatta”. Sul fronte Pd, Walter Verini, capogruppo dem in commissione Giustizia – pur precisando che “le sentenze vanno rispettate” – sottolinea che la pronuncia della Corte d’Appello “lascia l’amaro in bocca. In questo momento siamo vicini ai familiari e a tutti coloro che si sono sempre battuti per la verità e la giustizia sulla morte di Stefano.  In questo caso i pesantissimi interrogativi sulla morte di Stefano rimangono tutti interi. Le risposte dovranno arrivare. È lo Stato che le deve esigere”. Commenta la decisione dei giudici anche l’avvocato Gaetano Scalise, che nel processo ha assistito il primario del Sandro Pertini, Aldo Fierro. “Siamo molto soddisfatti del risultato ottenuto – ha detto -. Era quello che aspettavamo come risultato minimo. La Corte ha fatto un buon governo degli insegnamenti della Corte di Cassazione in tema di responsabilità professionale dei medici. Il punto nodale era che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi e questo esclude la responsabilità dei medici”. “Decisione assolutamente equilibrata” per gli avvocati Costantino Marini e Fabrizia Morandi, che hanno assistito il medico Luigi Preite de Marchis, mentre si dice “felice” uno degli imputati, l’infermiere Giuseppe Flauto, già assolto in primo grado. “Sono veramente felice di questa sentenza, non solo per me, perché non avevo dubbi sulla mia innocenza, ma sono felice anche per i medici del Pertini che più volte durante il processo di primo grado si erano sentiti dire che non erano degni di vestire il camice”. Oltre al Sap, interviene anche il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. La sentenza, dichiara il segretario generale Donato Capece, “ci dà ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo che non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Abbiamo avuto ragione nel confidare nella magistratura, perché la polizia penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere – sottolinea Capece – Già nel dicembre 2009, la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dall’allora capo del Dap Franco Ionta, sul decesso di Stefano Cucchi, escluse responsabilità da parte del personale di polizia penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del palazzo di Giustizia a Roma“. “Allibita” anche Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, ucciso a Ferrara a settembre 2005. Un caso per il quale quattro poliziotti sono stati condannati in via definitiva per omicidio colposo. “E’ difficile trovare qualcosa da dire. Rimango allibita – prosegue -, è incredibile questa sentenza, è come se Stefano fosse morto senza che ci sia nessuna responsabilità”. Del resto, aggiunge Moretti “abbiamo visto tutti le foto, è chiaro che è morto per una causa”. “Sicuramente – conclude la madre di Aldrovandi – la famiglia richiederà degli approfondimenti”. Si dice invece “amareggiato e deluso” Giorgio Sandri, il papà di Gabriele, tifoso della Lazio ucciso da un agente della Polstrada l’11 novembre 2007 sull’A1 nei pressi di Arezzo. “Ci si sente abbandonati. Ci si porta dietro un lutto che non passerà mai. Viviamo in un Paese in cui basta chiedere scusa e si continua ad andare avanti, senza che nessuno paghi. Poi – aggiunge – penso al corpo piagato di Stefano: certi segni così evidenti non se li è fatti da solo. Eppure la giustizia non l’ha pensata così. Bisogna sempre sperare, ma come non sentirsi abbandonati”. “Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti. Quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero”. E’ il commento, divulgato in una nota, del presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, sulla sentenza che vede assolti medici e agenti coinvolti nella vicenda della morte di Stefano Cucchi. Il procedimento, conclude Marchesi “non accerta alcuna responsabilità per un decesso che tutto appare meno che accidentale o auto-procurato”.

I genitori: «Stefano è morto ancora una volta». Ilaria in lacrime: «La giustizia ha ucciso mio fratello». Il legale della famiglia preannuncia il ricorso in Cassazione, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”.La sentenza di primo grado cancellata con un tratto di penna. Non c’è nessun colpevole per la morte di Stefano Cucchi, arrestato per droga nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e deceduto il 22 nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Al termine dell’inchiesta la procura aveva stabilito che il geometra 31enne era morto di fame e di sete, ma ora l’appello deciso che non ci sono prove sufficienti per condannare i medici, i soli ritenuti responsabili nel verdetto di poco più di un anno fa. In primo grado. La corte d’assise d’appello, presieduta da Mario Lucio D’Andria, ha dunque scagionato il primario del Pertini Aldo Fierro e i suoi colleghi Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti in base alla norma che richiama la vecchia insufficienza di prove. Invece in primo grado, il 5 giugno 2013, i sanitari erano stati condannati per omicidio colposo e, la sola Caponnetti, per falso ideologico.Confermata l’assoluzione con formula piena degli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe e degli agenti della penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. La delusione e la rabbia con cui i familiari di Cucchi avevano accolto la sentenza dell’anno scorso (soprattutto per la mancata condanna degli agenti della penitenziaria) di fronte alla decisione del collegio di secondo grado diventano incontenibili. Come le lacrime di Ilaria, che della battaglia per rendere giustizia al fratello ha fatto la sua ragione di vita. «Una sentenza assurda. Nostro figlio è stato ucciso tre volte», sbottano Giovanni Cucchi e Rita Calore. Per i genitori del geometra «lo Stato si è autoassolto, ma noi - assicurano - non ci arrenderemo finché non avremo giustizia». Al loro fianco, Ilaria piange le sue lacrime forse più amare. «La nostra giustizia è malata e ha ucciso Stefano - sottolinea - . Mio fratello è morto cinque anni fa in questo edificio, quando all’udienza di convalida dell’arresto i magistrati non lo hanno guardato in faccia e non si sono accorti che era stato massacrato. Stefano era un ragazzo come gli altri, ha commesso un errore che non doveva pagare con la vita. Invece si è spento da solo, tra dolori atroci. Io, mio fratello, la mia famiglia meritiamo giustizia: attenderemo le motivazioni e di sicuro andremo avanti». In Cassazione. A questo punto per riuscire a ribaltare il verdetto che scagiona i 12 imputati resta solo la Cassazione. L’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, ha già annunciato che si rivolgerà agli ermellini: «Era quello che temevo - ammette riferendosi alle assoluzioni degli imputati - Vedremo le motivazioni e poi faremo ricorso ai giudici della Suprema Corte».

«Vergogna, sentenza ingiusta»: la rabbia dopo la sentenza Cucchi. Politici, cittadini comuni, analisti: è un moto di sdegno quello che si solleva dopo la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati nel caso Cucchi, scrive Valentina Santarpia su “Il Corriere della Sera”. E’ come un’onda, un moto di sdegno e di rabbia che non tiene conto delle motivazioni giuridiche e delle argomentazioni, dei documenti e delle prove, ma solo delle emozioni più profonde, del sentimento che sale dalla pancia e che travolge razionalità e pacatezza. «Ingiustizia è fatta»: è solo uno dei commenti piovuti sui social network, Twitter in primo luogo, e negli ambienti politici, poco dopo la sentenza che assolve tutti gli imputati -medici, infermieri e poliziotti - nel caso di Stefano Cucchi, morto in carcere a Roma una settimana dopo l’arresto per droga nel 2009. La sentenza è stata accolta con astio, amarezza, incredulità: e le critiche ai magistrati, allo Stato, alle forze dell’ordine, alle istituzioni, non si risparmiano. Da destra, da sinistra, dai comuni cittadini, dalle associazioni. «Aspettiamo di sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti - afferma il presidente di Amnesty Italia, Antonio Marchesi - quel che è certo è che, a cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra dirci nulla di quel che è accaduto davvero». «L’omicidio di Stefano Cucchi rimane una ferita aperta di fronte al bisogno di verità e giustizia. Una ferita insopportabile» commenta, sempre su Twitter, il presidente di Sel Nichi Vendola. «La sentenza di appello emessa oggi sulle cause della morte di Stefano Cucchi lascia fortemente perplessi», commenta l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. «L’assoluzione nel processo d’appello per tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi è una vergogna senza precedenti: è l’autoassoluzione dello Stato», scrive il leader del Prc Paolo Ferrero. «Chi ha seguito il doloroso caso di Stefano Cucchi sapeva bene che per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l'assoluzione, non essendoci stato il pestaggio», giustifica invece il senatore Ncd Carlo Giovanardi. «Caso Cucchi: cinque anni passati e zero responsabili. Ingiustizia è fatta», scrive la presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni. «Sulla mia pelle ho visto spendere centinaia di migliaia di euro da magistrati amici del mio nemico. La stessa istituzione offende Cucchi», scrie il Viceré. «Spero ci pensi la vita a dare la giusta punizione agli assassini di Stefano», ribadisce Monica Fisarmonica. «Evidentemente si pestava da solo durante lo sciopero della fame», ironizza amaro Cristian. «Io mi auguro che i poliziotti si dissocino dai loro colleghi assassini. Non copriteli!», propone Natahalie Licciardello. «Dal sangue degli innocenti tutti assolti», cita Beppe Gi Monighini. «Tutti assolti, o meglio, lo Stato si autoassolve. La solita, grande vergogna». «Con questo verdetto hanno ucciso nuovamente Stefano Cucchi», insiste Marco Procino. «Quindi Cucchi ha perso 10 kg in sette giorni e si è provocato fratture ed emorragie per passare il tempo in carcere», ricorda Paride. «Stefano Cucchi, ennesima vittima innocente di uno Stato infame», dice Gianluca Iovine. «Povero Stefano, povera Italia», scrive Eleonora Fichera. «#Tutti assolti per insufficienza di prove», si limita a citare Rudy Tanica: per lei parla la foto che pubblica, un’agghiacciante immagine di Stefano, ormai morto, deturpato dalle botte. «L'ennesima testimonianza che la giustizia in questo Paese non esiste. Caso #Cucchi tutti assolti. Sono senza parole e disgustato», scrive Vinicio Fabiani. «Dalle ipotesi di reato si può essere assolti. La mancanza di umanità è invece una condanna a vita #cucchi#shame», dice Marianna Aprile. E c'è anche chi prova a mantenere la calma: «Mai dare giudizi senza conoscere gli atti processuali, principio base- asserisce Federico Brillo- In questo caso però si fa veramente tanta fatica». «Cucchi può morire sotto la custodia dello Stato SOLO per sciatteria. Le botte oggi si chiamano così. Tutti assolti. Schifo indegno. #tortura», conclude Valeria Verdolini. «Ci si sente abbandonati. Ci si porta dietro un lutto che non passerà mai»: così Giorgio Sandri, il papà di Gabriele, tifoso della Lazio ucciso da un agente della Polstrada l'11 novembre 2007 sull'A1 nei pressi di Arezzo, commenta con grande amarezza la sentenza d'appello che ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove nel caso di Stefano Cucchi. «E' davvero tutto molto triste - dice Sandri -. E' una sentenza che lascia amareggiati, delusi: viviamo in un Paese in cui basta chiedere scusa e si continua ad andare avanti, senza che nessuno paghi. Come se nulla fosse».«E' uno schifo, i giudici si devono vergognare. Se fosse capitato ad un loro figlio, si sarebbero accontentati di questa verità? Non riesco a crederci. Sono vicina a Ilaria e mi dispiace per lei e per tutta la sua famiglia», commenta Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto nel giugno 2008 in ospedale, a Varese, dopo aver trascorso una notte in caserma. «Per me è dolorosissimo. È un dolore molto grande, che si somma a tutti gli altri. È come se non fosse successo nulla, come se Stefano Cucchi non fosse morto. Come hanno fatto ad assolverli?»: è il commento di Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, che ha lottato accanto alla famiglia Cucchi in questi mesi, condividendo la loro battaglia, e persino lo stesso avvocato.

Il Sap: «Chi conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze». Commento choc del sindacato di polizia sul caso Cucchi: «Basta scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità di chi vive al limite della legalità», scrive “Il Corriere della Sera”. «Tutti assolti, come è giusto che sia». Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati di polizia, nel commentare la sentenza sulla morte di Stefano Cucchi non fa sfoggio di diplomazia. Tutt’altro. «In questo Paese - scrive in una nota - bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, a essere puniti per colpe non proprie». «Una via a Cucchi? Il Comune ci ripensi». Il sindacalista rimarca «il nostro impegno e il nostro sforzo» per introdurre «in maniera sistematica e organica le videocamere e le garanzie funzionali, così da poter tutelare maggiormente i poliziotti, ma anche i cittadini, in tutte le situazioni». E si augura «un immediato dietrofront del consiglio comunale di Roma che, su proposta di Sel, aveva addirittura approvato l’intitolazione di una piazza per Cucchi. Visto che il Campidoglio aveva negato la possibilità di una via per la Fallaci, ci auguriamo adesso una valutazione positiva per eroi veri, come Raciti. Attendiamo la risposta del sindaco Marino».

Cucchi, un agente assolto giustifica i gestacci. «Quel dito alzato soltanto uno sfogo». La polemica sul dito alzato dopo la lettura della sentenza da qualcuno dei parenti e amici degli imputati, scrive “Il Corriere della Sera”. Ilaria Cucchi vuole partire da quelli che definisce «gesti terribili». Le due dita medie alzate al cielo che spuntano da uno degli abbracci tra i banchi dove erano raccolti gli imputati appena terminato quel lunghissimo minuto e 10 secondi della lettura della sentenza. «Sentivo le urla, noi piangevamo. E ci sono stati quei gesti terribili, un segno di non rispetto assoluto verso di noi», racconta e sottolinea in apertura della conferenza stampa del day after. Se le polemiche erano attese (comunque si fosse concluso il processo) quei gesti offensivi - rivolti contro la tribuna del pubblico che inveiva contro la decisione dei giudici - le hanno ulteriormente accese, immortalati da video e foto, raccontati e ripresi, diffusi sul web. Pochi attimi poi censurati da chi forse ne ha intuito al volo le conseguenze e ha spinto l'autrice a tirare giù le braccia. «Quel gesto era la risposta e il comprensibile sfogo di un momento dopo tre anni di attacchi e insulti. Non so chi sia stato, ma non credo che le dita alzate siano più gravi delle urla "Assassini" che ci piovevano addosso», dice Nicola Menichini, uno dei tre agenti assolti, che in quegli attimi era stretto alla moglie in lacrime. A sostegno delle parole dell'agente penitenziario arrivano le parole del suo difensore, l'avvocato Diego Perugini: «Da ieri sera c'è una sentenza che solleva Menichini, i suoi due colleghi e gli infermieri da ogni responsabilità. Non siamo più disposti ad accettare accuse e passeremo alle querele ogni qual volta arriveranno insinuazioni a mezzo stampa. Chi vuole contestare una sentenza ha le aule del processo d'appello per farlo». Nessun dubbio sui destinatari del messaggio. «Voglio evitare qualsiasi contro polemica», dice invece Aldo Fierro primario del reparto «protetto» dell'ospedale Sandro Pertini, dove Stefano Cucchi morì al termine di una settimana di ricovero e, come afferma la sentenza, mancate cure. «So solo che la colpa è soltanto nostra, dei medici - afferma sarcastico -. E meno male che non siamo delinquenti». Fierro è stato condannato a due anni, la pena più severa tra quelle decise dalla Terza Corte D'Assise per i sei medici che erano a processo. Di questi, tre hanno già lasciato la struttura diversi mesi fa per andare altrove. Flaminia Bruno adesso lavora in Inghilterra, Silvia Di Carlo in Abruzzo e Luigi Marchise a Ostia. Nessuno di loro finora è stato rimpiazzato. Assieme a Fierro, nel reparto del Pertini, sono rimasti Stefania Corbi e Rosita Capponnetti, che ieri erano regolarmente al lavoro. Così come al lavoro era Elvira Martelli, l'infermiera assolta assieme ai due colleghi Giuseppe Flauto e Domenico Pepe. «Voglio esprimere la mia vicinanza alla famiglia Cucchi - dice la 35enne - e prendo le distanze da quelle dita alzate, un gesto che stigmatizzo. Posso dire che non sono stata io, che in quei momenti neanche mi sono resa conto, tanta era l'emozione della sentenza. Ma voglio anche dire - aggiunge la Martelli rispondendo a Ilaria Cucchi - che non mi sento affatto indegna di indossare il camice bianco, che ho sempre portato con dignità e con grandi sacrifici in questi tre anni e mezzo di processo».

Chi lo ha ucciso?, scrive

Tutti assolti. Anche i medici che erano stati condannati in primo grado. È questa la sentenza della corte d’appello di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale “Sandro Pertini” dopo essere stato pestato e privato delle necessarie cure. In primo grado erano stati condannati, cinque per omicidio colposo e uno per falso, solo sei medici, e assolti i tre agenti della polizia penitenziaria e tre infermieri. Ma in appello tutti gli imputati, medici compresi, sono stati assolti per insufficienza di prove. Al momento del verdetto, i familiari di Stefano sono stati sopraffatti dalle lacrime. Una sentenza assurda. Mio figlio è morto ancora una volta», ha detto la madre. E il papà si chiede: «Allora per quale motivo è morto mio figlio?» Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi mette piede in caserma. Il 22 ottobre 2009 esce morto dall’ospedale Pertini di Roma. Morto. O meglio selvaggiamente ammazzato. Il suo corpo martoriato, ridotto a un grumo di sangue, striminzito fino a 37 chilogrammi di peso, sette chili in meno in una settimana, presenta nell’ordine, messe a referto, lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Oggi, 31 ottobre 2014 la giustizia esercitata nel suo nome, ha detto però al popolo italiano che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Morto come si muore per caso. Sono stati tutti assolti. Non è stato nessuno a picchiarlo, non è stato nessuno a massacrare il suo corpo con ferocia inaudita, non è stato nessuno a lasciarlo morire, a non nutrirlo, a ignorarne l’angoscia e la sofferenza. Ma oggi, 31 ottobre 2014, lo Stato italiano non ci ha detto soltanto che Cucchi è morto, che non l’ha fatto morire, che non l’ha ammazzato nessuno. Lo Stato italiano ci ha detto che sono condannate a morire le speranze di chi da anni lotta per avere giustizia. Le speranze di sapere chi ha lasciato morire, chi ha ammazzato gli altri Stefano Cucchi vittime di un sistema giudiziario malato che consente, e forse copre la morte e l’assassinio. ”È inconfutabile – disse il senatore Manconi a suo tempo – che, una volta giunto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro”. E ci chiediamo che cosa pensa oggi di questa sentenza, proprio lui che dal primo minuto di quel 15 ottobre 2009, offrì ascolto e collaborazione continua ai familiari di Cucchi. Che da quel giorno, per cinque anni di fila, è stato loro accanto confidando che fosse fatta giustizia, forse sussurrando loro parole di speranza in un abisso di sconforto.

Senatore Manconi, oggi la sentenza di appello ci ha detto che Stefano Cucchi è semplicemente morto. Non è colpa di nessuno. Come vive questa sentenza?

«Io e i miei collaboratori viviamo dopo anni di lavoro e di vicinanza a Ilaria, sorella di Stefano, momenti di profonda angoscia. Vorrei poter distinguere tra piano politico e personale, ma in questo caso i piani si sovrappongono. Il paradosso logico di questa sentenza è evidente. In primo grado si stabilì che Cucchi morì per incuria dei medici a causa di un ricovero provocato da un pestaggio. Oggi si dice quindi che non ci fu incuria né pestaggio».

Perché Stefano Cucchi è morto quindi?

«Già la sentenza di primo grado lasciò tutti profondamente insoddisfatti perché si prendeva atto che ai danni di Stefano fosse avvenuto un pestaggio. Era stato accertato che dopo l’arresto Cucchi aveva subito violenze. Era stato stabilito che la morte di Stefano Cucchi era collegata alla privazione della sua libertà, e agli abusi che erano maturati nel corso di quella deprivazione».

Ma ora di tutto questo non resta traccia: morì per caso.

«Tutti devono sapere qualcosa di incontestabile. Dev’essere detto con chiarezza che nella migliore delle ipotesi Stefano Cucchi è stato abbandonato. Nel migliore caso possibile di questa tragedia, nessuno potrà mai negare che Stefano Cucchi è stato lasciato morire. Lo hanno lasciato morire perché nessuno, nessuno ne ha impedito il decadimento, nessuno ne ha compreso i bisogni, nessuno lo ha assistito come meritava».

Stefano è morto d’abbandono, come minimo. Non è comunque un’enorme sconfitta dello Stato italiano?

«Io e Valentina Calderone abbiamo ricostruito minuto per minuto il calvario di Stefano. Ha attraversato dodici luoghi dello Stato: due caserme, celle di sicurezza, pronto soccorso. Ha incontrato oltre cento persone in questo cammino.  E nessuno di loro, nessuno di questi oltre cento individui ha voluto prestargli soccorso, tendere una mano verso di lui, coglierne il grido di dolore».

Ci vollero delle fotografie crude, quasi oscene, che ne mostravano le carni martoriate, affinché si cominciasse a parlare di Stefano Cucchi. È davvero questa l’unica maniera di suscitare attenzione verso casi come questo?  Dovere creare scandalo, dovere mettere in pubblica piazza il dolore, in nome di un sentimento di giustizia che resta quasi sempre inevaso?

«Ricordo che la vicenda di Stefano Cucchi cominciò quando Ilaria, sua sorella, ci disse che c’erano delle foto scattate a suo fratello in obitorio. Immagini terribili, strazianti, eloquenti. Quando Ilaria ce le consegnò, le dicemmo che secondo noi dovevano essere rese pubbliche. Ma che questa scelta spettava solo ai familiari di Stefano perché sarebbe stata terribile. Stefano sarebbe stato esposto di nuovo, dopo quella morte, a un nuovo oltraggio. Loro ci risposero: ”Decidete voi”».

Fu dunque vostra la decisione di renderle pubbliche?

«No, noi respingemmo quella responsabilità. Era una loro decisione. Una volta presa, non si sarebbe potuti più tornare indietro. Alla fine decisero di farlo. E tutti conoscemmo il caso Cucchi perché loro, i suoi familiari, furono costretti a questo terribile atto di autolesionismo morale».

Non trova vergognoso che una famiglia debba vivere questo abisso di sofferenza, di violenza autoinflitta nella speranza di avere una qualche giustizia?

«Ciò che è accaduto a Stefano, è successo a molti altri. E si ripete,uguale a se stesso, ogni giorno. Dico ogni giorno. Un labirinto di angoscia, indifferenza, e sofferenze inaudite che comincia e finisce con la morte. È finita con la morte anche oggi. E dopo l’autopsia, il certificato di morte dice che Stefano, insieme agli altri Stefano Cucchi cui siamo vicini, è morto perché vittima di un sistema malato. Un sistema carcerario che produce morte, violenza e abiezione».

Sentenza Cucchi, dov'è l'errore? «L'indagine sulla sua morte è stata approssimativa. Ed è arrivata alla conclusione che il ragazzo è stato sì pestato, ma non si ha la prova che quelle botte abbiano causato il decesso». Parla Luigi Manconi, che ha seguito il caso dall'inizio, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.

Luigi Manconi, cosa significa la sentenza di ieri?

«La sentenza dichiara il fallimento delle indagini condotte dalla Procura, evidentemente in modo maldestro, parziale e approssimativo, come del resto i familiari e i legali di Cucchi sostengono da anni».


Indagini dalle quali emergerebbe che il pestaggio nei confronti di Stefano non sia mai avvenuto?

«No, tutt'altro. Contrariamente a quanto sostengono in molti, come ad esempio il Senatore Carlo Giovanardi (che Dio lo perdoni), la sentenza non afferma affatto che il pestaggio non abbia avuto luogo: dice piuttosto che la Procura non ha presentato prove sufficienti per consentire, al di là di ogni ragionevole dubbio, la condanna degli agenti di Polizia Penitenziaria rinviati a giudizio».

Quindi si tratta di un elemento ormai certo.

«Assolutamente. Tutte le perizie, anche quelle più favorevoli ai poliziotti, hanno messo le violenze subite tra le cause del grave stato nel quale versava Stefano Cucchi: dunque di quelle violenze non si può dubitare, come del resto le lesioni visibili anche a occhio nudo sul corpo di Cucchi dimostrano inequivocabilmente».

Una certezza agghiacciante…

«Certo, perché in uno dei luoghi in cui dovrebbe massimamente valere la tutela dell'individuo e del suo corpo da parte dello Stato, cioè la cella di sicurezza di un Tribunale, quell'individuo viene invece fatto oggetto di percosse e violenze».

Ma non pare questo ciò che emerge dalla sentenza.

«Leggeremo le motivazioni, e soprattutto vedremo se da quelle motivazioni emergerà la necessità di ulteriori indagini; ma ad oggi il messaggio contenuto nella sentenza è letteralmente sconcertante: Stefano Cucchi è stato vittima di un caso di ordinaria malasanità: un episodio come tanti di incuria medica o di mancata assistenza. Questo si ottiene strappando a viva forza la morte di Stefano dal contesto in cui è avvenuta e dal complessivo sistema delle istituzioni in cui si è consumata».

E cosa si vede, rimettendola in quel contesto?

«Lo ripeto per l'ennesima volta: la vicenda di Cucchi è una vera e propria via crucis, composta di tante stazioni a ciascuna delle quali corrisponde un'istituzione pubblica. Due caserme dei Carabinieri, il Tribunale, le celle di sicurezza e l'infermeria del Tribunale, quella di Regina Coeli, la cella di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebene fratelli, il Pertini. Da un calcolo approssimativo ma plausibile di Valentina Calderone, molte decine di persone, forse addirittura centocinquanta, tutte appartenenti a istituzioni pubbliche, hanno avuto contatto con Stefano, e nessuna di loro ha prestato soccorso, ha lanciato un grido d'allarme, ha offerto aiuto a un essere umano che andava verso la morte. La sentenza condanna solo i medici, ma ignora tutto il resto».

In questa vicenda gli elementi che sembrano ignorati sono molti.

«Moltissimi. Ad esempio si ignora una domanda cruciale: perché Cucchi è stato ricoverato nel lontanissimo Pertini anziché al Fatebenefratelli? Il sospetto è che si trattasse di un modo per sottrarlo non solo allo sguardo pubblico, ma anche a quello dei familiari. Così come si ignora che Giovanni, il padre di Stefano, ha attraversato la città per cinque giorni andando di ufficio in ufficio, di sportello in sportello, trovandosi davanti uffici chiusi e sportelli che lo rimandavano ad altri sportelli: e solo alle 12:00 del 22 ottobre ottiene il permesso formale di visitare il figlio, che era morto all'alba dello stesso giorno senza che lui ne fosse informato».

Una trafila terribile…

«Una trafila oscena. Un sistema di controllo e detenzione che sembra avere un solo scopo: negare i diritti delle persone che sono private della libertà. A partire da quello fondamentale».

Vale a dire?

«Avvalersi di un legale. Si tratta della prima richiesta fatta da Cucchi nella caserma dei Carabinieri e poi rinnovata in Tribunale. Anzi, dalla documentazione del Pertini risulta che fosse questa la causa dell'astensione dal cibo di Stefano».

Mancanza di prove per condannare gli agenti, si diceva. Ma è solo una questione di imperizia?

«Certamente no. E' anche il risultato del clima di chiusura corporativa che gli apparati dello Stato mettono spesso in atto in circostanze del genere».

Che scenari si aprono dopo questa sentenza?

«Come dicevo, occorre attendere le motivazioni. Ma io prevedo che sarà proposto appello sia dalla Procura, sia dalle parti civili».

Non è successo nulla, scrive Concita De Gregorio su “La Repubblica”. Quindi non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, "visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta". Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c'è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c'era un giovane uomo di 31 anni e non c'è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente. Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un'altra, una cella di sicurezza poi un'altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d'altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno. Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l'esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice "se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie". Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, "ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi". Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero "scivolose", le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev'essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così. Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un'imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto. Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un'omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l'ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l'ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all'appello l'umanità e l'intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.

La Corte non vede reati: “Senza prove si assolve”, scrive Paola Zanca su Menti Informatiche. Mi devono uccidere per fermarmi”. Non bastano le offese, che ancora ieri sono tornate a infangare la memoria di Stefano Cucchi. E nemmeno le precisazioni dei giudici, che si trincerano dietro il volere della giuria popolare che ha mandato assolti tutti quelli che hanno incontrato il giovane detenuto romano nell’ultima settimana della sua vita. Ilaria, la sorella che da cinque anni si batte per trovare i responsabili di questa morte assurda, arriva al rimedio estremo: “Mi devono uccidere per fermarmi”. Il primo – l’ennesimo – passo è già sulla scrivania dell’avvocato di famiglia, Fabio Anselmo: azione legale contro il Ministero della Giustizia. “Al di là dell’accertamento delle singole responsabilità – spiega l’avvocato – una responsabilità del ministero c’è”. Una strada che viaggia in parallelo con il ricorso in Cassazione e con la richiesta di giudizio della Corte europea. “Due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio – insiste Ilaria Cucchi – e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato: mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro”. Questa storia non è un gioco. Eppure, ancora ieri, c’era chi aveva voglia di scherzare. Il Coisp, sindacato indipendente di polizia, è arrivato a fare la ramanzina alla famiglia di Stefano: “Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia – si legge in un comunicato –È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita – insiste il segretario Coisp Franco Maccari – comincino ad assumersi le proprie responsabilità”. Illazioni vergognose, a cui nessun rappresentante delle istituzioni si è sentito in dovere di replicare. Il presidente della Corte di Appello di Roma Luciano Panzani, invece, è voluto intervenire in risposta a una rubrica di Massimo Gramellini su La Stampa: “Nessuna gogna mediatica – ha tuonato – e nessun invito a far pagare i magistrati per i loro errori se non vogliamo rischiare di perdere noi tutti molto di più di quanto già si sia perso in questa triste vicenda”. Spiega ancora Panzani: “Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario, quando la responsabilità non è provata oltre ogni ragionevole dubbio, deve assolvere”. Ieri sera, ospite dello stesso Gramellini su RaiTre , Ilaria Cucchi ha replicato: “L’insufficienza di prove dipende dalla superficialità con cui sono state fatte le indagini. Più volte ho criticato l’operato di questi pm”. Ci sarebbe potuta essere una terza via, come ricorda l’avvocato Anselmo: “Di fronte a una perizia non idonea, io avrei voluto che la Corte disponesse un supplemento peritale per risolvere i dubbi sulle cause della morte” . Non si dà pace Anselmo, anche perché nessuno risponde all’obiezione principe: perché i Cucchi sono stati risarciti dall’ospedale Pertini con un milione e 340mila euro se lì dentro non è successo nulla? Dice Roberto Saviano ”Che rabbia, siamo indifesi. Che rabbia. Rabbia per una sentenza che non fa giustizia. Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita. Che rabbia per noi, che siamo foglie al vento, che ci sentiamo nudi e indifesi di fronte a tutto questo”. Fedez, cantante rapper "disidratato? stronzate....Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati: certe stronzate non ce le beviamo. L’ingiustizia è uguale per tutti. #Vergogna“. Accanto al post su Facebook, un manifesto funebre che cita De Andrè: “Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte”. Una fase tombale, che nessuno potrà intaccare – sostiene l’avvocato – Durante questo percorso ho portato e convinto la famiglia ad accettare questo importante risarcimento, che non può che essere considerato come una vera e propria responsabilità, e grave”. Succedeva un anno fa. I Cucchi spiegarono che quei soldi servono a coprire le spese legali, passate e future. E che il resto vorrebbero usarlo per aiutare i ragazzi che escono dalla droga a reinserirsi nella comunità, magari nel casale di Tivoli dove Stefano amava passare il suo tempo e che adesso vorrebbero donare al Campidoglio. Si sa mai che qualcuno abbia pure il coraggio di dire che sono diventati ricchi.

Quanto fa chic criticare il verdetto sul caso Cucchi. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie. Quello che un colpevole, il Colpevole, meglio in divisa ma va bene anche il camice, lo vuole per forza. Con le buone o con le cattive. E se la giustizia non lo trova, non li trova, perché non ce l'ha fatta, perché è arduo distinguere o perché forse più banalmente non ci sono aguzzini, ecco che si scatena. E fa a pezzi lo Stato e l'apparato giudiziario e tutto il resto. Perché le sentenze si rispettano, ma qualche volta no. Quella che riguarda Stefano Cucchi, con l'assoluzione dei medici condannati in primo grado, non può passare. Anzi si grida allo scandalo e alla vergogna e i titoli dei giornali e dei tg sono un terzo grado e anche un quarto. Durissimo. Implacabile. Senza camera di consiglio perché in fondo non ce n'è bisogno. «Chi è Stato?», gioca con perfida maestria Massimo Gramellini sulla Stampa . «Non è successo nulla», è il sanguinante commento di Concita De Gregorio su Repubblica. Sempre su Repubblica Carlo Bonini parla di «ferite inspiegabili e testimoni ignorati». È tutto un coro che va oltre le pagine e arriva sui social network e s'infiamma con le requisitorie di Fedez e Saviano. Non manca nessuno. Ci sono tutti, forse con un riflesso tardo sessantottino, e se la prendono con i carabinieri e poi con gli agenti della polizia penitenziaria e ancora, usciti di scena gli uni e gli altri, con i medici e gli infermieri. E alla fine, visto che i conti non tornano, puntano il dito contro tutto e tutti. Contro i silenzi. Contro le omissioni e il clima di omertà. E così il paradosso chiama un altro paradosso, il furore vuole altro furore, fino a perdere la misura. E il rispetto minimo per le istituzioni e le facce che le riempiono. L'assoluzione diventa l'occasione per dire che lo Stato talvolta nasconde le prove e chiude i cassetti. Come ai tempi mai rimpianti delle bombe. Peccato. Certo ci sono quelle foto del giovane: dolorose, impressionanti, terribili. Ma i processi non si fanno in piazza. «Una condanna senza prove - afferma il presidente della corte d'appello di Roma Luciano Panzani - aggiungerebbe obbrobrio a obbrobrio». Ma nessuno lo ascolta. Il sindaco Marino vuole ricordare Cucchi intitolandogli una strada. E Rita Bernardini dei radicali insiste per introdurre il reato di tortura. È la fiera del politically correct. La verità invece è in fuga.

Strano che Zurlo abbia preso questa posizione. Non è la condanna delle "guardie" che soddisfa la voglia di giustizia. E' la condanna della giustizia, ergo dei magistrati, che non ha saputo trovare il responsabile. Oppure per Il Giornale si è garantisti solo se si tratta di Berlusconi, Sallusti e le Forze del'Ordine?

Invece è coerente con se stesso l'analisi di Sansonetti: da vero garantista.

Stefano Cucchi, la giustizia non è sempre condanna, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi. Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti. E anche l’incapacità di garantire che lo ”stato di diritto” viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte loro, del loro dolore, della rabbia per il modo nel quale lo Stato italiano gli ha portato via Stefano. E tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto. Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto. Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire “un esempio”. La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure – per assurdo – la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società è la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico – e in particolare la Dc – ”Io so, ma non ho le prove”. Lui diceva di sapere chi aveva fatto le stragi, quella di piazza Fontana, quella dell’Italicus, quella di Brescia. Aveva ragione. E’ facile dire che quelle stragi ( e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna. Però erano fascisti, e la strage, più o meno – forse – era fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza?

P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti.

Intervenendo l’1 novembre 2014 alla trasmissione di Fazio su Rai 3 la sorella di Stefano Cucchi e l'avvocato Anselmo ribadiscono le critiche alla sentenza di assoluzione per tutti gli imputati e la determinazione a proseguire nell'azione legale. «Non dimentico che per anni si è cercato di negare in tutti i modi quel pestaggio. Pestaggio che oggi, come nella sentenza di primo grado viene riconosciuto. Viene riconosciuto, ma la giustizia dice che non è in grado di stabilire chi siano gli autori di quel pestaggio. Questo da semplice cittadina lo trovo gravissimo. Insufficienza di prove dipende da entrambe le cose . Dipende dalla superficialità con cui sono state fatte le indagini. Io, più volte in questi anni, ho criticato l’operato di quei pubblici ministeri. Oggi alla luce di queste sentenze, tutti sapete che non sbagliavo. Questa sentenza per insufficienza di prove è il fallimento della Procura di Roma, non è il mio fallimento, non è il fallimento del mio avvocato. E’ il loro. Quello della Procura di Roma, dello Stato italiano e della giustizia. Cosa centra la droga con questo. Questa è l’immagine di mio fratello, così come ce lo hanno restituito dopo 6 giorni. E non centra un bel niente con la droga. Le pressioni indebite ci sono state nei nostri confronti - ha detto Ilaria - . Ogni mattina il processo si svolgeva così: quasi tutto il tempo facevano domande sulla magrezza di Stefano, su di noi... Il nostro è stato un processo alla vittima». «Voglio chiedere al dottor Pignatone - dice Ilaria Cucchi, confermando quanto scritto in un post su Facebook - se è soddisfatto dell'operato del suo ufficio, se quando mi ha detto che non avrebbe potuto sostituire i due pm che continuavano a fare il processo contro di noi, contro il mio avvocato, e contro mio fratello, ha fatto gli interessi del processo e della verità sulla morte di Stefano».

Eppure c'è chi insiste a negare l'evidenza. Gianni Tonelli (Sap): «Non c’è stato nessun pestaggio, che volete da noi?», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. Se non vogliamo rischiare di perdere molto di più di quanto si sia perso in questa triste vicenda nessuna gogna mediatica e nessun invito a ’far pagare i magistrati per i loro errori», dice Luciano Panzani, presidente della Corte di Appello di Roma, alla sentenza d’appello che ieri ha assolto tutti gli imputati accusati della morte di Stefano Cucchi. Ma ha destato molte polemiche anche il sindacato indipendente di polizia Coisp, che attraverso il suo segretario Franco Maccari ha ha fatto sapere: «Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». Aggiungendo: «È ora che le persone che normalmente cercano attorno a sé i capri espiatori per spiegare tutto quello che non funziona nella loro vita comincino ad assumersi le proprie responsabilità». Parole durissime, vergognose, che ricalcano quanto affermato ieri da Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap. «In questo Paese – ha detto Tonelli, che si oppone a una via intitolata a Cucchi – bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie». Ecco che cosa ha detto il segretario generale del sindacato di polizia Sap Gianni Tonelli, commentando la sentenza di assoluzione in secondo grado della Corte d’Assise d’Appello di Roma per i medici, gli infermieri e gli agenti di penitenziaria imputati per la morte di Stefano Cucchi.

Sono dichiarazioni raccapriccianti, Tonelli. Per lei Cucchi si è cercato la morte perché era un tossico, pare di capire.

«Cucchi ha tutta la pietà umana per la sua condizione. Ma basta prendersela con i servitori dello Stato. La mia era una dichiarazione più ampia, che faceva riferimento anche a Uva e altri casi. Non ho avuto spazio per spiegarmi».

Se ne aveva poco doveva sfruttarlo meglio. Lei dice che Cucchi era un drogato e la morte è una sua responsabilità, si rende conto?

«Ho un ruolo ingrato, ero obbligato a controbilanciare le dichiarazioni di parte, e i continui tiri al bersaglio di cui sono oggetto le forze di polizia che sono considerate colpevoli anche quando non lo sono, come in questo caso».

Lei fa la stessa cosa che rimprovera agli altri. Ha trovato il colpevole di questo processo: Cucchi, il drogato che se l’è cercata.

«Non è questo che intendevo dire».

Ha pagato le conseguenze di una vita dissoluta. Lo ha detto lei, e ora ce lo spiega.

«Volevo dire che i soggetti border line corrono più rischi. Non avrebbe vissuto tutta questa vicenda se si fosse tenuto lontano dalla droga».

Quindi se si è drogati bisogna aspettarsi di poter essere pestati e morire in carcere. Rischi del mestiere, insomma.

«Non è quello che sto dicendo».

Se avesse avuto un figlio ridotto in quelle condizioni, entrato vivo in caserma, e uscito morto, pestato a sangue, non avrebbe messo le mani al collo a chi diceva che ha pagato le conseguenze di una vita dissoluta?

«È un discorso ridicolo. È come se le chiedessi se lei non si sente lercio a pranzare, sapendo che milioni di bambini muoiono di fame».

Io non sono il rappresentante di nessuno, se non di me stesso. Lei tutela i suoi colleghi, e la difesa d’ufficio ci può stare. Ciò che invece è vergognoso è che si è accanito contro un debole, accusandolo di essersi cercato la morte.

«Ma vuole che non provi pietà umana per la sua condizione?»

Voglio che non lo accusi di essere morto perché era un tossico. Era un tossico, ma è morto di botte.

«La sentenza ha detto che non ci sono responsabilità dei medici e dei poliziotti dietro la morte di Cucchi. Il fatto non sussiste, ha detto la sentenza».

La sentenza dice che c’è insufficienza di prove, spiacente.

«No, la sentenza dice che il fatto non sussiste».

La formula adottata è quella prevista dal secondo comma dell’articolo 530, la vecchia formula dell’assoluzione per insufficienza di prove. Ma se dice che il fatto non sussiste prendo atto, lo ha detto lei.

«Su questo allora verificheremo, è una questione giuridica che non possiamo chiarire qui in pochi minuti. Resta l’assoluzione di secondo grado, questo posso dirlo?»

Rimane il fatto che nessuno ci ha detto chi ha ridotto Stefano Cucchi in quelle condizioni.

«Non c’è stato nessun pestaggio, lo hanno detto tutti i periti».

Non è così. Il dottor Thiene ha spiegato che Cucchi è morto in conseguenza dei traumi ricevuti. Se li è fatti da solo?

«I casi di detenuti che adottano condotte autolesionistiche sono a decine, specie se interessati da situazioni emotive di instabilità. Può essersi battuto la testa sulle sbarre da solo».

Lesioni ed ecchimosi alle gambe, frattura della mascella, ecchimosi all’addome, emorragia alla vescica, emorragia al torace, due fratture alla colonna vertebrale. Cucchi si è fatto tutto questo da solo?

«Gli elementi a disposizione della magistratura non hanno attribuito questo tipo di lesioni a condotte violente degli agenti».

Il fatto che il pestaggio non possa essere attribuito a nessuno non vuol dire che non è avvenuto. Che fastidio le dà una via intitolata a Cucchi?

«È pretestuoso intitolargli una via, non ha nessun merito. Si intitolano vie a Manzoni, Leopardi, Gagarin. Perché questo riconoscimento a Cucchi?»

Perché è una vittima di Stato. È entrato in caserma in salute ed è uscito dall’obitorio morto. Morto e massacrato di botte.

«Non c’è prova che i politraumatismi abbiano provocato la sua morte».

L’ha detto lei che era un tossico. Era deperito. Magari una persona sana a tutti quei calci potrebbe sopravvivere. E un tossico, appunto, ne può morire. Non crede?

«Se allora è una vittima allora intitoliamo vie alle vittime di Ustica?»

Sì, subito. Perché a Cucchi no?

«Perché è una maniera per infierire contro le forze dell’ordine, per dire che sono stati comunque i poliziotti a ucciderlo, anche se la sentenza dice che il fatto non sussiste».

l fatto sussiste eccome. Non esiste il responsabile. Nella migliore delle ipotesi questo ragazzo è morto per abbandono.

«Nessuno lo ha abbandonato. È lui che ha rifiutato le cure».

Glielo dica ai suoi genitori che è morto ma non l’ha ammazzato nessuno.

«E’ nelle carte che i genitori lo avevano abbandonato a sé stesso e non lo andavano a trovare».

Non è così. Non mi risulta. Mi risulta solo che è stato scannato e che ci sono testimoni.

«I testimoni non sono stati ritenuti attendibili».

Ci sono le lastre e i referti delle fratture. Quelli sono attendibilissimi. Ma secondo lei come è morto Cucchi?

«Io penso che debba essere disciplinato per bene il Trattamento sanitario obbligatorio. Se fosse avvenuto tempestivamente, Stefano Cucchi sarebbe ancora tra noi».

Ammette quindi che ci sono responsabilità.

«Dico che se ci fosse stato un tso più rapido, Cucchi sarebbe vivo».

Forse sarebbe vivo se non fosse stato ricoverato per le botte che ha preso.

«Se qualcuno ha altre prove si faccia avanti. Non vedo l’ora che si trovi il colpevole. Io per la polizia non faccio che chiedere telecamere da un sacco di tempo. Vogliamo operare sotto la luce del sole, non ce la facciamo più a passare per mostri. Ma lei crede che dei deboli, di chi sta male, mi importa meno di lei?»

Allora chieda scusa per le sue parole inopportune.

«No, non lo farò perché non volevo offendere nessuno. Dico solo che in molte vicende ci sono concorsi di colpa. Ne aveva Cucchi, ne hanno avuto gli altri Cucchi e ne ha lo Stato. Non si può puntare l’indice in una sola direzione ogni volta».

Eppure qualcuno è stato. E in mancanza di un preciso responsabile, è stato ucciso dallo Stato. Ecco perché Stefano Cucchi merita che gli sia intitolata una via. Ecco tutto.

Tutti assolti per la morte di Stefano Cucchi, scrive “Il Post”. I giudici hanno assolto tutti gli imputati – medici, infermieri, agenti – per la storia dell'uomo morto in ospedale dopo essere stato arrestato nel 2009.  Sono stati tutti assolti in appello per insufficienza di prove. In primo grado solo i medici erano stati condannati per omicidio colposo (tranne uno). La decisione è stata presa dai giudici della Prima Corte d’Appello di Roma, dopo una camera di consiglio durata circa tre ore, gli imputati nel processo erano dodici: sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari. I giudici potevano scegliere in diverso modo, confermando la sentenza di primo grado o accogliere le richieste della procura che avrebbero portato a una profonda revisione della sentenza e alla condanna di tutti gli imputati. Infine potevano accogliere la tesi della difesa che aveva proposto l’assoluzione di tutte le persone imputate. Stefano Cucchi, 31 anni, lavorava come geometra nello studio di famiglia, con i genitori Rita Calore e Giovanni, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 fu arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di droga. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori – che lo trovarono in buona salute – e l’udienza di convalida dell’arresto, fu portato nel carcere romano di Regina Cœli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente, Cucchi passò sei giorni in diverse strutture e con il coinvolgimento di decine di operatori sanitari e della giustizia, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita. Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati furono resi pubblici solo alcuni mesi più tardi. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Una commissione d’inchiesta del Senato, presieduta dall’allora senatore del PD Ignazio Marino, stabilì che al momento dell’ingresso in carcere Cucchi presentava già lesioni gravi al volto, lesioni vertebrali e un sospetto di trauma cranico e addominale. Secondo l’accusa, infatti, Cucchi fu picchiato violentemente prima ancora dell’udienza di convalida dell’arresto, la mattina del 16 ottobre. Successivamente, dopo il suo ricovero al “Pertini”, secondo l’accusa Cucchi non fu curato né nutrito, lasciandolo morire di fame e di sete, nonostante le sue pessime condizioni cliniche. Cucchi, che era tossicodipendente e soffriva di epilessia, aveva infatti, già dal 19 ottobre, una grave ipoglicemia (mancanza di zuccheri), oltre ai traumi alla testa e alla schiena. Dopo la lettura della sentenza di appello la madre di Stefano Cucchi ha parlato di una decisione “assurda: mio figlio è morto dentro quattro mura dello Stato che doveva proteggerlo”. Il padre di Cucchi ha ricordato che “le persone ferite siamo noi e lo saremo per tutta la vita. Vogliamo la verità. Possono assolvere tutti, ma io continuerò a chiedere allo Stato chi ha ucciso mio figlio”.

Il volto tumefatto e la resa dello Stato incapace di giustizia, scrive Fiorenza Sarzanini su  “Il Corriere della Sera”. Si devono guardare i suoi occhi pesti, il suo viso tumefatto, il suo corpo straziato. Si deve sapere che nessuno si è occupato del suo dolore fisico, né si è preoccupato che quel ragazzo, arrestato per possesso di droga, avesse smesso di bere e di mangiare. Nessuno ha dato importanza al fatto che non riuscisse più a reggersi in piedi tanto da non poter essere trasferito in carcere e dunque dovesse essere ricoverato nel centro di detenzione dell’ospedale Pertini. E ci si deve interrogare su come sia possibile che nessuno pagherà per questo. Era nelle mani dello Stato Stefano Cucchi ma ieri lo Stato si è arreso e ha mostrato l’incapacità di rendere giustizia. La scelta di sua sorella Ilaria di far vedere ancora una volta in televisione la foto di quel volto devastato dalle botte sul lettino dell’obitorio è la nuova ennesima umiliazione che questa famiglia è costretta a subire pur di conoscere la verità. Un inammissibile sopruso che la mamma e il papà di Stefano hanno dovuto nuovamente sopportare. Sembra assurdo che in una vicenda dove ci sono decine di persone coinvolte, testimoni o protagonisti, non ci sia nessuno che decida di raccontare davvero che cosa è accaduto dal momento dell’arresto fino al ricovero. Ma ancor più difficile da comprendere è che di fronte agli elementi forti già contenuti negli atti processuali i giudici non riescano a trovare i colpevoli. Stefano è stato ucciso. Lo Stato che non lo ha protetto adesso è chiamato a dire chi lo ha ammazzato. Ci sono stati tanti errori, omissioni e bugie commessi da chi era incaricato di indagare. Ma il verdetto di ieri, che ci lascia senza risposte e rende l’omicidio insoluto, è una sconfitta per tutti.

Chi è Stato? Si chiede Massimo Gramellini su “La Stampa. Recita il ritornello: le sentenze si rispettano. Però non possono diventare lotterie, come accade quando sugli stessi fatti il giudizio d’appello smentisce, ribaltandolo, il processo precedente. Per l’accusa Stefano Cucchi è morto in carcere di botte e di stenti. Per il primo giudice «soltanto» di fame e di sete. Per la corte d’assise neanche di quello. Ne dovremmo dedurre che sia ancora vivo. O che si sia ammazzato da solo. E infatti è questa la versione che ci vogliono apparecchiare: Cucchi si sarebbe lasciato morire di inedia. Se medici e infermieri hanno una colpa, è di non avere insistito con la forza per nutrirlo.  Una «responsabilità morale» ammette persino Giovanardi. E le fratture? E gli occhi pesti? E il corpo preso in consegna vivo dallo Stato e restituito cadavere alla famiglia? Una famiglia che ha sempre rispettato e aiutato le istituzioni, al punto di fornire prove a carico del figlio sul possesso di droga. Toccherà alla Cassazione mettere il timbro su questa storia allucinante, dove il latinorum dei giudici è contraddetto dalla potenza persuasiva delle foto. Purtroppo abbiamo fin d’ora una certezza: che quando una delle due sentenze risulterà sbagliata, nessun magistrato pagherà per il suo errore. 

P.S. Solidarietà ai poliziotti e agli agenti penitenziari che accettano di farsi odiare dal prossimo per 1200 euro al mese. Ma il portavoce di un loro sindacato che - di fronte alla morte impunita di un uomo - dichiara: «Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute e conduce una vita dissoluta, ne paghi le conseguenze», dovrebbe fare soltanto una cosa. Vergognarsi.  

Luciano Panzani, 64 anni, è in magistratura dal 1975. Ha fatto il pretore a Torino, ha presieduto il tribunale di Alba e poi quello di Torino, è stato consigliere di Cassazione. Oggi presiede la Corte d’Appello di Roma. Ieri si è sentito in dovere di difendere i suoi colleghi: «Non ho l’abitudine di intervenire, tanto meno di commentare le sentenze. Però sento che qualcuno vorrebbe far pagare i magistrati per i loro errori. È un concetto pericoloso». Ha parlato di «gogna mediatica». «Basta gogna mediatica, non c’erano prove» e nessun invito a «far pagare i magistrati per i loro errori - ha detto il magistrato - se non vogliamo rischiare di perdere molto più di quanto già si sia perso in questa triste vicenda. Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. E' quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta». Lo afferma il presidente della Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani, in risposta al "Buongiorno" di Massimo Gramellini su La Stampa. «Questo è il suo compito - aggiunge il presidente della Corte d'Appello di Roma, a lungo presidente del Tribunale di Torino - per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità. - Panzani ricorda poi che - la Corte d'Assise è formata in prevalenza di giudici scelti tra semplici cittadini. Anche Lei - osserva rivolgendosi direttamente a Gramellini - avrebbe potuto farne parte, ed a maggior diritto giudica in nome del Popolo Italiano, perché è espressione del Popolo. Posso comprendere - scrive ancora il presidente della Corte d'Appello di Roma - che sentenze contrastanti in primo grado e in appello suscitino sconcerto, ma questo sovente succede nei casi difficili, dove la prova è indiziaria e proprio per questa ragione esistono l'appello e il ricorso in Cassazione».

«Io non critico la sentenza - commenta il giorno dopo l’avvocato Anselmo - Non posso fare a meno di ricordare che già durante l’udienza preliminare avevo previsto questo esito. Adesso abbiamo una sentenza che certifica l’insufficienza di prove su tutto: sugli autori del pestaggio e sulle singole responsabilità di medici e infermieri. La fragilità e le imbarazzanti contraddittorietà della perizia disposta dalla Corte di primo grado mai avrebbero potuto reggere a un vaglio severo e giusto da parte dei giudici di seconda istanza».

Parla con il dolore alimentato dall’indignazione la sorella del ragazzo, Ilaria, da sempre in prima linea nella battaglia legale: «Mi devono uccidere per fermarmi. Mio fratello è morto e non si può girare e indovinare chi è stato, devono dircelo loro. Mi sono svegliata con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma».

Ma la verità non è impunità, risponde Massimo Gramellini. «Gentile dottor Panzani, la ringrazio per le sue pacate riflessioni. Nel mio corsivo ho cercato di dare voce allo “sconcerto” (come lo chiama anche lei) dell’opinione pubblica di fronte a una sentenza che rovescia quella di primo grado, pur in assenza di fatti nuovi che possano giustificare un cambiamento di giudizio. Ho cercato soprattutto di trasmettere la sensazione di straniamento e di impotenza che invade il cittadino davanti a sentenze tecnicamente ineccepibili, ma che in sostanza ci lasciano addosso il sapore amaro della negazione di verità.  Lei parla di gogna mediatica, ma forse i tribunali dovrebbero adeguare la loro comunicazione ai tempi moderni. In casi di interesse pubblico come questo, non possono più limitare il verdetto alla mera enunciazione del dispositivo, ma dovrebbero dare subito qualche elemento ulteriore di comprensione. Rendendosi conto che l’insufficienza di prove si traduce, per chi osserva da fuori, in una legittimazione dell’impunità. 

Cucchi, tutti gli incredibili errori. Domiciliari mancati e divieti alla famiglia. I militari dell’Arma scrissero che era nato in Albania ed era senza fissa dimora, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato. Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero. Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però - che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente - non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico. Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice - e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte -, ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento - con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto - Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo - o non solo - l’ultima sentenza.

Omicidio Stefano Cucchi: Vergognosi tentativi di depistaggio, scrive “Aikido e dintorni”Stefano Cucchi è stato arrestato dai Carabinieri il 15 ottobre scorso. Trascorre la notte in caserma e l’indomani, con un processo per direttissima, il giudice dispone l’arresto in carcere in attesa dell’udienza successiva. Mentre sono ancora in attesa di vedere il figlio, una settimana fa i familiari ricevono dai carabinieri la notifica del decreto col quale il pm autorizzava l’autopsia sul corpo di Stefano. E’ così che i genitori e la sorella vengono a conoscenza della morte di Stefano. Un’altra morte di carcere.

Il Blog ha intervistato Ilaria e Giovanni Cucchi, rispettivamente sorella e padre di Stefano.

llaria Cucchi: “Stefano Cucchi era un ragazzo di 31 anni, un normalissimo ragazzo di 31 che la notte tra il 15 e il 16 ottobre è stato arrestato dai Carabinieri, perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti. L’abbiamo visto uscire di casa accompagnato di Carabinieri, che precedentemente tra l’altro avevano perquisito la sua stanza non trovandovi nulla e accompagnato dai Carabinieri in ottime condizioni di salute, senza alcun segno sul viso e non lamentando alcun tipo di dolore. L’abbiamo rivisto morto il 22 ottobre all’obitorio: nel momento in cui l’abbiamo rivisto, mio fratello aveva il viso completamente tumefatto e pieno di segni, il corpo non l’abbiamo potuto vedere.”

Blog: “possiamo ripercorrere le tappe di quei giorni? La notte tra il 15 e il 16 ottobre viene fermato dai Carabinieri e viene portato in caserma: da lì i Carabinieri lo portano qui in casa a controllare se.. ”

llaria Cucchi: “a perquisire la sua stanza, esatto, dove ovviamente non viene trovato nulla.”
Blog: “sostanzialmente trascorre la notte in caserma e poi viene.. ”

llaria Cucchi: esattamente. La mattina successiva, verso le dodici avviene il processo per direttissima, dove il giudice ritiene che questo ragazzo debba passare il tempo fino al 13 novembre, data in cui è fissata l’udienza successiva, in carcere e viene assegnato a Regina Coeli.

llaria Cucchi: da quel momento non lo vediamo più. Ripeto: la mattina del processo per direttissima mio fratello aveva già il segno gonfio di botte, da qui è uscito in ottime condizioni.

Blog: “i Carabinieri che cosa vi hanno detto, quando era qui in casa?”

llaria Cucchi: “ci hanno detto di stare tranquilli, perché per così poco sicuramente il giorno dopo sarebbe stato a casa agli arresti domiciliari.”

Blog: “poi, quando vi avvisano, arriva una telefonata che dice ‘Stefano sta male’?”

llaria Cucchi: “il sabato sera. La notizia successiva l’abbiamo il sabato sera, intorno alle nove vengono i Carabinieri a informarci che Stefano è stato ricoverato d’urgenza presso la struttura del Sandro Pertini: ovviamente i miei genitori si recano immediatamente sul posto e lì viene negato loro alcun tipo di notizia. Nel momento in cui, ingenuamente, mia madre domanda di poter vedere il ragazzo e di sapere quello che aveva, le viene risposto: “assolutamente no, questo è un carcere, tornate lunedì in orario di visita e parlerete con i medici”. I miei genitori tornano il lunedì mattina, all’orario che era stato loro detto, vengono fatti entrare e vengono loro presi gli estremi dei documenti e vengono lasciati in attesa. Dopo un po’ di tempo esce una responsabile, la quale li informa di non poterli fare parlare con i medici, in quanto non è arrivata una certa autorizzazione da parte del carcere. “Comunque tornate, perché deve arrivare quest’autorizzazione e non vi preoccupate, perché il ragazzo è tranquillo”, è stato risposto loro, quando mia madre chiedeva: “ditemi almeno per quale motivo mio figlio è stato ricoverato”. “Il ragazzo è tranquillo”. Il giorno dopo, ovviamente, i miei tornano …esattamente, il martedì mattina tornano presso la stessa struttura, al reparto carcerario del Sandro Pertini e questa volta non vengono proprio fatti entrare, viene risposto loro al citofono che non possono entrare, perché non c’è l’autorizzazione. Finalmente viene detto loro però che sono loro a dover chiedere un’autorizzazione a Piazzale Gloria, se vogliono vedere il ragazzo: mio padre chiede quest’autorizzazione e la ottiene per il 25.. mi scusi, per il 22, giovedì. Il 22 all’alba mio fratello è morto e mio padre non ha fatto in tempo a vederlo. Sappiamo della notizia della morte di mio fratello dai Carabinieri, che vengono a casa intorno alle 12: 30, le premetto che sembrerebbe che mio fratello sia morto all’alba, vengono intorno alle 12: 30 per notificare a mia madre il decreto con il quale il Pubblico Ministero autorizzava l’esecuzione dell’autopsia in seguito al decesso di Cucchi Stefano. Questo è stato il modo in cui mia madre ha saputo della morte del figlio.”

Blog: “da lì in poi come avete fatto per vedere il corpo? All’obitorio vi è stata concessa questa possibilità?”

llaria Cucchi: “inizialmente no, c’è stata negata: dopo alcune insistenze è stata fatta una telefonata al Pubblico Ministero, il quale ha autorizzato che potessimo vederlo, ovviamente dietro a un vetro. Quello che abbiamo visto è stato uno spettacolo – mi creda – allucinante: mio fratello aveva il viso completamente devastato, era irriconoscibile, aveva un occhio gonfio e un altro sembrava incavato, la mascella sembrava rotta, aveva il viso come bruciato. Il corpo era coperto da un lenzuolo, non so quello che ci fosse sotto.”

Blog: “è vero che il magistrato vi ha vietato di fare fotografie al vostro.. ”

llaria Cucchi: “ovviamente il nostro consulente ha chiesto di poter fare la documentazione fotografica e le riprese, ma è stato negato. Adesso ci aspettiamo innanzitutto una serie di risposte e che lo Stato ci dica come è potuto accadere che non ci sia stato possibile stare vicini a Stefano nel momento in cui stava morendo. Ci devono spiegare anche perché abbiamo consegnato mio fratello allo Stato, alle istituzioni in una certa condizione di salute ottima e perché ce l’hanno restituito morto. Stefano era un normalissimo ragazzo di 31 anni, lavorava, lavoravamo insieme, lui era un geometra, anche mio padre è geometra e lavoriamo insieme nella stessa struttura. Mio fratello aveva un trascorso in una comunità di recupero per tossicodipendenti, dalla quale era uscito completamente riabilitato, tant’è che lavorava e stava bene, mio fratello stava bene, aveva tanta voglia di vivere e lo posso documentare con le sue lettere, con i suoi messaggi, mio fratello aveva voglia di vivere. In questo momento non sono in grado di accusare nessuno, e il problema è proprio questo, perché non so come sono andate le cose.”

Blog: “ci sono state delle interrogazioni parlamentari rivolte al Ministro della Giustizia? Cosa è successo?”

llaria Cucchi: “mi giunge voce che la risposta all’interrogazione del Ministro Alfano è stata che Stefano è caduto: ora mi spieghino dove, come e perché è caduto e, soprattutto, come ha fatto a morire. Che mi spieghino, per una caduta, come poteva riportare tutti quei segni di traumi sul viso e sul corpo e che mi spieghino perché è stato lasciato morire.”

Blog: “per voi questa non è la verità?”

llaria Cucchi: “questa non è assolutamente la verità: forse è parte della verità, ma sicuramente la vicenda non si chiude qui e sicuramente non si spiega la morte di mio fratello.”

Giovanni Cucchi: “quando è il momento in cui ho visto mio figlio all’obitorio mi è caduto il mondo, vedendolo così, in quelle condizioni veramente inimmaginabili. Ho provato un dolore enorme e un senso di frustrazione di fronte a quello che lo Stato ci può dare e, in effetti, mio figlio è entrato sano e è uscito morto in quelle condizioni. Voglio dire, non è ammissibile che, per qualsiasi cosa uno possa aver fatto, sia ridotto sia dal punto di vista fisico che anche dal punto di vista morale in quel modo, perché mio figlio è morto solo. E’ una rabbia enorme per come può finire un figlio così, massacrato in quel modo..”

Blog: “in che condizioni era il giorno dell’udienza per direttissima?”

Giovanni Cucchi: “il giorno dell’udienza lui.. guardi, Stefano era una persona magra, lei ha visto la foto e perciò si è reso conto.. non tutti forse.. non può apparire.. lui praticamente ha il viso gonfio, il doppio del viso di quello che si vede rispetto all’ultima foto che aveva e poi aveva, sotto gli occhi, dei segni neri, quindi segni evidenti di pugni negli occhi, di botte negli occhi. Si è presentato così alla causa. Però dal punto di vista fisico stava benissimo, si muoveva, il fatto delle vertebre rotte assolutamente non sussisteva, per quanto ho potuto vedere lo escludo al 100%. Stefano si muoveva, camminava, parlava, assolutamente si muoveva come una persona normale e, se ci fosse stato quel problema delle vertebre, per prima cosa avrebbe provato dolore e quindi l’avrei saputo, me l’avrebbe detto, ma a parte quello il suo comportamento era un comportamento normalissimo e conseguentemente lo escludo nella maniera più categorica.”

Blog: “è stato l’ultimo giorno che avete potuto vederlo?”

Giovanni Cucchi: “sì, sì, è l’ultimo giorno in cui abbiamo potuto vedere Stefano, esatto. E le assicuro che, nel momento in cui l’ho rivisto, non credevo ai miei occhi: non era possibile che Stefano mi fosse stato presentato in quelle condizioni, non era possibile! Guardi, è una cosa inimmaginabile, per un padre vedere il figlio così, dopo sei giorni che chiede notizie, avere una notizia in quel modo, detta in quel modo, chiedere addirittura – è quasi una beffa! – alla dottoressa che ci è venuta a comunicare all’esterno del carcere la morte di Stefano, dice “ma potevate chiederlo ai medici?”, ma come?! Sono cinque giorni che veniamo qui a chiedervi e non ci avete fatto entrare! Il secondo, il sabato.. il lunedì siamo andati in carcere e ci hanno fatto entrare, ci hanno preso i documenti, dopo è uscita una sovrintendente e ha detto “no, mi dispiace, non vi possiamo fare parlare con i medici”. “Ma guardi che vogliamo solo parlare con i medici, non è che vogliamo parlare con Stefano, vogliamo sapere il suo stato di salute”, “no, non è possibile, perché deve arrivare il permesso”. Il permesso da dove non si sa, però dice “ guardi, tornate domani, perché domani probabilmente questo permesso sarà arrivato e quindi potrete parlare con i medici”. L’indomani siamo tornati, il piantone non ci ha neanche fatto entrare: ci ha detto soltanto “io non so niente di questo, per parlare con i medici dovete avere il permesso del colloquio rilasciato dal giudice”. Sono andato il giorno dopo a chiedere il permesso, l’ho ottenuto e poi, il giorno dopo, sarei andato a Regina Coeli a farmelo confermare, perché lì c’è una questione di orari, non si riesce a fare tutto in una giornata. Però mentre tornavo per.. mentre andavo per chiedere questo permesso mia moglie mi ha comunicato che Stefano era morto. Siamo andati a informarci sul perché Stefano è morto e non ci hanno dato nessuna scheda ufficiale, ci hanno solo comunicato verbalmente queste testuali parole: “ si è spento, aveva un lenzuolo sempre sulla faccia, non voleva mangiare, non si voleva nutrire e non voleva le flebo , praticamente si è spento”. Siamo rimasti esterrefatti, allibiti, anche loro vedevo che tutto sommato erano imbarazzati nel rispondere: ci hanno comunicato questo, nessun documento ufficiale, soltanto questa affermazione, si è spento.”

Blog: “che ragazzo era Stefano?”

Giovanni Cucchi: “era un ragazzo normale, pieno di vita, allegro, determinato, volenteroso, lavorava, faceva il geometra, aveva tanti progetti, tante ambizioni e ogni tanto me le confidava. Insomma, era un ragazzo che stava in progressione, stava nel pieno assolutamente, era un ragazzo.. ma poi, tra l’altro, aveva un carattere veramente da amico, da amicone, era amico con tutti, voglio dire, non poteva fare la fine …assolutamente, non poteva fare una fine così, guardi, non mi rassegno a che Stefano abbia fatto una fine del genere, non se lo meritava nella maniera più assoluta, non se lo meritava!”

Blog: “e adesso che cosa vi aspettate?”

Giovanni Cucchi: “ci aspettiamo che si faccia chiarezza, che ci dicano quello che non hanno potuto dirci prima, che ci spieghino con esattezza quello che è avvenuto e i motivi delle percosse, i motivi della morte con precisione: finora c’è stato il nulla, adesso vogliamo sapere tutto!”

Blog: “cosa è disposto a fare per ottenere questo?”

Giovanni Cucchi: “tutto, fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultima goccia di vita io e mia moglie ci batteremo perché si faccia chiarezza su mio figlio!”

I magistrati? Tutti uguali.

Caso Cucchi, Ilaria attacca i pm: "Presi in giro", scrive “Libero Quotidiano”. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, dopo l'incontro con la famiglia Cucchi si era detto disposto a riaprire l'indagine sulla morte di Stefano Cucchi, pronto a valutare nuovi elementi che dovessero emergere. Aspetti della vicenda che portò alla morte del giovane in carcere mai considerati a livello processuale, come la decisione da parte del giudice di direttissima di convalidare l'arresto del giovane (scambiandolo per un albanese) anzichè mandarlo agli arresti domiciliari. Poche ore dopo, però, lo stesso Pignatone è sceso in difesa dei pubblici ministeri che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy: "Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio" ha detto. E tra la sorella di Stefano, Ilaria, e la procura romana è tornato a scendere il gelo: "Non sono passate nemmeno due ore e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo". Prima dell’appuntamento con Pignatone Ilaria aveva sottolineato: "Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Stefano è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato". Poi, al termine dell’incontro, aveva anticipato: "Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio". Ma la doccia gelata del sostegno ai pm ha riacceso lo scontro.

Caso Cucchi, al via l’inchiesta-bis. Ma è gelo tra Ilaria e la Procura. Pignatone difende i pm dell’inchiesta, la sorella di Stefano: «Allora abbiamo perso tempo». Il procuratore rivedrà le carte: nel mirino i carabinieri che arrestarono il geometra e i medici che lo visitarono al Fatebenefratelli e a Regina Coeli, scrive Lavinia Di Gianvito e la redazione Roma online su “Il Corriere della Sera”. Pace fatta. Anzi no. È gelo - ancora una volta - tra Ilaria Cucchi e la procura di Roma nonostante il capo, Giuseppe Pignatone, abbia promesso di rivedere le carte dell’inchiesta sulla morte di Stefano. Il grande freddo scoppia quando il magistrato, per la prima volta da quando si è concluso il processo d’appello, spende qualche parola in difesa dei pm che avevano condotto le indagini, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, in questi giorni alquanto «irritati» dallo tsunami esploso dopo la sentenza di assoluzione degli imputati in appello. «Godono della mia piena fiducia, hanno fatto un lavoro egregio», sottolinea Pignatone dopo aver avuto con loro un colloquio di un’ora. Per Ilaria, che con i due sostituti si è scontrata più volte, è come gettare benzina sul fuoco: «Non sono passate nemmeno due ore (dall’incontro con la famiglia Cucchi, ndr) e il procuratore capo di Roma ha già capito che i pm Barba e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo». La revisione annunciata dal procuratore sarà, comunque, a tutto campo. E stavolta nel mirino dell’accusa potrebbero finire i carabinieri che nel 2009 arrestarono Stefano Cucchi e lo condussero in tribunale per l’udienza di convalida. E i medici del Fatebenefratelli e di Regina Coeli che nelle ore successive lo visitarono senza accorgersi delle botte. Pignatone lo spiega tra le righe: «Procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell’inchiesta, dal primo all’ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo». Il procuratore aspetterà anche le motivazioni della sentenza d’appello (90 giorni per il deposito) e quindi deciderà se formalizzare una nuova indagine. Le probabilità, tuttavia, non appaiono elevate se, come si fa notare nei corridoi di piazzale Clodio, «nessun giudice ha mai segnalato lacune nell’operato della procura né ha mai trasmesso gli atti all’ufficio per approfondire questa o quella posizione». Prima dell’appuntamento con Pignatone, ai microfoni di RaiNews24, Ilaria aveva sottolineato: «Ci aspettiamo che il procuratore assicuri i responsabili della morte di mio fratello alla giustizia. Abbiamo vinto noi dopo aver lottato per cinque anni. Stefano è morto di giustizia qui, è stato pestato in tribunale. Io non ce l’ho con nessuno, chiedo a tutti però di riflettere su quello che ha passato». Poi, al termine dell’incontro lunedì pomeriggio a piazzale Clodio, aveva anticipato: «Il procuratore si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio». E aveva ringraziato Pignatone per aver «fatto le condoglianze ai miei genitori. Una frase così scalda il cuore dopo cinque anni che mio fratello è stato trattato come un cane e noi siamo stati presi in giro dalla giustizia». Insomma, sembrava che la famiglia Cucchi avesse siglato la pace - o almeno una tregua - con la procura. Ma doccia gelata del sostegno ai pm ha riacceso lo scontro. E intanto dopo le proteste, lo sconcerto, le manifestazioni di solidarietà alla famiglia, sul caso Cucchi è arrivata anche una lettera di Adriano Celentano, postata sul suo el blog «Il Mondo di Adriano». Il cantante scrive direttamente al giovane morto immaginando di potergli parlare là dove potrebbe trovarsi, in Paradiso: «Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un’altra cosa. L’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c’è la LUCE, la LUCE vera!!! Che non è quella flebile e malata di quei giudici “ignavi” che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene né da quella del male sono i più pericolosi, e giustamente il Poeta li condanna. Ma adesso dove sei tu è tutto diverso. Lì si respira l’AMORE del “Padre che perdona”» e non i sentimenti «di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire. Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti». Dal fronte opposto però non è mancato un attacco durissimo: il sindacato di polizia penitenziaria Sappe ha sporto querela contro la sorella del geometra. «Dopo essersi improvvisata aspirante deputato prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni dei pm - si legge in una nota -, magari per confezionare la sentenza che più la soddisfi». Sulla bufera di questi giorni è intervenuto anche il senatore Luigi Manconi. «C’è un problema culturale di portata enorme - osserva-: quando due sindacati di polizia, il Cosip e il Sap, sostengono che “lo stile di vita dissoluto di Cucchi è stata la causa della sua morte” e quando un parlamentare della Repubblica, Giovanardi, parlando di Cucchi lo definisce “larva, zombie, anoressico, epilettico, tossicodipendente”, vuol dire che messaggi del genere si trasmettono agli apparati dello Stato che hanno a che fare con persone simili a Stefano Cucchi. È quindi evidente che queste persone, quelle che hanno incontrato Stefano, lo abbiano guardato come un cittadino di serie B. E che lo abbiamo ritenuto una persona condannabile e non considerato come essere umano di pari dignità rispetto agli altri».

Cucchi, la famiglia: "Procura rivedrà atti". Ma Pignatone li gela: "Dai pm un ottimo lavoro", scrive “La Repubblica”. L'incontro con il procuratore capo di Roma che aggiunge: "Controlleremo anche le posizioni di chi non fu oggetto di indagine". Ma la sorella si indigna sulla fiducia accordata a Barba e Loy: "Forse abbiamo perso tempo". Celentano sul suo blog scrive: "Hai visto Stefano in che mondo vivevi? Pieno di giudici ignavi". Lungo post su Fb di Jovanotti. Magistratura democratica: "Sconfitta per lo Stato". Il Sappe (polizia penitenziaria) querela Ilaria Cucchi perchè "istiga l'odio e il sospetto". La Rete si infiamma per Stefano: #sonostatoio e #vialadivisa"Abbiamo avuto assicurazione dal capo della procura di Roma che rileggerà tutti gli atti della vicenda". A dirlo, lasciando gli uffici del tribunale di piazzale Clodio, è stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il geometra romano arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e  morto una settimana dopo all'ospedale Pertini. "Mi aspetto che mio fratello, morto per ingiustizia, abbia giustizia". A dirlo è Ilaria Cucchi poco prima di fare ingresso, insieme al padre Giovanni e alla mamma Rita, negli uffici del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Proprio Pignatone domenica, nel ritenere inaccettabile una morte come quella di Stefano Cucchi, ha espresso la disponibilità a riaprire le indagini. Venerdì scorso la sentenza d'appello ha assolto tutti gli imputati per la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato per droga nel 2009 e morto una settimana dopo all'ospedale Pertini. Mostrando le foto di Stefano subito dopo il decesso, Ilaria Cucchi ha detto: "Questa per i giudici è morte per insufficienza di prove. Lo Stato non è stato in grado di garantire i diritti di Stefano da vivo e ora non è in grado di dire che era ridotto così. Basterebbe guardare queste foto per riflettere". Ora, ha proseguito Ilaria, "mi aspetto che il procuratore capo pignatone assicuri alla giustizia i responsabili di questo pestaggio, che è avvenuto qui in tribunale". Domenica 2 novembre 2014 il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, aveva dichiarato "inaccettabile una morte che avviene quando si è affidati Stato" e si era detto disponibile a "riaprire le indagini". E oggi pomeriggio ha incontrato la famiglia Cucchi. "Con animo sereno e senza pregiudizio, nè positivo nè negativo, procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell'inchiesta, dal primo all'ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo. E all'esito di questo esame, una volta conosciute le motivazioni della sentenza della corte d'assise di appello di Roma, faremo le nostre valutazioni" ha confermato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Che però, dopo un successivo incontro di circa 40 minuti con i pm che hanno condotto l'inchiesta sulla morte di Cucchi ha voluto precisare: "I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno svolto un lavoro egregio, ho estrema fiducia in loro". E questa dichiarazione, in serata, ha fatto indignare Ilaria Cucchi: "Non sono passate nemmeno due ore e il dottor Pignatone ha già capito che i pm Barbara e Loy hanno fatto un ottimo lavoro. I casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano, oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo".  Si chiama #sonoStatoio ed è l'hastag che sta spopolando su Twitter, assieme a #vialadivisa, dopo la sentenza di assoluzione della Corte d'appello per tutti gli imputati del processo Cucchi. In tanti hanno deciso di mettere la propria foto con un cartello o un semplice pezzo di carta e la scritta che rimanda allo "Stato la responsabilità di quanto successo a Stefano",  il giovane geometra romano arrestato nel 2009 per droga e morto una settimana dopo in ospedale. Un collage di solidarietà alla famiglia del giovane morto e insieme di indignazione verso la sentenza. Prima di entrare negli uffici della Procura, Ilaria Cucchi aveva voluto esporre nuovamente le foto del fratello morto davanti a Palazzo di Giustizia.  "Non ci fermeremo, andremo avanti fino a quando non si dirà cosa è successo a Stefano" ha ribadito Rita Calore, la mamma di Stefano. E Ilaria ha aggiunto, mostrando la gigantografia del fratello: "Questa è l'insufficienza di prove, lo Stato non ha saputo garantire i diritti di mio fratello da vivo, ed ora non è in grado di dire chi l'ha ridotto così. Basta guardare questa foto e riflettere". Intanto, anche i big della musica prendono posizione sulla vicenda di Stefano Cucchi. Adriano Celentano e Jovanotti hanno scritto due lunghi post rispettivamente sul proprio blog e sulla propria pagina Fb.  Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, invece,  ha depositato a Roma una querela nei confronti di Ilaria Cucchi. Secondo Donato Capece, segretario generale del sindacato, "Ilaria Cucchi vuole istigare all'odio e al sospetto nei confronti dell'intera categoria".

Adriano Celentano. "Ciao Stefano! Hai capito adesso in che mondo vivevi? Certo dove sei ora è tutta un'altra cosa". Comincia così la lettera indirizzata a Stefano Cucchi da Adriano Celentano e pubblicata sul blog dell'artista. Il cantante definisce "ignavi" i giudici "che, come diceva Dante, sono anime senza lode e senza infamia e proprio perché non si schierano né dalla parte del bene e né da quella del male sono i più pericolosi". E aggiunge: "Certo, dove sei ora è tutta un'altra cosa. L'aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore di aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui sulla terra. Lì, dove sei adesso, c'è la luce, la luce vera!!! Che non è quella flebile e malata di quei giudici ''ignavi''. Adesso dove sei tu è tutto diverso. Lì si respira l'amore del ''Padre che perdona'' e non di chi ti ha picchiato e massacrato fino a farti morire. Sei finalmente libero di amare e scorrazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti. Perché dove sei tu non si può morire. La morte non è che un privilegio dei comuni mortali e quindi proibito a chi non ha la fortuna di nascere. Un privilegio dell'anima che, se non la uccidiamo del tutto, ci riconduce alla Vita Eterna", conclude Celentano.

Jovanotti. "A me Stefano Cucchi sembra di conoscerlo. Questa famiglia potrebbe essere la mia, e la famiglia di tantissima gente, per questo ci si sta male, per questo è da ieri che se ne parla, si cerca di capire, ci si commuove e ci si arrabbia, e ci si vorrebbe stringere a questa famiglia" scrive da New York, dove sta lavorando al suo nuovo album, Jovanotti. "Quando la Polizia prende il consegna un cittadino disarmato, lo arresta, in base al diritto democratico quella persona deve potersi sentire totalmente al sicuro anche nel caso più estremo, anche se fosse il peggiore dei fuorilegge. E' una cosa ovvia, la cosa più ovvia, la base stessa di una democrazia. Tocchi questa cosa e salta tutto per aria". "C'è qualcosa in questa storia - aggiunge Lorenzo - che mi fa pensare alle sliding doors, quella teoria per cui bastano due passi nella direzione giusta e sei al sicuro e una porta sbagliata al momento sbagliato e imbocchi una serie di porte maledette, fino all'ultima porta. Ci sono però alcune 'sliding doors' che non possono essere una lotteria. La vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai". "Se per qualsiasi ragione - prosegue il musicista - mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso e si mettono a parlare del tempo, quei paesi dove c'è un solo telegiornale, non so se avete presente. L'Italia non è uno di quei paesi, ormai rari, per fortuna, per questo i caso come quello di Stefano Cucchi spezzano il cuore e fanno paura, perché sono squarci che si aprono verso l'inferno vero, quello della violenza protetta da una divisa o da un camice. La famiglia Cucchi andrà avanti a cercare la verità, perché è giusto, ci vuole coraggio e il loro coraggio va sostenuto, e spero proprio che tutta l'Italia sarà al suo fianco, prima di tutto l'Italia delle istituzioni, senza farne una ragione per dividersi anche sul più fondamentale dei principi della democrazia", conclude Jovanotti.

Magistratura democratica. Secondo Md l'epilogo, momentaneo, del processo Cucchi "è una sconfitta per lo Stato" ma anche per le forze dell'ordine "che non hanno saputo collaborare lealmente all'accertamento della verità"), per il sistema penitenziario e per il Servizio Sanitario ("che non hanno saputo assicurare assistenza e cure adeguate a chi ne aveva bisogno"), per il sistema giudiziario ("e non perché gli imputati sono stati assolti, ma perché quel sistema non ha saputo infondere in un giovane arrestato la fiducia di cui avrebbe avuto bisogno per denunciare chi, con grave violazione dei propri doveri, aveva attentato alla sua integrità fisica", e impone di interrogarsi "sulla capacità di assicurare effettiva tutela ai diritti violati". "Cinque anni e due gradi di giudizio non hanno consentito di accertare responsabilità penali per la morte di Stefano Cucchi e tuttavia è stato provato in giudizio che egli fu vittima di violenza mentre si trovava in stato di arresto" argomenta il comitato esecutivo di Magistratura democratica.

La querela del Sappe. Il Sappe (il Sindacato autonomo polizia penitenziaria) ha depositato a Roma una querela nei confronti di Ilaria Cucchi. Lo ha reso noto Donato Capece, segretario generale del sindacato, sostenendo che "l'insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all'odio e al sospetto nei confronti dell'intera categoria di soggetti operanti nell'ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione. Questo non lo possiamo accettare. Abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi a difesa dell'onore e del decoro della polizia penitenziaria". "Dopo essersi improvvisata aspirante deputato - ricorda Capece - aspirazione che tale è rimasta grazie al voto degli italiani, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di pubblico ministero, magari consegnando quelli da giudice al suo difensore Fabio Anselmo, per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello. Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo. Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell'esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c'era nulla) e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l'autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento? ". Il segretario del sindacato definisce poi "Pretestuosa" anche l'idea di intitolare una strada di Roma a Stefano Cucchi: "E' una proposta demagogica e strumentale. A parte che non possono intitolarsi strade o vie a chi è morto da non meno di dieci anni, lo dice la legge, mi chiedo quali siano le benemerenze verso la nazione di Stefano Cucchi idonee a legittimare tale singolare richiesta. Ma quante sono, a Roma, le strade dedicate alla memoria degli appartenenti alle forze di polizia e di soccorso pubblico morti per mano della criminalità o, appunto, nel corso di interventi di soccorso?".

Il sindacato di polizia. Il Coisp attacca invece l'ipotesi approvata in Assemblea capitolina e confermata dal sindaco Marino di dedicare una strada al giovane: "Una faccenda incomprensibile" l'ha definita il segretario generale Franco Maccari.

Il giudice: "Lo Stato deve punire i responsabili della morte di Cucchi al di là delle sentenze". Parla il fondatore di magistratura democratica Livio Pepino. "L'amministrazione pubblica deve reagire". Per ridare fiducia nelle istituzioni ed evitare che le violenze si ripetano, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.

«Dunque non ci sono responsabili per la morte di Stefano Cucchi, che entra così nel sempre più lungo elenco dei morti di Stato senza giustizia. Lo strazio e la vergogna per un esito del genere restano, per me, insuperabili. Da cittadino e da giudice».

È il primo sentimento che vuole ribadire Livio Pepino, tra i fondatori di Magistratura democratica, di cui è stato presidente, parlando della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati - agenti, medici e infermieri - per la morte, a una settimana dall'arresto, del trentunenne Stefano Cucchi.

«Ma credo sia ipocrita e deresponsabilizzante fermarsi solo sul segmento finale», aggiunge subito: «Il fatto più inquietante è l’omertà, la serie infinita di coperture che ha caratterizzato questo processo e che caratterizza la totalità (o quasi) dei processi analoghi». 

«C’è stato chi ha infierito e chi ha omesso di soccorrere», precisa: «Ma c’è stato anche chi ha girato gli occhi dall’altra parte, chi ha finto di non vedere, chi ha taciuto pur avendo l’obbligo giuridico di denunciare i fatti. Questo è lo scandalo più grande e una delle ragioni dell’esito sconvolgente del processo. Credo – e lo dico con piena convinzione – che chi ha taciuto e tace per omertà o per corporativismo sia altrettanto colpevole di chi ha colpito o omesso di soccorrere».

«Da magistrato quindi vedo due problemi», spiega: «Quello penale, di un'indagine che non è riuscita nel suo scopo. E quello, altrettanto grave, che riguarda le istituzioni: la mancata risposta da parte del corpo dello Stato, la mancata azione nei confronti dei responsabili politici e amministrativi di questa morte». Perché «una risposta diversa, istituzionale, sarebbe stata ed è ancora possibile. Oltre che necessaria. Perché se non cambiamo questa cultura d'omertà casi come quello di Stefano purtroppo si ripeteranno».

Pepino, ex sostituto procuratore generale a Torino, poi consigliere di Cassazione e fino al 2010 membro del Csm, condivide con queste parole la sua «considerazione preoccupata» a due giorni dalla sentenza. Per la quale: «La famiglia continua a chiedere giustizia», spiega il giudice, che ha lasciato il servizio quattro anni fa: «Ma demandare la risposta, ancora una volta, solo all'ambito penale sarebbe un errore gravissimo. Il tribunale fa il suo lavoro, cerca colpe individuali dimostrabili con prove certe. Ma al di là del processo, l'amministrazione pubblica e la rappresentanza politica possono fare molto. Devono farlo. Non possono lavarsene le mani, dicendo: ci pensino i pm».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che lo Stato può punire i responsabili per le loro colpe politiche e gestionali, anche se quelle penali non si dovesse riuscire a dimostrarle».

È mai successo?

«Sì. Nell'agosto del 1985 un giovane calciatore fu picchiato a morte da alcuni poliziotti di Palermo, mentre era in arresto perché ritenuto colpevole dell'omicidio del commissario Beppe Montana. L'allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro fece subito dimettere il capo della Squadra mobile, il capitano dei carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. E non perché fossero ritenuti coinvolti penalmente nel pestaggio. Magari erano altrove, il processo non era nemmeno iniziato. Ma sotto la loro guida si era formata quella squadra, la sua prassi, il suo modo d'agire. Essendo i capi dovevano essere puniti. Per dare un segnale, un esempio, a tutto il corpo dello Stato».

Per Cucchi non si è avviato niente di simile...

«Infatti. Ed è quello che mi preoccupa di più. Il clima di omertà e copertura che hanno avuto gli apparati dello Stato coinvolti nella morte di Cucchi è un pessimo segnale per tutto il paese. Perché mostra come sia lontana quella cultura delle garanzie e del rispetto dell'altro, qualunque sia il reato di cui è sospettato, che dovrebbe permeare le istituzioni. Messaggi come quello del sindacato di Polizia Sap , in cui gli agenti si dicono soddisfatti perché "se uno si droga e muore non è colpa nostra" sono di una gravità assoluta. Oggi chi è sospettato è considerato un inferiore, a cui far subire quello che si vuole. Come possiamo chiedere fiducia dopo aver visto i responsabili della carneficina della Diaz di Genova 2001 fare carriera?»

Forse la procura di Roma riaprirà le indagini. Cosa ne pensa?

«Lo ribadisco. Cucchi non si è suicidato e non è morto per cause naturali. Di sicuro quindi l'indagine che ha portato alla sentenza di venerdì non è arrivata al risultato: individuare i colpevoli. In questi casi, quando le responsabilità vengono continuamente palleggiate da una parte all'altra, bisogna riuscire subito a mettere alcuni punti fermi, altrimenti sarà sempre più difficile fondare delle certezze. Quindi è un bene che la magistratura cerchi di fare al meglio il suo lavoro. Ma non può essere lasciata sola. Perché giustizia può, e dovrà essere data, in questo caso, anche se fosse impossibile individuare colpe penali».

Chi dovrebbe agire allora?

«Come dicevo: lo Stato. Punendo i responsabili gestionali, amministrativi, politici, della morte di Stefano Cucchi. Trovare i colpevoli è importante. Ma è fondamentale chiedersi anche come è stato materialmente possibile che Cucchi sia stato visto da una pluralità di persone, dal magistrato, l'avvocato, dagli agenti delle camere di sicurezza, dal personale sanitario, e nessuno abbia visto niente, tranne il compagno di cella».

"Si sono girati dall'altra parte", ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi.

«Anche a me da Pm è capitato di vedere in carcere qualcuno arrestato da poco con un occhio nero. Chiedevo "Come mai?" e spesso non ottenevo risposta, perché sia gli imputati che gli avvocati consigliano di stare zitti per evitare di essere accusati di calunnia, per il timore di denunciare un fatto che non puoi dimostrare, che ti si ritorca contro. Stefano è arrivato sano nelle mani dello Stato ed è uscito una settimana dopo cadavere. Ora, a prescindere dal processo, lo Stato è responsabile di questa morte».

Un medico imputato, intervistato dall'Espresso, aveva parlato di "Processo mediatico". Additando l'ingiustizia di una pressione pubblica che aveva indicato colpevoli prima delle prove.

«Rispondo con una citazione: "Il compito del giudice è assolvere in mancanza di prove anche se tutta l'opinione pubblica è per la condanna, e condannare in presenza di prove anche se tutta l'opinione pubblica è per l'assoluzione". E il giudice, questo suo ruolo, lo svolge».

Anche il giudice popolare di una Corte d'Assise?

«Anche lui. L'attenzione pubblica e mediatica in casi come questo, è fondamentale. Perché permette di equilibrare quel clima di coperture e omertà che aleggia intorno processi così delicati. Perché il giudizio su Piazza Fontana fu spedito a Catanzaro? Per distogliere l'attenzione, per allontanarsi dalla pressione della gente che voleva sapere. Così è, credo, in questo caso: la mobilitazione dell'opinione pubblica restituisce al giudice la sua terzietà. E dà sostegno alle vittime».

Da chi si aspetterebbe allora un intervento oggi, proprio in riferimento a quella necessità che siano tutte le istituzioni, e non solo i tribunali, a muoversi, se un ragazzo muore nelle mani dello Stato?

«Mi aspetterei l'intervento del capo dello Stato. Del primo ministro o del Presidente. Per l'omicidio Brown a Ferguson è intervenuto il presidente americano Barack Obama. Sono i vertici politici a doversi esporre contro questi episodi, che fanno male allo Stato di diritto e alla fiducia nelle istituzioni».

Il sindacato di polizia querela Ilaria Cucchi. E su Facebook: "È fortunata a vivere in Italia". Non sono bastati i primi comunicati. Ora il sindacato autonomo della Penitenziaria - Sappe - ha depositato una denuncia per istigazione all'odio contro la sorella di Stefano. "Basta con le illazioni contro di noi". Mentre sui Social Network si scatenano gli insulti. E le difese delle guardie, scrive ancora Francesca Sironi su “L’Espresso”. Ilaria Cucchi con la foto del fratello protesta dopo la sentenza d'appello Istigazione all'odio. Ne sarebbe responsabile, secondo il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto mentre era nelle mani dello Stato il 22 ottobre del 2009 .

«Dopo essersi improvvisata aspirante deputato, aspirazione che tale è rimasta grazie al voto degli italiani, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di Pubblico Ministero», attacca il segretario generale del sindacato Donato Capece, in un comunicato pubblicato in rete e ripreso dalla stampa nazionale: «magari consegnando quelli da giudice al suo difensore Fabio Anselmo, per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi ma che non è la risultanza delle sentenze di primo grado e di appello». Insomma: la richiesta di giustizia della famiglia, nata da una sentenza che ammette (mentre si aspettano le motivazioni) un black out di Stato sulla morte di un ragazzo di 31 anni visto in una settimana, fra camere di sicurezza e ospedale, da numerose persone, fra funzionari, agenti e medici, sarebbe totalmente illegittima, secondo il sindacato. «Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo», continua Capece: «Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell’esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c’era nulla) [Loro però non le stanno pubblicando ndr] e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l’autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento?». Per tutto questo il corpo poliziesco ha deciso di depositare una querela nei confronti di Ilaria Cucchi con l'accusa di istigazione all'odio nei confronti della categoria. Lei, a cui "è stato ucciso il fratello". «L’insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione», recita il comunicato: «Questo non lo possiamo accettare. Proprio per questo abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi: a difesa dell’onore e del decoro della Polizia Penitenziaria». «Non è Ilaria Cucchi a istigare l'odio ed il sospetto nei confronti dei poliziotti ma la sentenze scandalosa della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano», commenta sulla pagina Facebook del sindacato (9mila like) Salvatore Mara: «State scavando un solco preoccupante tra istituzioni e cittadini». Ma non tutto il dibattito è di questo tenore. «Per me Cucchi non è sicuramente innocente o un santo perché comunque sia ha seminato morte spacciando droga», è la convinzione di Ilaria Dimitrio Bonsignore: «La fortuna della sorella di Cucchi è di vivere in Italia ovvero il paese dei balocchi in un altro Stato tutto ciò non sarebbe mai esistito». «Un applauso al nostro condottiere dott. Donato Capece. Lei è l'unico a difesa della Polizia Penitenziaria», scrive entusiasta il casertano Paolo Galeone. «Io servo lo stato non la violenza, ma ti farei fare un giorno in carcere chiavi in mano con soggetti come il Cucchi...», scrive Vincent B. di Formia: «Che pretendono solo e ti denigrano continuamente... saresti il primo a tirare due ceffoni. Noi invece resistiamo, li calmiamo, io ci parlo con loro. Ma purtroppo quando, come per Giuliani, nel momento in cui ti lanciano un estintore ti devi difendere». «Due ceffoni sono una cosa, pestare come hanno fatto molti tuoi colleghi alla Diaz per puro divertimento è un'altra. O magari anche quelli si sono comportati da impeccabili servitori dello Stato?», replica Paolo. «Perdonami ma con Cucchi siamo oltre i 2 ceffoni», interviene sempre su Facebook Giovanni Spagnolo: «Io sono per il rispetto dell ordine, sto dalla parte di chi ci difende e capisco che ci sono soggetti che ti mandano fuori di testa ma siamo pur sempre in Italia non in una galera messicana e abbiamo strumenti moderni per sedare un facinoroso senza sfondarlo di botte». «Qui si parla di soggetti che anche senza motivo collezionano testate al muro per capire quanto misura il perimetro della cella, oppure si tagliano sapendo di essere infetti da patologie veneree e ti schizzato il sangue addosso, oppure prendono, scaldano lolio e te lo buttano in faccia», ribatte allora Vincent: «Magari ci fossero le pistole elettriche, almeno si paralizza il soggetto... alla nostra incolumità non pensa nessuno: siamo diventati camerieri, nessuno ci loda o ci lustra. Sai quanti suicidi ci sono nel nostro corpo? Siamo alla frutta. E la storia di Cucchi è una storia triste da entrambe le parti: gli agenti padri di famiglia avevano piacere gratuito ad uccidere di botte un ragazzo senza motivo? Non credo...». Dopo gli sfoghi arrivano anche gli insulti. Concentrati in queste ore contro Adriano Celentano, per uno suo post sul blog personale in cui scrive a Stefano Cucchi dicendogli «Ora puoi scorazzare fra le bellezze del Creato, senza più il timore che qualche guardia carceraria ti rincorra per ucciderti». «Ognuno è libero di dire quel che vuole, ma poi si corre il rischio di mettere in evidenza la propria ignoranza», ha risposto Capece: «Celentano è tanto ignorante da non sapere che in Italia non esistono guardie carcerarie ma, soprattutto, che i poliziotti penitenziari coinvolti nella vicenda giudiziaria sulla morte di Stefano Cucchi, sono stati assolti due volte dalle gravi accuse formulate nei loro confronti. Lo preferiamo come cantante, Celentano. Almeno evita di dire stupidaggini». «Querelate anche lui», suggeriscono gli amici sui social network.

Cosa non si fa per un po’ di celebrità. La «rabbia» per la sentenza scatena Saviano, Fedez, Celentano e Jovanotti. Tanta retorica gratuita ma con un occhio ai «follower» sui social network, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. E così, anche sul caso Cucchi sta lavorando a pieno regime l’italico Areopago. Nell’Antica Grecia era il collegio delle magistrature formato da componenti d’«elite», provenienti dall’aristocrazia, che aveva il compito di custodire il rispetto delle leggi. Il nostro, invece, è Areopago un po’ naif ma ugualmente vellutato, ove siede il vippame radicalchic di profeti dell’ovvio, conquistatori di audience abili nel trasformare le buone cause in menù formato fast food, largo consumo e dubbia qualità. Non potevano di certo, costoro, tenersi lontani dalla vicenda di Stefano Cucchi e da quella sentenza gettata in pasto al popolo di twitter e diventata, per la nuova legge della natura, carne da hastag (quello creato ieri, #sonostatoio ha spopolato su Twitter). L’Areopago ha un’ efficienza collaudata, considerando che già dalle ore successive alla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, gli altri giudici, quelli del palcoscenico, avevano emesso la propria. «Rabbia per una sentenza che non fa giustizia», aveva scritto Roberto Saviano, che proseguiva «Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita». Scontato: a che serve il ricorso presso la Suprema Corte quando l’autore di Gomorra ha già capito tutto? Un altro appartenente al gruppo di «quelli che è tutto chiaro» è l’attore Valerio Mastandrea, che twitta: «lo stato ammazza sempre due volte». E poi c’è il filone, molto agguerrito, dei cantanti. Il rapper Fedez, innalzato qualche settimana fa a eroe civile del nostro tempo per aver partecipato al raduno del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma, scrive sempre sul social dei 140 caratteri: «Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati perchè certe stronzate non ce le beviamo. L'ingiustizia è uguale per tutti». Certo, anche da lui la conferma che per l’Areopago il terzo grado di giudizio non esiste. E poi ancora, Paola Turci si affida ad un gioco di parole: «è stato ucciso, e nessuno è stato». Raf invece, fa più il democristiano: «Casi come Cucchi o Aldrovandi provocano solo a chi è provvisto di coscienza un profondo senso di rabbia e sconcerto». I pezzi da novanta del microfono, però, sono scesi in campo ieri. La sentenza facebokiana di Jovanotti ha statuito che «la vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai». E fin qui è pacifico. Ma il cantante che auspicava «una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» si lancia in una descrizione di un clima da Sudamerica. «Se per qualsiasi ragione mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso». Suggerimento: magari Jovanotti si rivolga a qualcuno che è stato fermato da una pattuglia con i valori dell’ alcool a posto e senza cocaina o hashish in tasca, e chieda se, di queste Forze dell’Ordine, c’è poi così tanto da avere paura. Tuttavia, non è a Jovanotti che spetta l’Oscar dell’artistica sentenza sommaria. Ma a colui che è ricordato, fra le tante belle canzoni, anche per i suoi silenzi televisivi che volevano dire tutto (pur se non si capiva niente), i suoi penetranti sguardi in camera, filtro per agguantare gli occhi dei telespettatori in attesa di abbeverarsi al Verbo. Sì, Adriano Celentano. Per dire la sua sui giudici (quelli veri, non quelli dell’Areopago della bella vita) in un post pubblicato sul suo blog aggancia addirittura Dante Alighieri, e li chiama «ignavi». Per la cronaca, l’ignavia era per il poeta fiorentino il peccato peggiore e ai dannati di competenza riservò una pena atroce, forse la peggiore, correre dietro una bandiera bianca con tormento di mosconi e vespe. E poi, il protagonista di Bingo Bongo si rivolge a Stefano Cucchi: «l’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore che aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui in terra». E non si risparmia una domanda, per così dire, filosofica, sempre rivolta al povero giovane: «Hai capito adesso in che mondo vivevi?». Sul punto, ha ragione lui. Questo mondo non è il massimo. Perché quando in una storia tragica alla ricerca della verità si preferisce la creazione di un’icona nazionalpopolare, dove tutto è detto e tutto è scritto per fare audience, vuol dire che esistono mondi migliori. E stia tranquillo Jovanotti. Questo non è, come fa intendere lui, uno di «quei paesi dove c’è un solo telegiornale». Ma di tg ce ne sono tanti, così come giornali, siti web, e iscritti ai social network. Ed enorme è la prateria di titoli, flash d’agenzia e follower da conquistare. Con un spirito da pionieri dalla faccia pulita, che però non hanno nessuna remora a trasformare in uno slogan qualunque la morte tragica di un povero ragazzo e la disperazione della sua famiglia.

Ci sono giudici poi, che a condannar i poveri cristi non ci pensano una volta....

Un Giudice di Fabrizio de André

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura,

ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,

o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani,

che siano i più forniti della virtù meno apparente fra tutte le virtù la più indecente.

Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti;

la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore,

per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale,

giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore"

e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,

prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.

Stefano Cucchi, che non sia morto invano.

Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.

Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.

«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.

Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.

Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.

Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.

A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.

Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!

Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.

Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.

Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.

Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.

Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».

COME SI DIVENTA MAGISTRATI: CHIEDETELO AD ANTONIO DI PIETRO.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". Corrado Carnevale presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione per questa frase è tornato in tribunale per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro.  Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. "L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma". Fin qui i fatti. Ma come racconta il Tempo, durante il dibattimento in tribunale, Antonio Carnevale ha confermato le sue dichiarazioni rilasciate al giornale online "Petrus" nel 2008: "Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". E ad esplicitare in fase processuale la posizione di Carnevale c'ha pensato il suo legale, l'avvocato Aloisio di cui il Tempo riporta le dichiarazioni in Aula: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Il difensore di Di Pietro invece ha sostenuto il contrario: "Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa". Adesso i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Francesco Caringella: "Troppi pm si sentono divi", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Oggi nelle librerie di tutta Italia esce un nuovo romanzo. «Dove è la notizia?» vi chiederete. Eccola: questo intrigante legal thriller intitolato Non sono un assassino (Newton Compton Editori) è scritto da un giudice che con gli occhi disincantati del tecnico del diritto analizza il processo penale e redige una sentenza definitiva: tale rito in Italia  è fallito. Non solo per colpa dei magistrati. L'autore si chiama Francesco Caringella, ha 49 anni, è barese ed è un membro del Consiglio di Stato. Ha vinto ogni genere di concorso (da commissario di polizia, da magistrato, da consigliere di Stato) e ha scritto manuali per insegnare ai ragazzi a emularlo. Intervistare Caringella consente di rileggere alcune pagine della nostra storia recente. A 26 anni è diventato giudice della settima sezione penale di Milano negli stessi giorni in cui esplodeva Mani pulite. Lui si insediava e il «mariuolo» Mario Chiesa veniva arrestato. Caringella a 29 anni fu il giudice estensore del mandato di cattura nei confronti di Bettino Craxi. Ed ecco la prima sorpresa.

«Dopo vent’anni mi chiedo se quella decisione sia stata giusta. E ho qualche rimorso. Non intendo dire che Craxi fosse innocente. La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna. Ma mi chiedo se non ci potesse essere più umanità nei confronti di un uomo sconfitto. Se il legislatore e il potere giudiziario non potessero trovare una soluzione per consentirgli di curarsi in Italia e di affrontare il processo da uomo libero. O quanto meno da uomo sano. Averlo costretto a rimare in Tunisia gli ha probabilmente accorciato la vita».

Beh, sembra l'epitaffio di Mani Pulite.

«No. L’inchiesta era sacrosanta, ma ci sono state alcune forzature. Forse i magistrati non potevano prevedere il consenso popolare che accompagnò il loro lavoro e alcuni sono stati ubriacati da quell’improvviso successo».

Ritiene che l'indagine avesse fini politici? Tre dei pm di Mani pulite sono poi diventati parlamentari o ministri, due con la sinistra e una con Forza Italia. 

«Non penso. Credo che la lettura giusta sia quella psicologica. Alcuni pm si sono trovati nei panni dei divi e hanno dovuto fare i conti con la loro vanità e le loro ambizioni personali». 

Lei ha conosciuto tutti i pm di Mani pulite. Da chi non avrebbe voluto essere inquisito?

«Da Antonio Di Pietro. Ho letto i suoi interrogatori e ho capito che con quel suo fare poliziesco avrebbe fatto confessare pure un innocente, persino un santo. Ma era anche simpatico. Mi ricordo che una volta si rivolse alla corte con un saluto militare, battendo i tacchi».

Nel suo libro mi ha colpito la citazione dal libro di Dante Troisi, Diario di un giudice. Leggo: "Sono la sentinella e l'aula di udienza è la torretta da cui prendo la mira per colpire chi mi capita a tiro. Proverò così il piacere nel falciare le vite delle persone senza trascurare di lasciare indenne qualcuno per goderne la meraviglia".

Ha incontrato colleghi del genere?

«Per fortuna pochissimi. Forse uno solo. Era pugliese ed entrava in aula con il cipiglio di chi dovesse stanare gli ultimi giapponesi nell’arcipelago delle Okinawa. Per lui l’imputato era un nemico da sconfiggere».

Il potere che ha in mano un giudice non rischia di dare alla testa?

«Sicuramente. E per capire se i miei colleghi siano stabili psicologicamente ci sono i mesi di uditorato. Ma rarissimamente viene chiesta la decadenza di un neo magistrato. Con conseguente pregiudizio per la credibilità del sistema».

Ci sono toghe in cura psichiatrica che continuano a esercitare la propria funzione.

«Sarebbero necessari controlli periodici non solo sulla professionalità, ma anche sull’equilibrio dei magistrati».

Non svelerò il finale, ma di certo il suo giallo non fa una buona pubblicità al processo penale.

«Purtroppo la riforma del 1989 in Italia è fallita. Si pensava che grazie ai riti alternativi pochi processi sarebbero arrivati a dibattimento, snellendo i tempi della giustizia. È successo il contrario. Quasi tutti gli imputati scelgono di andare in aula e così invece di avere processi brevi con testimoni caldi, che ricordano bene i fatti su cui vengono interrogati, abbiamo processi lunghi con testimoni freddi».

Lei scrive che il "giudice conosce fatti impalliditi dal tempo nei pochi giorni d’udienza a disposizione".

«In Italia, per un eccesso di garantismo, abbiamo un secondo grado che è la replica del primo. A cosa serve? Allunga i tempi e ribaltando le sentenze crea sconcerto nei cittadini. Siamo l’unico paese con tre gradi di giudizio e due diversi collegi che fanno lo stesso lavoro non avvicinano alla verità, ma allontanano. Dopo la condanna in appello per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, mi ha telefonato persino mia madre per chiedermene conto».

Che cosa pensa dei processi mediatici?

«Il peggio possibile. Non immagina quanto possano condizionare un magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in tv da colleghi togati, giornalisti, esperti vari. L’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima».

Torniamo alla questione del giudizio d'appello. Quando una decisione viene ribaltata si ha la sensazione che la verità giudiziaria non esista…

«Purtroppo è così. Nel libro scrivo che tale verità è solo una bugia raccontata meglio. Forse sarebbe meglio dire che è la verità più verosimile. Duque da Rivas diceva che “in questo mondo traditore non c'è verità né menzogna. Tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda”».

Dunque ammette l'esistenza di una magistratura politicizzata.

«Il colore del vetro per me dipende anche da bugie, pregiudizi ed errori, non solo dalle ideologie. Mi domando sono giuste le sentenze, per parlare solo delle ultime, che hanno assassinato politicamente Silvio Berlusconi e Luigi De Magistris? Rispondo che non esiste la sentenza giusta o sbagliata in senso assoluto. Ogni giudizio è opinabile. Resta solo la speranza che sia corretto».

Nel romanzo sostiene che un processo è una specie di partita di poker in cui tutti gli attori mentono e il giudice deve saper cogliere la verità in mezzo a tanti bluff.

«È vero. Non fanno eccezione l’imputato innocente e il testimone sincero che mentono, per dirla con il libro, “perché desiderano essere creduti e pensano che la menzogna sia più seducente della verità”. La verità per essere verosimile deve essere mescolata a un po’ di menzogna».

Un giudice, in mezzo a tutti questi inganni, come si districa?

«Quando ha un dubbio non aspetta altro che essere sedotto da una bella bugia, da quella di un pm avvenente o di un avvocato particolarmente eloquente. Anche per noi è difficile resistere a un'oratoria convincente o a una bellezza sconvolgente».

Sta dicendo che in un processo conta anche l'aspetto esteriore?

«Certo. Pure i giudici sono uomini e per di più fallibili. Io nel romanzo descrivo una pm seducente e il suo profumo di sandalo».

Il personaggio è ispirato a un magistrato esistente?

«Mi ricordava una collega di Milano, ma non posso dirle altro (sorride, ndr) se non che chiedeva sempre la condanna degli imputati…»

Il lettore sarà sconcertato da questa alea nel giudizio…

«Ma io sto parlando di quei pochi processi da fascia grigia, in cui le prove non sono schiaccianti».

In questi casi come ha giudicato?

«Nel 50% ho assolto e nell’altro 50 ho condannato».

Lei scrive anche che per un innocente è meglio essere giudicati da una donna e per un colpevole da un uomo. Perché?

«Le signore in toga quando esprimo questa mia teoria si offendono. In realtà è un complimento. Le colleghe mediamente sono più preparate e puntigliose e per questo è più difficile che sbaglino. Ma quando ritengono di aver le prove della colpevolezza non fanno sconti».

La sua tesi che le donne difficilmente puniscono un innocente sembrerebbe contraddetta dal processo Ruby…

«Ha ragione: in questo caso Berlusconi è stato condannato da tre donne e poi assolto in secondo grado. Ma questa potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola».

Ha mai dovuto giudicare Berlusconi?

«Una volta, anche se ho lasciato la corte prima della fine del processo. Mi ricordo che venne in aula e la sua presenza fu molto teatrale. Passò l’intera udienza a sfogliare il codice penale».

Lei è il terzo magistrato pugliese che si cimenta nel noir, dopo Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo. Tra voi chi è il più bravo come scrittore?

«Se devo scegliere uno solo, voto per me».

E come magistrato?

«Uguale, ma di questo sono più sicuro».

Il potere terribile di giudicare. Camilleri riduce a vetusto antiquariato il tema della responsabilità dei magistrati, scrive Guido Vitiello su “Il Corriere della Sera”. Ci sono morti che è come fossero vivi, tanto imperiosa si avverte la loro presenza; e ci sono vivi che deambulano nel nostro tempo con le orbite spente, come fossero morti. Lo stesso è dei libri, tutto sta a esercitare il giusto discernimento degli spiriti. Due note recenti di Andrea Camilleri non rivelano un buon discernitore. La prima è la prefazione ad Assalto alla giustizia (Melampo), un pamphlet di Gian Carlo Caselli sulla politica e la delegittimazione della magistratura, da cui emerge il ritratto stentoreo di un giudice combattente, lancia in resta, che sa sempre dov’è il bene e dov’è il male. Uscito in libreria a Berlusconi caduto, ha la stessa irrimediabile vecchiaia del giornale di ieri, e gli elogi di Camilleri all’ «importante volume» non bastano ad allontanare l’impressione che il tempo abbia già dato il suo verdetto. La seconda nota è la postfazione al Diario di un giudice di Dante Troisi, un libro uscito nel 1955 che Sellerio riporta ora in libreria. Una postfazione diligente, antiquaria, filologica se non necrologica, tutta al passato remoto. Eppure il libro di Troisi non è vecchio, è semmai — direbbe Friedrich Nietzsche — «inattuale»: non è a misura del proprio tempo, e forse per questo ne rivela i segreti. Soprattutto, circonda di un cono di luce abbagliante un tema che è di questi giorni come di tutti i giorni, passati e futuri: la responsabilità di chi accede al potere più terribile, il potere di giudicare i propri simili.

Dante Troisi fu scrittore e magistrato, a Cassino e poi a Roma. Il suo diario uscì a puntate sul «Mondo» di Mario Pannunzio, prima che Elio Vittorini lo pubblicasse nella collana «I Gettoni». Appena un anno più tardi, nel 1956, un deputatomissino accusò Troisi di aver leso con il suo libro il prestigio della magistratura, e Aldo Moro, allora guardasigilli, chiese al procuratore generale di Roma di avviare un procedimento disciplinare. A nulla valsero le parole a suo sostegno di Piero Calamandrei e di Arturo Carlo Jemolo, a nulla valse l’appassionata difesa in tribunale di Alessandro Galante Garrone: a Troisi fu inflitta una grave misura disciplinare, la censura. Che cosa aveva scritto, di così ingiurioso? Quali arcani aveva rivelato?

Più che altri memoriali giudiziari, il libro di Troisi ricorda il Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos. «Sono stato come il cattolico che segna i digiuni, le elemosine e quante ore ha portato il cilicio. Ho la vocazione a fare il giudice», recita l’ultima annotazione. Troisi vestì la toga come una tonaca, con il timore e il tremore del giovane parroco che si sente sopraffatto dalle miserie del mondo, ma anche con il vivo scandalo dell’uomo di fede che vede attorno a sé dei chierici svogliati, la cui coscienza ispessita è resa immune a ogni rimorso. «Un prete si sceglie un altro prete per confessarsi i peccati, gli errori, sciogliere i dubbi e dopo può ricominciare a peccare»; al giudice questo lavacro è precluso, «tocca aspettare il momento in cui i rimorsi diventano l’orgoglio del mestiere». È da questa solitudine del giudicare, dal suo terribile peso, che nasce lo spirito di corpo, il «fare testuggine contro il mondo di fuori». Come il giovane Lutero, sconvolto all’idea che i preti potessero amministrare i sacramenti senza tremare, così Troisi resisté con tutte le forze all’assuefazione al potere di giudicare. Dopo otto anni nelle aule di tribunale, aveva il terrore di calcolare quanti anni di carcere aveva inflitto, e sognava «una sera che io possa uscire senza incontrare qualcuno che in silenzio mi rimprovera d’averlo giudicato».

Da dove gli piombò addosso questa perenne inquietudine? Forse dalle esperienze fatte nel campo di prigionia di Hereford, nel Texas, dove Troisi, volontario nelle campagne di Libia e di Tunisia, fu detenuto dal 1943 al 1946. «Io ho sempre avuta una divisa e in divisa fatto e patito violenze: la divisa di soldato, di prigioniero, di giudice». Quando si trovò dinanzi un imputato che era stato, come lui, in prigionia, non ne resse lo sguardo e preferì fissare le mattonelle del pavimento: «Ora sono io la sentinella e l’aula d’udienza è la torretta da cui prendo la mira».

La prigionia è una condizione estrema, certo, ma diceva Leonardo Sciascia che ogni giovane magistrato, vinto il concorso, dovrebbe farsi tre giorni in prigione tra i detenuti comuni, per conoscere personalmente la natura e lamisura del proprio potere. Enzo Tortora proponeva «sei mesi di tirocinio nelle carceri come i giovani medici lo fanno negli ospedali». Forse basterebbe che ogni giovane magistrato fosse costretto a leggere e rileggere, fino a stamparselo nella mente, il Diario di Dante Troisi.

CORSI E RICORSI STORICI: QUANDO LE COSE IN ITALIA NON CAMBIANO MAI.

C'è differenza tra fare il giudice ed essere giudice. In Italia si diventa magistrato per concorso pubblico, così come può essere un concorso all'italiana. Spesso si è predestinati per discendenza nell'assolvere quel compito, per interesse familistico od ideologico. Quindi non si può essere certi che chi siede sullo scanno sia all'altezza del suo compito. La magistratura è un mestiere? Una missione? Una predisposizione? La risposta la dà Dante Troisi con “Diario di un giudice”. Ancora “insuperato” nel suo genere, per riprendere una definizione di Italo Calvino, il Diario di un giudice di Dante Troisi è un libro problematico, di potente carica morale, permeato fino al midollo da un severo sguardo sul mondo dei vinti, degli sconfitti di una società meridionale primitiva e solitaria. Scrittore acutissimo e raffinato, Troisi racconta la sua vita di giudice in una Cassino ancora distrutta e avvolta dalle macerie della guerra, ma abitata da giudici e avvocati che regolano, giudicano, accusano, condannano e assolvono i molteplici componenti di un tempo terribilmente arcaico. Quando venne pubblicato nel 1955 questo diario fece scandalo. Fu ritenuto lesivo per l’ordine giudiziario e l’autore, giudice a Cassino, fu sottoposto a procedimento dalla Corte disciplinare di Roma che si concluse con una censura. Una parola odiosa allora come oggi. Il libro, con evidenza autobiografico, rivelava con crudezza come si amministrava la giustizia: in forma di diario, con linguaggio essenziale, raccontava la vita di ogni giorno in un tribunale alternando verbali di carabinieri e interrogatori, con il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della giustizia e quello del popolo in nome del quale essa viene esercitata. Non vi sono parole più efficaci per raccontare il “Diario di un giudice” di quelle della recensione che Alessandro Galante Garrone ne fece sulla «Stampa» nell’agosto del 1955: «Un giudice vero, di quelli che siedono in tribunale, distanti impassibili immoti nella loro nera toga; un giudice che non solo racconta quel che giorno per giorno gli passa dinanzi, ma dalla sala di udienza ti introduce di soppiatto nella camera di consiglio e ti rivela le pieghe più minute di quel mondo arcano, inaccessibile ai profani; scruta e osserva i colleghi e gli avvocati, senza indulgenza, anzi con ironia amara e crudele; e sente l’angoscia e il disgusto di sé, di quel fare giustizia ridotto a mestiere, e il lento franare delle speranze in una “giustizia nuova”. Ma nel libro c’è, prima di tutto, una mirabile vivacità di scrittore». Il tema della giustizia, del potere, delle garanzie non ha mai perso la sua centralità nell’Italia repubblicana. Oggi come negli anni Cinquanta. Una questione cruciale della nostra società nel racconto di uno scrittore impietoso e di talento.

Tra testimonianza e finzione in forma di diario e con linguaggio essenziale, la vita di ogni giorno in un tribunale; con verbali di carabinieri e interrogatori e il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della giustizia e quello del popolo in nome del quale essa viene esercitata. Una riflessione, dolente, impietosa, sul fare giustizia. Diario di un giudice uscì nel 1955 nei «Gettoni», celebre collana diretta da Elio Vittorini per Einaudi e, come sovente succedeva con le opere di denuncia nel nostro paese, l’autore finì nei guai. Per averlo scritto, «diffamando la magistratura», il giudice Dante Troisi fu sottoposto a provvedimento disciplinare e sanzionato con una «censura». Elio Vittorini interpretò il testo sottolineando il suo essere specchio di una «società primitiva, impetuosa e insieme come stupefatta di non riuscire ad avere altro di civile che avvocati e giudici». Tra testimonianza e finzione, il libro si presenta al lettore come un diario nel vero senso della parola, in cui un uomo che di mestiere giudica gli altri, destinato per ufficio a una cittadina meridionale, riversa giorno per giorno, a ciglio asciutto, dal lunedì alla domenica, tutto ciò che gli capita, nel lavoro, in famiglia, tra colleghi, in città. E ciò che succede nella sua coscienza.   Così, accanto alla rappresentazione di una società inesorabilmente arretrata e di magistrati che si sentono non uomini di giustizia ma d’ordine quasi fossero l’occhio vigilante di una gerarchia il cui corpo morale è costituito dal prete, dal medico, dal militare, dal signore, la lettura fa oggi l’effetto di una riflessione, dolente, impietosa, sul fare giustizia. Una riflessione resistente al tempo. 

Mentre scava nella coscienza dell’imputato, il giudice lacera la sua. Registra, con uno stupore non logorato dalla routine, il consegnarsi del dolore del vivere, che si libera senza ritegno e senza mediazioni nella camera rituale. Scruta facce e storie misteriosamente predestinate alla colpa, che non hanno dalla loro nemmeno la fortuna di suscitare pietà. S’interroga su come l’arbitrio sugli esseri umani possa diventare un campo di interessi e di favori. Riconosce quell’aria conventuale, quel tanfo di sagrestia che terribilmente sembra separare i magistrati dalla vita. Infine, confessa come un segreto di cui è urgente liberarsi, l’attrazione angosciosa che esercita il potere di giudicare. «Ho la vocazione a fare il giudice. Mi sono agitato per negarlo, ma in questa professione ho il migliore rifugio, la difesa più sicura».  Diario di un giudice è un racconto di concreta verità e insieme una meditazione di grande fervore esistenziale.  Questo mescolarsi di cronaca sociale e confessione ne fa un classico: forse il più importante romanzo su un giudice mai pubblicato in Italia.

Troisi, se il giudice non è al di sopra di ogni sospetto. Questa l'analisi del giurista Carlo Federico Grosso su "La Stampa". Nel racconto di Dante Troisi, uscito la prima volta negli Anni Cinquanta, "l'angoscia per quel fare giustizia ridotto a mestiere". Ritorna la denuncia impietosa sulla magistratura che negli Anni Cinquanta costò all’autore una condanna disciplinare. Nel suo Diario Troisi racconta, giorno, dopo giorno ciò che gli capita in ufficio, nel rapporto con i colleghi, in famiglia. E spiega ciò che succede nella sua anima: sentendo «crescere l’angoscia per quel fare giustizia ridotto a mestiere» e per «quel lento franare delle speranze in una giustizia nuova» (Galante Garrone, su La Stampa, in una bella recensione del 1955 alla prima edizione).

Nel libro di Troisi, ora ripubblicato cinquant'anni dopo da Sellerio, si alternano resoconti di processi, rapporti di carabinieri, storie (piccole o terribili) di povera gente di provincia, riflessioni personali. Soprattutto si affiancano mondi fra loro lontanissimi: lembi di una società arretrata e dolente, predestinata a delinquere e inesorabilmente condannata, una magistratura (fatta di uomini d’ordine più che di giustizia) che, pur esercitando la funzione giudiziaria «in nome del popolo sovrano», quel popolo considerava un suddito fastidioso, nei cui confronti occorreva, principalmente, utilizzare la durezza delle leggi. Emergono, per altro verso, i rituali della carriera, il gusto del potere, l’arbitrio sulle persone, l’interferenza degli interessi, o, comunque, le modalità burocratiche con le quali si esercita, molte volte, il mestiere giudiziario. C’è, poi, la descrizione delle antipatie, delle gelosie, delle compiacenze (nei confronti dei superiori e della gerarchia ministeriale), dell’isolamento (quell’aria «conventuale» che allontana i magistrati dalla vita). Perché, si domanda a un certo punto l’autore, quando affrontiamo il tema dell’efficienza ci chiediamo se è stato celebrato un numero sufficiente di processi e mai se si è giudicato in modo giusto? Perché molti magistrati non vivono con la preoccupazione di operare bene, ma, piuttosto, di riuscire graditi ai superiori? E poi, in un crescendo, c’è la denuncia delle sciatterie, dei pregiudizi, delle arroganze, delle intransigenze. C’è ad esempio, annota lo scrittore, il pubblico ministero che, comunque vada il dibattimento, ha già segnato la misura della pena; il presidente che controlla l’orologio e conta i processi da sbrigare; il giudice che pensa palesemente ad altro. C’è il giudice che, giovanissimo, procede convinto di esercitare una missione (al quale mai, pertanto, verrebbe in mente di «far prevalere la pietà sulla durezza della legge»), e c’è il giudice che, segnato dalle esperienze o dalla frustrazione, condannerà o assolverà con fastidio routinario (ma in fondo, soggiunge l’autore, non so chi dei due sia peggiore).

Siamo «tabù», soggiunge Troisi, ci sentiamo divinità, non accettiamo critiche. Molte volte siamo, con gli imputati, come i medici con i malati poveri (con riferimento ai quali, essendo pagati in misura forfettaria, sentono, ad ogni nuovo arrivo, soltanto fastidio). Per altro verso i nostri figli, standoci vicini, crederanno che il mondo sia diviso in buoni e in cattivi, e noi «dalla parte dei buoni» (oggi basta infatti infierire contro qualcuno per farsi catalogare fra i giusti; quindi «nessuno è più giusto di noi»). Vorrei, invece, egli scrive, che gli imputati capissero che siamo «zeppi di difetti, di dolori, di noia, di ambizioni, di desideri meschini». Forse, soggiunge, «essi lo intuiscono», siamo noi che «troppo sovente ce ne dimentichiamo, e non ci giova». Diario di un giudice è dunque, come ha scritto un acuto commentatore, «racconto di concreta verità e insieme una meditazione di grande fervore esistenziale». Questo «mescolarsi di cronaca sociale e di confessione personale» ne fa, forse, «la storia più importante mai pubblicata in Italia su giudici e giustizia». Si tratta, d’altronde, di una riflessione resistente al tempo, tuttora di grandissima, sconvolgente, attualità.

La magistratura, oggi, è molto diversa da allora (ma l’intera nostra società ha mutato pelle, è diventata più ricca, complessa, articolata). Costume e mentalità sono cambiati, non c’è più quel «sistema d’ordine» in forza del quale il magistrato si sentiva «occhio burocratico vigilante» di una gerarchia della quale erano parte il prete, il militare, il poliziotto, il signore (bellissima la descrizione di questa situazione a p. 222 della nuova edizione del Diario). E’ scomparsa quella «società primitiva», descritta in modo così ricco e penetrante, sulla quale si esercitava allora, senza controlli, la coercizione giudiziaria. La Costituzione, e i suoi diritti, si sono pian piano incarnati nel Paese, ed anche i magistrati hanno dovuto tenerne conto (molti di essi, anzi, negli anni settanta sono stati protagonisti del cambiamento).

Eppure, quella denuncia impietosa mantiene l’originaria forza propulsiva. Oggi, come allora, Troisi insegna che qualità primarie del giudice dovrebbero essere attenzione, sensibilità, umanità, coscienza critica. Guai a chi esercita il mestiere con arroganza, a chi si lascia abbagliare dalla funzione esercitata, a chi si pavoneggia con la «nobile» professione conquistata, e poi, magari, la interpreta in modo routinario, sciatto, superficiale (pensando, soprattutto, alla carriera, alle ferie, al rapporto con il capo). Oggi, sicuramente, nell’ordine giudiziario vi sono molti più «Troisi» di un tempo. Sacche d’ignavia, compromesso, piaggeria, favori chiesti e ricambiati, o, per altro verso, di arroganza e prepotenza, sono comunque perduranti. Sono ancora sul tappeto, in particolare, i temi centrali di una giustizia più «giusta», di un ordine giudiziario che non sia in larga misura espressione di potere, di una magistratura attenta alle garanzie dei cittadini.

Ecco perché il Diario di un giudice, nonostante i grandi cambiamenti, mantiene, intatta, la sua efficacia dirompente. Vale la pena ricordare, a questo punto, che nel 1956 Troisi fu condannato (disciplinarmente) per avere infangato, con il Diario, l’ordine giudiziario; e che nel 1974, a seguito dello scioglimento (nel 1973) della «sezione penale» della quale era diventato presidente («ha dato fastidio – ha commentato Troisi in una conferenza stampa - che questo collegio non si limitasse a sfogliare il codice per comminare condanne e cercasse, invece, di capire perché era stato commesso un reato»), diede le dimissioni lasciando anzitempo la magistratura.

Il diario scomodo di Dante, "monaco di giustizia", scrive “BMagazine”. Recentemente riportato nelle librerie da Sellerio, nel 1955 Diario di un giudice scosse il mondo letterario e giudiziario. Il magistrato "pentito" Gennaro Francione ricorda per bMagazine il giudice irpino Dante Troisi. Sono Gennaro Francione, romanziere e drammaturgo, ex magistrato “pentito”, preferendo l’arte alla giustizia che non è di questo mondo. Quella dei giudici scrittori è una realtà sotterranea, per lo più conosciuta dagli specialisti del settore ma non al grande pubblico né alla critica ufficiale. Agl’inizi degli anni '90 su incarico di un editore cominciai a raccogliere materiali dei giudici scrittori, arrivando oggi a contarne circa 150 di cui sono diventato il referente letterario principale. Il primo giudice scrittore è stato Gemme Di Va che, all’inizio del secolo scorso, scrisse Memorie del procuratore del Re. Era procuratore a Torino e pubblicò un libro assai scottante con uno pseudonimo. Il capostipite in assoluto è stato Ugo Betti, uno dei grandi drammaturghi italiani, insieme con Luigi Pirandello e Edoardo De Filippo, autore alla fine degli anni '40 di Corruzione a Palazzo di Giustizia. Come romanziere il pioniere fu Dante Troisi - nato nel 1920 a Tufo, in provincia di Avellino - con il suo capolavoro Diario di un giudice (Einaudi, 1955), romanzo che gli provocò una carriera giudiziaria tormentata soggetta a critiche e censure, pur essendo Dante uomo di grande morale. Io lo definisco “il monaco di giustizia”. Nel romanzo afferma: “La magistratura è ancora tabù; i giudici debbono essere considerati gli intangibili ministri della divinità”. Rivelare il sacro significa sciorinare l'imbroglio: là dietro la toga non c'è un bel nulla di portentoso ma solo un uomo, pieno di difetti, di contraddizioni, ahimè talora di corruzioni. In questa luce si rivela lo scandalo che provocò Troisi col suo romanzo, quando rivelare il segreto della camera di consiglio significava mostrare l'enigma del sacrario, là dove i fedeli non hanno accesso, e là dove si potrebbe, una volta entrati, rilevare che il pane è solo pane e il vino è solo vino. Illuminazione sconsacrante che tutto è solo un maledetto imbroglio di parole, sia pure a fin di bene. Contro l'idea dell'onnipotenza del giudicante Troisi rilevava il rovescio di quel dogma: “Tra tutti gli uomini, noi siamo i meno liberi e perciò odiamo la libertà degli altri”. Tutti quelli che sono espressione di Dio, sono schiavi di Dio. Diario di un giudice. “E' il diario di un uomo oppresso dalla solitudine cui lo costringe l'esercizio stesso della sua professione, angosciato dalla quotidiana contemplazione delle sventure degli uomini, in lotta con il peso dell'abitudine che lo logora fino a fargli credere che il decidere della vita altrui è diventato per lui un atto di ordinaria amministrazione. Ed è al tempo stesso la storia di quelle persone che il protagonista si trova a dover giudicare un giorno dopo l'altro, di tutta una società (quella meridionale) primitiva, impetuosa e insieme stupefatta di non riuscire ad aver altro di civili che giudici e avvocati.” Troisi rappresenta tra gli scrittori di Temi un mutamento di destinazione dello scrivere. “E' la voce d'un giudice della nuova generazione, più inquieta, più scettica; sembra il diario d'un buon combattente scritto da una trincea disperata e forse inutile" (così Ghirotti in La magistratura, Vallecchi, 1959). Troisi è la vittima numero uno del malefico influsso dell'ovidiano "tristis eris si solus eris". Vittima, ma al contempo artefice di un riscatto, che passa attraverso il giudiziario, lo strumentalizza fino al limite della censura, per farsi letterario. In tempi in cui un magistrato veniva sanzionato perché aveva avuto una relazione sentimentale con una donna di colore, il romanzo provocò a Troisi guai coi suoi superiori gerarchici, poiché gettava discredito sulla categoria. L'altra incolpazione era aver attentato al prestigio della magistratura pensando, interna corporis, se desiderare o no la nascita di una nuova vita proveniente dalla consorte. In pratica il giudice sarebbe stato reo di aver meditato l'aborto. Invano fu inviata una lettera di solidarietà all'ufficio procedente, fatta firmare anche dai colleghi dal giudice poeta Mario Buonora, pure lui operante a Cassino e intimo amico di Troisi. In quella missiva tutti erano pronti a giurare che Troisi era il miglior giudice del mondo. La richiesta di essere chiamati a testimoniare sul punto, non ricevette ascolto. Ma veniamo ai punti attaccati del libro. Troisi era un magistrato scomodo; per se stesso prima di tutto e poi per gli altri, i suoi capi in testa. Egli provava orrore per il suo mestiere, scambiandolo addirittura per una forma di arroganza sadica. Si sentiva come sopra un albero, dove si era messo a sparare quelli che stavano sotto. "Perché mi lamento di oggi? Questa di oggi è una giungla più comoda; son riuscito a salire su un albero per colpire la gente che passa sotto. Presto proverò gusto a centrarli, senza trascurare il piacere di lasciare indenne qualcuno, per goderne la meraviglia". Ancora più virulenta e sanguinaria era la metafora che paragonava il mestiere di giudice a quella del boia-macellaio. Per un uomo colmo di pietas quelle sensazioni di onnipotenza perversa generavano ribrezzo monacale, tanto che in udienza sembrava quasi venirgli un vomito montante che riempiva tutta la sala e la soffocava. "E condannare è come uccidere. Forse è questa la ragione del mio durare nel mestiere e a spingermi contro il nuovo frutto che pare nato dentro la mia donna". Questo era il suo senso della giustizia, talmente alto per i conoscitori del profondo e gli amanti della metafora letteraria, che il giudice diventava carnefice di se stesso. A questo punto veniva ghermito da un desiderio di aborto della moglie, il che lo puniva come un taglione per l'idea immonda di aver osato giudicare gli altri. Così il suo senso di colpa biblico veniva reintegrato. Non c'era altra via. "Un prete si sceglie un altro prete per confessarsi... Ma uno di noi non ha nessuno, non possediamo il potere di assolverci vicendevolmente... Tocca aspettare il momento in cui i rimorsi diventano l'orgoglio del mestiere". Questi gli orrori censurati al povero Dante malgrado si potesse dire: “Chi più puro di lui?”. Guardasigilli Aldo Moro, fu irrogata la censura all'autore, pena da considerarsi mitigata secondo le testimonianze raccolte. L'allora direttore dell'ufficio magistrati avrebbe detto che le cose scritte erano tali da poter far cacciare via Troisi dalla magistratura. A mitigare la bordata della sanzione forse contribuì anche il fatto che il fratello di Troisi era deputato democristiano, dello stesso collegio di Moro, ovvero proprio di colui sotto la cui egida gli fu inflitta la punizione. Guardando il provvedimento sanzionatorio in rapporto all'espressione letteraria, può sembrare strano che Ugo Betti con Corruzione al palazzo di giustizia sia passato indenne dieci anni prima sotto la scure di una disciplinare che giammai si mosse e che Troisi sia stato colpito, ma non lo è se si assuma la forma usata dai due scrittori. Betti utilizza dei gusci generici e anonimi in cui inserire i suoi personaggi, avulsi da qualunque realtà accaduta, come dimostrano gli stessi nomi lunari dati ai personaggi: Vanan, Croz, Erzi. Troisi, invece, faceva della sua vicenda personale concreta un diario che propalava al pubblico i dubbi, le ansie, le nausee di un magistrato in carne ed ossa nella decisione, scalfendo quel senso di fides dell'opinione pubblica sulla certezza e forza del diritto. Nel fondo però l'attacco di Betti era più forte, diretto a un comportamento doloso (la corruzione dei giudici), mentre Troisi descriveva al più una colpa del magistrato incapace di rafforzare le sue sicurezze materiali. Certo che oggi più che mai una decisione come quella presa sul caso Troisi sembra cosa da Jurassik Park. La sua opera aveva il manto letterario dell'universalità e dal punto di vista morale era la prima volta che un magistrato osava rivelare i disgusti della sua professione. Nausee che ogni giudice avverte ma che, per spirito di solennità, la forma sociale impone di non rivelare. Dopo che gli fu assegnato il Viareggio Troisi ebbe a dire al collega Santiapichi (anch’egli scrittore): “A volte ho l'impressione che, vestiti da rondoni, ci libriamo in aria, voleggiamo; mai che ci posiamo per terra; forse, non siamo attrezzati per farlo” (articolo Dibattito non guerra di Severino Santiapichi, su "La Sicilia", 31 dicembre 2001). Abbiamo parlato di Diario di un giudice ma anche altre opere rivelano l'animo di Troisi, un poeta cui la carriera di giudice acuì il senso di una solitudine tale da provocare una silenziosa apocalisse privata. A Dante i noi siamo grati per aver dato il senso di un’estetica purificatrice tale da liberare le istituzioni, prima di tutto il Terzo Potere, da una morale tanto paludata quanto falsa. Il senso finale che è che l’Arte in quanto rivelatrice del mondo e dell’animo umano, anche quello tormentato dei giudici, è l’ultima Vera Giustizia.

Gennaro Francione, magistrato, è nato a Torre del Greco e vive a Roma. Scrittore, drammaturgo, e regista di teatro, è fondatore e presidente di EUGIUS, Unione Europea dei Giudici Scrittori nata sul presupposto che "si può contribuire all'unione delle persone, alla crescita dell'umanità e della solidarietà in nome di una giustizia intesa non come mera punizione ma come ricerca dei sistemi creativi per rendere l'uomo retto, mediante l'arte, la cultura, lo spettacolo, l'informazione, la cooperazione culturale e sociale".

Quando venne pubblicato nel 1955 questo diario fece scandalo. Fu ritenuto lesivo per l’ordine giudiziario e l’autore, giudice a Cassino, fu sottoposto a procedimento dalla Corte disciplinare di Roma che si concluse con una censura. Una parola odiosa allora come oggi. Il libro, con evidenza autobiografico, rivelava con crudezza come si amministrava la giustizia: in forma di diario, con linguaggio essenziale, raccontava la vita di ogni giorno in un tribunale alternando verbali di carabinieri e interrogatori, con il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della giustizia e quello del popolo in nome del quale essa viene esercitata. Non vi sono parole più efficaci per raccontare il “Diario di un giudice” di quelle della recensione che Alessandro Galante Garrone ne fece sulla «Stampa» nell’agosto del 1955: «Un giudice vero, di quelli che siedono in tribunale, distanti impassibili immoti nella loro nera toga; un giudice che non solo racconta quel che giorno per giorno gli passa dinanzi, ma dalla sala di udienza ti introduce di soppiatto nella camera di consiglio e ti rivela le pieghe più minute di quel mondo arcano, inaccessibile ai profani; scruta e osserva i colleghi e gli avvocati, senza indulgenza, anzi con ironia amara e crudele; e sente l’angoscia e il disgusto di sé, di quel fare giustizia ridotto a mestiere, e il lento franare delle speranze in una “giustizia nuova”. Ma nel libro c’è, prima di tutto, una mirabile vivacità di scrittore». Il tema della giustizia, del potere, delle garanzie non ha mai perso la sua centralità nell’Italia repubblicana. Oggi come negli anni Cinquanta. Una questione cruciale della nostra società nel racconto di uno scrittore impietoso e di talento.

Denuncia sociale e attualità nel libro di Dante Troisi "Diario di un giudice". Alessandro Centonze recensisce il diario-opera del magistrato da cui emerge tutta l’umanità e la drammaticità della sua professione. Proseguendo nella sua meritoria attività di recupero di alcuni gioielli letterari dimenticati, la Sellerio ha recentemente ripubblicato nella collana “La memoria” il volume “Diario di un giudice” di Dante Troisi (Tufo, 21 aprile 1920 - Roma, 2 gennaio 1989). Si tratta di una scelta editoriale assolutamente lodevole, che consente a tutti i lettori e non solo agli operatori del diritto la conoscenza di un’opera di denuncia di straordinaria efficacia letteraria e di drammatica attualità sociale. Questo libro, per la prima volta, uscì nel 1955 presso “Il Mondo” di Mario Panunzio e, nel 1962, presso la collana einaudiana “Gettoni”, allora diretta da Elio Vittorini, suscitando aspre polemiche all’interno del mondo giurisdizionale dell’epoca, tali da costringere il suo autore, per quasi un trentennio magistrato, a essere sottoposto a un procedimento disciplinare e a subire, all’esito di esso, una censura per avere diffamato l’intero corpo giudiziario. In quella occasione, Dante Troisi vide schierarsi dalla sua parte alcuni tra i più autorevoli esponenti del mondo della cultura giuridica, come Piero Calamandrei e Alessandro Galante Garrone, ma nonostante tutto non riuscì a evitare un provvedimento che, a distanza di mezzo secolo, ci appare quasi incomprensibile. Quali sono le ragioni delle scandalo suscitato dal libro di Troisi? E quali le ragioni che, a distanza di mezzo secolo, rendono quest’opera così drammaticamente attuale e consigliabile a tutti i lettori? La prima e fondamentale ragione di attualità dell’opera – che è anche la causa delle sfortune professionali del suo autore – è data dalla dimensione interiore del “diario”, che ci consente di cogliere la drammaticità dell’esercizio della giurisdizione dal punto di vista di chi la applica quotidianamente. In tempi di giustizia urlata, le riflessioni personali, ma profondamente etiche, di Dante Troisi ci fanno riflettere sulla solitudine del giudice, sulla difficoltà della sua professione e sullo scollamento esistente tra il mondo della giurisdizione e il popolo dei giudicati, guardato dall’autore con grande comprensione umana. E’ bellissimo il passo in cui, con amarezza, Troisi commenta una sua giornata lavorativa: «Perché mi lamento di oggi? Questa di oggi è una giungla più comoda; son riuscito a salire su un albero per colpire la gente che passa sotto. Presto proverò gusto a centrarli, senza trascurare il piacere di lasciare indenne qualcuno, per goderne la meraviglia» (pagina 30). La seconda ragione di interesse per la riedizione di un libro pubblicato nel lontano 1955, si coglie nello straordinario campionario di umanità descritto da Troisi nelle sue pagine, con una riflessione che, come ha osservato Andrea Camilleri nella sua prefazione selleriana, è «resistente al tempo». Una riflessione che, a distanza di un cinquantennio, ci consente di riflettere sulle ragioni dello sfasamento tuttora irrisolto tra la società italiana e la magistratura, tra la giustizia e il vivere quotidiano, tra il mondo dell’etica e il mondo del diritto. Nel suo “diario” Dante Troisi descrive un’umanità di imputati inconsapevoli, per lo più increduli di essere finiti sotto processo e sostanzialmente incapaci di meditare sulle proprie azioni e sulle proprie responsabilità, morali prima ancora che giuridiche. E’ proprio questa inconsapevolezza etica del mondo dei giudicati che viene ritratta dallo sguardo attento e pietoso dell’Autore che descrive un’umanità afflitta dalla povertà economica del dopoguerra e sostanzialmente estranea al mondo delle regole, che al giudice degli anni Cinquanta si richiedeva di applicare meccanicamente, quasi impietosamente. Questa combinazione di riflessione esistenziale e di analisi sociale rende il “Diario di un giudice” di Dante Troisi un libro che, come pochi altri, ci fa comprendere il senso del “mestiere del giudice”, rendendo questa opera meritevole di riscoperta editoriale e premiando il suo editore per l’illuminata scelta compiuta.

Da un Giudice che abbia letto e meditato su questo Diario, mi farei giudicare volentieri, scrive Franco Metta.

Vorrei che tutti i miei assistiti fossero giudicati da un Giudice come Dante Troisi. Che vive ogni condanna come una sconfitta. Questo diario è stato pubblicato per la prima volta nel 1955. Per averlo scritto l’autore fu sottoposto a procedimento penale e sanzionato con la censura. Pensate, che tempi. Lettura interessante, per gli addetti ai lavori certamente. Ma anche per chi, non addetto, abbia interesse per la Giustizia e per come questa funzione statale essenziale venga amministrata. Si scrive di anni addietro, della procedura penale di epoca fascista, dei costumi di quell’epoca. Ma la lettura è egualmente ricca di spunti di riflessione interessanti. C’è la storia del ladro di due polli, condannato dal Pretore in primo grado a 18 mesi di carcere. Una enormità. Pena confermata dal Collegio, in cui sedeva Troisi, anche in appello. E il Pretore, incontrando Troisi, gli chiede come abbiano mai fatto a confermare quello sproposito di condanna. Che egli aveva inflitto, contando sulla futura prudenza e ragionevolezza del Giudice di secondo grado….Intanto che loro si affidavano reciprocamente alla rispettiva fiducia e buon senso,il ladro di polli si fece diciotto mesi di gattabuia, nove per ogni pollo. Non posso non citarVi testualmente un passaggio che,confesso, mi ha alquanto inquietato: ” I GIUDICI PARLANO DEL SESSO PIU’ SPESSO CHE ALTRI. FORSE PERCHE’ DURANTE L’ UDIENZA NON SI SA COME IMPEGNARE I PENSIERI IN OZIO”. Diavolo. Non so se sia vero. Ma ieri discutevo e il dubbio che il Tribunale stesso pensando al sesso, mentre io parlavo, mi ha reso un po’ nervoso. Parlando di sè, di Giudici, non può non parlare di Avvocati. E mi riconosco molto in quello che Troisi intuisce sia la filosofia professionale, gli atteggiamenti esteriori, le condotte di molti. Dedica un passo agli Avvocati che esercitano accompagnati dai figli, giovani laureati. Un passo commovente e vero, per me che in quella condizione mi trovo. Non ve lo cito. Se volete ve lo andate a leggere, è a pagina 47. Io lo trascrivo, ma solo in una mail privata. Solo per Ale e Paoletta.

Nel Diario di un magistrato si parla di un giudice stimato e temuto per la sua ferrea irreprensibilità, finché non viene alla luce – dopo il solenne funerale con gli onori militari che viene celebrato alla sua dipartita – un diario segreto che rivela tre inimmaginabili delitti di cui si era consapevolmente e voluttuosamente macchiato, giungendo persino e con grande soddisfazione a far condannare alla pena capitale un innocente al posto suo: come scrive Maria Teresa Nessi, uno dei temi-chiave della narrativa di Maupassant è “la critica impietosa verso un’umanità degradata, ipocrita, odiosa e stupida”, unitamente alla “sensualità sfrenata, la guerra, la solitudine, la follia e la morte”, scrive Roberto Ghedini. Nell’economia del racconto, il diario principia il 20 giugno 1851 e termina il 10 marzo 1852, anche se “il documento era composto di molte altre pagine, ma non c’era nessun’altra cronaca che riguardasse altri delitti”; non è probabilmente un caso che la descrizione di questa follia insanguinata copra l’arco di circa nove mesi, cioè la durata di una gravidanza umana (processo “generativo” per eccellenza); come non sembra accidentale che dal 20 giugno ai primi segni evidenti della pazzia – datati 3 luglio – trascorrano esattamente quattordici (cioè due volte sette) giorni: un altro numero di inequivocabile rilevanza simbolica. Non mancano pure riferimenti simbolici nella natura delle tre vittime del magistrato: un cardellino (il quale nell’antica cultura pagana rappresentava l’anima dell’uomo che al momento della morte vola via, mentre per i cristiani simboleggia la passione di Gesù), un ragazzino e un pescatore (questi ultimi due – a maggior ragione in virtù del loro accostamento in successione – possono richiamare il Vangelo di Marco: segnatamente Mc 1, 14-20 e Mc 10, 14-16). A partire dal 3 luglio il giudice incomincia a parlare dell’omicidio come di una fonte di piacere intimo e personale, nonché a nostro avviso inequivocabilmente “patologico”: è questa la svolta di una “riformulazione assiologica” che mette a nudo la fondamentale ipocrisia della magistratura quale “braccio violento della legge” (“La natura è legata alla morte: non punisce, lei!”). Nel corso di questa riflessione il giudice perviene a legittimare a se stesso la “necessità naturale” del delitto; lo fa, almeno in apparenza, con logica stringente e rigore argomentativo (ci ricorda però ancora Maria Teresa Nessi che “in ragione di questo scompiglio, i rapporti di causa ed effetto sono a tal punto imbrogliati che la logica non basta più a spiegarli, a conoscere la verità; del resto anche i misteri psicologici si rivelano insondabili, forze cieche del mondo”); questa logica stringente e questo rigore argomentativo, peraltro, possono ricondurre alla teoria della ratio agendi contenuta in Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (“Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813) di Arthur Schopenhauer (1788-1860), filosofo nei cui riguardi Maupassant – in buona compagnia di numerosi intellettuali della sua generazione – è fortemente debitore. Il punto di partenza del magistrato consiste nel bisogno di comprendere perché un tale Blondel – che lui ha appena consegnato alla ghigliottina – abbia ucciso i suoi cinque figli (e Perché? è anche il titolo che il giudice ha apposto al suo diario). Sappiamo quanto Maupassant amava épater le bourgeois e nelle prime pagine del Diario sortisce l’effetto puntando su una specie di concordantia oppositorum. Tra le frasi che l’autore mette in penna al suo personaggio senza nome prima di farlo impazzire ce ne sono alcune che meritano di essere sottolineate: “[…] uccidere è quanto di più prossimo c’è a donare la vita. Costruire e distruggere!” – “Più si elimina, più si rigenera.” – “L’essere… cos’è? Tutto e nulla.”. “Tutto e nulla”: molti anni dopo Charles-Ferdinand Ramuz (1878-1947), scrittore elvetico in lingua francese, declinerà sagacemente questo concetto nel libretto – tratto da due racconti popolari russi di Aleksandr Afanas’ev (1826-1871) – dell’opera da camera Histoire du soldat (1918) composta da Igor’ Stravinskij (1882-1971), dando al male e al suo trionfo le riconoscibili sembianze del diavolo. In questa audioversione integrale del racconto, Giancarlo De Angeli (voce narrante) e Marco Troiano (magistrato) intrigano l’ascoltatore fin dalle prime battute, accompagnando il protagonista nella sua fatale e serrata discesa agli inferi; la caratterizzazione vocale di Troiano, in particolare, sembra improntata ad un voluttuoso e sadico compiacimento che conferisce al personaggio una terribile credibilità. Dario Barollo compone una sonorizzazione sinistra, allucinata e sfuggente, che sembra contrappuntare il destino ineluttabile del giudice come se fosse una strada predestinata e non un dirupare autonomamente e liberamente scelto verso il delirio e la follia: una sorta di trasposizione erotica e sensuale – tuttavia  paradossalmente ribaltata – dell’atto di dare la vita. Come sempre in coerenza con le sollecitazioni e gli spunti che il testo offre, Barollo sovrappone elementi contrastanti per creare una specie di “frizione” interna alla narrazione: ne sono un esempio eloquente, all’inizio dell’audioracconto, i rintocchi deformati della campana a morto abbinati al rumore di un cuore che batte, cui si innesta ben presto il presentat’arm dei soldati che rendono omaggio al feretro. La vita e la morte coesistono fin dall’incipit, quindi, in concordantia oppositorum, sotto forma di spie acustiche che accompagnano la rievocazione del funerale del magistrato, prefigurando pure (il cuore che batte con terrore prima di venir meno) la fine drammatica delle prime due vittime del giudice (mentre la terza vittima perirà inconsapevole nel sonno). Una fugace citazione del Dies irae gregoriano (affidata ad un violoncello solo) commenta da par suo il ritrovamento del cadavere della seconda vittima (datato 30 agosto). E significativamente le campane ritorneranno in chiusura del racconto: non più irrelati rintocchi, bensì un macabro carillon che scandisce una melodia di quattordici (!) battute (divisa a sua volta in due frasi identiche di sette battute ciascuna). La parte del narratore onnisciente, in questa audioversione, la fa forse proprio la colonna sonora: lucida, cinica e imperturbabile. Parimenti si rivela ben poco consolatoria la fine della novella: “Gli psichiatri che hanno letto il manoscritto hanno dichiarato che nel mondo ci sono molti malati di mente che apparentemente conducono una vita normale: sono furbi e tremendi come questo pazzo furioso”.

IL GARANTISMO E’ DI SINISTRA, MA DA LORO E’ RINNEGATO.

Il giovane Pippo Civati, giovane piddino intelligente e scaltro, ha rilasciato una intervista a “Repubblica” per dire due o tre cose che – a suo giudizio – renderanno più forte la sua posizione dentro il partito, e magari daranno fastidio a Renzi. Per essere esatti ha detto cinque cose. Ha detto che la riforma della giustizia va fatta senza Berlusconi. Che la riforma della giustizia va fatta, invece, insieme ai magistrati. Poi ha detto anche che la riforma della giustizia va fatta con Grillo. E infine si è scagliato contro indulto e amnistia, giudicandole iniziative demagogiche, e si è detto invece soddisfatto del decreto carceri che – a suo giudizio – alleggerisce la condizione dei carcerati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Dei carcerati stipati nelle celle: come lo alleggerisce, onorevole? Con gli otto euro al giorno, che sono l’equivalente di 8 secondi della sua diaria da parlamentare? Il giovane Pippo Civati, che politicamente è nato insieme a Renzi, alla Leopolda, ma poi si è distaccato dal fiorentino scegliendo di diventare – così mi dicono – il leader dell’ala sinistra del Pd, probabilmente sa poco della storia della sinistra e della destra in Italia, e non è il solo. E ignora – a occhio – che le sue posizioni favorevoli alle galere, contrarie alle amnistie, e desiderose di lasciare che siano i magistrati a riformare la giustizia, assomigliano parecchio a quelle che furono di un certo Mario Scelba e pochissimo a quelle che furono di un certo Umberto Terracini. Visto che il giovane Civati, come è logico, è giovane, è possibile che non sappia nulla di Scelba e Terracini (del resto molti intellettuali di sinistra più anziani di lui ne sanno pochissimo, o vogliono saperne pochissimo, o fingono di saperne pochissimo). Dunque riassumo: Mario Scelba, siciliano, nato nel 1901. Fu il segretario particolare di don Sturzo, poi legò con De Gasperi che lo fece ministro dell’Interno. Comunisti e socialisti lo chiamavano ministro di polizia. Usò la mano dura, seminò le piazze di morti e feriti e le prigioni di militanti politici, pensò la legge-truffa e la difese, poi divenne presidente del Consiglio dopo De Gasperi in un governo nel quale il vicepresidente era Saragat, e che Nenni, scherzosamente ma non tanto, usando le iniziali dei due leader, definì il governo “S.S”. Poi Scelba fece una legge che stabiliva che il fascismo fosse un reato d’opinione, per fortuna mai applicata, ma questa legge non gli conquistò –come lui si aspettava – simpatie a sinistra, perché le sinistre intuivano che nella sua testa c’era l’idea di fare una legge successiva, che trasformasse anche il comunismo in reato d’opinione. Insomma, onorevole Civati, capito che tipo era questo Scelba? A lui non piacevano indulto e amnistia, amava le celle ben stipate e voleva che la giustizia fosse forte e salda nelle mani dei magistrati. Umberto Terracini invece era un avvocato ebreo genovese – il padre si chiamava Jair, come la mitica ala destra dell’Inter – di sei anni più vecchio di Scelba, era nato nel 1895, amico di Gramsci, fondatore del partito comunista, antistalinista, espulso dal Pci negli anni trenta e poi riammesso, sempre anticonformista, sempre libertario, e quando era già vecchio, negli anni Settanta, si batté ferocemente contro la legge Reale e altre leggi speciali e liberticide volute dal governo e appoggiate dal Pci per colpire il dissenso di sinistra (e anche un po’ di destra). Terracini – oratore fantastico – è quel signore che nel dicembre del 1947 firmò la Costituzione Repubblicana. Capito? Terracini si batté contro Scelba nelle piazze, si batté contro Scelba nei tribunali, si batté contro la legge truffa, fu sempre favorevole alle amnistie e agli indulti, combatteva all’arma bianca contro le sopraffazioni dei magistrati, si trovò a battagliare spalla a spalla con Marco Pannella. Scelba mise in prigione molte persone. Terracini andò lui in prigione, per una decina d’anni. Ora torniamo un momento alle sue tesi. Fare la riforma della giustizia escludendo Berlusconi – cioè l’opposizione liberale – ed includendo i magistrati, è qualcosa di terrificante. Lei pensa che affidando ai magistrati il compito di autoriformarsi si difende l’indipendenza tra i poteri? Lei pensa che non esista un conflitto di interessi se una riforma viene decisa da chi dovrebbe essere l’oggetto di questa riforma? Lei pensa che escludere i liberali dalla riforma della giustizia sia una cosa saggia? E poi, posso farle un’altra domanda che nasce da una pura curiosità): ma come mai non le è neanche venuto in mente, allora, di chiamare gli avvocati a collaborare? I magistrati sì, gli avvocati no. Forse perché gli avvocati non sono un potere? Quanto a Grillo, e alla proposta di collaborare con lui sul terreno della giustizia, mi sembra proprio una bella idea: ieri Grillo ha detto che preferisce Pinochet al partito democratico, ed effettivamente se l’Italia diventasse come il Cile di Pinochet, il problema giustizia sarebbe risolto e anche il problema carceri (magari si porrebbe una nuova questione: dove far giocare la seria A di Tavecchio, con tutti gli stadi occupati dai prigionieri…). Vabbè, Onorevole, veda un po’ lei. Io però torno per un attimo alle biografie di quei due padri della patria dei quali le parlavo, per porle un’ultima domanda: Scelba o Terracini? Lei chi preferisce? Perché il partito democratico, sarà un paradosso, ma è così: è erede di entrambi. Di uno dei massimi leader della Dc e di uno dei massimi leader del Pci.  Si tratta di decidere il proprio punto di vista. Quello che un po’ mi preoccupa è che lei, che vuole fare il capo della sinistra del Pd, mi sembra molto più vicino a Scelba che a Terracini. Non so spiegarmi perché. Forse perché ormai il modo è girato tutto alla rovescia, i valori si sono invertiti, i pensieri aggrovigliati. O forse invece è per calcolo politico. Perché qualcuno immagina che per essere di sinistra bisogna essere coi giudici contro Berlusconi, e dunque per le galere contro la libertà, e poi per Grillo e tutto il resto, e anche se a Grillo piacciono Le Pen e i golpisti cileni va bene lo stesso…si, si, però voi siete sicuri che questa sia ancora sinistra?

Il garantismo è di sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Può esistere il garantismo di sinistra? Può esistere, per una ragione storica: è esistito, ha pesato, ha avuto una influenza notevole sulla formazione degli intellettuali di sinistra. Tutto questo è successo molto, molto tempo fa. Soprattutto, naturalmente, quando la sinistra era all’opposizione, o addirittura era “ribelle”, e quando i magistrati – qui in Italia – erano prevalentemente legati ai partiti politici conservatori o reazionari, e in gran parte provenivano dalla tradizione fascista. Allora persino il Pci, che pure aveva delle fortissime componenti staliniste, e quindi anti-libertarie, coltivava il garantismo. Il grande limite del garantismo, in Italia – e il motivo vero per il quale oggi quasi non esiste più alcuna forma vivente di garantismo di sinistra – sta nel fatto che non è mai stato il prodotto di una battaglia di idee – di una convinzione assoluta – ma solo di una battaglia politica (questo, tranne pochissime eccezioni, o forse, addirittura, tranne la unica eccezione del Partito radicale). La distinzione tra garantismo e non garantismo oggi si determina calcolando la distanza tra un certo gruppo politico – o giornalistico, o di pensiero – e la casta dei magistrati. Il “garantismo reale”, diciamo così, non è qualcosa che si riferisce a dei principi e a una visione della società e della comunità, ma è soltanto una posizione politica riferita a un sistema di alleanze che privilegia o combatte il potere della magistratura. Per questo il garantismo non riesce più ad essere un “valore generale” e dunque entra in rotta di collisione con il corpo grosso della sinistra – moderata, radicale, o estremista – che vede nella magistratura un baluardo contro il berlusconismo, e al “culto” di questo baluardo sacrifica ogni cosa. Tranne in casi specialissimi: quando la magistratura, per qualche motivo, diventa nemico. Per esempio nella persecuzione verso il movimento no-tav. Allora, in qualche caso, anche spezzoni di movimenti di sinistra diventano “transitoriamente” garantisti, e contestano il mito della legalità, ma senza mai riuscire a trasformare questa idea in idea generale: quel garantismo resta semplicemente uno strumento di difesa. Di difesa di se stessi, del proprio gruppo delle proprie illegalità, non di difesa di tutta la società. Il garantismo può essere di sinistra, per la semplice ragione che il garantismo è una delle poche categorie ideal-politiche che non ha niente a che fare con le tradizionali distinzioni tra di sinistra e destra. La sinistra e la destra – per dirla un po’ grossolanamente – si dividono sulle grandi questioni sociali e sulla negazione o sull’esaltazione del valore di eguaglianza; il garantismo con questo non c’entra, è solo un sistema di idee che tende a difendere i diritti individuali, a opporsi alla repressione e a distinguere tra “legalità” e “diritto”. Può essere indifferentemente di destra o di sinistra. A destra, tradizionalmente, il garantismo ha sempre sofferto perché entra in conflitto con le idee più reazionarie di Stato- Patria- Gerarchia- Ordine- Obbedienza- Legalità. A sinistra, in linea teorica, dovrebbe avere molto più spazio, con il solo limite della scarsa “passione” della sinistra per i diritti individuali, spesso considerati solo una variabile subordinata dei diritti collettivi. E quindi, spesso, negati in onore di un Diritto Superiore e di massa. Ed è proprio in questa morsa tra destra e sinistra – tra statalismo di destra e di sinistra – che il garantismo rischia di morire. Provocando dei danni enormi, in tutto l’impianto della democrazia e soprattutto nel regime della libertà. Perché il garantismo ha molto a che fare con la modernità. Ormai si stanno delineando due ipotesi diverse di modernità. Una molto cupa, ipercapitalistica. Quella che assegna al mercato e all’efficienza il potere di dominare il futuro. E questa tendenza – che a differenza dalle apparenze non è affatto solo di destra ma attraversa tutti gli schieramenti, compreso quello grillino – passa per una politica ultra-legalitaria, che si realizza moltiplicando a dismisura le leggi, i divieti, le regolazioni, le punizioni, le confische e tutto il resto. L’idea è che moderno significhi “regolato”, “predeterminato” e che per fare questo si debba separare libertà e organizzazione. E anche, naturalmente, libertà e uguaglianza (uguaglianza sociale o uguaglianza di fronte alla legge, o pari opportunità eccetera). E che la libertà sia “successiva” agli altri valori. Poi c’è una seconda idea, del tutto minoritaria, che vorrebbe che il mercato restasse nel mondo dell’economia, e non pretendesse di regolare e comandare sulla comunità; e vorrebbe organizzare la comunità su due soli valori: la libertà piena, in tutti i campi, e il diritto, soprattutto il diritto di ciascuno. Questa idea qui è l’idea garantista. E non ha nessuna possibilità di decollare se non riesce a coinvolgere la sinistra. Rischia di ridursi a un rinsecchito principio liberista, o individualista, che può sopravvivere, ma non può volare, non può prendere in mano le redini del futuro. E’ la sfida essenziale che abbiamo davanti. Chissà se prima o poi qualcuno se ne accorgerà, o se continuerà a prevalere la sciagurata cultura reazionario-di-sinistra dei girotondi.

Pubblichiamo ancora qui di seguito l’intervista che il direttore Piero Sansonetti ha rilasciato a editoria.tv  e ripubblicata da “Il Garantista”. “La sinistra non ha un’idea di libertà”. In un editoriale di due anni fa su Gli Altri, Piero Sansonetti sintetizzava così la sua posizione. Hanno scelto il liberismo, diceva, perchè è l’unica via possibile, quando non sai – tu, Stato – governare il mercato, indirizzarlo, farci i conti. Altro che “liberal” americani. Da noi non esistono. Quelli lì, oltreoceano, sono chiamati in questo modo dai conservatori “con lo stesso sdegno con cui Berlusconi dà ogni tanto a qualcuno del comunista”. Qui da noi è un’altra storia. Qui la sinistra è fuori da tutto, non esiste, e quella che si spaccia per tale “è di destra”, come recita il titolo del suo ultimo libro. E allora che si fa? Come s’articola il discorso politico nuovo? Con quali voci, con quali forze? Sansonetti, giornalista d’altri tempi, da una vita ai vertici dei quotidiani “rossi” storici (dall’Unità, a Liberazione, al Riformista, fino a Gli Altri) mette in riga le questioni e porta in edicola una nuova testata. Un foglio di carta di nome Garantista. Uscirà il prossimo 18 giugno 2014  (tra poco scoprirete con che formula) e nasce dalle ceneri di Liberal (a volte il destino…) del forzista Ferdinando Adornato e andrà a giocare la sua partita in questo mare impazzito che è il mercato di oggi, con la pubblicità che è una bestia in estinzione, i lettori (o clienti) che hanno scoperto l’eden del gratuito sul web e i fondi pubblici che sono diminuiti fino quasi scomparire. Il Garantista riparte senz’altro dal contributo pubblico, ma quello – si sa – ormai ti può dar sangue per vivere un po’. E poi?

Direttore, ci vuole coraggio a fondare un giornale di carta in questo caos di oggi. Dove lo ha trovato?

«Nella consapevolezza che esiste uno spazio, sebbene non vasto, dove poter affermare dei ragionamenti diversi. Delle idee.»

E perché crede di potercela fare? In fondo i numeri dicono che il mercato dell’editoria è un disastro.

«Sì, ma la questione è più complessa. Io credo che la crisi dei giornali vada indagata a partire da due ragioni. La prima è senz’altro l’avvento di internet. Il web ha dato una direzione diversa al mercato, della quale si deve prendere atto e sulla quale non si ha potere di intervento. La seconda ragione è che in Italia si è smesso di pensare. Non ci sono idee. Non ci sono novità da decenni. L’ultimo caso “innovativo” è forse Repubblica, ed era il 1976. Poi più niente, a parte il Fatto Quotidiano, forse.»

Perché forse?

«Perché per me non è una grande novità. E’ la diretta conseguenza di una via giustizialista, sulla quale camminano anche gli altri, dal Corriere in giù.»

E il Garantista? In un’intervista rilasciata proprio al sito del giornale di Padellaro e Travaglio, Adornato, l’editore di Liberal, dice che lei ha proprio in mente un anti-Fatto. E’ vero?

«Ma no. Noi siamo molto più di un anti-Fatto, siamo un anti-tutto. Vogliamo affermare un giornalismo che va alla verità. E la parola stessa Garantismo suona come un insulto di questi tempi. Noi però quest’idea la portiamo sul mercato ben sapendo che è minoritaria. Siamo sicuri, tuttavia, che conquisteremo il nostro spazio sapendo che di voci nuove c’è bisogno.»

Ma facciamo un po’ di storia. Quand’è che la sinistra s’accoda ai magistrati? Quand’è che nasce quest’amore?

«Di certo negli anni ’70. Quando si decide di cancellare la lotta armata. Anzi, si può dire di più. C’è una data precisa che è la legge Reale (la legge 152 del 1975, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, ndr)

Poi?

«Il giustizialismo nasce lì e poi l’idea si consolida. Il giustizialismo è la realizzazione di un’alleanza che si salda, ancora di più, con Tangentopoli, quando si decide di cacciare quelli che fino ad allora avevano governato con la clava.»

Ma da dove nasce questa tendenza? Quale origine culturale ha?

«E’ un rigurgito stalinista. E’ da lì che proviene questo metodo. E’ lì che affonda la sua radici.»

Lei, nei suoi pezzi, differenzia i liberal dai liberisti. I primi sono tipica espressione della sinistra americana: pensano che lo Stato debba intervenire sul mercato per garantire le libertà di tutti. I secondi sono di destra, e pensano che il mercato si debba autoregolamentare, e che sia questa la vera libertà. Detto questo: Renzi è un liberal o un liberista?

«Lui bisogna aspettarlo al varco. Non lo so che sarà. Ma di certo l’andazzo è lo stesso. Se così non fosse, Renzi non parlerebbe usando termini come “li cacciamo tutti a calci”. Non le pare? Ho l’impressione che siamo sempre lì: la sinistra non sa scegliere e piega l’idea di libertà al mercato. E’ più facile così.»

A proposito di questioni immanenti. Lei dopo Liberazione è andato a dirigere dei giornali in Calabria. Che idea s’è fatto del Sud?

«Il Mezzogiorno è la parte più povera del Paese. I meridionali non hanno strumenti di potere. E in quell’area non c’è stata alcuna affermazione della cultura dei diritti. Le condizioni attuali sono il risultato di questo.»

E allora? Che si fa?

«Si deve ripartire dallo stato di diritto. Non ci sono altre vie. Il Nord ha portato al Sud le prigioni, le manette, nient’altro. Ma alla modernità s’arriva con un’altra cultura. Quella che noi, soprattutto in quelle aree, cercheremo di proporre. Anche se – ripeto – la nostra è una battaglia minoritaria.»

Che macchina state mettendo in piedi? Che giornale sarà?

«Dei contenuti ho già parlato. Per quanto attiene all’organizzazione, le redazioni saranno distribuite a Reggio Calabria, a Cosenza, a Catanzaro e poi a Roma. Il giornale nazionale avrà 24 pagine. E le redazioni locali 20 pagine, per ognuno dei posti che ho menzionato. Puntiamo molto sulla dimensione locale.»

A Cosenza ci sarà dunque un giornale diverso rispetto a quello di Reggio Calabria.

«Esatto. E sarà un giornale di 44 pagine. Avremo, poi, 16 pagine in più per Napoli e Salerno. Quindi i posti dove avremo una presenza più capillare, all’inizio, saranno la Calabria e la Campania.»

E sul web?

«Sarà online il sito del giornale e sarà possibile scaricare il pdf, abbonarsi e acquistare le copie, come è ormai consuetudine. La nostra sfida, ripeto, si gioca sulle idee non sulle tecniche.»

IL GARANTISMO E' DI SINISTRA, scrive Simonetta Fiori su “La Repubblica”.

«Perché tanta resistenza all'indulto, soprattutto tra gli elettori democratici? Credo si tratti di un meccanismo perverso, che porta a sospettare sempre e comunque della politica. Un pregiudizio che naturalmente può essere spiegato con l'ultimo ventennio della storia italiana. Quello proposto dal presidente della Repubblica è un atto sacrosanto, che andrebbe illustrato nella sua banale umanità».

Settantatré anni, fiorentino, Luigi Ferrajoli è il filosofo del diritto italiano più conosciuto all'estero, forse più famoso nella scena internazionale che nel nostro paese. Ha scritto saggi fondamentali che hanno definito una nozione complessa di garantismo, non solo come sistema di divieti e obblighi a carico della sfera pubblica a garanzia di tutti i diritti fondamentali (dunque sia i diritti di libertà che i diritti sociali), ma anche come sistema di divieti e obblighi a carico dei poteri privati del mercato. Il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli, ed è proseguito negli anni Sessanta in veste di giudice dentro Magistratura democratica, dove confluivano culture politiche diverse. Ferrajoli s'identifica nel "costituzionalismo garantista" che poi significa «una scelta di campo a sostegno dei soggetti più deboli, come impongono i principi di giustizia sanciti dalla Costituzione». Le sue posizioni - anche nel terreno delicatissimo della riforma della giustizia - sfidano alcuni tabù della sinistra. Difende la separazione delle carriere tra giudice e Pm, ferma restando l'assoluta indipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico («La sinistra è caduta in un equivoco, anche perché all'epoca di Craxi la separazione fu proposta con l'intento di assoggettare i pm all'esecutivo»). E questo suo ultimo prezioso libro-intervista con Mauro Barberis, filosofo del diritto altrettanto competente, contiene giudizi originali sulla crisi della politica e della democrazia, di cui il tema della giustizia è parte essenziale. A cominciare dal "populismo penale" in voga nel dibattito pubblico (Dei diritti e delle garanzie, il Mulino).

Professor Ferrajoli, che cos'è il populismo giudiziario?

«È il protagonismo dei pubblici ministeri poi passati alla politica. Sono rimasto colpito dall'esibizionismo e dal settarismo di alcuni magistrati, sia durante i processi che in campagna elettorale. Ho proposto anche una sorta di codice deontologico che richiama ai principi di sobrietà e riservatezza, oltre che al dubbio come costume intellettuale e morale. Temo molto quando il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria credibilità professionale. Cesare Beccaria lo chiamava "il processo offensivo", nel quale il giudice anziché essere un "indifferente ricercatore del vero" diviene "nemico del reo"».

Lei sottolinea il carattere "terribile" del potere giudiziario.

«Sì, carattere "terribile" e "odioso", dicevano Montesquieue Condorcet. È il potere dell'uomo sull'uomo, capace di rovinare la vita delle persone. Purtroppo i titolari di questo potere possono cedere alla tentazione di ostentarlo. Cosa sbagliatissima. Quanto più questo potere diventa rilevante, tanto più si richiede una sua soggezione alla legge e al principio di imparzialità. Un obbligo che è a sua volta fonte di legittimazione del potere giudiziario».

Il populismo penale, le fa notare Barberis, è di fatto l'opposto del garantismo.

«Sì, in realtà l'opposto del garantismo è il dispotismo giudiziario, che è presente in tutte le forme di diritto penale con scarse garanzie, in particolare caratterizzate - come avviene in Italia - da una legalità dissestata».

Cosa intende?

«È il vero problema oggi. Disponiamo di leggi incomprensibili perfino ai giuristi, mentre la chiarezza è l'unica condizione della loro capacità regolativa, sia nei confronti dei cittadini che nei confronti dei giudici. Per prima cosa il Parlamento dovrebbe far bene il proprio mestiere, ossia scrivere le leggi in modo chiaro e univoco. È questo il solo modo per contenere l'arbitrio del potere giudiziario. Un obiettivo che non si raggiunge certo riducendo l'autonomia dei giudici e dei pubblici ministeri a vantaggio del potere esecutivo».

Forse è anche per difendere la propria autonomia minacciata che alcuni magistrati sono arrivati ad eccessi.

«Non c'è alcun dubbio. Derisi e pressati da un potere irresponsabile, alcuni talvolta hanno agito per autodifesa. Anche la martellante campagna diffamatoria promossa dalla destra sull'uso politico della giustizia ha finito per inquinare la stessa cultura giuridica dei magistrati che hanno reagito in modo corporativo all'accusa. Non dimentichiamoci che in tutti questi anni la riforma della giustizia ha ruotato esclusivamente attorno ai problemi personali di Silvio Berlusconi, riducendosi a un assurdo corpus iuris ad personam. E la parola garantismo ha finito per significare la difesa dell'impunità dei potenti».

Un'accusa che viene rivolta alla sinistra, anche da parte non strettamente berlusconiana, è di aver cavalcato quel potere terribile a cui alludeva prima, sostituendo Marx con le manette.

«Mi sembra una ricostruzione ingiusta. La caratterizzazione "giustizialista" - parola che detesto - di una parte della sinistra è stata provocata dallo scandalo dell'anomalia di questo ventennio. Non la giustifico, ma posso spiegarla. Siamo stati governati da una persona che è al centro di una quantità enorme di processi, una parte dei quali forse infondata ma altri fondatissimi. Da qui anche l'enorme aspettativa verso il diritto penale, da cui si pretende che assicuri l'eguaglianza delle persone davanti alla legge».

Non è così?

«Purtroppo da luogo dell'eguaglianza formale il diritto penale è diventato il luogo della massima diseguaglianza. Quella che viene più facilmente colpita è la delinquenza di strada, con la sostanziale impunità dei potenti. Quasi il 90 per cento delle condanne per fatti di corruzione negli ultimi vent'anni è stato inferiore ai due anni, con conseguente sospensione condizionale della pena. Anche l'evasione fiscale di fatto resta impunita».

Forse questo spiega perché l'opinione democratica tema l'indulto. Per una volta che viene applicato il principio dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si teme che l'indulto possa cancellarlo.

«Sì, ma si tratta di un sospetto tanto velenoso quanto infondato. Naturalmente spetta al Parlamento evitare che a beneficiare dell'indulto siano i reati di corruzione o frode fiscale, reati che non sono mai entrati nella tradizione dell'amnistia. E, per le ragioni che ho ora esposto, a chi si oppone al provvedimento bisognerebbe ricordare che la criminalità dei colletti bianchi è di fatto assente dalle carceri. Le celle sono piene di povera gente, tossicodipendenti e immigrati clandestini. Sarebbero loro a trarne vantaggio».

Anche per snellire la macchina giudiziaria, lei ha proposto la soppressione di alcuni reati come l'immigrazione clandestina. Pochi giorni fa è cominciato in Senato l'iter per la sua abolizione.

«I nostri tribunali sono paralizzati da un marasma di figure di reato che si potrebbero cancellare. Quello di immigrazione clandestina è poi un'assoluta vergogna. Teorizzato nel 1539 da Francisco de Vitoria, per giustificare conquista e colonizzazione del nuovo mondo, lo ius migrandi è rimasto per secoli, fino alla Dichiarazione universale del 1948, un principio fondamentale del diritto internazionale. Oggi che il processo s'è invertito - sono le popolazioni povere da noi depredate a venire nei nostri paesi - il diritto s'è capovolto in reato. Il risultatoè una terribile catastrofe umanitaria. Potrei definirle "le leggi razziali" di questi anni».

Un altro padre della patria è Giovanni Spadolini: un arrogante, scrive Italo Cucci su “Il Garantista”. Al Carlino, dov’era diventato direttore a 29 anni, lo chiamavano “il Bimbone”. Perché era giovane, grosso, tondo e paffuto, con le gote che s’arrossavano per furia o cattivi pensieri, eppoi capriccioso e anche cattivo, quando voleva. E voleva spesso. Io arrivai e mi fece un dono: mi affidò a Luca Goldoni. Poi mi chiese notizie di me, e mi dichiarai missino: mi fulminò. Credevo di trovare un sodale dopo aver letto alcune sue fascistissime note. Niente è peggio – mi disse un giorno Enzo Biagi – che ricordare a qualcuno il suo passato: il più delle volte se n’è dimenticato o pentito. Giovanni Spadolini non era tipo da pentirsi: dirlo borioso era umanizzarlo troppo, dirlo narciso era fargli un piacere. Più tardi scoprimmo ch’era un angelo. In senso erotico. Senza passioni. Forse senza peccato. Radunava intorno a sè, quando a tarda sera percorreva il lungo corridoio per recarsi in tipografia a “chiudere” la prima pagina, solo colleghi irreprensibili, felicemente ammogliati, signori nel porgere, quasi sempre in abito scuro. Il fido Orsoni, l’usciere claudicante che stazionava davanti alla porta del suo studio, prima della cerimonia serotina spazzava veloce il corridoio annunciando “arriva il professore!”, invitandoci a chiuderci nei nostri uffici perché passando non vedesse quella marmaglia in vesti casual e non fosse costretto a rispondere al deferente saluto dei nessuno. Dovevamo chiamarlo – quando capitava, di rado – “professore”, mai “direttore”. Ma non mi insegnò nulla perché il suo era il Carlino di “Carducci, Pascoli e Valgimigli”. E tuttavia per vender copie affidò allo sciupafemmine Severo Boschi – uomo di grande cultura – la realizzazione di decine di pagine di sport che non guardò mai, forse vergognandosene. E infatti appena poté – il giorno dell’assunzione – mi sbatté allo sport, e non quello del Carlino, dove da tempo facevo nera e giudiziaria, ma a Stadio, il foglio sportivo che nasceva al piano alto della palazzina fascista con tanto di torre littoria. Non gli piacevano le mie idee politiche e me lo disse congedandomi con fastidio, lui ch’era stato repubblichino: “Lei è un estremista di destra ma gli estremi spesso si toccano e non vorrei, un giorno, trovarmi in redazione un pericoloso comunista”. Diventai un pericoloso giornalista sportivo e un giorno colsi la mia vendetta quando il Professore Presidente del Consiglio piombò a Barcellona durante il Mondiale dell’Ottantadue per farsi vincitore, e Pertini lo richiamò a casa, prendendo il suo posto al gran ballo del Bernabeu. Per consolarsi, partecipò a una puntata del “Processo del lunedì” e quasi piansi di gioia quando – in un fuori onda – sentii Biscardi dirgli “Giovanni, fatte truccà: stasera ce vedono mijoni d’italiani”. E lui, gongolando, obbedì.

LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI E LE RIFORME TRUFFA.

Negli ultimi 50 anni si valutano 5 milioni di cittadini vittime di errori commessi dai magistrati. Responsabilità civile dei magistrati? 7 casi accertati in 26 anni. Tanto poi paga l'assicurazione con polizza del costo di 150 euro circa l'anno. Il filtro posto dalle toghe contro le toghe funziona. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona.  Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario.

Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione. Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.

"Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada". Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.

Si stima che, dal 1988, circa 50 mila persone siano state vittima di ingiusta detenzione e errore giudiziario, e che dal 1991 lo Stato abbia risarcito per circa 600 milioni di euro questi innocenti - viene spiegato a tempi.it dal presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio Spigarelli  Eppure, dal 1988, su 400 cause presentate per la responsabilità civile dei magistrati, solo 4 magistrati sono stati condannati. Com’è possibile e cosa ne pensa? La somma delle vittime e dei risarcimento è al ribasso. Si tenga conto che per l’ingiusta detenzione non sempre lo Stato concede il risarcimento, anche a fronte di una sentenza di assoluzione totale dell’ex detenuto. Purtroppo, anche la legge attuale sulla responsabilità civile è fatta male: c’è un filtro preliminare alle cause, di cui si occupa ovviamente la magistratura stessa. La legge oggi prevede la responsabilità solo per dolo o colpa grave, cioè solo per gravissimi casi. Restano esclusi ad esempio tutti gli errori di interpretazione delle prove o delle leggi, per cui se anche ci fosse un magistrato che compisse un errore clamoroso, come inventarsi una legge, paradossalmente non avrebbe responsabilità civile.

Entriamo nel mondo degli insabbiamenti e dell’impunità. Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”, scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm. E noi adesso lo diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa).

Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);

- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);

- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%);

- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);

- 2 sono stati  i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia?

Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di sanzioni disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è previsto un filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione. Tra il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498 (il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle denunce è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano...

9. E la responsabilità civile?

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte, pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.

10. Da zero a uno: meno di 0,5.

Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

Magistratura italiana: verità e omissioni. L'Associazione Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno, cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini.

Chi giudica i giudici? Nessuno a quanto pare, perchè non sono trasmesse le notizie dei procedimenti a carico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 28 settembre 1995, ha approvato la circolare in oggetto, (CSM. Circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995) che di seguito si riporta:

“Con deliberazione n. 151/91 in data 13 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura ha richiesto ai Procuratori Generali ed ai Procuratori della Repubblica:

a) di dare immediata comunicazione al Consiglio, con plico riservato al Comitato di Presidenza, di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio;

b) prescindendo dall’obbligo di informazione previsto dall’art. 129 disp. att. c.p.p. di informare di loro iniziativa il Consiglio, oltre che dei fatti cui il procedimento si riferisce e del suo inizio, anche del suo svolgimento, nelle varie fasi e nei diversi gradi, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone;

c) di trasmettere di loro iniziativa i provvedimenti più rilevanti e quelli conclusivi nelle diverse fasi e nei vari gradi dei procedimenti e dei processi a carico di magistrati.

Con la deliberazione in data 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il Consiglio ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità in linea di principio del segreto investigativo e della rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza.

Si sono dovute constatare notevoli difficoltà di adempimento da parte di numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le dovute comunicazioni ed il Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso la stampa di procedimenti riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti alla conclusione della indagine preliminare.

Quasi mai gli uffici del pubblico ministero provvedono ad una informativa sui fatti cui il procedimento si riferisce, né trasmettono di loro iniziativa gli atti conclusivi delle fasi e gradi del procedimento, né i provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi di indicazioni utili al Consiglio.

Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non siano nel medesimo tempo fatte ai titolari della azione disciplinare, con evidente pregiudizio per l’esigenza di pronta informazione del Ministro di Grazia e Giustizia e del Procuratore Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione.

Tale stato di cose impedisce al Consiglio di svolgere le proprie funzioni e si traduce in uno spreco di attività di comunicazione, richiesta, sollecitazione, ecc.."

Chi giudica i giudici? Si chiede Enzo Rosati su “Panorama”. Meglio di qualsiasi convegno, meglio di ogni polemica tra politici e magistrati, la realtà, se conosciuta, apre gli occhi all'opinione pubblica su come funziona la giustizia in Italia. E cioè male. Un solo lato positivo: molti hanno potuto rendersi conto dell'esistenza e dell'importanza di vari, differenti e stavolta antagonisti ruoli e livelli di indagine e giudizio anche in un'inchiesta all'inizio, prima dell'arrivo in tribunale. Procura, polizia giudiziaria, giudice delle indagini preliminari, tribunale del riesame. Ognuno ha giocato la sua parte, e questa è stata evidenziata, analizzata, sviscerata. Finora agli occhi dell'opinione pubblica esisteva in pratica una verità: quella dei pubblici ministeri, cioè della procura. Dell'accusa. Un indagato diventava quasi automaticamente un colpevole. Un indagato messo in galera, poi, un colpevole doppio, perché il carcere in nessun altro modo era (e purtroppo è) percepito se non come l'anticipo della "giusta" pena. "Giusta" sulla base delle indiscrezioni fatte filtrare dalle stesse procure e dalla polizia giudiziaria. Un circuito perverso, è stato detto inutilmente mille volte; la condanna morale e materiale emessa non da un giudice ma da una parte in causa. Quanti si ricordano della presunzione d'innocenza, che nessuno può essere dichiarato e considerato colpevole prima dei tre gradi di giudizio? Quanti tra la gente comune sanno che anche l'operato di una procura è soggetto alla verifica di un gip e di un tribunale del riesame? Non è certo la prima volta che un'inchiesta viene sconfessata, una sentenza ribaltata. Non raramente si è assistito a un contrasto così forte a palese sui fondamenti stessi di come si debba condurre un'indagine, di come si possa mettere in carcere una persona o semplicemente additarla al pubblico sospetto. È evidente che qualcuno ha sbagliato. La procura? I carabinieri? Il gip? Il Tribunale del riesame? Può capitare. Ma che cosa suggerirebbe la logica? Che chi sa di non disporre di prove e indizi certi per accusare una persona di un reato si rimetta al lavoro per capire gli errori, coprire le lacune o, se è convinto di ciò che fa, andare avanti. Ma soprattutto che taccia. Non per punizione, ma perché lo impongono l'etica professionale, il dovere d'ufficio, il rispetto degli altri e il semplice buon senso. «Non commentiamo, non rilasciamo dichiarazioni, proseguiamo il nostro lavoro». Ottima idea. Smentita 24 ore dopo da una raffica di interviste. E che interviste. 1) far capire che il gip è forse troppo giovane ed esuberante, e per questo «non ha dato adeguatamente conto del lavoro dei carabinieri»; 2) che la procedura del Tribunale del riesame «è del tutto nuova»; 3) che «a forza di dubbi finiremo per dubitare che un delitto ci sia stato. Meno male che abbiamo prove incontestabili che ci sia un moti. Mi scuso della battuta macabra, però...».  Nomi, persone, vite private. Tutto in piazza. E non per il lavoro della stampa; no, con il sigillo di magistrati che forse pensano di risolvere così contrasti e vendette interne. Perché proprio questo si intuisce dietro il profluvio di dichiarazioni, di allusioni, di «non mi sembrerebbe generoso», di «non vorrei dirlo», di «non mi faccia fare nomi». E lasciamo stare criminologi e psichiatri vari, con la verità in tasca da settimane: la loro unica scusante è che non sono pubblici ufficiali. Il problema ora è: qualcuno pagherà per gli errori? Chi è ancora in grado di risolvere credibilmente le indagini? Certo, questi contrasti dimostrano che la magistratura ha una dialettica al proprio interno e ciò può essere considerato una garanzia per i cittadini. Purtroppo una sfilza di precedenti dimostrano che la situazione della giustizia non è rassicurante. C'è dunque qualcosa che non va. Senza considerare i processi vip, quelli ai politici, è la giustizia che riguarda la gente comune che non va. Ma i magistrati, come categoria (anzi, come corporazione), continuano ad autoassolversi. Non accettano riforme, non accettano di essere giudicati, se non da loro stessi. Ma come si vede i giudici sbagliano, e dunque il nodo è inesorabile: chi giudica i giudici?

Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.

Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.

Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.

LA RESPONSABILITA' CIVILE IN EUROPA. La responsabilità civile secondo l’Unione Europea. Colpa semplice e dolo sono forieri di responsabilità.

L’Ue all’Italia: se i giudici sbagliano, lo Stato paga, scrive Guido Scorza su “Il Fatto Quotidiano”. È incompatibile con la disciplina europea il principio stabilito nella legge italiana secondo il quale lo Stato non risponde nei confronti dei cittadini per gli errori commessi dai giudici – con provvedimenti definitivi e, quindi, non ulteriormente impugnabili – ogni qualvolta si tratti di un errore di interpretazione della legge e/o di valutazione delle prove ovvero non vi sia la prova che i magistrati hanno agito con dolo o colpa grave. È questa la conclusione cui è pervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione europea all’esito di un procedimento promosso dalla Commissione nei confronti del nostro Paese. L’Italia, “escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave… è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.” Inequivocabile la posizione della Ue: non c’è ragione per la quale lo Stato debba sottrarsi al principio del “chi rompe, paga”, quando a “rompere” – o meglio a violare i diritti di un cittadino – siano i giudici. A leggere la sentenza, peraltro, si scopre una circostanza curiosa e, al tempo stesso, antipatica. Prima di avviare il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia che ha poi portato alla sentenza di condanna dell’Italia, facendoci fare la solita pessima figura, la Commissione ha dapprima ripetutamente sollecitato il nostro Governo a fornire spiegazioni con lettere del febbraio e dell’ottobre del 2009 e, quindi, con una comunicazione del 22 marzo 2010, lo ha diffidato dall’adottare una serie di provvedimenti per riallineare il diritto interno a quello dell’Unione. Il nostro Governo, tuttavia, evidentemente preoccupato di questioni ben più serie legate alla sorte dei processi contro il premier, non ha mai risposto. Curioso che l’ex premier sempre pronto a chiedere la testa di questo o quel magistrato non abbia condiviso la battaglia di civiltà giuridica promossa da Bruxelles e vergognoso che un Paese si permetta il lusso di ignorare comunicazioni su questioni tanto delicate provenienti dalla Commissione Ue. A questo punto, però, giustizia è fatta: se i giudici sbagliano – con una sentenza definitiva - lo Stato paga senza eccezioni e limitazioni. All’Italia, tocca ora adeguarsi alle regole Ue a pena, in caso contrario, di pesanti sanzioni economiche delle quali, francamente, non si avverte il bisogno. Peccato  che una regola tanto elementare ce l’abbiano dovuta prima spiegare e poi, visto il nostro ostinato silenzio, imporre i giudici europei con una condanna.

LA RESPONSABILITA' CIVILE IN ITALIA. La responsabilità civile secondo l’Italia. Colpa grave e dolo sono forieri di responsabilità, ma solo se rilevata dalle stesse toghe contro i colleghi.

Si dice spesso che in nessun Paese europeo esista e sia prevista la responsabilità diretta del magistrato, ma in essi non c’è neppure un articolo 28 della Costituzione che espressamente la preveda; né in nessun altro Paese europeo i pubblici ministeri hanno l’autonomia e l’indipendenza che hanno quelli italiani, dato che in tutta Europa gli stessi rimangono – chi più, chi meno – al riparo dal potere esecutivo. Una volta chiuso il processo, nulla impedisce che si possa agire nei confronti del magistrato, non allungando in tal modo alcun tempo né moltiplicando le cause. È utile ricordare che a oggi la categoria della colpa grave è stata identificata dai giudici di legittimità in maniera talmente restrittiva e spesso miope che, nella realtà, è stata resa invocabile in sparuti casi. In definitiva, la Corte di Cassazione ha sempre fatto rientrare le ipotesi giunte alla sua attenzione o in un ambito prettamente interpretativo facendolo poi sfociare nella inammissibilità, o interpretando la colpa grave con il carattere aberrante dell’interpretazione. La responsabilità è un valore assoluto – non può essere un privilegio a danno degli italiani – pertanto è sacrosanta l’introduzione della responsabilità civile personale dei magistrati e, nel farlo, si tenga ben presente che lo stato della giustizia in Italia è tale per cui, lungi dal “confidare” in essa, si è tutti esposti ad iniziative giudiziarie discrezionali e variabili da Paese incivile. Nel 1987, sulla scia del “caso Tortora”, più dell’80% degli italiani votò perche fosse introdotta la responsabilità civile dei magistrati. Un anno dopo, dietro l’impulso dell’allora Ministro della Giustizia Vassalli nacque la legge del 13 aprile 1988 sul “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio nelle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati“.

Il 2 febbraio 2012, il colpo di scena con Governo battuto a scrutinio segreto. La Corte di Giustizia aveva chiesto, anzi “intimato” più volte all’Italia di cambiare la legge Vassalli a causa della sua mancata corrispondenza con quanto previsto dal diritto comunitario poichè la responsabilità andava estesa anche agli errori commessi dal magistrato per un’interpretazione errata delle norme europee e per una valutazione sbagliata di fatti o prove. In realtà, questo è stato il pretesto per modificare invece un principio ben più rilevante per il nostro ordinamento: non più solo lo Stato a rispondere degli errori commessi dal magistrato ma anche la responsabilità diretta del giudice, con conseguente risarcimento del danno. In particolare, l’emendamento Pini approvato dalla Camera stabilisce che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento” di un magistrato “in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia”, possa rivalersi facendo causa sia allo Stato che al magistrato per ottenere un risarcimento.

Invece il Governo Renzi, con il Ministro Orlando propone una contro riforma.

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, COMUNICATO 4 AGOSTO 2014.

Un corretto funzionamento della responsabilità civile dei magistrati costituisce un fondamentale strumento per la tutela dei cittadini ed un necessario corollario all’indipendenza ed all’autonomia della magistratura. Il meccanismo previsto dalla legge Vassalli adottato in esito al referendum abrogativo del 1987 ha funzionato in modo assolutamente limitato. La legge, infatti, pur condivisibile nell’impianto, prevede una serie di limitazioni per il ricorrente che, di fatto, finiscono per impedire l’accesso a questo tipo di rimedio e rendono poi aleatoria la concreta rivalsa sul magistrato ritenuto eventualmente responsabile. Si tratta, quindi, d’intervenire per rendere effettivo questo strumento. Un’ulteriore esigenza di intervento è rappresentata dalle pronunce della Corte Europea di Giustizia, che sollecita una maggiore effettività nelle procedure previste per il riconoscimento delle responsabilità conseguenti alla errata applicazione del diritto comunitario da parte del giudice.

Ampliamento dell’area di responsabilità. L’intervento sull’attuale disciplina di settore riguarda in primo luogo il profilo dell’ampliamento dell’area di responsabilità su cui possa far leva chi è pregiudicato dal cattivo uso del potere giudiziario, in linea con il diritto dell’Unione europea che include le ipotesi di violazione manifesta delle norme applicate ovvero manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove. In secondo luogo la responsabilità sarà estesa, nella ricorrenza dei medesimi presupposti, al magistrato onorario. I giudici popolari resteranno responsabili nei soli casi di dolo.

Superamento del filtro. Uno degli obiettivi del progetto è il superamento di ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato, che lo Stato dovrà esercitare a seguito dell’avvenuta riparazione del pregiudizio subito in conseguenza dello svolgimento dell’attività giudiziaria.

Certezza della rivalsa nei confronti del magistrato. L’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, esercitabile quando la violazione risulti essere stata determinata da negligenza inescusabile, diverrà obbligatoria.

Incremento della soglia della rivalsa. Sarà innalzata la soglia dell’azione di rivalsa, attualmente fissata, fuori dei casi di dolo, a un terzo dell’annualità dello stipendio del magistrato: il limite verrà incrementato fino alla metà della medesima annualità. Resterà ferma l’assenza di limite all’azione di rivalsa nell’ipotesi di dolo.

Coordinamento con la responsabilità disciplinare. Saranno rafforzati i rapporti tra la responsabilità civile del magistrato e quella disciplinare.

Per armonizzarsi con l'Europa, scrivono in via Arenula, bisogna innanzitutto includere tra le ipotesi di responsabilità civile del giudice «la violazione manifesta delle norme applicate ovvero il manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove», una sorta di punizione per la negligenza grave. Punizione che riguarderà sugli stessi presupposti anche i magistrati onorari, mentre i giudici popolari (cioé i cittadini aggregati alle Corti d'Assise) resteranno responsabili solo per i casi di dolo.  Nel progetto dell'esecutivo salta il filtro a protezione dei magistrati: una volta che lo Stato sia stato condannato a riparare il danno da denegata/errata giustizia, «dovrà» esercitare l'azione di rivalsa contro la o le toghe responsabili, azione che in sostanza diventa «obbligatoria». La rivalsa dello Stato sarà, da un punto di vista patrimoniale, «illimitata» nei casi di comprovato dolo del magistrato, mentre se gli sia addebitabile solo una negligenza lo Stato potrà rivalersi solo fino alla metà (oggi è un terzo, ma l'azione non è obbligatoria) dello stipendio annuale. Resta comunque esclusa l'azione diretta del cittadino nei confronti del giudice. Le linee guida creano infine un legame diretto e necessario tra responsabilità civile e azione disciplinare. Una condanna per negligenza costerà al giudice anche un procedimento amministrativo che, pare di intuire, non potrà prescindere dall'esito della prima. Quanto alla riduzione del filtro per l'azione volta a ottenere il risarcimento, «bisogna stare attenti perché è alto il rischio di azioni strumentali, cioè di reazione a un provvedimento sgradito del magistrato. Se si toglie il filtro, occorre evitare la proliferazione di azioni infondate, attraverso disincentivi o forme di sanzioni», ha detto il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli».

“L’Anm grida al lupo, quando il lupo, di fatto, ha fatto marcia indietro”. Esordisce così il Senatore Enrico Buemi, Capogruppo del Partito Socialista Italiano (PSI) in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, interpellato dal Velino, a proposito della reazione del sindacato delle toghe alle linee guida del Governo sulla riforma della giustizia in materia di responsabilità civile dei magistrati. Buemi, che è relatore della norma al Senato e che sulla responsabilità civile dei magistrati ha presentato la pdl n. 1070, spiega che la sanzione applicabile in caso di colpa grave del magistrato “è molto limitata rispetto all’elaborazione fatta in commissione Giustizia, dove si profilava che il minimo recupero economico potesse essere intorno al 50% del danno arrecato”. Mentre nelle linee guida della riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando è previsto che il risarcimento per chi ha subito il danno può arrivare fino al 50% dello stipendio annuo netto del magistrato al momento in cui sono avvenuti i fatti. “Una briciola di incremento – commenta Buemi – rispetto a una situazione che prima era irrisoria. Stiamo infatti parlando di qualche migliaio di euro di incremento, passando dal 30% al 50% dello stipendio, e cioè a 25/30 mila euro di risarcimento del danno, in più col vincolo del prelievo mensile di un massimo del quinto dello stipendio”. Il risarcimento previsto dal ministero non e’ proporzionale al danno. “Di fronte a un danno che potrebbe essere di decine di migliaia di euro, penso in particolare ai magistrati del civile, c’è una non proporzionalità, tra il danno arrecato e la sanzione applicata”, osserva Buemi. Un discorso che vale anche per i comportamenti che prevedono la limitazione della libertà. “I magistrati – spiega ancora Buemi – non hanno mai risposto civilmente per gli arresti prolungati nel tempo che hanno generato azioni di risarcimento da parte di coloro che li hanno subiti. In 25 anni di applicazione della norma Vassalli – ricorda il senatore Psi – solo quattro casi sono andati a compimento, ma nessuno ha avuto un’azione di rivalsa”. Insomma “il lupo non c’è e nessuno c’è l’ha con i magistrati che svolgono azione meritoria – osserva Buemi rispondendo alle preoccupazione dell’Anm – inoltre è sempre un giudice che deve stabilire se un altro giudice ha commesso o no colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni”. Quando la riforma passerà all’esame del Parlamento “chiederò ai colleghi un atteggiamento coerente e lo chiederò anche al presidente del Consiglio, che in più riprese ha detto che ci deve essere lo stesso tipo di recupero rispetto al danno arrecato. Non dico che ci debba essere un recupero al cento per cento, ma ci deve essere una proporzionalità – ribadisce Buemi – tra il danno arrecato e l’azione di concorso all’indennizzo della parte che ha subito il danno, un indennizzo che non può essere irrisorio”.

Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani, intervistata da Andrea Barcariol su “Il Tempo” accoglie positivamente le linee guida sulla riforma della Giustizia ma con una grande riserva sul testo finale: «Dubito che rimanga così». Ampliata la responsabilità civile dei magistrati, in linea con le direttive europee, anche se non ci sarà responsabilità diretta.

Soddisfatta?

«Si tratta di una serie di intenzioni che mi sembrano piuttosto serie. Essendo passati 27 anni da quando il popolo italiano decise che voleva la responsabilità civile dei magistrati (legge Vassalli ndr), mi auguro che questa sia la volta buona».

Si aspetta dei cambiamenti tra la bozza e il testo finale?

«Le pressioni che farà l’Anm (associazione nazionale magistrati) saranno pesanti, come è normale in uno Stato dove non è affermata in modo chiaro la separazione dei poteri. Basti pensare a tutti i magistrati fuori ruolo che sono distaccati, in particolare presso il ministero della Giustizia. Affermare la responsabilità civile è giusto ma è necessario intervenire anche in altri settori come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale che oggi lascia completamente nelle mani della magistratura la scelta dei processi da celebrare e quelli da far cadere in prescrizione che sono circa 140 mila all’anno».

Il presidente Sabelli dell’Anm ha già parlato del rischio di cause strumentali.

«Saranno sempre i magistrati a giudicare... Cause strumentali ci possono sempre essere, a volte sono strumentali quelle che vengono fatte nei confronti dei cittadini che subiscono processi inutili».

Quali sono gli aspetti che la convincono di più del testo?

«Voglio vedere quanto regge il testo rispetto alle pressioni, ciò dimostrerà anche la determinazione del governo. L’aver previsto la violazione manifesta del diritto è un passaggio importante su cui c’era forte opposizione da parte dei magistrati. Sull’azione di rivalsa è vero che è sempre indiretta però lo Stato deve obbligatoriamente rivalersi nei confronti del magistrato quando c’è una negligenza inescusabile».

Quindi, secondo lei è stato centrato l'obiettivo dichiarato di togliere le limitazioni del ricorrente per facilitare l’azione di rivalsa?

«Se il testo rimane questo mi sembra un enorme passo avanti, ma io ne dubito».

Hanno troppo potere i magistrati...

«Comandano loro. Loro si scelgono i reati da perseguire e quelli da far cadere in prescrizione».

La responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…

La Camera ha dato il 2 febbraio 2012 l’ok alla norma sulla “responsabilità civile dei giudici” con un voto trasversale: 264 sì. Anche parlamentari di Pd, Idv, Terzo polo e gruppo misto quindi hanno votato a favore dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini. “Partendo da un pronunciamento della Corte di giustizia europea, introduce il principio per cui «chi ha subito un danno ingiusto da un magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave» possa chiedere il risarcimento non solo allo Stato ma anche al «soggetto colpevole», ovvero al giudice che l’ha mandato ingiustamente in carcere o che gli ha causato problemi materiali, morali e psicologici” La responsabilità civile diretta preoccupa i magistrati. Per ora, se sbagliano, è lo Stato a punirli (può prelevare non oltre 1/3 dello stipendio), scrive “Tempi”. Dal 1988 al 2012, i casi in cui è stata applicata la responsabilità (indiretta) sui magistrati si contano sulle dita di una mano più un dito: 6. La giustizia è chiaramente blanda con le toghe. E ciò sembra confermato da una recente sentenza sulle punizioni dei magistrati delle Sezioni Unite della Cassazione. Nelle motivazioni di una sentenza di aprile 2014, depositate ieri, a poche ore dal sì della Camera all’emendamento Pini, le toghe supreme affermano che è troppo penalizzante la legge che obbliga il trasferimento di un giudice o di un pm per ogni condotta contraria al suo dovere di magistrato, anche se il magistrato in questione ha violato i suoi doveri. Per questo la Cassazione ha chiesto un parere alla Corte Costituzionale. La Cassazione si è espressa sul caso di un magistrato del tribunale di Cesena (anonimo) che nell’autunno 2010 dimenticò di liberare due persone dalla custodia cautelare. Soltanto 56 giorni dopo la scadenza dei termini di custodia, i due cittadini furono liberati dal giudice. Il caso finì al Csm, che condannò il giudice di Cesena al trasferimento di sede per avere agito «con negligenza inescusabile» e perché «arrecava un ingiusto danno ai predetti imputati che sono stati ingiustificatamente ristretti sine titulo per un mese e venticinque giorni». Il giudice, prosciolto dall’accusa di «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», ma “condannato” al trasferimento, fece ricorso in Cassazione. Nella sua difesa in Cassazione, il giudice condannato ha spiegato che la dimenticanza era un fatto di «scarsa rilevanza», che «era conseguenza delle carenze organizzative dell’ufficio». Un fatto che «non aveva compromesso la sua immagine di magistrato». La risposta della Cassazione? Ha sospeso la pena del magistrato e bocciato la legge che prevede il trasferimento dei giudici, impugnandola davanti alla Corte Costituzionale. Secondo la Cassazione, infatti, «la misura del trasferimento di sede o di ufficio è particolarmente afflittiva per il magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale». Non può dunque essere sempre e automaticamente prevista, nemmeno nel caso in cui il magistrato violi i diritti degli imputati e i propri obblighi di «imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio».

Responsabilità civile dei giudici. Il leghista Pini: «Non si può difendere l’impunità assoluta delle toghe». Intervista di Francesco Amicone su “Tempi” al deputato del Carroccio, che primo firmatario dell’emendamento approvato alla Camera. «I magistrati paghino i propri errori come tutti. Almeno in caso di dolo». È passato alla Camera (187 voti a favore contro 180) l’emendamento che riscrive l’articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati. Di seguito riproponiamo la lettura dell’intervista che facemmo a Gianluca Pini (Lega), primo firmatario. Perché i magistrati che sbagliano non dovrebbero risarcire le vittime dei propri errori? «Non si fanno sconti a tutti gli altri professionisti, anche quelli che svolgono lavori delicati», denuncia il deputato leghista Gianluca Pini a tempi.it. «Dal medico chirurgo al professore di scuola – spiega il vice-capogruppo alla Camera della Lega Nord – se un dipendente pubblico (e ovviamente un privato) commette uno sbaglio nello svolgimento delle proprie mansioni, può subire una causa civile. I magistrati sono gli unici a godere dell’immunità». La deduzione di Pini, che ha presentato alla Camera un emendamento sulla responsabilità civile dei magistrati, è logica: «Se la legge è uguale per tutti, i magistrati devono rispondere direttamente del proprio operato e risarcire le vittime dei propri errori dolosi».

Onorevole Pini, la sua “domanda di eguaglianza” è disattesa dal 1987, quando a favore della responsabilità civile delle toghe si espresse il 80 per cento degli elettori. Ad oggi, né il Parlamento né la Corte costituzionale hanno saputo dare risposta: perché?

«Quando si parla di magistrati si cerca di stare molto attenti e molto spesso si finisce per non cambiare nulla. I detrattori della responsabilità diretta oppongono a una legge giusta, che toglie l’immunità totale ai magistrati, fantomatiche questioni sull’indipendenza e sull’autonomia dell’ordine, messe in discussione – secondo questa curiosa teoria – dal desiderio di giustizia delle vittime degli errori giudiziari. Mi chiedo cosa c’entri la terzietà dei magistrati con l’impossibilità per un cittadino di fare causa a pm e giudici che commettono errori dolosi nei suoi confronti».

Si dice, per esempio, che i giudici, spaventati dal rischio di una causa, avrebbero timore di fare il loro mestiere.

«Mi scusi, fare il chirurgo forse è un lavoro meno delicato del magistrato? Fra l’altro, i magistrati sono già dotati di una copertura assicurativa e a giudicarli sarebbero altri magistrati. L’obiezione è risibile».

All’estero però non si prevede la responsabilità diretta dei magistrati.

«Vero, ma si dimentica di ricordare che all’estero rimuovere giudici e pm che sbagliano è molto più semplice. In Inghilterra, per esempio, basta il voto della maggioranza del Parlamento. Vogliamo farlo anche in Italia? Vogliamo introdurre la chiamata diretta dei giudici da parte di organismi politici? Oppure vogliamo eleggere i procuratori e i giudici come avviene in alcuni stati americani? Da noi è l’organo di autogoverno dei magistrati a giudicare i comportamenti dei magistrati e a decidere della loro carriera. Ed è risaputo che non sia particolarmente duro nei confronti dei colleghi che sbagliano. In qualche modo, bisogna riequilibrare il sistema».

Il suo tentativo di “responsabilizzare” giudici e pm è già stato affossato nel 2012. E poche settimane fa è stato bocciato un secondo emendamento sulla responsabilità civile, grazie ai voti del Movimento 5 Stelle. Perché lo ripresenta?

«Perché il voto si terrà a scrutinio segreto, come è avvenuto nel 2012, quando l’emendamento passò alla Camera grazie ai voti della sinistra. Non diventò legge a causa dell’opposizione del governo Monti e del Pdl. Ora vedremo cosa diranno i nuovi partiti Forza Italia e Ncd. Il mio emendamento è molto meno “duro” nei confronti dei pm e dei giudici rispetto a quello bocciato di recente. Spero che possa essere accolto anche dai 5 Stelle. Beppe Grillo un tempo si diceva a favore della responsabilità diretta dei magistrati: ha cambiato idea, come sul reato di immigrazione clandestina?»

In cosa consiste l’emendamento?

«Si tratta dell’applicazione di una sentenza di condanna allo Stato italiano della Corte di giustizia europea e mai applicata. La Corte denuncia che in Italia è quasi impossibile chiamare in causa i magistrati che non applicano una norma comunitaria favorevole al cittadino, nonché che la normativa è inefficace e restrittiva nel sanzionare il singolo magistrato. L’emendamento si limita a estendere la norma in applicazione della sentenza a tutti i casi e non solo in merito a quelli europei, aggiungendo che l’errore per chiamare in causa – direttamente – il magistrato deve essere fatto con dolo. In pratica, un giudice può essere chiamato in sede civile dal cittadino solo se va volontariamente contro la legge. Nel 2013 l’Europa ha aperto una procedura di infrazione per non aver applicato la sentenza. Cosa vogliamo fare?»

Sta dicendo che lo Stato oltre a rispondere per gli errori dolosi dei magistrati potrebbe essere costretto a pagare una multa perché non si rivale su di loro? Cosa impedisce ai magistrati italiani di indignarsi di fronte a questa iniquità che danneggia i cittadini contribuenti e favorisce i colleghi che sbagliano?

«Di certo c’è che i bravi magistrati non hanno alcuna ragione di opporsi alla norma. Infatti si applicherebbe soltanto in caso di dolo e di manifesta violazione dei diritto. La legge è necessaria, visto che il principio della malatissima giustizia italiana è classificare un imputato come colpevole fino a prova contraria. Nel frattempo i processi durano anni e, anche quando finiscono in niente, la vita degli innocenti è rovinata. Una norma sulla responsabilità civile diretta come questa sarebbe utile a rendere davvero indipendente e terzo il magistrato che valuta i casi e ad applicare la normativa europea. Servirebbe anche a eliminare qualsiasi “fumus persecutionis”. Ci sono tanti esempi, purtroppo, di come i magistrati italiani evitano di applicare una legge “in favor rei”, trascinando il processo fino in Cassazione. Quando poi i cittadini si rivolgono allo Stato per ottenere i risarcimenti e agire indirettamente sui magistrati, nella maggior parte dei casi non succede nulla».

La responsabilità civile diretta dei magistrati riuscirà a diventare legge? A favore ci sono anche molti esponenti della sinistra, come Giuliano Pisapia. Oppure prevarrà l’ala degli strenui difensori della corporazione?

«Spero nel buon senso. L’emendamento arriverà in Parlamento, probabilmente, nella settimana successiva al voto per le europee. Grazie allo scrutinio segreto, la sinistra potrà emanciparsi dalle posizioni di alcuni guardiani del sindacato presenti nelle sue schiere, ex pm e giudici, magistrati in aspettativa, oggi parlamentari. Non si può difendere l’assoluta impunità delle toghe, anche quando commettono errori dolosi.

Responsabilità civile dei magistrati, Mantovano: “Ora o mai più”, diceva l’8 febbraio 2012 a Chiara Rizzo su “Tempi”. “Qualsiasi professionista, un medico, un avvocato, un ingegnere è responsabile per i suoi atti. Che lo diventi personalmente anche un giudice, che questi sia messo sullo stesso piano di un altro professionista, non scalfisce alcun un principio di responsabilità”. Il deputato e magistrato Alfredo Mantovano spiega perché è giusto che un giudice paghi se sbaglia. Il deputato Alfredo Mantovano (Pdl) è stato magistrato di Cassazione, e dal 2008 al novembre 2011 sottosegretario all’Interno. Ora è tornato a Montecitorio, dove, lo scorso 2 febbraio ha votato favorevolmente all’emendamento Pini: quello cioè che, con 264 voti favorevoli, prevede la responsabilità civile dei magistrati. Dopo il voto, sono fioccate le polemiche. A tempi.it, Mantovano spiega perché ha deciso di votare a favore del provvedimento.

Mantovano, avete forzato la mano?

«È difficile parlare di forzature 25 anni dopo un referendum che è rimasto praticamente inattuato. Nell’87 gli italiani votarono favorevolmente all’introduzione della responsabilità civile per i magistrati. Da allora, al momento di intervenire a livello legislativo, si dice sempre che non è il momento adatto e si trova una ragione per rinviare. Questo ha fatto sì che il parlamento, quando si è presentata una situazione valida come quella attuale (con una sentenza della Corte europea che chiedeva all’Italia di intervenire sul tema e una procedura avviata nei confronti del nostro paese per l’infrazione, ndr), abbia risposto “ora o mai più”. Abbiamo rimediato ad una situazione intollerabile».

Dopo il referendum dell’87 però è stata fatta una legge, la Vassalli dell’88, che interviene sulla responsabilità dei magistrati prevedendo che il cittadino possa rivalersi e costringere lo Stato a pagare. 

«Io ero magistrato quando è uscita la legge Vassalli: l’effetto che ha prodotto è che il giorno dopo l’entrata in vigore ogni magistrato di buon senso ha sottoscritto una bella polizza assicurative Rc: essendo all’epoca noi magistrati in settemila, ci fecero anche dei prezzi di “favore”, con un acconto annuale di 120 mila lire. Con l’adeguamento oggi quell’assicurazione si aggira sui 150 euro: persino un magistrato può sopravvivere pagandola. Il problema della Vassalli è che quella legge ha un meccanismo così filtrato da giustificare, alla fine, qualsiasi operato. L’emendamento appena votato non va all’estremo opposto. Si fa valere la colpa grave del magistrato, si ampliano le maglie per chiedere il riconoscimento di una responsabilità, ma non al punto che il magistrato si terrorizzi, come ha sostenuto qualcuno. Lo si fa solo al punto che anche il magistrato sia tenuto a conoscere il diritto che deve applicare, cosa che oggi non sempre avviene. Qualsiasi professionista, un medico, un avvocato, un ingegnere è responsabile per i suoi atti. Che lo diventi personalmente anche un giudice, che questi sia messo sullo stesso piano di un altro professionista, non scalfisce alcun un principio di responsabilità».

Michele Vietti, il vicepresidente del Csm non la pensa così. Dice che i giudici «rappresentano un unicum non paragonabile agli altri professionisti», perché devono decidere chi abbia ragione tra due persone. E con questa nuova norma, secondo Vietti, «non è difficile immaginare una predisposizione a non imicarsi la parte più forte». 

«Rispondo citando due casi reali. Primo caso. Un magistrato fa spendere allo Stato migliaia di euro in intercettazioni per un’indagine che all’udienza preliminare crolla con decreti di archiviazione per quasi tutti gli indagati, anche a fronte di decine di misure cautelari già emesse. Tutto questo oggi non porta a nessuna conseguenza per i magistrati. Secondo caso. Mi è capitato di leggere una sentenza di dichiarazione di fallimento di un’azienda. Il proprietario dell’azienda, però, è stato citato in aula per potersi difendere nel giorno sbagliato. Così non si è potuto difendere, è stato dichiarato il fallimento senza che nessuno si opponesse, l’azienda è saltata in aria e i dipendenti hanno perso il lavoro. Rispetto a questi casi concreti, cosa dice il vicepresidente del Csm Vietti? Secondo lui questo chi risarcisce questi danni? E perché, secondo lui, dobbiamo accollarli alla collettività?»

Le toghe però protestano. Con l’Anm in testa che dice che questo provvedimento è incostituzionale. Perché secondo lei non è vero?

«Ho fatto il giudice per 13 anni e l’esponente di governo per 10. Perché la mia firma in calce a provvedimenti di governo mi espone subito alla responsabilità civile e quella da magistrato no? Incostituzionale semmai è trattare diversamente situazioni che rispondono alla stessa logica: due rappresentanti dello Stato perché dovrebbero essere trattati diversamente in base al ruolo che occupano?»

In Aula gran parte delle forze politiche erano d’accordo sulla sostanza dell’emendamento, ma hanno sostenuto che non fosse quello il modo giusto di trattare la vicenda. Perché il Pdl non ha fatto qualcosa in questi ultimi anni e nelle giuste sedi deputate, a cominciare dalla Commissione giustizia?

«La stessa presidente della Commissione alla Camera, Giulia Bongiorno, prima del voto, ha detto che si sarebbe dovuto intervenire in altre sedi. È singolare che proprio lei dica questo: lo chiediamo a lei, perché non lo ha fatto sinora. Non toccava a me convocare la Commissione giustizia per intervenire prima. A me pare che sia come se uno si rifiutasse di dichiararsi all’amato, e rinviasse sempre il momento. Parto da una considerazione tutta politica: al momento del voto, i partiti che avevano deciso di votare favorevolmente erano a ranghi ridotti. Ci sono stati 60 voti dati da altri partiti: è un segnale politico pesante e trasversale. Penso che non vada ignorato o peggio disprezzato. È questo il momento di intervenire. Ora, al Senato, si potrà rendere il testo dell’emendamento migliore. Non dubito che i tecnici del governo, che son più bravi di tutti, lo sapranno fare. Ma non potrà cambiare la sostanza politica: cioè deve rimanere il fatto che lo Stato non ha più la discrezionalità ma il dovere di rivalersi sul magistrato. Non vedo perché nei casi di errore che ho citato prima devono pagare i contribuenti».

Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati in 26 anni. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più realistica responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la situazione effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione civile? Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi, visto che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Le domande sono di per sé pochissime: poco più di 16 all'anno. Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime, sta nella complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato. Del resto, fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di «ammissibilità» da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un'impugnazione da parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l'8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti (generalmente dopo lunghi anni dalla presentazione). E come sono terminati i giudizi? Malissimo per i ricorrenti: perché anche alla fine del tormentatissimo iter legale, quasi metà delle richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte: ben 17. E soltanto 7 sono state accolte. Sette in totale, sulle 410 avviate: ovverosia l'1,7%. A guidare la classifica dei giudizi negativi per i magistrati è il tribunale di Perugia, con 2 casi. Un caso a testa riguarda invece le avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce, Reggio Calabria e Trento. Al momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10 riguardano l'avvocatura di Messina, al primo posto; altri 7 sono a Salerno, altri 4 a Roma e altrettanti a Trento. Tre casi si segnalano a Potenza e ad Ancona. Due a testa sono pendenti davanti alle avvocature di Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova. Una riguarda Napoli, un'altra Brescia, l'ultima Venezia. I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto. 

La responsabilità civile dei Magistrati esiste dal 1988, in 26 anni solo 4 condanne. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione» Voltaire. Da quando esiste la legge sulla responsabilità civile i magistrati non hanno mai sborsato un euro. C’è una legge che regola la responsabilità civile dei giudici. Esiste dal 1988 ed è nota con il nome di “Legge Vassalli”, scrive Enrico Novi su Il Garantista del 6 agosto 2014. Quella norma prevede in teoria che lo Stato, se costretto a risarcire un cittadino per un errore giudiziario, possa rivalersi sul giudice. In teoria, appunto. Perché in pratica quest’ultima circostanza si è verificata zero volte. Da 26 anni cioè non è ma successo che un magistrato abbia pagato per un proprio errore. Il che fa comprendere per quale motivo il ministro della Giustizia Andrea Orlando intenda rivedere la norma. Meno comprensibili sono le resistenze opposte dall’Anm. Soprattutto se si pensa che ogni anno vengono intentate, per esempio, decine di migliaia di cause per errori sanitari (circa 600mila dal 1994), e che di queste un terzo si conclude con una condanna. Su una cosa il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli batte con insistenza, riguardo alla responsabilità civile: non vanno toccati i filtri di ammissibilità. Il che di fatto equivale a dire che la legge Vassalli deve sopravvivere così com’è. Perché i “filtri” – cioè la valutazione di ammissibilità delle cause per danno giudiziario – rappresentano il punto decisivo: se non si tolgono quelli non cambia niente. E se non cambia niente i giudici continueranno a non risarcire un euro. Un euro che sia uno, e non è un’iperbole. Dall’introduzione della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, infatti, non è mai successo che lo Stato si rivalesse su un giudice. Mai, neppure una volta in 26 anni, perché la Vassalli è dell’88. Venne approvata per recepire l’esito di un referendum promosso dai radicali l’anno prima. Dopo 26 anni, con tutto il rispetto del grande giurista di cui porta il nome, si può dire che quella legge è una presa in giro. Non nelle intenzioni, evidentemente, ma nei fatti sì. In 26 anni solo 4 volte è capitato che arrivasse a sentenza definitiva una causa di risarcimento intentata contro lo Stato per un errore giudiziario. Parliamo di 4 volte in 26 anni, cioè in media viene condannato un giudice ogni 6 anni e mezzo. Dopodiché neppure in queste 4 misere occasioni il giudice in questione ha tirato fuori un soldo. Perché? Lo si deve proprio alla formulazione della legge Vassalli. Che su un punto si è rivelata particolarmente vaga: l’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Tale obbligo è formulato in modo talmente vago che di fatto non esiste. Cosicché neppure in una delle 4 occasioni in cui lo ha dovuto pagare un cittadino per colpa di un giudice, lo Stato ha provveduto ha rivalersi sul responsabile. Certo, seppure lo avesse fatto, il giudice non avrebbe comunque tirato fuori un euro dalle proprie tasche. Dalle buste paga di tutti i magistrati italiani infatti viene trattenuta una piccola quota che serve a pagare l’assicurazione sulla responsabilità civile. A quanto ammonta? “Io ho smesso di fare il giudice nel 2001: all’epoca la trattenuta era di 100mila lire l’anno”, ricorda il presidente della commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma. Oggi si arriva a circa 150 euro l’anno. Cifra davvero bassa: per una categoria di medici particolarmente esposta alle cause civili come quella dei chirurghi possono scattare premi assicurativi superiori ai 15mila euro, come segnala l’Ordine dei medici di Pavia. In pratica per ogni euro pagato all’assicurazione da un giudice, un chirurgo ne paga 100. Come si può intuire la posizione rigida assunta dall’Anm su questa materia rischia di perpetuare un effetto paradossale, di certo non voluto: ossia di preservare non solo l’intangibilità delle toghe ma anche il lucro delle assicurazioni. In 26 anni di legge Vassalli le compagnie hanno occupato il tempo a stappare champagne. Due conti: oggi a ogni magistrato vengono trattenuti in media 150 euro l’anno per la polizza; moltiplicato per i 9.000 magistrati italiani fa un milione e 350mila euro l’anno; moltiplicato per 26 anni, pure a tenere conto dell’inflazione, siamo intorno ai 30 milioni di euro. Una cifra regalata alle assicurazioni, pulita. Perché come detto, in questi 26 anni le compagnie non hanno mai dovuto pagare neppure un risarcimento. È pur vero che in qualche modo l’interesse delle toghe coincide con quello degli assicuratori. Se infatti le maglie della responsabilità civile fossero allargate, come vorrebbe fare il ministro Andrea Orlando, e aumentasse il rischio di veder condannati gli errori giudiziari, da una parte le compagnie comincerebbero finalmente a risarcire qualche danno, dall’atra aumenterebbero anche i premi assicurativi. Cioè potrebbe succedere che lo Stato debba trattenere dalla busta paga di un magistrato una cifra un po’ più consistente degli attuali 150 euro. Sempre di soldi si tratta, dunque. Di soldi e di rischi: roba da broker più che da guardasigilli. Ecco perché nella riforma di Orlando ci sono almeno altri due aspetti, oltre all’eliminazione dei filtri di ammissibilità, che tengono in allarme l’Associazione nazionale magistrati. Il primo è la definizione precisa dell’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Secondo la scheda tematica pubblicata l’altro ieri sul sito del ministero della Giustizia, la rivalsa sarebbe automatica non solo nel caso estremo del dolo (lo è già oggi) ma anche di fronte a una particolare fattispecie di colpa grave: la cosiddetta “mancanza per negligenza inescusabile”. Il secondo motivo di tensione tra governo e giudici è l’estensione dei casi nei quali un giudice può essere citato in giudizio: l’esecutivo pensa di recepire un’indicazione della Corte europea, secondo cui la responsabilità civile di un giudice deve essere prevista anche in caso di mancata adesione alla giurisprudenza comunitaria. L’Anm vorrebbe che questa casistica venisse limitata il più possibile. Il match, come si vede, è destinato ad andare avanti per parecchie riprese.

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari. Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati. Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati. E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte. Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici. Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento. Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei giudici. Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato. Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto "un fatto grave". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che : "in un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione". Con l'emendamento votato oggi "si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli - cioè un'introduzione dell'azione diretta di responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento occidentale e che presenta evidenti profili di incostituzionalità". Parte all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice: "E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio del magistrato". Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte dei conti "l'emendamento all'art. 26 della legge comunitaria, che prevede l'azione diretta di responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa, oltre ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli Stati membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus all'autonomia e all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino. "Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è  giusto, come chiede l'Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte contro i giudici e peraltro anche per mero errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - . Piuttosto bisogna proporre un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno". Nell'emendamento approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "La norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d'accordo la parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una proposta alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di mano del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento esistono proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso - aggiunge Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza Italia, come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata azzurra Daniela Santanchè, che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e gli organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente la volontà degli italiani. D'altro canto, l'astensione del M5S è del tutto vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini". Anche i 5 Stelle mostrano soddisfazione: "La nostra decisione di astenerci ha tirato fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il grillino Andrea Colletti.A fine aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del Senato, l'emendamento del M5S che cancella l'art.1, cioè il cuore del testo.  Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma non colpisce magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia", dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla responsabilità civile dei giudici e quindi a battere il governo, 187 a 180. "Il tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge, "non so perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il centrodestra".

E comunque in ogni giornalista c'è il comunista che è in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su “L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato, senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere “strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan (e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla necessità di rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come farlo. A presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge comunitaria in discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle, suona almeno in parte come una risposta della politica all’accanirsi della magistratura con inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti. “In questo momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, puntando l`indice contro chi, “proprio ora, cerca di intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”. Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente vero, infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria, era stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che il vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì (quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale), e soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori, i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema sia affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia del Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il via libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier - pur favorevole a cambiare la Vassalli - spiegò che “finché c’è un clima da derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”. Ecco, insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una pericolosa ambivalenza.

I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci ed in malafede. Toghe sporche. Pd e M5S bocciano la responsabilità delle toghe. In commissione Giustizia si forma una nuova maggioranza. Il Pd vota un emendamento del M5S che boccia la responsabilità civile dei magistrati, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Guai a toccare la magistratura. La sinistra si schiera compatta e boccia il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati fortemente voluto dal centrodestra. Democratici, grillini ed ex Cinque Stelle hanno approvato in commissione Giustizia del Senato l’emendamento degli stellati che cancella l’articolo 1, cuore del testo del ddl. "Per i seguaci di Renzi e Grillo - tuona il senatore di Forza Italia, Lucio Malan - i magistrati devono continuare ad essere gli unici cittadini che non subiscono alcuna conseguenza per i danni provocati dai loro errori, anche se clamorosi". "Siamo al paradosso. Ma qual è la maggioranza di questo governo?". A chiederlo è la senatrice di Forza Italia Elisabetta Alberti Casellati. Perchè sistematicamente in commissione Giustizia il Partito democratico vota insieme al Movimento 5 stelle, mentre Ncd, Udc e Scelta civica vengono a trovarsi all'opposizione. Lo stesso schema si è verificato oggi. Con un colpo di mano in commissione Giustizia a Palazzo Madama, piddini e grillini hanno affossato il ddl sulla responsabilità civile dei magistrati votando un emendamento del gruppo Cinque Stelle che sopprime il cuore del provvedimento. "A parole i grillini dicono che la responsabilità dei magistrati va affermata - continua la Casellati - non si può continuare così. Quando le promesse prendono il posto dei programmi vuol dire che andiamo verso la decadenza".

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte, pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati. Da zero a uno: meno di 0,5. Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.

Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema giudiziario.  Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni e milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione viene ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di “L’Espresso”  nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela particolari e retroscena inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il potere in Italia. Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al giorno. Gli esami per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta come i giudici si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla politica. Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede che dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente  dagli incarichi e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Solo sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012, sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono state giudicate negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei lavoratori “medi”. Gli inquirenti tedeschi si accontentano di un multiplo più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa la macchina giudiziaria agli italiani? Per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal Cepej), contro una media europea di 57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini ci sono. Peccato, però, che come tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti male. Da noi ci sono 2,3 Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in Francia uno. Ogni togato dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti factotum dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7. Uno in meno quindi. Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle. Cane non mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute 5.921 notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben 5.498, cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono stati sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che i giudici ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro. Lo 0,28%. Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la legge sulla responsabilità civile che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la norma 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per colpe specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%, sono in attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione. 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia perso solo 4 volte. Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per ogni giorno effettivo di impiego. Su questi dati, Livadiotti non è mai stato smentito. Né con i fatti, né con le parole. Ebbene sì, tutto questo è lo scandalo degli scandali. La macchina della giustizia dovrebbe cambiare in tutto e per tutto, essere rivoltata come un calzino. I veri privilegiati, anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati. La vera grande colpa di Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10 anni di governo, una legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei giudici. Questa, nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi, in Italia sono costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati. Prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, poteri e un’immunità che non ha pari al mondo.

I Radicali utilizzano come bandiera di questa parte del referendum Enzo Tortora, il presentatore tv vittima di un gravissimo caso di malagiustizia a causa del quale, innocente, passò anni in carcere e morì poco dopo la sentenza che lo assolveva definitivamente. Il quesito quindi ha lo scopo di "rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati". La responsabilità civile del magistrato non è assolutamente sanzionata dal nostro ordinamento, nonostante il referendum del 1987 (dove votò per il Si oltre l’80% degli elettori) e la legge che ne scaturì (l.13 aprile 1988 n. 117) fu semplicemente una legge truffa, che non ha affatto risolto il problema. Anche lo scandalo dei magistrati “fuori ruolo” deve cessare senza starci troppo a pensare: in un paese dove c’è un arretrato mostruoso di processi e dove una sentenza civile ci mette mediamente 8  anni per arrivare in porto, ci permettiamo il lusso di centinaia di magistrati collocati fuori ruolo, perché applicati presso i ministeri o perché eletti in Parlamento o per cento altre strane ragioni. Bisogna stabilire una volta per tutte che i magistrati possono candidarsi solo dopo essersi dimessi dalla magistratura (ed ovviamente non rientrarci dopo). Quanto a quelli applicati presso i ministeri, appare evidente quanto sia inopportuno questo intreccio fra esecutivo e giudiziario, anche sul piano della separazione dei poteri, così spesso invocata a proposito ed a sproposito. Chi è contrario a questa norma sottolinea come in questo modo i magistrati non si sentirebbero più liberi di svolgere la loro azione penale, temendo di dover pagare (in senso lato e in senso letterale) per ogni loro errore.

E a proposito di privilegi, benché non sia mai stata applicata la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988 varata sull'onda dell'emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane sono riuscite anche a stipulare  un accordo molto vantaggioso con le assicurazioni. Siglato da una parte dall' ANM e dall'altra  dalla  BNL Broker Assicurazioni: con soli 138,60 euro all’anno, si sono così messi al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di errori giudiziari. Eventualità invero remota visto che  la legge voluta da Vassalli e Craxi (a cui gli interessati dimenticarono di attestare eterna gratitudine), mette a carico della collettività l'eventuale errore per colpa grave del singolo. Ma nella vita non si sa mai. 

Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata.  Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.

Scherzi della politica e dell’informazione: ipocriti e codardi. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge, non si era mossa foglia. Ogni tentativo era andato a sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che avevano il comune obiettivo di abbattere Berlusconi. Ricordate? Toccare i giudici era considerato un attentato alla Costituzione. Poi all’improvviso, quando meno te lo aspetti, cioè il 2 febbraio 2012, ecco arrivare un voto segreto che introduce la responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia pagherà di persona, come avviene per qualsiasi cittadino lavoratore. L’idea, cioè l’emendamento alla legge comunitari 2011, è della Lega, ma coperti dal segreto l’hanno sostenuta in massa a destra come a sinistra, come probabilmente addirittura da alcuni esponenti dell’IDV. Quei furbetti del governo Monti, per bocca del Guardasigilli, hanno fatto la parte degli indignati perché anche a loro i pm fanno un po’ paura. Prima hanno chiesto al parlamento di votare contro. Poi, smentiti dalla loro maggioranza Pd-Pdl, si sono augurati, sempre per bocca della ministra della Giustizia Severino, che il Senato bocci la legge. I magistrati sono furenti, ovviamente. Traditi pilatescamente dal governo dei professori e da una parte della sinistra che dopo averli usati in chiave antiberlusconiana adesso li scarica. Ma hanno poco da urlare, le toghe. Non si capisce perché possano essere toccati presunti privilegi di tassisti, benzinai, farmacisti, pensionandi e non i loro. Del resto la Camera non ha fatto altro che accogliere, con 25 anni di ritardo, la volontà degli italiani che in un referendum del 1987 avevano (invano) deciso che i magistrati dovevano pagare personalmente per i loro errori e per dolo o colpa semplice. Sulla responsabilità civile la Camera vota in linea con l'Europa, facendo passare un emendamento della Lega che prevede la possibilità di fare ricorso contro giudici solo nel caso agiscano con dolo o colpa grave. Una posizione sacrosanta, che garantisce il giusto processo e tutela i cittadini e, questa l'indicazione dei vertici Ue, può sanare un grave difetto di sistema della giustizia italiana che allontana gli investitori stranieri. Ecco perché migliorare il processo civile può significare più competitività e non solo più "civiltà" (basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, senza contare gli errori giudiziari.

Sì alla responsabilità civile dei magistrati. La Camera ha approvato l'emendamento presentato dal leghista Gianluca Pini votando contro il parere del Governo. A scrutinio segreto voluto dalla Lega, l'emendamento è passato con 264 sì e 211 no. Immediata la reazione delle opposizioni. Il leader Idv Antonio Di Pietro ha invocato il ricorso ai "forconi" da parte degli italiani, mentre il futurista Italo Bocchino ha definito il voto di Montecitorio "la vendetta della Casta" nei confronti della magistratura. Anche l'Associazione Nazionale Magistrati ha usato toni assai aspri criticando la decisione dei deputati. Si sa. In Italia i magistrati dovrebbero applicare la legge, e spesso non ci riescono, ma vorrebbero anche emanarla. La norma prevede che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave (non semplice colpa come per i comuni mortali, compresi i medici, gli ingegneri, ecc.) nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto - si legge nel testo presentato dal deputato Pini - deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonchè se abbia   ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea".

Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, semmai si acclamerà l'errore da parte di un suo collega (sic), mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori. "Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici", ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di dolo e colpa grave. "Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte". Il governo, come scritto, si era detto contrario all'emendamento leghista ribadendo però "l'impegno ad affrontare il tema della responsabilità dei magistrati nel quadro di una discussione organica ed in tempi rapidi, in una logica di insieme nella debita sede e in maniera organica". Lo ha ribadito il ministro per le Politiche comunitarie Enzo Moavero prima del voto, spiegando che "la legge comunitaria mal si presta ad affrontare tematiche di respiro più ampio rispetto al mero recepimento di normative. La sentenza della Corte di Giustizia Ue richiamata dall'emendamento - ha aggiunto - si riferisce a questioni di diritto europeo". Con l’approvazione dell’emendamento è finita con Antonio Di Pietro a gridare contro una «maggioranza trasversale piduista» e l’Associazione nazionale magistrati a denunciare una «norma incostituzionale» contro la quale il sindacato delle toghe è pronto alle «più estreme forme di protesta». A partire dallo sciopero. A far infuriare l’ex pm e l’Anm, il via libera dell’Aula di Montecitorio all’emendamento del leghista Gianluca Pini che introduce la responsabilità civile dei magistrati modificando la “legge Vassalli” del 1988, che finora ha consentito al cittadino, in caso di errore grave delle toghe, di rivalersi esclusivamente sullo Stato. I sì sono stati 264, i voti contrari si sono fermati a 211. Uno l’astenuto: l’ex ministro prodiano Giulio Santagata (Pd). Un esito che ha scatenato la caccia al franco tiratore con accuse incrociate tra Pdl e Pd. In mezzo il governo, in realtà il vero sconfitto: in Aula Enzo Moavero, ministro per gli Affari europei, aveva espresso parere contrario al provvedimento. Moavero prende la parola perché Pini presenta l’emendamento all’interno della legge comunitaria 2011. Motivazione: la sentenza della Corte di giustizia europea del 24 settembre 2011 che ha condannato l’Italia, «uno dei pochissimi Stati occidentali che non permette ad un cittadino che ha subìto un’ingiustizia o un danno» di ricorrere contro le toghe. Moavero, però, commette l’errore di schierare l’esecutivo contro l’emendamento. Meglio affrontare la materia, spiega, «in una logica di insieme, nella debita sede e in maniera organica». Un autogol perché di lì a poco Gianfranco Fini accoglierà la proposta della Lega di votare a scrutinio segreto: si tratta, spiega il presidente della Camera, di un tema che «incide sull’articolo 24 della Costituzione». Protetti dal segreto, i deputati si liberano dal vincolo dell’obbedienza al governo e l’emendamento passa addirittura con 26 voti in più della maggioranza richiesta. È il finimondo: Dario Franceschini, capogruppo del Pd, accusa il Pdl di aver disatteso gli impegni. «Non possiamo veder rispuntare la vecchia maggioranza», rincara la dose il segretario, Pier Luigi Bersani. Attacchi che Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, bolla come «ingiustificati». I numeri gli danno ragione: sulla carta l’ex maggioranza (più i Radicali e l’intero gruppo Misto) disponeva di 227 voti. Lo stesso Pdl, inoltre, scontava 55 deputati assenti e 12 in missione. Conclusione: il testo non sarebbe potuto passare senza i franchi tiratori di Pd e Terzo polo. Una ricostruzione sposata da Di Pietro, che infatti denuncia l’esistenza di «cinquanta traditori che hanno votato in modo difforme dai loro gruppi. E cinquanta è un numero troppo grosso perché siano tutti di un solo gruppo: vanno cercati tra quanti si erano dichiarati contro l’emendamento Pini. Ovvero Pd, Udc, Fli e Idv». Fatto sta che il governo, incalzato dall’Anm che parla di «ritorsione contro la magistratura», non ci sta e invoca un intervento del Senato per correggere la norma. «Prendo atto della volontà del Parlamento. Confido però che in seconda lettura si possa discutere qualche miglioramento», avverte Paola Severino, ministro della Giustizia, che dice no a «interventi spot». E Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, risponde all’appello: «La norma si potrà correggere. I magistrati aspettino a scioperare». Parole che non piacciono ad Alfredo Mantovano, ex sottosegretario all’Interno, che in Aula ha difeso l’emendamento: «Non vogliono questa norma? Ne scrivano una migliore. Ad esempio un disegno di legge organico al quale possa essere assicurata una corsia preferenziale. Il governo dia seguito alla pronuncia di una larga parte della maggioranza che sostiene l’esecutivo». Il Guardasigilli è nel mirino del Pdl, dove non sono passate inosservate le sue ultime nomine. Dopo la scelta di due esponenti di Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell’Anm, per le poltrone di capo di gabinetto e capo degli ispettori di via Arenula, Filippo Grisolia e Stefania Di Tomassi, il consiglio dei Ministri potrebbe rimuovere Franco Ionta dal vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Al suo posto, Severino è pronta a proporre la nomina di Giovanni Tamburino, presidente del tribunale di sorveglianza del Lazio. Negli anni Ottanta, Tamburino è stato tra i fondatori del “Movimento per la giustizia”, altra corrente di sinistra delle toghe.

Anche i magistrati italiani sbagliano, come tutti i comuni mortali. Spesso violando la legge. E’ raro, però, trovare il nome di un magistrato inquisito, sbattuto nelle prime pagine delle cronache. Casi unici, poi, sono i magistrati condannati dai colleghi. A questa genuflessione si sono adeguati i nostri parlamentari, bacchettati dalle Autorità comunitarie. Sussiste la responsabilità dei magistrati anche per colpa semplice secondo la Corte di Giustizia europea. Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi dello Stato è regolato dalla legge. L’art. 3 della Costituzione esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti, non privati. Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio, o lesioni, o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc. L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche. Al dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e Sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno riconosciuto. Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati. I magistrati sono liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona. I magistrati sono liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per calunnia e diffamazione. Al cittadino, che per anni ha subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto prosciolto, ovvero da persona offesa ha visto il reato archiviato o prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi. C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni. Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:

«1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.

2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

3. Costituiscono colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

b) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria». Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione di cui esso fa parte. D'altronde basta poco a giustificare un diniego di giustizia. Se, come da molti è considerato, il magistrato è Dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato da altro magistrato, non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente. Per il diniego di giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa, l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità del Magistrato, quando amministra la giustizia, o quando è seduto in Parlamento a farsi le leggi, ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia. I magistrati devono meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini unti dal Signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad equilibrare gli interessi in campo. L’azione di rivalsa opera solo in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità dello Stato. La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati e la mancata applicazione dell’art. 234 CE. Lo fa con la sentenza del 13 giugno 2006, nel procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova, con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica Italiana. La sentenza si inquadra in un risalente filone, nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva, inoltre, rifiutato di sollevare questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati). Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale, che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler”   A questo punto non si può pretendere che il cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.

LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI. TRA GARANZIE COSTITUZIONALI, MONITI EUROPEI, SUSSULTI REFERENDARI E LEGISLATIVI. Relazione resa dal Cons. Nicola Durante (Magistrato amministrativo) al convegno sul tema “Giustizia oggi”, organizzato presso la Prefettura di Catanzaro il 3 dicembre 2013. SOMMARIO: 1. La disciplina vigente; 2. Principali peculiarità e fondamento costituzionale del sistema; 3. Problematiche di compatibilità col diritto comunitario; 4. Spinte innovatrici e proposte referendarie.

1. La disciplina vigente.  La materia della responsabilità civile dei magistrati è oggi regolata dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (c.d. “legge Vassalli, dal nome del ministro guardasigilli dell’epoca), emanata a seguito dell’abrogazione referendaria degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., avvenuta nel 1987. In precedenza, poteva aversi responsabilità civile del magistrato solo in caso di dolo, frode o concussione. In forza dell’art. 28 Cost., la responsabilità si estendeva poi allo Stato, per immedesimazione organica. Rispetto a tale schema, la disciplina vigente si fonda sul principio opposto: l’illecito civile del magistrato obbliga verso il danneggiato esclusivamente lo Stato che, se condannato, esercita la rivalsa nei confronti del proprio dipendente. Analizzando per sommi capi il testo normativo, si rileva che, ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge, l’illecito può avere forma attiva od omissiva (c.d. “diniego di giustizia”). L’art. 2 pone, tuttavia, tre importanti limitazioni all’insorgere della responsabilità. Anzitutto, il danno deve avere natura tendenzialmente patrimoniale, essendo quello non patrimoniale risarcibile solo se conseguente ad un’ingiusta privazione della libertà personale. Quindi, la fattispecie illecita dev’essere sorretta dall’elemento psicologico del dolo o della colpa grave, riguardo alla quale ultima, il comma 3 dell’art. 2 tipizza quattro distinte ipotesi: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Infine, per effetto della c.d. “clausola di salvaguardia” di cui al comma 2, «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». Secondo l’art. 4 della legge, l’azione di risarcimento si esercita, nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, quando il provvedimento causativo del danno è divenuto definitivo. La stessa decade, in genere, dopo due anni dal momento in cui l’azione è diventata esperibile. Competente sul giudizio è il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello determinato a norma dell’art. 11 c.p.p., il quale deve preliminarmente valutare se l’azione è inammissibile rispetto ai termini od ai presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4, ovvero se è manifestamente infondata, provvedendo in tal caso con decreto motivato, impugnabile in corte d’appello e successivamente per cassazione. Se la domanda è ammissibile, gli atti sono trasmessi ai fini dell’azione disciplinare, che va esercitata entro due mesi e nel cui ambito rileva anche la colpa semplice. Il magistrato che ha causato l’illecito non può essere assunto come teste, né può essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento. La condanna fa stato nel giudizio di rivalsa solo se il magistrato è intervenuto volontariamente in giudizio. Non fa stato nel procedimento disciplinare. In nessun caso, fa stato la transazione raggiunta dallo Stato con il danneggiato. L’azione di rivalsa è promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, entro l’anno dalla definitività della condanna. Il foro è lo stesso della causa principale e la misura della rivalsa non può superare il terzo dello stipendio percepito dal magistrato nell’anno in cui è proposta l’azione di risarcimento. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. Se l’illecito scaturisce da una decisione collegiale, non ne risponde il magistrato che abbia fatto constare a verbale il proprio dissenso succintamente motivato. Detta facoltà non è in contraddizione con la generale regola di segretezza del contenuto della discussione sulle questioni affrontate dal collegio al fine di pervenire alla decisione, dal momento che il verbale va inserito in un plico sigillato, le cui modalità di conservazione sono tali da escludere la conoscibilità all’esterno dell’esistenza del dissenso.

2. Principali peculiarità e fondamento costituzionale del sistema. La prima peculiarità del sistema dianzi succintamente descritto deriva dalla scelta del legislatore di traslare l’azione di rivalsa – e, cioè, il giudizio sulla responsabilità amministrativa del magistrato – dalla sua sede naturale (la Corte dei conti) al giudice ordinario. La deroga, per la sua specialità, opera nel solo ambito della responsabilità civile, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 13 della legge, in presenza di un danno da reato, commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, l’azione di responsabilità è esperibile direttamente nei confronti di quest’ultimo ed anche in sede penale, mentre l’azione – questa volta chiamata «di regresso» – dello Stato, tenuto al risarcimento nella qualità di responsabile civile, è mantenuta in capo alla Corte dei conti ed è assoggettata alle regole ordinarie sul pubblico impiego. Ma ogni qual volta un’ipotesi di reato non si configuri, la controversia sul danno erariale causato nell’esercizio di funzioni giudiziarie è devoluta al giudice ordinario ed il magistrato può essere chiamato a rispondere solo a titolo di rivalsa con i limiti di cui all’art. 3, salvi i casi di dolo. Questo reca con sé importanti riflessi non solo processuali, ma anche sostanziali, impedendo che trovino efficacia, quanto meno diretta, per la categoria dei magistrati, tutta una serie di istituti favorevoli che la Corte dei conti applica, invece, ai pubblici impiegati in genere, come il principio di parziarietà dell’obbligazione, la sua intrasmissibilità agli eredi (tranne il caso di loro indebito arricchimento), l’esercizio del potere riduttivo da parte del giudice e la definizione agevolata della lite, ai sensi dell’art. 1, commi 231-233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266. Venendo alla struttura dell’illecito, un’altra particolarità consiste nel fatto che il danno cagionato dal magistrato non determina la responsabilità di costui verso il terzo, ma quella dello Stato. Ciò costituisce eccezione al criterio ordinario, ritraibile dall’art. 28 Cost., secondo cui del danno cagionato al privato sono solidalmente responsabili e l’impiegato e l’ente pubblico di appartenenza, in virtù del rapporto d’immedesimazione organica. Almeno apparentemente, la previsione dell’elemento soggettivo in termini di dolo o colpa grave, e non di colpa semplice, non modifica la regola generale di cui all’art. 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. sul pubblico impiego), che pure riconnette la responsabilità civile personale dei funzionari e dipendenti pubblici – e, di riflesso, quella dell’ente – ai soli casi di violazione dei diritti dei terzi commessi con dolo o colpa grave. Tuttavia, a ben vedere, è la sostanza della colpa grave desumibile dalla legge del 1988 a differenziarsi da quella di tipo ordinario, a causa della tipizzazione dei casi in cui essa può essere ravvisata. Insomma, la colpa grave del magistrato, lungi dal coincidere con la nozione comune di mancato uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito, assurge ad una sorta di lata culpa piane dolo comparabitur, di antica memoria. Di modo che, non basta che la violazione della legge commessa dal magistrato sia grave, perché essa dev’essere anche ascrivibile a “negligenza inescusabile”, dovendosi presentare come “non spiegabile”, e cioè senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere l’errore comprensibile, anche se non giustificato. In altre parole, questa forma di responsabilità è sì incentrata sulla colpa grave del magistrato, ma per come tipizzata dalle ipotesi specifiche ricomprese nell’art. 2, le quali sono riconducibili al comune fattore della “negligenza inescusabile”, che implica la necessità di configurare un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 c.c.: pertanto, l’errore rileva quando il giudice pone a fondamento del suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento e non quando ritiene sussistente una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti. Pare tuttavia rimanere nell’alveo generale della colpa grave l’ipotesi tipizzata sub d), che si concretizza nell’«emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione»; e lo stesso dicasi per il diniego di giustizia ai sensi dell’art. 3, che dev’essere «senza giustificato motivo». E non è ancora tutto, perché un’ulteriore franchigia si realizza nei casi coperti dalla c.d. “clausola di salvaguardia” di cui all’art. 2, comma 2, secondo la quale «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». La compatibilità costituzionale di tali previsioni non è in dubbio, avendo la Consulta ripetutamente affermato che la legge n. 117 del 1988 rappresenta un punto di equilibrio tra le esigenze di tutela del soggetto danneggiato e dei valori dell’indipendenza della magistratura, della sua autonomia e della pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria. L’indipendenza garantisce infatti l’imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere. La disciplina dell’attività del giudice deve perciò essere tale da renderlo immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a evitare forme di prevenzione, timore, influenza che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza. L’equilibrio sta, dunque, nel contemperare indipendenza e responsabilità. Termini che solo apparentemente sembrano dare vita ad un’inconciliabile antinomia, non potendo concepirsi che il primo si traduca in una sostanziale irresponsabilità degli organi della magistratura o che determini la nascita di un potere operante al di fuori dell’organizzazione statale ed al di sopra delle sue leggi.

3. Problematiche di  compatibilità col diritto comunitario. Una prima breccia alla conformità della legge n. 117 del 1988 col diritto comunitario si è aperta con la decisione assunta dalla Corte di giustizia CE il 30 settembre 2003, nella causa Köbler/Republik Österreich, dov’è stato affermato che «il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Infatti, questo principio, inerente al sistema del Trattato, ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione». Dunque, in base alla pronuncia, uno Stato membro è obbligato a riparare i danni causati ai singoli, in presenza di una violazione del diritto comunitario ascrivibile, in forma attiva od omissiva, ad un organo giurisdizionale di ultimo grado. E’ stato inoltre notato che, a differenza delle pregresse decisioni in materia di responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario da parte di organi interni, la sentenza Köbler enuncia il criterio d’imputazione della “violazione manifesta” e non della “violazione grave e manifesta”: cosa che lascerebbe trapelare la volontà di ampliare i margini della responsabilità statale, quando l’illecito è riconducibile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado. La sentenza in parola, pur non riferendosi all’Italia, già pone il problema della compatibilità comunitaria dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, che da un lato prevede i diversi criteri della colpa grave (tipizzata) e del dolo e, dall’altro, esenta dalla responsabilità per danni le violazioni commesse in sede di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove. Ma a sancire definitivamente il contrasto tra i due ordinamenti è intervenuta, a distanza di quasi tre anni, la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia 13 giugno 2006, nella causa C- 173/03, Traghetti del Mediterraneo s.p.a. in liquidazione/Repubblica Italiana. Le conclusioni di tale arresto sono trancianti: «il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta, altresì, ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza Köbler». E non è tutto, perché, non avendo la Repubblica italiana dato seguito alla statuizione, la Commissione ha aperto una procedura di infrazione ai sensi dell’art. 260 del Trattato, in base al quale «quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta». Quindi, la Sezione III della Corte, con sentenza del 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea/Repubblica italiana, accogliendo il ricorso, ha dichiarato che: «la Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 177, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado». In particolare, la Corte ha censurato la circostanza per cui, nell’ordinamento interno italiano, l’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione di fatti e prove è esente da responsabilità anche nei casi di dolo o colpa grave, il che contrasta col diritto europeo. Inoltre, quanto meno nell’interpretazione seguìta dalla Corte di cassazione, il contenuto proprio del dolo e della colpa grave non è affatto equivalente a quello della violazione del diritto vigente di matrice comunitaria, ma è ben più rigoroso. Il richiamato distinguo operato dalla Corte di giustizia ha permesso di sostenere che essa, mentre ha ritenuto radicalmente contrario al diritto dell’Unione l’art. 2, comma 2, si è mostrata più concessiva nei confronti del comma 1, a patto, però, che la Corte di cassazione interpreti il requisito della colpa grave in termini tali da corrispondere al requisito di “violazione manifesta del diritto vigente”, come fissato dalla giurisprudenza europea. Quanto agli effetti della decisione, le conseguenze tratte dallo stesso autore sono nel senso che, attesa la natura di fonte del diritto attribuibile alle sentenze della Corte di giustizia e stante il fatto che la decisione del 24 novembre 2011 è stata adottata con i poteri dell’art. 260 del Trattato, le norme interne in contrasto col diritto sovranazionale non sono più applicabili. Questo, però, non deve condurre ad affermare un duplice livello di tutela per il cittadino leso da condotte illegittime di magistrati: maggiormente garantistico, quando si fa valere la trasgressione di norme comunitarie (posto che, in questo caso, è sufficiente che la violazione si caratterizzi in relazione ai requisiti individuati dalla Corte di giustizia nel caso Köbler) e più severo, ove la trasgressione riguardi la legge nazionale (occorrendo dimostrare il dolo o la colpa grave del magistrato e, soprattutto, che la violazione non possa essere ricondotta nell’alveo dell’interpretazione di una norma di diritto o della valutazione del fatto e delle prove). Una tale disparità determinerebbe infatti, nel diritto interno, un grado di protezione più basso di quello accordato alle violazioni del diritto comunitario, ponendo il problema della legittimità del diverso regime a fronte della medesima situazione soggettiva lesa, in relazione al canone di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. ed in relazione all’art. 54 Cost. che impone, al massimo livello, l’osservanza della Costituzione e delle leggi. Non di meno, occorre osservare che la prima decisione in tema della Corte di cassazione ha, sia pure incidentalmente, enunciato il divisamento opposto, essendosi ritenuto che l’esclusione della responsabilità per errata interpretazione di norme di diritto od errata valutazione del fatto e della prova continui a valere, laddove non venga in rilievo una violazione manifesta del diritto dell’Unione europea imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, essendo soltanto quest’ipotesi in contrasto con gli obblighi comunitari dello Stato italiano, e ciò alla luce della Corte di giustizia del 24 novembre 2011, nella causa C-379/10. Dello stesso tenore è, infine, la proposta di modifica della legge n. 177 del 1988, inserita dal Governo nel disegno di legge comunitaria per il 2013 licenziato l’8 novembre 2013, dove la responsabilità dello Stato per violazione chiara e manifesta è prevista solo in relazione al diritto comunitario ed agli atti riferibili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado.

4. Spinte innovatrici e proposte referendarie. E’ opinione diffusa che un’esegesi giurisprudenziale ritenuta troppo “partigiana” ha progressivamente contribuito a confinare la responsabilità civile dei magistrati ad un ruolo marginale, quasi si trattasse dell’extrema ratio per i casi di stridente ingiustizia, infondendo nel sentimento popolare un senso di tradimento dello spirito referendario del 1987. In proposito, a titolo di contributo interpretativo, si è avanzata la tesi per cui la “clausola di salvaguardia” debba trovare applicazione solo per l’error in iudicando e non per l’error in procedendo: sarebbero così assoggettati a responsabilità piena i casi in cui la norma violata non costituisce parametro di giudizio, ma semplice regola di condotta processuale. In queste ultime ipotesi, infatti, «il giudice non “decide”, ma opera la ricognizione dei propri comportamenti leciti e doverosi, come qualunque altro destinatario di una qualunque norma o, se si vuole, come qualunque altro soggetto il cui comportamento sia da quella norma disciplinato. Nello stabilire ciò che egli può o deve fare, il giudice non può “giudicare” in senso proprio, per l’assorbente considerazione che egli non è terzo imparziale e indifferente, ma è anzi il principale soggetto interessato all’esito del suo “giudizio”». La teoria richiamata, senza dubbio accattivante, deve tuttavia fare i conti non soltanto con le opinioni dottrinarie contrarie, ma soprattutto con i princîpi tralaticiamente espressi dalla Suprema Corte, a mente della quale la clausola di esenzione «non tollera riduttive letture, perché giustificata dal carattere fortemente valutativo della attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte costituzionale (nella sentenza 19 gennaio 1989 n. 18), attuativa della garanzia costituzionale della indipendenza del giudice (e del giudizio)»; essa si applica «senza eccezioni per le norme processuali, e dunque includendo quelle che fanno carico al giudice d’esaminare i temi in discussione influenti per la decisione e di dare contezza delle ragioni della decisione stessa». A muovere verso un rinnovamento sono stati, in epoca recente, due quesiti referendari non ammessi alla tornata del 2014 per mancato raggiungimento del quorum di cinquecentomila sottoscrizioni, a mezzo dei quali si chiedeva l’abrogazione della legge 13 aprile 1988 n. 117, limitatamente all’art. 2, comma 2 (la c.d. “clausola di salvaguardia”) e/o all’art. 5 (in tema di delibazione di ammissibilità della domanda). In ambito legislativo, un concreto tentativo di superamento dell’assetto corrente è stato avanzato con un emendamento al disegno di legge comunitaria del 2011 presentato dal deputato Gianluca Pini della Lega Nord, il quale, sebbene respinto, ha trovato vasta eco nell’opinione pubblica. Esso, in sintesi, si concretizzava nella possibilità, per il danneggiato, di esperire l’azione risarcitoria direttamente nei confronti del magistrato, nella sostituzione dei requisiti del dolo e della colpa grave con quello della violazione manifesta del diritto e nell’assoggettamento a responsabilità dell’attività di interpretazione delle norme di diritto. Ciò non di meno, è stato notato come l’ipotesi di una responsabilità diretta del giudice, per altro estesa all’interpretazione del diritto, si ponga in contrasto non solo col principio di indipendenza della magistratura come sancito dalla Corte costituzionale, ma altresì con gli auspici degli organismi europei, contenuti nella raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010 n. 12 e nella Carta europea sullo statuto dei giudici. Essa, inoltre, non avrebbe pari negli ordinamenti giuridici avanzati, che disciplinano la materia con l’immunità assoluta propria dei Paesi di common law (U.S.A., Gran Bretagna, Canada), o con limitazioni ancora più rigorose di quelle previste dalla legge n. 117 del 1988 (Germania), alla responsabilità del solo Stato con possibilità di rivalsa in ipotesi di carattere del tutto eccezionale (Francia, Belgio, Portogallo) od addirittura con esclusione della rivalsa (Paesi Bassi), mentre, nell’unico ordinamento che prevede una azione diretta (Spagna), vi è comunque un filtro preventivo subordinato alla verifica di requisiti particolarmente rigidi. Per ultimo, è stato posto in luce come, estendendosi la responsabilità del magistrato a qualsiasi forma di violazione manifesta del diritto, si darebbe occasione al giudice del risarcimento di valutare l’operato di giudici appartenenti ad altre giurisdizioni, vanificando di fatto la giurisdizione del giudice amministrativo, che verrebbe sottoposto ad un sindacato di merito ai fini risarcitori da parte del giudice ordinario, in spregio agli artt. 103 e 113 Cost. Presso la commissione giustizia della Camera dei deputati risultano attualmente pendenti:

- la proposta di legge C. 990, a firme Gozi, Bruno e Giachetti, del partito democratico, presentata il 17 maggio 2013, la quale, premesso che la combinazione dei vari filtri previsti dalla legge n. 117 del 1988 ha reso la stessa «pressoché inapplicata in più di venti anni dalla sua entrata in vigore», mira ad abrogare la clausola di salvaguardia e la tipizzazione dei casi di colpa grave e del diniego di giustizia, oltre che a consentire il risarcimento anche del danno non patrimoniale, a sottoporre l’azione di rivalsa alla giurisdizione della Corte dei conti ed a prevedere che questa sia esercitata dallo Stato nei confronti del magistrato per il rimborso dell’intero onere sostenuto in sede di condanna;

- la proposta di legge C. 1735, a firme Leva, Verini, Russomando e Ferranti, del partito democratico, presentata il 25 ottobre 2013, la quale, premessa l’intenzione «di farsi carico delle criticità che sono derivate dall’applicazione della legge n. 117 del 1988 e al tempo stesso cercare di recepire le indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea», vuole sottoporre a sindacato risarcitorio l’attività di interpretazione e di valutazione in caso di dolo, nonché di manifesta violazione di norme di diritto ovvero di travisamento del fatto o di una prova, che ledano i diritti fondamentali della persona, nonché eliminare le ipotesi tipizzate di colpa grave, il filtro preliminare di ammissibilità dell’azione ed il limite della rivalsa dello Stato sul magistrato.

Presso la commissione giustizia del Senato della Repubblica risulta pendente la proposta di legge S. 1070, a firme Buemi, Nencini e Longo, del gruppo autonomie, presentata il 1° ottobre 2013, dove, premesso come «la legge n. 117 del 1988 abbia avuto, per varie ragioni, una scarsissima applicazione», si prevede che la condanna contro lo Stato faccia stato nel giudizio di rivalsa e nel procedimento disciplinare anche se il magistrato non è intervenuto volontariamente nel processo contro lo Stato e si assegna alla Corte di cassazione il compito di valutare, nelle forme di cui all’art. 2043 c.c., la responsabilità civile dei magistrati che «salvo il caso di ignoranza inevitabile [omissis], si discostino dall’interpretazione della legge», assicurata dalla medesima Corte.

Va infine registrata la richiesta avanzata al C.S.M. l’8 ottobre 2013 dai consiglieri superiori Zanon e Nappi, di apertura di una pratica per la formulazione al Parlamento di una proposta di modifica delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati. In particolare, le modifiche suggerite consistono, in sintesi, nel richiamo alla «violazione manifesta del diritto vigente» (piuttosto che al dolo od alla colpa grave) come criterio d’imputazione della responsabilità dello Stato e nell’abrogazione della clausola di salvaguardia. Verrebbe invece mantenuto in piedi il vaglio preliminare di ammissibilità dell’azione. Parallelamente, la clausola di salvaguardia ed i requisiti del dolo e della colpa grave andrebbero a refluire nel giudizio di rivalsa, operando a valle dell’eventuale condanna dello Stato, ossia nel rapporto interno tra Stato e singolo magistrato.

Naturalmente a giudicare i magistrati responsabili dell’errore grave o del dolo saranno sempre magistrati…come questi.

Milano, le cause del fisco le giudica il magistrato evasore. Si tratta di Maria Rosaria Grossi, assolta dalle accuse di tangenti perché ha dichiarato che i soldi erano frutto dell'affitto in nero delle sue case. E adesso è arbitro dei procedimenti per evasione nel capoluogo lombardo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Chi può fare il giudice nei difficili processi contro gli evasori fiscali? In un Paese come l’Italia può farlo anche un ex magistrato che, ritrovatosi imputato in una storiaccia di tangenti e consulenze d’oro, è riuscito a conquistare una meritata assoluzione spiegando di essere solo un evasore delle tasse. Questo straordinario caso di specializzazione giudiziaria ha per protagonista una regina del diritto italiano, Maria Rosaria Grossi, per lunghi anni giudice della prima sezione civile e poi del tribunale fallimentare di Milano. Dopo aver gestito centinaia di procedure milionarie, nel 2009 la sua carriera sembrava stroncata: inquisita per tentata concussione e abuso d’ufficio, denunciata e accusata da una dozzina di giudici e avvocati, era stata sospesa dalla magistratura, prima in sede penale e poi per ordine del Csm. Nell’ottobre 2012, il colpo di scena: Maria Rosaria Grossi viene scagionata dal tribunale di Brescia «perché il fatto non sussiste». A caldo, l’ex imputata si dichiara perseguitata e annuncia che chiederà di tornare in magistratura. In novembre, però, i giudici di Brescia (presidente Roberto Spanò) pubblicano le motivazioni della sua assoluzione, che si rivelano molto imbarazzanti. Il tribunale infatti scrive di aver potuto processarla, dopo un’inchiesta «tormentata e mutilata», solo per «un rivolo» delle tante accuse che le erano state mosse, l’unico per il quale persino il pm si era già rassegnato a considerarla innocente. Ma nel ricostruire tutti i fatti, proprio la sentenza di assoluzione  svela che l’allora giudice Grossi ha innegabilmente evaso le tasse, incassando «affitti in nero» su svariati immobili di sua proprietà, addirittura «per quasi un quarto di secolo». Il colmo è che questa non era la tesi dell’accusa: il tribunale precisa che era l’alibi raccontato dalla stessa imputata, per giustificare un fiume di contanti che rischiavano di esporla a reati più gravi. Ma ora si scopre che la signora Grossi, dopo aver evitato la condanna con quella motivazione, ha potuto tornare a fare il giudice della Commissione tributaria di Milano. Che è quella specie di tribunale a cui la legge italiana affida le cause per evasione fiscale, che nella capitale degli affari raggiungono importi elevatissimi. L’ex giudice civile, in particolare, fa tuttora parte della sezione numero 40, competente su Milano e provincia. “L’Espresso” ha scoperto tra l’altro che, nel decidere le vertenze tributarie, si è scontrata più volte con altri magistrati (mai indagati e tuttora in servizio): il problema è che, dopo tutte le ingiustizie che ha passato, lei proponeva di annullare le accuse di evasione anche quando i togati del suo collegio erano invece fermamente colpevolisti. Per gustare tutto il sapore di questa storia della presunta furbetta del fisco che diventa giudice degli evasori, è sufficiente mettere in fila i soli fatti che il tribunale di Brescia ha considerato dimostrati, pur non ravvisando alcun reato punibile. L’inchiesta parte nel febbraio 2009, quando due magistrati molto seri di Milano raccolgono e trasmettono a Brescia la testimonianza di un commercialista di alto livello, Giovanni La Croce. Il professionista si è sentito raccontare da una sua cliente, sorella del defunto avvocato Bruno Giordano, che l’allora giudice Grossi avrebbe «riempito di incarichi giudiziari» quel legale, che era anche il suo «amante». Un andazzo durato «circa un decennio», con i due fidanzati, giudice e avvocato, che «si dividevano i soldi» e diventavano sempre più ricchi. La sorella ha confidato questi segreti al suo commercialista solo dopo la morte del fratello, quando si è spaventata perché l’allora giudice le ha portato a casa «grosse somme in contanti». Convocata dal pm bresciano Fabio Salamone, la sorella del legale, Marina Giordano, conferma le sue confidenze al commercialista. E aggiunge che, quando il fratello era ormai in fin di vita, la Grossi le chiese di aprirle d’urgenza lo studio legale, reagendo così al suo rifiuto: «Allora ho perso tutto!». La testimone precisa che, scomparso il fratello, era diventata «molto amica» della Grossi, che «dall’inizio del 2008» ha cominciato a chiederle favori pericolosi: «Mi portava ogni mese 10mila euro in contanti e in cambio mi faceva firmare assegni di pari importo, intestati però a sua sorella». La stessa teste rivela che l’allora giudice Grossi ha accumulato un piccolo impero immobiliare: «Cinque appartamenti a Milano, due ville al mare in Liguria e Puglia, una casa sul Mar Rosso e una in Val d’Aosta». Riascoltata in seguito, la testimone tenta di annacquare le accuse all’amica, ma si tradisce confermando un retroscena: «Dopo la mia prima deposizione, la dottoressa Grossi si è presentata di sorpresa a casa mia alle otto del mattino. Spingendomi in cucina, mi ha detto che potevamo essere intercettate e ha iniziato a comunicare con biglietti a cui anch’io rispondevo per iscritto. Mi rimproverava di non averla avvisata dell’inchiesta. Io le ho riassunto cosa avevo riferito al pm, tra cui lo scambio di denaro tra me e lei. Il giudice Grossi mi scrisse che l’origine di quel contante erano i suoi affitti in nero. Dopo un’ora di colloquio scritto, la Grossi ha raccolto tutti i bigliettini e si è allontanata». Nella sentenza finale, il tribunale riporta tutta questa ricostruzione senza alcuna obiezione, come fatti indiscutibili. Ma poi spiega che il pm, pur avendo scovato sia gli immobili della Grossi sia il giro di assegni (per un totale di centomila euro), ha visto cadere le sue accuse una dopo l’altra. La morte dell’avvocato-fidanzato ha convinto la stessa procura a non azzardare ipotesi di reato sui processi più vecchi, comunque prescritti. Quindi il gip ha cancellato le accuse più recenti di abuso d’ufficio. È vero che ben sei avvocati hanno confermato che la Grossi assegnava ricchissime parcelle proprio all’avvocato Giordano. Mentre cinque magistrati hanno testimoniato che la loro ex collega li faceva «inviperire», per la sua ostinazione nell’assegnare i fallimenti ad altri professionisti suoi amici. Ma i giudici di Brescia concludono che «i poteri affidati dalla legge ai giudici fallimentari sono tanto ampi e discrezionali» da rendere «problematico» equiparare quei favoritismi a veri reati. Sotto processo è rimasta così solo una debole accusa di tentata concussione: nonostante le smentite dell’imputata, il tribunale conferma che la Grossi chiese a un altro avvocato, S.A., di «associarla nel suo studio», promettendo di «riempirlo di incarichi», ma conclude che probabilmente era solo una battuta, «uno sfogo da bar», che quel legale può avere equivocato «quando lei lo ha escluso dai successivi incarichi». Insomma, nessun reato punibile. Nella motivazione il tribunale avverte che la procura avrebbe potuto «approfondire» altre accuse, come il «riciclaggio» (per i soldi in nero scambiati con assegni puliti) o la «subornazione» (per le pressioni sulla testimone), ma visto che il processo riguardava solo «quel malinteso con l’avvocato S.A», l’imputata merita la piena assoluzione. La stessa sentenza però riconosce «sicure violazioni disciplinari» per «un magistrato del tribunale di Milano che per quasi un quarto di secolo ha riscosso personalmente e per contanti, da innumerevoli soggetti, canoni di locazione non dichiarati». Proprio questa motivazione spiega perché il Csm continua a respingere (l’ultimo verdetto è del luglio 2012) i tentativi della Grossi di rientrare nella magistratura normale. Ai requisiti di onorabilità dei giudici fiscali, invece, dovrebbe pensare lo speciale «Consiglio di giustizia tributaria», che però non si è mosso. E così i processi agli evasori li decide ancora oggi la signora degli affitti in nero.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista. Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. In quale altro Paese - Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Imbarazzi - Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

Ruby, rissa in procura a Milano: Armando Spataro contro Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. L'assoluzione di Silvio Berlusconi nel secondo grado del processo Ruby ha gettato nello sconforto la procura di Milano. O almeno parte della procura, che sulla vittoria del Cav ufficialmente non commenta, anche se tra i corridoi di palazzo di Giustizia si parla soltanto di quello. E se ne parla anche nella mailing list di categoria, con toni molto, molto accesi. Infatti il fronte uscito con le ossa rotte dalla sentenza, ossia quello che fa riferimento alla grande accusatrice Ilda Boccassini e al suo "capo", Edmondo Bruti Liberati, è partito un missile diretto contro il Consiglio superiore della magistratura. L'accusa rivolta all'organo di autocontrollo delle toghe è quella di aver indebolito il pool di Milano alla vigilia della sentenza, avviando il procedimento disciplinare contro Boccassini e Bruti in seguito agli esposti presentati da Alfredo Robledo. Botta e risposta - Un'accusa che viene accolta con sdegno dal fronte opposto. Portavoce dei malumori è Armando Spataro, nuovo procuratore di Torino, da sempre in aspra antitesi con Ilda la rossa. Ad innescare la sua rabbia non solo la mailing list, ma anche un articolo comparso su Repubblica in cui, citando fonti anonime, si scriveva della tesi complottista: "Chi sta con Bruti e Boccassini - scriveva il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata (la sanzione disciplinare, ndr) se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby". Durissimo il commento di Spataro: "Penso che quell'affermazione sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm sia ai componenti della Corte di Milano che hanno emesso la sentenza". Orecchie che soffiano - Una dura replica, quella di Spataro, palesemente rivolta all'entourage-Boccassini, se non a Ilda la rossa stessa. La giornalista di Repubblica - che, come detto, citava fonti anonime - chiamata in causa da Spataro non ha però voluto rivelare da chi arrivasse la soffiata complottista. Una circostanza che ha fatto ulteriormente inalberare Spataro, che ha messo nuovamente nel mirino la parte della Procura che getta fango sul Csm: "Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi, diversi da loro, possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!", chiosa Spataro. E alla Boccassini, che vive probabilmente il momento più difficile della sua carriera, soffiano le orecchie...

Effetto Ruby: in Procura volano gli stracci tra pm. Violento scambio di mail al vetriolo, Spataro contro la Boccassini e Repubblica, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Inevitabilmente, la «botta» della sentenza Ruby fa sentire i suoi effetti anche all'interno della magistratura. Nessuna dichiarazione ufficiale: ma nei corridoi degli uffici giudiziari (a Milano, e non solo) le toghe non parlano che della clamorosa assoluzione in appello di Berlusconi. E se ne parla con franchezza quasi brutale anche all'interno delle mailing list interne alla categoria. Dal fronte uscito sconfitto dal processo (l'asse tra Ilda Boccassini e il capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati) parte un siluro contro il Consiglio superiore della magistratura, che viene accusato di avere indebolito - avviando il procedimento disciplinare contro la Boccassini e Bruti poco prima della sentenza Ruby -la procura milanese, per rendere possibile l'assoluzione del Cavaliere. Accusa pesante. Dal fronte opposto si risponde con altrettanta asprezza. Insomma: volano gli stracci. A lanciare l'attacco è il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, che da sempre mal sopporta la Boccassini. Il giorno dopo della sentenza, legge su Repubblica un articolo che citando fonti anonime ma immaginabili della Procura di Milano lancia la tesi del complotto: «Chi sta con Bruti e Boccassini - scrive il quotidiano - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata - gli atti per entrambi ai titolari dell'azione disciplinare - se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby». Spataro si infuria, scrive all'autrice che «già la tecnica dell'anonimo è fortemente criticabile specie in relazione a fatti così importanti», e poi attacca: «Autorizzo a girare questo mio commento all'anonimo o agli anonimi: penso che quell'affermazione (che tra l'altro allude alla permeabilità dei componenti il collegio che ha assolto B.) sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm (comunque abbiano votato) sia ai componenti della Corte d'appello di Milano che ha emesso la sentenza».Chiamata in causa da Spataro, la giornalista di Repubblica rifiuta di indicare le sue fonti: «Rivendico il diritto, soprattutto in tempi di azioni disciplinari facili, di riprodurre un virgolettato anonimo in un articolo». Spataro si arrabbia ancora di più: ed è chiaro che nel mirino più di Repubblica sono i suoi contatti all'interno della Procura di Milano. «Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi - diversi da loro - possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!». Accanto a Spataro scende in campo uno dei membri del Csm che ha deciso l'esito del «caso Milano», Paolo Carfì: che pure fu giudice del processo intentato dalla Boccassini a Cesare Previti, e accolse in pieno le sue tesi. Ma stavolta prende di petto la faccenda: spiega di sperare che la ricostruzione di Repubblica sia frutto di «una qualche incomprensione tra l'articolista e gli anonimi magistrati della Procura di Milano», ma poi aggiunge che in caso contrario «bisognerebbe concludere che c'è negli uffici giudiziari di Milano chi ritiene che la sentenza di assoluzione di Berlusconi non sia stata assunta in piena libertà dal collegio giudicante e che tra il Csm e la Corte d'appello di Milano sarebbe intercorso un filo rosso avente per fine ultimo la normalizzazione degli uffici giudiziari milanesi, in primis la Procura della Repubblica. Il che prima che offensivo è incredibilmente ridicolo». Dopodiché Carfì si spinge ancora più in là, e se la prende anche con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel pieno della discussione al Csm del «caso Milano» era intervenuto con una lettera in aperta difesa di Bruti Liberati: «Certo non ha aiutato il tutto sommato inutile (rispetto alla materia del contendere) messaggio del presidente della Repubblica e la gestione che del medesimo se n'è fatta». A togliersi un sassolino contro la Boccassini è anche Ferdinando Pomarici, grande vecchio della procura milanese: che affronta direttamente il tema per cui la Boccassini è finita sotto procedimento disciplinare, ovvero il pervicace rifiuto di fare circolare le notizie all'interno del pool antimafia e di comunicare le indagini alla Dna, la Procura nazionale antimafia. Il magistrato della Dna che aveva accusato la Boccassini, Filippo Spiezia, ha dovuto lasciare il posto dopo la furibonda reazione della dottoressa. E al suo posto a tenere i rapporti con Milano è arrivata Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica e buona amica di Ilda. Al Csm, la Canepa, la Boccassini e Bruti Liberati hanno cercato di spiegare che a Milano va tutto bene, e che comunque una certa riservatezza fa parte delle tradizioni del pool antimafia meneghino. Ma Pomarici, che era capo dell'antimafia appena prima della Boccassini, insorge con una mail: «Per debito di verità, essendomi già doluto con Anna Canepa della rappresentazione non corretta della situazione, contesto assolutamente che sotto la mia gestione ci fossero delle criticità nell'inserimento dei dati per quanto concerne la Dda di Milano. Ignoro, e non mi interessa sapere, quale sia la situazione attuale, ma le mie disposizioni puntualmente attuate erano univoche: tutte le informative della polizia giudiziaria con i relativi seguiti, tutte le richieste di misure cautelari, tutte le relative ordinanze, tutte le sentenze di primo grado sono state inserite in banca dati e in tempo reale e trasmesse alla Dna. Chi riferisce di cose diverse afferma il falso, e viene da chiedersi il motivo. Ed eguale circolazione di informazioni è stata ovviamente assicurata all'interno della dea i cui magistrati ricevevano semestralmente relazione completa su tutte le indagini assegnate agli altri colleghi sul loro sviluppo e su tutti i nomi delle persone sottoposte a indagini». Esattamente ciò che la Boccassini è accusata ora di non avere fatto, e perciò rischia il procedimento disciplinare.

Il Cav? Critico condanna e assoluzione”, scrive Antonio Di Pietro (Già magistrato ed ora contadino) su “Il Garantista”. Le sentenze si rispettano sempre, sia quando piacciono che quando non piacciono, e a me francamente non piace né la sentenza di Appello che ha assolto Berlusconi per la vicenda Ruby, né la sentenza di primo grado che invece per gli stessi fatti lo aveva condannato a 7 anni di carcere. Ripeto, le sentenze vanno sempre rispettate e anche io stavolta mi atterrò a questo sacro principio. Le sentenze però possono essere serenamente commentate (pur rispettando i giudici, gli accusati e gli accusatori). Ciò premesso, a me pare che ci siano state due forzature di troppo: in primo grado aver condannato Berlusconi anche per “concussione per costrizione” ed in Appello averlo assolto anche per il reato di “prostituzione minorile”. Ma andiamo con ordine ed innanzitutto riassumiamo la vicenda. La procura della Repubblica di Milano, in relazione alla vicenda Ruby, aveva accusato Berlusconi di due specifici reati: quello di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Karima-Ruby El Marhouh (Ruby Rubacuori, appunto) punito dall’art. 600 bis del codice penale con la pena da uno a sei anni di reclusione e quello di concussione per costrizione punito dall’art. 317 del codice penale con la pena da sei a dodici anni di reclusione, per avere egli – nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di presidente del Consiglio in carica – abusato di tale sua qualità per “costringere” il capo di Gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, a far rilasciare la predetta Ruby (che, nel frattempo, era stata portata in questura dagli agenti di polizia ed ivi trattenuta per accertamenti) sostenendo che, altrimenti, sarebbe successa una diatriba internazionale in quanto la predetta era imparentata con l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak (mentre invece, nella realtà era ed è una cittadina marocchina che nulla aveva a che vedere con l’Egitto). Ebbene, i giudici di primo grado hanno riconosciuto Berlusconi colpevole di entrambi i reati, ritenendo provato sia che Berlusconi fosse perfettamente al corrente che la signorina Ruby fosse minorenne (e quindi aveva il dovere di non avere rapporti sessuali con lei perché appunto la legge vieta ai maggiorenni di avere rapporti sessuali con minorenni) sia che il funzionario della questura, Ostuni, fosse stato costretto ad assecondare le richieste del presidente del Consiglio di far uscire dalla questura la signorina Ruby. I giudici di Appello, invece, hanno assolto Berlusconi da entrambi i reati, sebbene con motivazioni diverse. Egli infatti è stato assolto dall’accusa di concussione “perché il fatto non sussiste” e dall’accusa di prostituzione minorile “perché il fatto non costituisce reato”. Assoluzione che ho così tradotto “in dipietrese” a mia sorella Concetta che – qui a Montenero dove mi trovo – me ne ha appena chiesto spiegazione: i giudici di Appello hanno assolto Berlusconi dall’accusa di concussione perché Ostuni non era e non può essere considerato alla stregua di un “povero Cristo” che – siccome gli telefona il presidente del Consiglio – si impaurisce a tal punto da non potergli “resistere” e quindi da non potergli dire che Ruby non era e non poteva essere affatto parente di Mubarak e soprattutto che non poteva essere rilasciata nell’immediatezza in quanto anche nei suoi confronti dovevano essere effettuati gli accertamenti di rito che ogni ufficio stranieri di ogni questura d’Italia ha l’obbligo di svolgere in casi del genere. Insomma, ai giudici di Appello potrebbe essere sembrato più plausibile che il dottor Ostuni si sia volontariamente adeguato alle richieste di Berlusconi, pur essendo le stesse improprie e fuori luogo. Attenzione però: per capire meglio le ragioni per cui i giudici di Appello si sono determinati ad assolvere Berlusconi dobbiamo attendere la pubblicazione delle motivazioni perché non dobbiamo dimenticarci che nel frattempo è intervenuta le legge n. 190 del 6 novembre 2012 con cui è stato di fatto abolito il reato di “concussione per induzione”, reato tipico di chi vuole convincere spintaneamente – si ho scritto “spintaneamente” e non spontaneamente – un pubblico ufficiale a favorirlo, abolizione che è comunque intervenuta a fagiolo per risolvere anche questo caso (come anche il “caso Penati”, in verità). Quindi, e in conclusione, per la Corte di Appello di Milano – mancando un elemento essenziale per la commissione del reato (ovvero la “costrizione”) – il fatto-reato “non sussiste”, vale a dire che è come se non si fosse mai verificato. Berlusconi, però, è stato assolto dall’accusa di prostituzione minorile ma in questo caso non perché “il fatto non sussiste” bensì perché “il fatto non costituisce reato”, vale a dire che – sempre secondo i giudici di Appello – il “fatto” c’è o ci potrebbe essere stato ma non è reato in quanto Berlusconi non aveva avuto la percezione di avere a che fare con una minorenne (anche in questo caso, comunque è bene attendere la pubblicazione della sentenza per capire meglio su quali elementi di fatto i giudici sono arrivati a tale conclusione). Così stando le cose, e tornando all’inizio del mio discorso, ribadisco che a me – pur dovendo rispettare, come rispetto, entrambe le sentenze – nessuna delle due mi convince. Già non mi aveva convinto la sentenza di primo grado e cioè quella che aveva condannato Berlusconi per “concussione per costrizione” ai danni di Ostuni e ciò in quanto a me è sembrato sin dal primo momento più plausibile che tale funzionario della questura di Milano possa aver deciso di sua sponte di assecondare Berlusconi o quanto meno possa esservi stato “indotto” dal fatto che stava parlando con il presidente del Consiglio in persona ma in tal caso – come abbiamo sopra precisato – tale tipo di reato era stato nel frattempo abolito dalle legge n. 190 del 2012 (che fortunata coincidenza, eh!!!). Comunque per me – per come sono fatto io e per come mi sono sempre comportato – avrei preferito che il funzionario della questura avesse reagito come dovrebbe reagire sempre un pubblico ufficiale “con le palle” (scusate il termine), resistendo a qualsiasi pressione esterna, fosse pure del presidente del Consiglio!!! Bene quindi hanno fatto i giudici di Appello a rivedere questo passaggio della sentenza di primo grado, anche se, forse poteva essere meglio esplorata la figura processuale del nuovo reato pure introdotto dalla legge n. 190/12 (istigazione alla corruzione) e comunque attendiamo di leggere come si esprimeranno in relazione all’abolito reato di “concussione per induzione”. Parimenti non mi convince neanche l’assoluzione che in Appello i giudici hanno riconosciuto a Berlusconi per il reato di prostituzione minorile e ciò perché non vedo la ragione per cui costui si sia dato tanto da fare quella notte per far uscire dalla Questura la ragazzina Ruby Rubacuori e farla affidare addirittura alle cure della nota Nicole Minetti se non perché poteva sapere che la ragazza era minorenne e quindi poteva metterlo nei guai. Ma comunque, ripeto, le sentenze si rispettano ed io ho voluto esprimere le mie riserve, solo per far sapere come la penso e non già per pretendere di giudicare gli altri. Per il resto chi vivrà vedrà!!!

L’arresto di Galan è la fulminea rivincita del partito dei magistrati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista” E così ne hanno spedito in prigione un altro. Bravi. Violando la legge, lo spirito della Costituzione, il codice di procedura penale. Prima i magistrati e poi la Camera dei deputati hanno commesso un atto illegale violando i principi della democrazia politica, le leggi della Repubblica e lo Stato di diritto. Non esiste nessuna autorità democratica in grado di mettere un argine a questo sopruso. Ed è esattamente questo che fa impazzire di rabbia. Anche un po’ di paura. La consapevolezza che le istituzioni non si possono opporre a una violenza illegale, perché le istituzione, tutte o in parte, sono le autrici di questa violenza. La magistratura ha deciso consapevolmente di chiedere l’arresto di una persona, in spregio dell’articolo 275 del codice di procedura. I magistrati sono pienamente consci dell’illegalità che compiono, ma sanno che nessuna autorità potrà contestargliela, o perché non ha le competenze o semplicemente per viltà. La Camera dei deputati ha mostrato senza neppure cercare di mascherarsi la sua viltà. Il Csm non interverrà. Né interverrà il ministro della Giustizia, che anzi ha votato a favore del sopruso. Diceva Manzoni che se uno il coraggio non ce l’ha non può darselo. Galan, seppure in gravi condizioni di salute, andrà in carcere, in barella, e questo atto sarà simbolicamente il grido d’accusa contro la vigliaccheria e l’ignoranza del nostro sistema politico. E il nostro sistema politico resterà schiacciato dall’atto di sottomissione, dall’umiliazione accettata con spirito lieve, ieri, nei confronti e da parte della magistratura, anzi – per essere più precisi – della corporazione dei Pm. E adesso? Ricomincia la partita che ha per posta la riforma della giustizia. Ma ricomincia in condizioni del tutto rovesciate rispetto a due giorni fa. L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi, nel processo Ruby, e la conseguente delegittimazione del partito dei Pm appoggiato dalla grande stampa legalitaria (Repubblica, Il Fatto e tanti altri) poteva aprire uno spiraglio e rendere più sereno il clima nel quale ci si apprestava ad affrontare lo scoglio della riforma della giustizia. Ma il partito dei Pm, bisogna riconoscerlo, ha dimostrato di avere forza morale, coraggio e intelligenza infinitamente superiori rispetto al mondo politico. In due giorni è riuscito ad annullare gli effetti politici della sentenza Ruby e a ristabilire una posizione nettissimamente di forza. Prima con l’attacco feroce alla politica e alla democrazia del Pm di Palermo Di Matteo, che ha chiamato i giudici ad una azione compatta e sovversiva – la famosa sovversione delle classi dirigenti: vi ricordate Gramsci? Però ora non sono più classi, come immaginava lui, sono corporazioni, o caste, o gruppi di potere – una azione di sbarramento che impedisca la riforma e che avvii anzi una controriforma, per permettere una ulteriore riduzione dello Stato di diritto. Il partito dei Pm questo vuole, e lo dichiara: niente separazione delle carriere, niente responsabilità e punibilità dei giudici, niente revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, niente riduzione del carcere preventivo e delle intercettazioni, ma invece due drastiche misure: abolizione dell’appello e allungamento sine die della prescrizione. Di conseguenza aumento smisurato del potere dei magistrati, e soprattutto dell’accusa, riduzione degli spazi della difesa e quasi annullamento dei diritti del sospettato e poi dell’imputato. Ci spiace dirlo, senza lasciare neppure una lucetta accesa: i giudici ieri hanno vinto la partita.

Divisioni e sconfitte. L'anno terribile della Procura di Milano. La guerra intestina tra Robledo e Bruti, i difficili rapporti tra Ilda Boccassini e la Dna.  Così si è rotto un equilibrio che sembrava perfetto, scrive Giuseppe Vespo su “L’Unità”. Un anno fa oggi la procura di Milano incassava la seconda sentenza di condanna sul caso Ruby, quella a carico del trio Fede, Mora, Minetti. Un anno fa oggi nessuno avrebbe immaginato che il 2014 sarebbe stato così travagliato per i pm guidati da Edmondo Bruti Liberati. Invece l’equilibrio si è rotto, e alcuni dei commenti all’assoluzione Berlusconi lo ricordano senza appello. «La disfatta della procura», come si è affrettato a titolare l’ex fedelissimo Fabrizio Cicchitto, è solo l’ultimo di una serie di risultati negativi per i pm milanesi. Non certo dal punto di vista della produttività investigativa - basti ricordare i colpi inflitti alla corruzione, alla criminalità organizzata e le inchieste su Expo - quanto da quello dell’immagine. E non è poco in un Paese che da oltre venti anni si trova spesso diviso in due fazioni, pro e contro i magistrati. In questi mesi agli attacchi esterni si sono aggiunti i veleni interni all’ufficio. Alle notizie sulle indagini si sono affiancate quelle su chi le indagini le conduceva: esposti, lettere, audizioni al Csm e comportamenti affidati al vaglio dei cosiddetti titolari delle azioni disciplinari nei confronti dei togati. La «guerra» intestina è scoppiata a marzo con il primo esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo nei confronti del procuratore Capo Bruti Liberati. Il titolare del pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione attacca il suo capo per i metodi usati nell’assegnazione dei fascicoli d’indagine. Bruti Liberati, in sostanza, avrebbe preferito affidare ad altri pm inchieste che per competenza spetterebbero a Robledo. La notizia svela le frizioni interne all’ufficio e scatena una serie di reazioni a catena che hanno quasi messo a rischio alcune inchieste. L’ultima è arrivata con la bocciatura da parte del Consiglio Giudiziario milanese della «area omogenea Expo», l’unità organizzativa con la quale il procuratore capo si assegna l’esclusivo e diretto coordinamento di tutte le indagini che riguardano l’evento. Mentre gli atti sulla «scarsa collaborazione» tra Ilda Boccasini, capo della Dda, e la Direzione nazionale antimafia, finiscono al pg di Cassazione e al ministro della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare. La sentenza di assoluzione di Berlusconi dal caso Ruby arriva dunque in un momento poco felice per la procura, che aspetta di sapere se sarà ancora guidata dallo stesso capo o se ne arriverà uno nuovo. Il procuratore è in scadenza e si è candidato per un nuovo mandato. A questo proposito, dieci giorni fa Bruti Liberati ha scritto una lettera ai suoi pm: «A dispetto di qualche piccola, circoscritta polemica degli ultimissimi mesi - si legge - l’apprezzamento per l’opera della procura di Milano nel quadriennio corso è stato ampio e condiviso e il prestigio indiscusso». «Ma ciò che rileva - continua - sono i riscontri ottenuti a livello di giudizio, in termini di accoglimento delle richieste e dei tempi di definizione». Spetterà al Csm decidere sulla riconferma. una vittoria ai mondiali Ma intanto chi paga i danni subiti da Berlusconi per quella che adesso viene definita «un’autentica operazione non solo giudiziaria ma anche politica e mediatica»? Dietro questa domanda si ricompatta non solo Forza Italia, ma tutto il centro destra. L’attacco ai magistrati ritorna con «la disfatta della Procura di Milano e in primo luogo - aggiunge Cicchitto - sia di Bruti Liberati che della Boccassini, che hanno gestito questo processo in una chiave addirittura unilaterale ed esclusiva». Brunetta, capo gruppo di Fi alla Camera, vuole una commissione parlamentare d’inchiesta sulla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, causata «anche grazie a questo fango». Mentre Micaela Biancofiore chiede che «i pm e i giudici di primo grado che hanno diffamato Berlusconi, a quel tempo presidente del Consiglio e dunque gettato fango internazionalmente sull’Italia intera, dovrebbero dimettersi spontaneamente lasciando spazio alla maggioranza della magistratura italiana, quella maggioritaria, indipendente, autonoma e terza». E così via, nelle parole degli altri parlamentari di centro destra è tutto un susseguirsi di bordate contro il quarto piano del palazzo di Giustizia di Milano: «Verità e giustizia», fine di «un accanimento senza precedenti», «milioni di euro spesi per il processo». Sollecitato sulla «sconfitta della procura di Milano», uno dei legali di Silvio Berlusconi, il professor Franco Coppi - che insieme all’avvocato Filippo Dinacci ha difeso l’ex premier nel processo d’Appello - dice: «Non ho mai considerato il processo penale come una specie di gara sportiva tra chi vince e chi perde». In molti invece lo considerano proprio così. C’è addirittura chi esulta, come il senatore siciliano e forzista Vincenzo Gibiino, «come se l’Italia avesse vinto i mondiali».

La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace? «Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon. Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione. L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

MAGISTRATI PEGGIO DEI POLITICI. IL CSM DEI RACCOMANDATI ED I MAGISTRATI DIVENUTI TALI COL TRUCCO.

IL CSM DEI RACCOMANDATI. Il CSM è l’organo di autogoverno dei magistrati e si occupa principalmente delle promozioni, dei trasferimenti e delle azioni disciplinari nei confronti dei magistrati. Due terzi dei componenti vengono eletti dai magistrati ordinari e sono scelti tra gli stessi appartenenti alla magistratura. Un terzo viene eletto dal parlamento tra professori di materie giuridiche e avvocati. Del CSM fa parte anche il presidente della Repubblica, con il ruolo di presidente, e il primo presidente della Corte di Cassazione ed il procuratore generale della Corte di Cassazione.

«Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione». Firmato: «Cosimo Ferri», il sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi. Lo stesso Ferri autore della bozza di riforma della giustizia con la quale ''finalmente finiranno le correnti, le raccomandazioni, e trionferà una volta per tutte la meritocrazia''.

Riforme? State freschi....

Un sms che sta scuotendo la magistratura. E’ un messaggino arrivato su chissà quanti cellulari di giudici e pm che devono votare per il rinnovo del CSM. Perché fa discutere questo messaggio? Per il mittente soprattutto perché a spedirlo è stato il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri che ha annunciato la riforma della giustizia in dodici punti, ma soprattutto esponente della corrente più moderata delle toghe, quella di Magistratura indipendente di cui è diventato leader indiscusso.

Nel governo Renzi esistono gli indagati, gli impresentabili, perché pieni di conflitti d'interessi, e i palombari, scrive Carlo Sibilia, M5S Camera. Chiamo "palombari" quelle figure che restano sempre nello sfondo, sotto traccia, sott'acqua. Non si conoscono tanto, non cercano mai troppo i riflettori. Indovinate perché... Vengono spesso lambiti da inchieste e scandali, ma ne escono sempre freschi, puliti e profumati. E poi ritornano a lavorare sott'acqua. Come i palombari. Un esempio abbastanza conosciuto potrebbe essere Gianni Letta, uno che muove i fili ma che non vedi e non senti. Però sai che è sempre li. Oggi vi presento un altro palombaro. Di razza. Uno che, a sua volta, è figlio di palombaro. Ma andiamo con ordine. Il palombaro padre è Enrico Ferri nato a la Spezia il 17 febbraio 1942. Un (ex) politico e magistrato italiano. È stato ministro della Repubblica, segretario nazionale del Partito Socialista Democratico Italiano, poi esponente di Forza Italia, in seguito dell'UDEUR. Europarlamentare dal 1989 al 2004. Noto per aver posto il limite dei 110 km/h in autostrada. Enrico ha 3 figli. Uno è Filippo Ferri ex capo della squadra mobile di Firenze. Noto alle cronache per i fatti della scuola Diaz del 2001: per le violenze fu condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi con interdizione dai pubblici uffici. Come premio, Filippo Ferri, è stato nominato il responsabile della sicurezza del Milan. La squadra di calcio di Silvio Berlusconi. Un altro è Jacopo Ferri, il secondogenito di Enrico, sarebbe potuto essere il capolista del centrodestra alle scorse elezioni a Pontremoli, ma già ricopriva il ruolo di Consigliere Regionale in Toscana. Berlusconiano di ferro dal 2000. E' ancora in consiglio regionale ininterrottamente da 14 anni. Dovete sapere che Pontremoli sta ai Ferri come Nusco ai De Mita e Ceppaloni ai Mastella (come direbbe Mario Lancisi). L'altro, il palombaro del giorno, è Cosimo Ferri. Magistrato prodigio. A soli 35 anni, con 553 preferenze, nel 2006 fu eletto al Csm nonostante fosse rimasto coinvolto in Calciopoli. Tre anni fa si è ritrovato in diverse intercettazioni telefoniche imbarazzanti: P3 e Agcom-Annozero. Mai, però, è stato indagato. Da Calciopoli, invece, è uscito dimettendosi da commissario della Figc, così ha evitato di essere giudicato. Nominato Sottosegretario alla Giustizia con Letta nel 2013 in quota Berlusconi. Poi, quando Berlusca passa alla "finta" opposizione, Letta ne chiede le dimissioni. Lui risponde di essere un tecnico e si tiene la poltrona. Poltrona garantita anche nel "nuovo" governo Renzi più berlusconiano che mai. Dopo questa storia di meritocrazia tutta italiana pensate ci sia necessario aggiungere altro? Dove pensate si annidino i problemi di questo paese?

Csm, votate quei due». Polemica sugli sms del sottosegretario Ferri. Messaggino di Ferri alle toghe con indicazioni per il voto. Accuse dalla sua corrente. Lui si difende: non propaganda, consigli privati, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Apparentemente sembra un messaggio di propaganda elettorale come tanti altri, inviato alla vigilia del rinnovo del Consiglio superiore della magistratura, dove oggi e domani giudici e pubblici ministeri sono chiamati a scegliere nel segreto dell’urna i loro rappresentanti nell’organo di autogoverno. È un testo breve e gentile, quasi discreto, inviato via sms a chissà quanti numeri di telefono: «Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione». Il problema è la firma, aggiunta subito dopo: «Cosimo Ferri». Cioè il sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi, quello che lunedì scorso ha annunciato la Grande Riforma riassunta in dodici punti, che per quanto generici indicano comunque una strada. E al punto quattro recita così: «Csm, più carriera per merito e non grazie all’appartenenza», affermazione di principio corredata da varie e ripetute considerazioni del premier non certo compiacenti verso il correntismo tra le toghe. Ora si dà il caso che il sottosegretario Ferri, giudice e figlio d’arte in vari sensi (suo padre Enrico fu magistrato e componente del Csm, ministro e parlamentare socialdemocratico e poi di FI), rappresenti uno strano caso di commistione tra magistratura e politica. Da sempre esponente della corrente più «moderata» o «di destra» delle toghe, Magistratura indipendente, ne è diventato nel tempo il leader indiscusso. Rimanendo tale anche ora che fa parte dell’esecutivo, dicono i suoi detrattori. E certo il messaggio telefonico di cui ieri è stata data notizia sulle mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e delle varie correnti non aiuta a smentire questa voce. Quando entrò al Csm, qualche anno fa, Ferri ne fu il rappresentante più giovane; poi divenne il più votato nelle elezioni al «parlamentino» interno all’Anm, da segretario della corrente. Infine arrivò la chiamata nel governo di Enrico Letta: sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia, quando il partito di Berlusconi faceva ancora parte della maggioranza. Poi lo scorso anno, dopo la scissione di Alfano e il passaggio di FI all’opposizione, restò nell’esecutivo spiegando di essere un tecnico, riuscendo ad essere confermato anche nella compagine di Renzi. Il quale si sentì rimproverare quella scelta, nel primo Consiglio dei ministri, direttamente dal guardasigilli Orlando, democratico fresco di nomina, anche perché c’era già un viceministro ex berlusconiano designato del Nuovo centro destra di Alfano, Costa; ma il premier replicò che ormai la squadra era fatta e quella rimaneva. In questi mesi ha dunque proseguito nel suo lavoro di sottosegretario, impegnandosi sui testi di riforma (soprattutto nel settore del processo civile) che il governo ha predisposto e si propone di presentare in futuro. Senza però tralasciare una sorta di supervisione nella gestione di Magistratura indipendente, accusa chi - all’interno della corrente - ha creato una vera e propria fronda per contestarne leadership; proprio in nome della netta separazione tra l’amministrazione della politica e quella della giustizia. Tra i contestatori ci sono nomi di peso come l’ex pm di Mani Pulite, oggi giudice di Cassazione, Pier Camillo Davigo, il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, il componente dell’attuale Csm Pepe. Che hanno tentato di contrapporre i loro candidati a quelli «ferriani» nelle elezioni primarie, e ora sostengono altri candidati rispetto a quelli indicati dal sottosegretario. Giudicando quel messaggio telefonico un’interferenza bella e buona; e chiedendosi quale sia l’opinione in proposito del ministro della Giustizia, del presidente del Consiglio e del capo dello Stato. Lui invece, Cosimo Ferri, non vede niente di strano in quel sms inviato a poche ore dal voto. E si stupisce dello stupore altrui: «Sono beghe interne alla magistratura, e purtroppo vedo una strumentalizzazione che mi dispiace, perché in un momento come questo la magistratura avrebbe bisogno di grande serenità, non del nervosismo che traspare in chi vuol montare una polemica inutile, sterile e priva di fondamento, frutto di gelosie e cattiverie». Quando però gli si fa notare che forse non è del tutto normale che un membro del governo, cioè del potere esecutivo, faccia propaganda elettorale per due candidati all’organo di autogoverno di giudici e pubblici ministeri, cioè il potere giudiziario, Ferri risponde: «Ma la propaganda elettorale è tutta un’altra cosa! Io ho inviato un messaggio privato, sono un cittadino che conserva i propri diritti, e sono tuttora un magistrato che andrà a votare per il Csm e sceglierà i candidati che considera migliori. Poi sono anche uno che conosce tanta gente, quando mi sono candidato all’Anm ho preso più voti di tutti, 1.199, mi sembra normale condividere le mie idee. Da privato magistrato, ripeto, non da rappresentante del governo».

Toghe e politici nel marasma per il CSM, scrivono Marco Sarti ed Alessandro Da Rold su L’inkiesta”. Stavolta magistratura e politica si trovano sulla stessa barca, in un mare in tempesta. Tra i flutti c’è il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno delle toghe che arriva a scadenza dopo quattro anni di mandato. È una delle partite più importanti del 2014, temporalmente vicina alla riforma della giustizia che da qualche settimana ha iniziato a prendere forma a Palazzo Chigi. Eppure vige ancora totale incertezza tanto per gli otto membri laici — la cui nomina spetta al Parlamento — che per i sedici eletti dalla magistratura. Dopo la fumata di nera di oggi, a Montecitorio si è deciso di rimandare il prossimo voto a giovedì 10 luglio. Nel frattempo tra le toghe continua lo scontro, iniziato con la faida in procura di Milano tra il procuratore Capo Edmondo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo. È la guerra delle correnti, tra Magistratura Indipendente, Unicost e Magistratura Democratica che cercano di ritagliarsi un posto a palazzo dei Marescialli per i prossimi quattro anni. Ma gli ostacoli lungo la strada sono tanti. E il primo macigno riguarda proprio gli equilibri politici. Alle ultime primarie di fine marzo la corrente di Md, vicina al centrosinistra, è uscita a pezzi. Fusa con i Movimenti nella corrente denominata Area non ha collezionato molti voti, al contrario di Mi e Unicost. È soprattutto la prima, la corrente più vicina al centrodestra, sostenuta dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (fondatore di Magistratura Indipendente, ndr) a vantare in questo momento più consensi tra le toghe. E così con un Parlamento a maggioranza di centrosinistra, potrebbero essere proprio gli otto membri laici a bilanciare gli equilibri. Le toghe trattano da mesi su questa partita. Una scacchiera su cui qualcuno ha deciso di giocare anche le nomine dei nuovi capi della procure di Torino, Bari e Firenze. E forse non è un caso che proprio Md-Area sia riuscita a spuntarla sotto la Mole Antonelliana con uno storico esponente come Armando Spataro, ricompensa per un Csm che si promette a forte trazione di destra.  Non solo. Toghe e Parlamento dovranno tenere in conto anche la prossima elezione, a quanto pare sempre più imminente, del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano potrebbe presto lasciare. Eppure secondo la nostra Costituzione è proprio lui a presiedere il Csm. In questi mesi il Capo dello Stato ha dimostrato di essere molto presente nella gestione dell’organo di autogoverno delle toghe (vedi la lettera inviata al vicepresidente Michele Vietti prima della decisione sullo scontro tra Bruti Liberati e Robledo). Intanto si chiude uno dei mandati del Csm più criticati nella storia della Repubblica Italiana, con il vicepresidente Vietti coinvolto di striscio anche in alcune inchieste della magistratura. Come Finmeccanica, dove l’ex ad Giuseppe Orsi avrebbe cercato di contattarlo per depistare le indagini. Nel frattempo alle Camere i partiti faticano a trovare un accordo. Nella giornata di oggi deputati e senatori hanno votato a Montecitorio, senza riuscire ad eleggere gli otto componenti laici del Csm, né i due nuovi giudici della Corte Costituzionale. Il Parlamento in seduta comune ci riproverà giovedì prossimo. Sembra vicina l’intesa per i due giudici della Consulta, anche perché dopo la terza votazione andata a vuoto il quorum richiesto si è abbassato dai 2/3 ai 3/5 dei parlamentari. Circola con insistenza il nome dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, di area Pd. Meno scontata l’altra figura. Dopo aver individuato quattro candidature, il Movimento Cinque Stelle ha deciso di puntare sull’avvocato milanese Felice Besostri, già in prima linea nella lotta contro il Porcellum. Su di lui convergeranno anche altri voti, a partire da quelli di Sinistra Ecologia e Libertà. Rischiano però di non essere sufficienti. Ecco allora che il secondo giudice della Corte Costituzionale potrebbe essere espressione di centrodestra. Qualcuno scommette sul senatore berlusconiano Donato Bruno. Ancora in alto mare l’accordo per gli otto membri del Csm. Cinque dovrebbero essere scelti all’interno della maggioranza (uno potrebbe essere espressione del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano). Gli altri tre dalle opposizioni. Nella commissione Giustizia di Montecitorio si dà per quasi certo il nome della deputata dem Anna Rossomando, avvocato penalista. Molto probabile dovrebbe essere l’elezione dell’ex Guardasigilli Paola Severino, protagonista del governo tecnico di Mario Monti. C’è chi punta sull’esponente Ncd Antonio Leone. Ma è all’interno di Forza Italia che sembra esserci parecchia agitazione. I nomi emersi con insistenza sarebbero almeno tre. Il senatore Ciro Falanga, campano, componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Il deputato Carlo Sarro, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio. E Antonio Marotta, deputato anche lui, già membro del Csm una decina di anni fa. Particolare non irrilevante: in caso di elezione al Csm, le dimissioni dal Parlamento di Marotta aprirebbero le porte di Montecitorio ad Amedeo Laboccetta. Primo dei non eletti nella circoscrizione Campania 1 e vice coordinatore regionale di Forza Italia.

Toghe in guerra e la spartizione politica delle procure, scrive Alessandro Da Rold suL’Inkiesta”. Magistrati sull’orlo di una crisi di nervi. Dopo le polemiche per le primarie del Csm, da cui la sinistra di Magistratura Democratica è uscita con le ossa rotte, continuano le giornate intense tra le toghe italiane, alle prese con l’atteso ricambio dei capi delle procure di Bari, Torino, Salerno e Firenze: in alcuni palazzi di giustizia mancano i «numeri uno» ormai da quasi un anno. Le correnti si muovono in modo inconsulto, già prostrate dalla campagna elettorale e soprattutto dallo scontro senza esclusione di colpi dentro la procura di Milano, tra il pm Alfredo Robledo vicino a Magistratura Indipendente e la guida del palazzaccio Edmondo Bruti Liberati, storico leader di Md. Lo scontro andato in scena al Csm martedì 16 aprile 2014 - nell'ambito dell'istruttoria avviata sull'esposto che Robledo ha presentato contro il suo capo accusandolo di violazioni e irregolarità nell'assegnazione dei procedimenti alla procura di Milano - rischia di avere pesanti ripercussioni sulla procura meneghina. E chissà se pure tra i rapporti di forza tra le varie correnti. «Ne resterà soltanto uno» sostengono gli addetti ai lavori. E dovrebbe essere proprio Bruti Liberati che vanta dalla sua anche la sicura permanenza di Ilda Boccassini alla Dda di Milano: Ilda «la rossa» per questioni burocratiche (non ha presentato i documenti) non corre più per il posto di capo nella Procura di Firenze. La vicenda è attraversata oltre che dai vizi procedurali denunciati da Robledo, da un velo di tipo politico, prettamente correntizio. Il pm napoletano che ha indagato sulla vicenda dei derivati è stato molto preciso nella sua deposizione di fronte alle commissioni a palazzo dei Marescialli. Robledo ha tirato infatti fuori un vecchio episodio, uno screzio avuto proprio con Bruti: «Ricordati che sei qui perchà Md ti ha votato», lo avrebbe apostrofato il capo del palazzaccio (il Palazzo di Giustizia, ndr). Minacce, veti, scelte procedurali, di più se ne saprà dopo Pasqua, mentre proprio Magistratura Indipendenti con Antonello Racanelli parla «di un quadro allarmante e preoccupante della gestione della procura di Milano». Veleni, insinuazioni, mentre al Csm si discute appunto delle attese nomine nelle procure italiane. E anche qui è il mercato «delle vacche», parafrasando una toga di palazzo dei Marescialli. In pratica la corrente Area, quella formata da Md e da In Movimento, sta provando a occupare tutte le caselle dello scacchiere. Ma c’è chi, tra Unicost e Mi, ha iniziato a storcere il naso, anche perché i rapporti di forza devono essere preservati e rispettati. Al momento Armando Spataro, storico pm milanese, vicino ad Area da sempre dentro Md, sembra essere in lizza per la procura di Torino, dove dovrebbe sostituire il rimpianto Giancarlo Caselli. C'è chi lo dà ormai per certo. Spataro in realtà doveva essere dislocato a Firenze, ma all’ultimo ha ritirato la domanda, proprio per virare sotto la Mole Antonelliana. Cosa che ha scatenato problematiche nelle trattative. Perché se Torino e Bari finiscono a «sinistra» - quando la seconda era un tempo a destra con Antonio Laudati - così non può succedere per il capoluogo toscano e per Salerno. Nel capoluogo pugliese appariva quasi scontata fino a un mese fa la nomina di Giovanni Melillo, un interno, poi però cooptato al ministero della Giustizia come capo di gabinetto su scelta del Guardasigilli Andrea Orlando: Melillo appartiene alla corrente Area. In lizza per Bari ci sono a questo punto Giuseppe Volpe - attualmente sostituto procuratore generale in Cassazione - e il procuratore aggiunto di Bari, Pasquale Drago. Peccato che il primo sia sostenuto Magistratura democratica e da Area, il secondo da Unicost, fattore che fa pendere il pendolo delle probabilità proprio su quest’ultimo. A Firenze è il tempo delle incognite. Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, che fu battuto a Marsala da Magistratura Indipendente nel 2008, quando fu eletto Girolamo Alberto detto il "corvo”, potrebbe avere qualche possibilità. Ma anche qui si fa largo Unicost con Armando D’Alterio, procuratore di Campobasso. Per la procura fiorentina c’è in pista anche Lucia Lotti, toscana e procuratore a Gela, molto stimata, della corrente di Md. Infine a Salerno, per il dopo Franco Roberti, da sempre in una corrente di sinistra, si fa largo invece Corrado Lembo, procuratore capo a Santa Maria Capo, storico esponente di Magistratura Indipendente, quindi di destra. E qui c'è chi fa notare, soprattutto a sinistra, che il figlio di Lembo, Andrea; fa politica proprio nel salernitano. Un modo per ostacolarlo?

Denunce e faide: i magistrati peggio dei politici, scrive Alessandro Da Rold suL’Inkiesta”. Da Mani Pulite a Toghe Pulite. A distanza di vent’anni da Tangentopoli, quando notorietà e consensi erano agli apici, la magistratura italiana vive uno dei momenti più difficili della sua storia, spaccata tra le correnti, mal digerita agli occhi dell’opinione pubblica per la lungaggine dei processi e per i costi, in una guerra senza esclusione di colpi tra articoli sui giornali e persino indagini della stessa magistratura. Tra due settimane, il 25, 26 e 27 marzo, ci saranno le primarie per nominare i candidati al rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura. La campagna elettorale è in corso, tra spamming via mail, aperitivi e comizi nei vari tribunali, nello stile perfetto della nostra politica. C’è chi a bassa voce se ne lamenta, cercando di evitare di essere coinvolto. E a quanto pare sono tanti a cestinare missive di ogni tipo, dove si tengono «diari» della campagna elettorale o si citano frasi a effetto per conquistare qualche voto in più. Tre le correnti in campo: Unicost (sorta di Democrazia Cristiana delle toghe), Magistratura Indipendente (più vicina alla destra) e Area (zona centrosinistra). C'è poi il comitato Altra Proposta che in pratica si oppone a tutte le correnti e vorrebbe nuove regole di rappresentanza dell'autogoverno dei magistrati. Nel mentre l’attuale Csm deve nominare il nuovi procuratori capo di Torino, Bari, Salerno e Firenze. Alcune sedi sono vacanti da mesi, ma l’incrocio elettorale è talmente micidiale, tra logiche correntizie e di potere, che è stato tutto spostato a data da destinarsi. Si parla di inizio aprile, ma lo stesso vicepresidente del Csm Michele Vietti non ha ancora dato un data precisa. Ad aggiungere benzina sul fuoco, in questi giorni, si è messo Alfredo Robledo (vicino a Magistratura Indipendente), procuratore capo del pool contro i reati della pubblica amministrazione di Milano, che ha denunciato al Csm il Capo della Procura Edmondo Bruti Liberati perché avrebbe «turbato» e «turba la regolarità e la normale conduzione dell'ufficio»: una bomba atomica, scagliata contro uno degli storici leader di Magistratura Democratica, ora confluita in Area, ma soprattutto contro Francesco Greco capo del pool per reati finanziari e protagonista proprio di Tangentopoli con l'ex pm Antonio Di Pietro. Il fascicolo non è ancora arrivato sulle scrivanie di palazzo dei Marescialli, ma molti consiglieri hanno letto la notizia sul Corriere della Sera. Nei prossimi giorni la denuncia sarà girata con tutta probabilità alla prima commissione, quella addetta appunto a «rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati».  Al tribunale di Milano parlano già di guerra senza esclusioni di colpi. Il clima è irrespirabile, considerando che l’ufficio di Robledo è a pochi metri da quello di Bruti Liberati. Quest’ultimo, intercettato dai cronisti, ha preferito non commentare, idem per Greco, storico pm di Mani Pulite, adesso nel calderone della denuncia, già accusato di non aver indagato su diversi reati fiscali e in particolare su Sea. Del resto, Robledo, in questo documento di 12 pagine, parla di violazione dei «criteri organizzativi» e racconta nel dettaglio diversi punti di rottura con il resto della procura. Come quando nel 2011, in seguito allo scoppio dell’indagine sull’Ospedale San Raffaele che avrebbe poi travolto la giunta lombarda di Roberto Formigoni, fu proprio Bruti Liberati, secondo Robledo, a sottolineare «che si trattava di una situazione molto delicata, essendo in corso trattative sulle quali non avrebbe voluto che le indagini influissero in qualunque modo». È un attacco pesante che avviene nel cuore di quel Palazzaccio che vent’anni fa si forgiava dei galloni per aver debellato la corruzione nella politica italiana, indagando sul Psi di Bettino Craxi e la Dc di Arnaldo Forlani. Ma da allora pare quasi che l’incantesimo della magistratura con i cittadini si sia spezzato. I sondaggi degli ultimi anni, spesso molto sporadici, sono in picchiata. Più del 50% degli italiani sostiene di non credere più nella giustizia. Non solo. I dati europei non sono confortanti. La giustizia civile italiana è la più lenta d’Europa dopo quella maltese e la prima per casi pendenti che attendono ancora una sentenza definitiva. È il risultato che emerge dal Quadro di valutazione Ue della giustizia 2014. «Sono preoccupata per quei Paesi che sono in fondo alla lista”, e dove magari “non ci sono progressi ma regressi”, ha affermato la commissaria alla Giustizia, Viviane Reding. Non solo. Per finanziare il sistema giudiziario in Europa si spendono 57,4 euro pro capite, in Italia la spesa arriva a 73 euro, soltanto in Svizzera e nel Nord Europa si spende di più, per un sistema più snello che pare funzionare. La nostra nazione ha il maggior numero di casi civili pendenti, ben 4 milioni e 986 mila. I tempi sono lunghissimi: in media circa 600 giorni per una sentenza solo di primo grado. Il quadro, in sostanza, non è per nulla confortante. E questo si aggiunge a faide su faide, in particolare proprio a Milano, dove i magistrati continuano a darsele di santa ragione. A ottobre, prima di Bruti Liberati e Greco, è stato il turno della Boccassini. «I giudici di provincia non capiscono nulla di mafia» disse durante un convegno alla Bocconi l’11 ottobre. Apriti cielo. Le toghe di provincia decisero di intervenire con un esposto sempre al Csm chiedendo all'organo di autogoverno delle toghe, di valutare le affermazioni a loro avviso «gratuite», «denigratorie» e «generiche» pronunciate da Ilda la Rossa. Da Milano a Torino fino a Firenze e Napoli è un brulicare di veleni e sospetti. Sotto la Mole Antonelliana ha da poco lasciato il posto Giancarlo Caselli, non senza polemiche. A novembre lasciò Magistratura Democratica dopo averla fondata e dopo anni di militanza. Il motivo fu un contributo dello scrittore Erri De Luca al giornale della corrente togata cosiddetta «rossa». In modo velato si parlava della rivoluzione degli anni ’70 e si dava solidarietà ai No Tav della Val Susa, che sono stati indagati e arrestati proprio dalla procura allora guidata da Caselli (oggi in pensione) lo scorso anno per le violenze al cantiere e, per alcuni, atti di terrorismo. Il magistrato di Alessandria se ne andò sbattendo la porta. A tutto questo si aggiungano pure le inchieste piovute sullo stesso Vietti e sugli ex magistrati che sono stati coinvolti nello scandalo Finmeccanica, con al centro una commessa da 550 milioni di euro per 12 elicotteri in India. L’ex presidente della corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi e l’ex presidente della corte d’Appello di Venezia Manuela Romei Pasetti, diventati consulenti di piazza Montegrappa, finirono nel tritacarne, indagati in un procedimento connesso. Il giudice per le indagini preliminari di Busto Arsizio, Bruno Labianca, scrisse: «Gli indagati, informati dell’esistenza di una indagine giudiziaria si sono attivati a porre in essere condotte di sovvertimento della genuinità delle prove, anche con tentativi di pretesa modifica della linea operativa dell’ufficio inquirente che procede e con l’asservimento o, quanto meno la compiacenza presso i maggiori organi di stampa». L'ennesima faida di una magistratura ormai allo sbando.

MAGISTRATI. SI DIVENTA COL TRUCCO.

Tracce diffuse in anticipo. Venerdì scorso 27 giugno 2014, padiglione numero 3 della nuova Fiera di Roma. Sta per cominciare la terza prova del concorso per diventare magistrato, quasi 7 mila partecipanti per 365 posti. La traccia non è stata ancora letta ma una ragazza seduta verso il fondo della sala comincia a scrivere sui fogli timbrati che la commissione ha appena distribuito. Parte da qui il giallo che rischia di travolgere un concorso atteso da più di due anni, scrive Lorenzo Salvia su “Il Corriere della Sera”. In quel momento nessuno sa ancora quale sarà l’argomento del compito di diritto amministrativo ma la ragazza comincia a scrivere su un tema preciso, il giudizio di ottemperanza. I suoi vicini di banco iniziano ad urlare, chiedono l’intervento degli ispettori che girano fra i banchi. Chiedono che sia espulsa. Dicono che, evidentemente, conosceva la traccia in anticipo. Per trovare una soluzione arriva il presidente della commissione, il magistrato di Cassazione Antonio Prestipino. Dice ai candidati che se il compito sarà davvero su quell’argomento la ragazza sarà espulsa. Ma per il momento no, resta al suo posto. Nel padiglione tira aria di ammutinamento: «Noi l’esame non lo facciamo» urlano in coro molti di loro. Passano più di due ore prima che le tracce vengano lette. No, la materia non è quella «prevista» dalla candidata «sospetta». La ragazza resta al suo posto. Ma in aula si sparge la voce che nei cestini del bagno sono state trovate tutte le tracce, sia il titolo che lo svolgimento. Che lo stesso sarebbe successo il giorno prima per la prova di diritto penale. E che quelle due ore di blocco sarebbero servite alla commissione per cambiare al volo le tracce, in modo da evitare quella pericolosa coincidenza che avrebbe mandato a monte tutto il concorso. A giorni di distanza lo raccontano alcuni candidati, chiedendo l’anonimato. Ma, ufficialmente, questa ricostruzione viene smentita. «Sono solo persone in malafede che vogliono sabotare il concorso - dice il presidente della commissione Prestipino - forse perché sanno che la loro prova non è andata bene». Il magistrato nega il ritrovamento dei compiti nei bagni e che la commissione abbia cambiato al volo i temi. Conferma l’episodio della ragazza ma lo spiega così: «Erano solo degli schemi generali su un argomento che lei riteneva probabile uscisse ma che poi non è uscito. Davvero non capisco dove sia il problema». E quelle due ore di stop prima di leggere le tracce? «Nessun cambio di programma. Abbiamo cominciato più tardi per dare più tempo ad un candidato che tra una prova e l’altra doveva fare la dialisi». Ma il giallo della ragazza non è l’unico fatto contestato. Diversi candidati sono stati espulsi perché pizzicati in aula con i codici commentati, che non sono ammessi. Alcuni colleghi, sempre dietro anonimato, sostengono però di averli visti partecipare alle prove ma in una sala diversa. Una finta espulsione, insomma. «Ma figuriamoci - dice il presidente della commissione Prestipino - tra poco diranno pure che sono anche un trafficante di droga, di armi e di bambini. Senza una denuncia formale e senza una prova concreta queste voci, che sono arrivate pure a me, non valgono niente». Il magistrato si dice «già pentito» di aver accettato l’incarico di guidare la commissione. «Quello che sta accadendo è un segno dei tempi. Questo è l’unico concorso pubblico rimasto in piedi, la gente arriva con il coltello fra i denti ed è disposta a tutto pur di arrivare in fondo». Teme ricorsi? «Possibile che ci saranno, e questo rischia di allungare i tempi». In fondo, per chi vuole diventare magistrato, un assaggio del lavoro che verrà.

Concorso magistratura 2014: caos alle prove, annullamento vicino. Agli scritti lamentate irregolarità di ogni tipo. Cosa è successo, scrive “Leggi Oggi”. Magistratura 2014: aria di clamoroso annullamento. A pochissimi giorni dalle prove scritte di una delle selezioni pubbliche più discusse degli ultimi tempi, è un caos completo quello in cui si stanno muovendo Procura di Roma, Codacons e migliaia di candidati inviperiti. Dopo il tira e molla sulla date, infine confermate, erano 365 i posti disponibili in magistratura, messi a bando con il concorso più atteso dalle aspiranti toghe. Tanto è vero che ai blocchi di partenza si sono presentati un numero di iscritti venti volte superiore a quello dei futuri vincitori. Insomma, già di per sé, dando per assunto che tutto si sarebbe svolto nella massima regolarità, un compito davvero difficile attendeva gli oltre 7mila candidati - sulle 20 domande - che hanno presentato domanda di trovare un posto in Procura. Purtroppo, però, è arrivata prima la Procura da loro, che non il contrario. Già al terzo giorno consecutivo di prove, infatti, lo scorso venerdì 27 giugno, si sono sollevate forti rimostranze a opera di alcuni iscritti, che lamentavano palesi irregolarità nello svolgimento del test. Tutto ciò, nonostante fossero state prese le solite precauzioni per questo genere di appuntamenti: ritiro coatto degli smartphone a tutti i candidati, divisione delle singole postazioni per evitare collaborazioni e gli altri accorgimenti contro i soliti furbetti. E invece, qualcosa dev’essere andato storto, dal momento che molti dei candidati hanno denunciato comportamenti al limite dell’incredibile, con concorrenti pizzicati a consultavare indisturbati codici commentati, o, ancora, veri e propri gruppetti organizzati per risolvere la prova in comune, che si sarebbero visti soltanto rimproverare il rumore procurato. E tutto ciò, nell’indifferenza dei vigilanti: nessuna misura sarebbe infatti stata presa dai magistrati presenti, né provvedimenti disciplinari per i rei che, sotto gli occhi di tutti, avrebbero fatto il proprio comodo nelle ore di test. Peccato, però, che l’assenza di smartphone o altri dispositivi in grado di registrare fosse stata inibita al candidati, cosicché i coraggiosi che hanno gridato il proprio sdegno in Procura non hanno potuto portare prove concrete a suffragio. O, meglio, gli unici a cui era stato consentito tenere di nascosto i telefonini, sarebbero stati quei pochi favoriti dai commissari. Nel frattempo, il Codacons ha chiesto di poter consultare i verbali della commissione. Intanto, dal governo silenzio completo sulla faccenda. Lunedì, potrebbe tenersi un nuovo episodio: i concorrenti del concorso magistratura 2014 hanno infatti indetto una protesta simbolica in piazza, mentre in rete si ingrossa la rabbia dei tantissimi indignati per le scene viste in sede d’esame, ormai condivise tra i tanti aspiranti che si sentono defraudati del sogno della vita.

Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti, codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia. Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito www.miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.

Il trucco, si sa, vien da lontano. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Ed ancora......"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso nel 2008, scrive Luca Fazzo su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

Le toghe ignoranti, inchiesta di Fabrizio Gatti sul "L'Espresso". Rimasta doverosamente ignorata dai media ossequiosi del potere giudiziario. Al popolino meglio non far sapere in che mani sono poste le loro vite.

Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nel 2010 nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame. Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile 2010. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. SONO LORO A DOVER SVELARE I CONCORSI TRUCCATI. Scrive “Il Fatto Quotidiano”: Fermate quel concorso al Tar. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si sta svolgendo in questo periodo un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Ora, il dubbio è questo. Se un candidato è entrato in aula con i compiti già svolti, davvero può ritenersi certo che il concorso si sia svolto regolarmente per gli altri candidati? O non è forse legittimo sospettare che i compiti possano averli avuti anche altri candidati? E allora, perché la commissione (composta quasi tutta da magistrati amministrativi e nominata di fatto dal Cpga) non ha annullato il concorso in via di autotutela? Ho già scritto in un altro post la incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Orbene, anche in questo concorso la vittoria del blasonato fratello Mattei era ampiamente anticipata da voci correnti, prima ancora della apertura delle buste contenenti i nomi, tanto da indurmi personalmente (anche per la mia qualità di Presidente di una, pur piccola, associazione di Magistrati) a formalizzare una lettera di chiarimenti, regolarmente protocollata presso l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi. Un’ipotesi rara, in cui è addirittura formalizzato ufficialmente quello che si dice che accadrà di un concorso per l’accesso in magistratura (già oggetto di indagini penali) e che si verifica puntualmente. La mia richiesta di chiarimenti purtroppo non ha mai avuto risposta, mentre pare sia notizia di questi giorni che il fratello Mattei abbia passato gli scritti del concorso per 15 soli posti. Come dicevo, il condizionale è d’obbligo, non avendo il Cpga rilasciato, almeno sinora, alcun comunicato. Vedremo, ma intanto una certezza vi è già: la commissione nominata dal Cpga non ha attivato le pratiche per annullare quel concorso e la mia lettera sulle anticipatorie voci relative alla vittoria del Mattei giace da mesi in qualche cassetto, regolarmente protocollata.

Da "Il Corriere della Sera", invece.....Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo scrivono: Più «amanti» per tutti. Ricordate come il giudice Aldo Quartulli definì gli arbitrati, che consentono ai magistrati amministrativi di guadagnare soldi extra? «Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l'amante». Bene: dopo essere stati più volte aboliti e ripristinati, stanno per tornare alla grande. Grazie a un emendamento che andrà in discussione proprio martedì. Il cuore dell'emendamento, firmato da tre senatori del Pdl, Massimo Baldini, Valter Zanetta e Luigi Grillo (il presidente della commissione Lavori pubblici del Senato rinviato a giudizio per concorso in aggiotaggio per i suoi rapporti con Giampiero Fiorani) è racchiuso in una sola riga: «Sono abrogati i commi 19, 20, 21 e 22 dell'articolo 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244». Arabo, per i non addetti ai lavori. Ma l'obiettivo è chiaro: vengono abolite le norme introdotte nell'ultima finanziaria del governo Prodi che vietavano alle pubbliche amministrazioni, senza eccezioni, di stipulare contratti contenenti la clausola del ricorso all'arbitrato in caso di disaccordo. Pena, l'intervento della Corte dei conti e pesanti sanzioni. Riassumiamo? Gli arbitrati (aboliti dal governo Ciampi, ripristinati da Berlusconi, ri-aboliti da Dini e via così…) sono una specie di corsia preferenziale parallela alle cause civili. Se l'ente pubblico che ha commissionato un lavoro e chi quel lavoro lo ha eseguito vanno a litigare sui soldi, possono chiedere che a stabilire le ragioni e i torti non sia la lentissima giustizia civile ma una specie di giurì. Un arbitro lo nomina un litigante, uno quell'altro e i due insieme nominano il presidente. Niente di male, apparentemente. Se non fosse per due nodi. Primo: gli «arbitri» sono spesso giudici chiamati a decidere «privatamente » su cose che a volte toccano lo stesso Comune, la stessa Provincia, la stessa Regione o lo stesso Ministero su cui possono essere delegati a decidere nelle vesti di membri dei Tar o del Consiglio di Stato. Secondo nodo: stando ai dati del presidente dell'Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici Luigi Giampaolino, lo Stato (guarda coincidenza…) perde sempre. O quasi sempre: in 279 arbitrati in due anni tra il luglio 2005 e il giugno 2007, ha vinto appena 15 volte. Sconfitto nel 94,6% dei casi, ha dovuto pagare alle imprese private 715 milioni di euro. Pari al costo del Passante di Mestre. Va da sé che, oltre ai privati, hanno esultato gli arbitri. Che si sono messi in tasca, euro più euro meno, una cinquantina di milioni. Una cosa «indecorosa», diceva un tempo Franco Frattini invocando «l'incompatibilità totale fra lavoro istituzionale dei giudici e altri incarichi ». «Inaccettabile», concorda il Csm che da anni non consente ai giudici civili e penali di accettare arbitrati. «Indecente», insiste Antonio Di Pietro, che più di tutti ha spinto, da ministro delle Infrastrutture, per mettere fine all'andazzo. Macché: di proroga in proroga, è rimasto tutto come prima. E il divieto assoluto di ricorrere all'arbitrato non è mai entrato, di fatto, in vigore. Peggio: l'emendamento Grillo- Baldini-Zanetta non si limita a ripristinare gli arbitrati. Va oltre. E stabilisce una specie di percorso automatico: o l'ente pubblico e l'impresa privata che vanno in lite si accordano entro un mese oppure, senza più le procedure di prima, si va dritti alla composizione arbitrale. E dato che in questi casi lo Stato perde quasi sempre, va da sé che questo potrebbe spingere perfino le amministrazioni più riluttanti, per non subire oltre il danno la beffa di dover pagare avvocati e spese processuali, a rassegnarsi alla «proposta di accordo bonario». Cioè alle richieste delle imprese. Coscienti di spazzare via tre lustri di tentativi di moralizzazione avviati da Carlo Azeglio Ciampi, gli autori dell'emendamento hanno sciolto nella pozione uno zuccherino: il dimezzamento dei compensi minimi e massimi dovuti agli arbitri. Evviva! Fermi tutti: salvo la possibilità di aumentare del 25% le parcelle «in merito alla eccezionale complessità delle questioni trattate, alla specifiche competenze utilizzate e all'effettivo lavoro svolto». E chi decide l'aumento? Gli arbitri stessi. Non bastasse, la sconcertante manovra per rilanciare gli arbitrati mai aboliti arriva nella scia di altri due episodi, diciamo così, controversi, che riguardano gli stessi magistrati amministrativi, da sempre cooptati a decine in questo e quel governo, di sinistra o di destra, come capi di gabinetto o responsabili degli uffici legislativi. Incarichi che ricoprono continuando a progredire nella carriera giudiziaria come fossero quotidianamente presenti e cumulando i due stipendi. Il primo è la decisione di spostare la definizione delle norme che dovrebbero regolare gli incarichi pubblici. Abolito il tetto massimo di 289 mila euro fissato da Prodi, tetto che arginava alcuni stipendi stratosferici, il governo si era impegnato a fissare le nuove regole entro il 31 ottobre. Macché: tutto rinviato. Nel frattempo non solo tutto resta come prima, ma alcune società pubbliche come il Poligrafico, la Fincantieri o l'Anas hanno rimosso dai loro siti l'elenco delle consulenze e il loro importo, vale a dire uno dei fiori all'occhiello rivendicato sia dal vecchio governo di sinistra sia da Renato Brunetta. Ma la seconda «eccentricità» è forse ancora più curiosa. Riguarda un concorso. Erano in palio 29 posti di «referendario» (traduzione: giudice) nei Tar. Presidente della Commissione: Pasquale De Lise, «aggiunto» del Consiglio di Stato e autore di una celebre battuta sugli arbitrati suoi: «Il guadagno legittimo di qualche soldo». Partecipanti: 415 candidati. Ammessi agli orali, svoltisi in queste settimane: 30. E chi c'è, tra questi promossi? Una è Paola Palmarini, docente alla Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze di cui tempo fa era rettore il marito, Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti nonché membro del Consiglio di Presidenza, cioè dell'organo di autogoverno delegato a nominare le commissioni d'esame. Un'altra è Anna Corrado, moglie di Salvatore Mezzacapo, giudice dei Tar e lui stesso membro dell'organo di autogoverno che sceglie le commissioni. Il terzo è Enrico Mattei fratello del magistrato del Tar Fabio Mattei, ammesso agli orali (dopo essere stato inizialmente scartato), grazie a una sentenza del Tar Lombardia firmata da Pier Maria Piacentini, il quale non molto tempo prima aveva avuto dal già citato organo di autogoverno l'autorizzazione ad assumere un incarico molto ben remunerato «di studio e approfondimento dei problemi concernenti concessioni di valorizzazione dei beni demaniali». Incarico «conferito dal Direttore dell'Agenzia del Demanio ». Cioè dalle Finanze.

Ed ancora da “Il Fatto Quotidiano”. Fermate quel concorso per Consigliere di Stato! Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse ieri le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Ma i fatti più gravi sono altri due. In primo luogo la celebrazione, nel giorno di pausa tra le varie prove scritte, di una seduta (che è pubblica) dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa nella sala ove si stava tenendo il concorso, senza spostare i codici legislativi portati dai concorrenti, che sono quindi rimasti accessibili da parte di persone esterne al concorso. In secondo luogo la violazione del principio dell’anonimato: diversamente dagli altri concorsi pubblici, la commissione ha costretto i candidati che avevano bisogno di fogli aggiuntivi per scrivere i temi, a compilare un modulo già predisposto, indicando il numero di fogli presi e firmandolo. In questo modo la commissione, aprendo le buste con le prove da correggere ed incrociando i dati sul numero di fogli aggiuntivi richiesti, ancor prima di aprire la busta con il nominativo del candidato al termine della correzione di tutte le prove, è in grado di conoscere chi dei (soli) 29 concorrenti ha scritto quel tema che si sta correggendo. Per essere più chiari, la commissione sa sin da ora che l’ottimo V. è l’unico ad aver richiesto 12 fogli aggiuntivi per la prova di amministrativo e 14 per la sentenza e 14 per il diritto internazionale. Che lo studiosissimo M. è l’unico ad averne richiesti sempre 8, nei primi tre giorni di prova. Che il bravissimo P. ne ha chiesti 13 per redigere la sentenza, mentre la diligentissima D. ne ha presi 5 per la prova di tributario e amministrativo e 8 per la sentenza. Il bravissimo D. ne ha presi 3 per diritto tributario, 6 per diritto amministrativo, 5 per la sentenza, mentre V. ne ha richiesti, per le stesse prove, rispettivamente 5, 4 e 4. E via dicendo per tutti gli altri concorrenti. Una procedura che rende quindi inutili tutte le accortezze previste per garantire l’anonimato e che, in considerazione del basso numero di concorrenti, avrebbe potuto facilmente essere evitata consegnando un numero maggiore di fogli a tutti i candidati o, semplicemente, non operando il “censimento”. Non è la prima volta che le prove di concorso del massimo organo (il Consiglio di Stato) deputato a giudicare della regolarità di tutti i concorsi pubblici italiani sono oggetto di irregolarità e polemiche: dopo il c.d. “caso Giovagnoli“, nel 2010 il Tar del Lazio ha dichiarato illegittimi i concorsi celebrati negli anni 2006 e 2007. Nel concorso del 2009 sono state corrette circa 700 pagine di compiti in poco più di 3 ore, per una media di 3,5 pagine al minuto: un record da guiness dei primati. Nel 2010, invece, ha vinto un candidato che aveva scritto un libro il cui titolo era esattamente identico al titolo della prova scritta di diritto civile.

Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!

Riguardo il concorso di abilitazione alla magistratura vi è un commento di Valentina Dubini pubblicata su La Voce di Robin Hood. In seguito alle molte richieste e al grande interesse suscitato nei nostri lettori, dalla pubblicazione degli articoli "i veli sui concorsi truccati dei magistrati" e sul livello di credibilità sempre più basso della magistratura italiana vogliamo presentare un breve excursus dal 1992 ad oggi dei casi più salienti, per vedere cosa è stato fatto e se realmente qualcosa è cambiato.  Con il primo articolo del 2007 apparso sul tema un nostro anziano avvocato si domandava di quale credibilità potesse ancora godere la magistratura italiana se gli stessi concorsi per entrare a farne parte continuavano ad apparire poco trasparenti, come denunciato nei decenni precedenti da molteplici candidati, senza che si sia mai fatta piena luce sui diversi episodi di brogli e corruzione emersi in ogni parte d'Italia.

Correva l'anno 1992, quando trapelò per la prima volta che anche i concorsi per magistrati venivano truccati col beneplacito del Ministero di Giustizia e degli apparati di vigilanza: "Verbali sottoscritti da gente che non c'era, fascicoli spariti, elaborati giudicati "idonei" quando non lo erano affatto". Passarono poi ben 13 lunghi anni prima di venire a sapere tramite un articolo di denuncia del Corriere della Sera, pubblicato nel 2005, che i gravi fatti del 1992 non avevano ancora trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia amministrativa italiana né tantomeno sanzione penale.

Nel 2005, nonostante l'autorevole denuncia di Silvio Pieri, ex Procuratore Generale del Piemonte, e le diverse interrogazioni parlamentari sul tema, la scandalosa vicenda del concorso truccato del 1992, risultava finita nel porto delle nebbie, così come ogni altra successiva denuncia del genere. Vale la pena qui ricordare il suggestivo episodio della fotocopiatrice integerrima che smascherò il broglio di una componente della commissione esaminatrice della sessione del marzo 2002 e al contempo magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d' Appello di Napoli, la quale cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm, della corrente di Unicost, sostituendo clandestinamente durante la notte la prova giudicata negativa della sua protetta, ma venendo tradita dall'eccesso di zelo dell'incorruttibile copiatrice, utilizzata nottetempo dall'alto magistrato, che ripartendo al mattino misticamente vomitava fiumi di copie delle pagine contraffatte dalla giudice Dr.ssa Clotilde Renna.

Negli anni successivi, neppure l'agguerrito Ministro Alfano, al pari del Guardasigilli di centro-sinistra Mastella, provava a scalfire l'impenetrabile muro di gomma eretto dalla casta e dalle massomafie che la proteggono, sui criteri e le procedure che governano l'accesso alla magistratura. L'argomento, evidentemente troppo scottante anche per i falsi neoliberisti e i rampanti filoberlusconiani che sulla corruzione giudiziaria hanno prosperato, costruendo la loro fortuna economica e politica, continua così ad essere un tabù di cui nessuno si occupa.

Correva l'anno 2008, quando scoppia il nuovo caso della Fiera di Milano-Rho, in occasione dell'ennesimo Concorso Nazionale per Uditore Giudiziario truccato. Tra i 5600 aspiranti magistrati per soli 500 posti si scopre che c'è chi si può permettere di introdurre impunemente telefonini, appunti, codici "irregolari", rispetto alle norme dettate dal concorso e addirittura libri di testo, tanto da scatenare un vero e proprio putiferio. Mentre decine di candidati urlavano in piedi "vergogna!", un altro gruppo esprimeva il proprio sdegno chiedendo di annullare la prova.

Ma "more solito" tutto vien presto messo a tacere e il livello di preparazione e di moralità dei giudici italiani e la conseguente disponibilità a "non lasciarsi ammorbidire dal potere", restano quelli che tutti abbiamo avanti agli occhi ogni giorno nelle aule d'udienza: aperto favoreggiamento dei più forti, nepotismo, corporativismo, prepotenza e arroganza mischiate spesso ad aperta ignoranza ed assenza di rispetto nei confronti di avvocati e soggetti più deboli. (C'è persino chi scrive durante la prova riscuotere con la "q", chi confonde la Corte dell'Aja con la «Corte dell'Aiax», o un maturo Presidente di sezione di Corte d'Appello civile a Milano che alle soglie della pensione non conosceva neppure la differenza tra un reclamo in corso di causa ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c. proposto al collegio da uno ex art. 669 septies c.p.c. proposto allo stesso giudice di merito).

La casta corrotta al pari della classe politica si protegge per autoriprodursi. Ma la cosa che più fa scalpore nel caso del concorso di Rho è il fatto che, messi a parte i dissidi tra il Guardasigilli Alfano e il C.S.M., è lo stesso organo di autogoverno della magistratura a richiedere con voto a maggioranza la frettolosa archiviazione del caso. Tutto normale anche per il Ministero di Giustizia, nonostante le molteplici denunce inquietanti di tanti candidati che segnalavano con dovizia di particolari come durante la prova milanese fossero saltate tutte le regole del gioco e che rampolli figli di noti magistrati avessero potuto fruire del tutto indisturbati di materiale vietato. Circostanza veramente anomala tenuto conto che il concorso per magistrati è ritenuto l'esame più controllato nel nostro Paese. I testi a disposizione dei candidati prima di venire ammessi e introdotti in aula vengono preventivamente verificati e timbrati da un'apposita commissione esaminatrice. Un cancelliere di Tribunale controlla siano realmente dei codici, che non vi siano nascosti appunti o fogli volanti e che siano conformi al bando. I nuovi brogli di Milano-Rho non potevano quindi venire liquidati, ancora una volta, laconicamente e senza alcuna indagine, per coprire le solite spinte corporative e gli oscuri interessi di chi controlla e manipola nell'ombra l'accesso in magistratura, prediligendo le logore logiche di nepotismo e di clientelismo, da cui si alimentano solo le massomafie, il malaffare e non di certo la legalità. Le molteplici proteste dei candidati della prova svoltasi alla Fiera di Milano-Rho per cui dovette persino intervenire la Polizia Penitenziaria per proteggere la commissione esaminatrice cieca, sorda e complice, non sono quindi ancora una volta servite a nulla.

La complicità della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Una cinquantina di candidati si recò in Procura a Milano per denunciare la gravità dei fatti di cui erano stati diretti testimoni, percependo che la Commissione intendesse mettere tutto a tacere per favorire i soliti raccomandati. Ma il procedimento, come di rito, viene frettolosamente archiviato, nonostante la quantità delle denunzie e la convergenza delle testimonianze, tutte acclaranti gravi irregolarità. Ciò, peraltro, senza disporre alcuna accurata necessaria indagine, seppure l'indignazione avesse inondato i siti web, estendendosi agli stessi consiglieri togati del Movimento per la giustizia e Magistratura Democratica che chiedevano un'inchiesta del Csm sulle innumerevoli irregolarità denunciate dai candidati. Dai media si apprende della richiesta di apertura di un fascicolo da parte della 9° Commissione di Palazzo dei Marescialli con l'obiettivo di "avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell'assoluta affidabilità della procedura di selezione". Ma, come denunciato, il 19 dicembre il C.S.M. definiva con una frettolosa archiviazione, eludendo ogni accertamento sullo svolgimento delle prove scritte del concorso indetto con D.M. 27/2/2008, svoltesi a Milano nei giorni 19/21 novembre 2008. La pratica era stata aperta da "I Giovani Magistrati", all'indomani delle inquietanti notizie fornite da stampa e televisione, in ordine alle modalità di espletamento del concorso. Dal sito www.movimentoperlagiustizia.it si apprende che nel corso della discussione plenaria, i consiglieri del Movimento per la giustizia chiesero invano il ritorno della pratica in Commissione per l'espletamento di ulteriore attività istruttoria, già inutilmente da loro richiesta anche in sede di Commissione, non condividendo la circostanza che la Commissione avesse voluto frettolosamente portare all'attenzione del plenum del C.S.M. una delibera monca, articolata sulla base di un'attività istruttoria carente, costituita essenzialmente dall'acquisizione delle sole relazioni del presidente della commissione di concorso (17, 20, 22 nov. e 1.12.08) e del direttore generale direzione magistrati del Ministero (25.11 e 9.12), nonché dalle audizioni dei commissari di concorso e di altri funzionari del Ministero di giustizia e della Procura Generale di Milano. "Nessun cenno nella delibera in esame del contenuto delle 19 missive, pervenute alla 9° Commissione anche via e-mail, delle quali più della metà regolarmente sottoscritte da candidati che segnalavano disfunzioni gravi o meno gravi riguardanti soprattutto il ritardo verificatosi il 19 novembre nella dettatura della traccia di diritto amministrativo e la presenza in loco di testi non consentiti". Per saperne di più, in relazione alla dinamica degli eventi, i tre consiglieri dissidenti aggiungono di avere inutilmente richiesto l'audizione di alcuni dei candidati firmatari degli esposti. Nessun cenno nella delibera del C.S.M. del contenuto della risposta del Ministro della Giustizia all'interrogazione parlamentare che, peraltro, si era sviluppata nel senso di una presa di distanza dall'operato della commissione di concorso. Il sito dei giovani magistrati del Movimento per la giustizia denuncia poi di avere sostenuto con forza che non vi fosse alcuna urgenza di definire, in tempi così brevi, una pratica dai risvolti talmente delicati, con una delibera che, agli occhi dell'opinione pubblica, avrebbe corso il rischio di essere additata (n.d.r.: come in effetti, poi, accaduto) "come una risposta corporativa e sostanzialmente "a tutela" dell'operato della commissione di concorso". Per di più, in una situazione in cui era in corso di indagini preliminari il procedimento aperto presso la Procura di Milano (iscritto a mod. 45), a seguito delle citate denunce pervenute dai candidati. Del resto, diversi sono gli aspetti inquietanti mai chiariti dal C.S.M. e dalla Procura di Milano, le cui archiviazioni hanno proceduto di pari passo per mettere tutto a tacere. Secondo quanto affermato nella relazione del Presidente Fumo sarebbero stati "schermati" i settori riservati ai candidati onde evitare comunicazioni telefoniche. Questo assunto, come si legge nel sito dei giovani magistrati, è stato smentito dal Direttore generale del Ministero, dott. Di Amato, che ha ammesso la mancanza di schermatura elettronica nei padiglioni ove si svolgeva il concorso, riscontrata peraltro dal sequestro di apparecchi telefonici che risultavano funzionanti all'interno dei locali. È appena il caso di rilevare che, come si legge nella relazione ministeriale, la "possibilità di una schermatura elettronica non ipotizzabile per la sede di Roma" era stata una delle ragioni che avevano condotto l'autorità competente alla scelta di Milano quale sede esclusiva di concorso. Quanto all'identificazione di circa 5.600 candidati con tesserini privi di fotografia e alla carenza di controlli anche dei testi e dei codici all'ingresso delle sale di esame (almeno 28.000 volumi), inutilmente proseguono i giovani magistrati di avere fatto richiesta di acquisizione di notizie più in dettaglio sui controllori (250 persone per ogni turno dislocate su 26 postazioni). Del pari, inutilmente hanno fatto richiesta di notizie sui 23 funzionari di segreteria e sui 750 addetti alla vigilanza durante le prove, che avrebbero potuto portare ad accertare le ragioni della discrasia tra l'enorme numero di addetti al controllo e gli insufficienti effetti del controllo medesimo. Accertamenti che avrebbero dovuto quindi trovare ingresso quantomeno in sede penale, onde poter escludere che l'indifferenza della commissione alle clamorose proteste dei candidati abbia inteso favorire i soliti raccomandati e che la prova invero "non fosse solo la solita farsa". Quanto allo svolgimento delle prove non ha poi convinto la scelta di non sorteggiare le materie nei diversi giorni di esame. "È vero che non vi era obbligo di legge in tal senso, ma è pur vero che ragioni di oppurtunità e trasparenza avrebbero dovuto indurre la commissione di concorso a procedere al sorteggio, così come le stesse ragioni inducono da anni il CSM a sorteggiare l'individuazione dei commissari di concorso". Ma soprattutto, ciò che non ha convinto i giovani magistrati è stato l'indisturbato allontanamento del commissario, prof. Fabio Santangeli (poi dimessosi il 25.11), il giorno 19, che è stato la principale causa dell'abnorme ritardo nella dettatura della traccia di "diritto amministrativo", avvenuta alle h.14. Parimenti, non hanno per niente convinto in particolare le giustificazioni fornite sul punto dal Presidente della Commissione, secondo il quale non sarebbe stato in alcun modo possibile trattenere nella sala il professore, senza chiarire la ragione perché non fosse stata approfondita sin dal primo momento la disponibilità di tempo del professore, evitando che partecipasse all'elaborazione dei testi. Cosa che poi provocava la ripetizione dell'operazione di individuazione /elaborazione delle tre tracce da sorteggiare, con l'ulteriore conseguenza della dettatura di una traccia ambigua, che ha causato ulteriori problemi di ordine pubblico, a causa delle diverse letture possibili. L'esistenza di queste accertate disfunzioni ed il mancato chiarimento di aspetti essenziali ai fini di un regolare e sereno svolgimento delle prove di esame avrebbero consigliato, secondo gli esponenti del Movimento per la giustizia, maggiore cautela nell'adozione di una delibera di archiviazione da parte del CSM. In definitiva, non si è compreso che solo una adeguata istruttoria avrebbe dissipato tutti i dubbi e reso trasparente l'operato della Commissione. Il nostro voto contrario, conclude il sito dei magistrati dissidenti, è determinato esclusivamente dall'esigenza di accertamento della verità. Esso non significa e non può significare "condanna", ma rappresenta una decisa presa di distanza da una logica di "tutela" preventiva ed incondizionata in favore di tutti i protagonisti istituzionali della vicenda, troppo frettolosamente ritenuti attendibili, pur in difetto di quel "contraddittorio" con le voci dissonanti dei candidati, come da noi richiesto e ribadito. "Il voto contrario non significa quindi che si ritiene sussistere i presupposti per l'annullamento del concorso in via di autotutela, ma testimonia il nostro disaccordo su una risposta istituzionale del tipo "tout va très bien madame la marquise!". Ne deriva che "Madama la Marchesa" dovrebbe trovare del tutto preoccupante e scandaloso che anche l'ennesima indagine sui concorsi truccati in magistratura condotta dalla Procura di Milano sia stata frettolosamente archiviata in breve tempo, trascurando i molteplici riscontri probatori, che avrebbero dovuto indurre il P.M. a svolgere più accurate indagini, il quale senza neppure ascoltare le persone informate sui fatti e i candidati parti lese, prendeva invece per "oro colato" la relazione presidenziale e le sole fonti istituzionali. E' quindi lecito dubitare che gli inquirenti al pari dei politici e dei membri del C.S.M. abbiano agito seguendo quel profondo senso di giustizia che dovrebbe animare coloro a cui è affidata la sorte della legalità.

Cosa si può fare? La parola ai candidati, ai magistrati e ai cittadini onesti. "Basterebbero 4 semplici telecamere ben piazzate, e tutto filerebbe in piena trasparenza. Finalmente si premierebbe e tutelerebbe l'impegno di chi ha studiato seriamente: questo dovrebbe stabilirsi per legge in TUTTI i concorsi pubblici. E perché non si fa? Non c'è rispetto per i nostri figli, così si facilita l'accaparramento dei posti di responsabilità in mano agli ignoranti. Dappertutto. E' veramente grave, questo. E' veramente grave non reagire, non ribellarsi. (Difficile dargli torto e non riconoscere il valore deterrente e dissuasivo dell'idea). "Così si vuole un paese di baroni ignoranti". Da Angelo (Un vero angelo di verità!).

A cosa serve questo concorso in magistratura? A seguito degli scandalosi eventi di Rho, colgo l'occasione per esprimere ciò che ho sempre pensato in merito al concorso in magistratura. In Italia la crisi, e oserei dire la paralisi, del sistema giudiziario è dovuto principalmente alla carenza di personale giudicante, inquirente e amministrativo. Questa situazione non la si vuole affrontare politicamente, perché fa comodo alla classe dominante avere una magistratura che non funziona. Ebbene la struttura del nostro concorso in magistratura consente davvero che si sfornino magistrati quantitativamente e qualitativamente capaci di amministrare bene e velocemente la giustizia? Assolutamente no!! E spiego il perché. Un concorso siffatto richiede una preparazione teorica estremamente elaborata e onnicomprensiva per conseguire la quale si impiegano un elevato numero di anni, in molti casi a due cifre. Se si ha poi la fortuna di passare il concorso grazie solo alla preparazione (e i fatti di Rho dimostrano che solo questa non è affatto sufficiente, o forse non è addirittura necessaria) i neo uditori saranno dei brillantissimi teorici, bravi conoscitori delle più svariate dottrine in materia giuridica, ma emeriti incompetenti da un punto di vista pratico e incapaci di amministrare la giustizia con rapidità ed efficienza, così come sarebbe ora che accadesse in un Stato normale.

E soprattutto si può essere bravi tuttologhi? Perché la magistratura non viene stratificata in competenze per materia? Magistrati che fanno solo civile, altri penale, lavoro, commerciale, fallimentare e così via. Si avrebbero così più magistrati più preparati. Dovrebbero esistere diversi concorsi in magistratura a seconda delle materie e il settore in cui specializzarsi dovrebbe essere individuato già dagli anni universitari. Solo così si potrebbero sfornare tanti magistrati, veramente seri, esperti in determinate materie e quindi capaci e professionali. E' un'ottimizzazione di tempi e risorse. Ma quando a delle conclusioni così semplici non si vuole arrivare, è chiaro che non c'è la volontà di risolvere i problemi e non certo il modo.

Teniamoci le caste, il prestigio e il potere dei pochi, facciamo apparire come condotta deplorevole e facinorosa quella di chi denuncia i misfatti e gli scandali e non quella di chi li compie, proprio come ha fatto la commissione a Rho che anziché denunciare la gravità dei fatti scoperti dai candidati, ha minacciato questi ultimi di procedere a identificazione e a denuncia per turbativa del concorso. Viva l'Italia che se la prende con la parte lesa anziché evitare che si consumino quotidianamente lesioni dei diritti fondamentali dell'individuo. E viva l'Italia dei paradossi: giustizia inefficiente per carenza di magistrati e milioni di laureati in giurisprudenza disoccupati. Neo magistrati mostri di preparazione teorica (nel migliore dei casi) e completamente incapaci di tenere un'udienza o di scrivere una mera ordinanza di rinvio.  Da Graziella (Quali sacrosante parole! Sei una vera Robin Hood!).

Ho paura che tutti i concorsi in magistratura fatti in precedenza siano stati truccati e che solo adesso sia scoppiato lo scandalo. Basta svolgere la professione di avvocato per rendersi conto quanto siano impreparati i giovani magistrati. Anch'io al concorso ho visto i miei colleghi copiare le tracce dagli appunti fatti a fisarmonica ma per solidarietà fraterna, non ho voluto fare la spia, ma adesso che è scoppiato lo scandalo ho il dovere morale di dirlo. Come si è potuto verificare tutto questo? Alcuni dicono che tutto ciò si è verificato a causa della negligenza dei controllori, altri dicono che la commissione voleva favorire soltanto i raccomandati. Una verità è certa, ed è che la magistratura è una casta chiusa, riservata soltanto a pochi eletti, cioè a coloro i quali hanno la fortuna di avere gli angeli in paradiso: non si spiegherebbe altrimenti il limite assurdo delle tre volte in cui si può tentare il concorso. Mi auguro soltanto che il ministro Angelino Alfano annulli in autotutela questo concorso al fine di ripristinare la trasparenza e la legalità nel concorso in magistratura. Intanto, gli anni passano e la sospirata toga di magistrato non sembra arrivare mai: di tanti anni di studio non resta nient'altro che l'amarezza. Per non parlare poi della sofferenza dei nostri genitori che vorrebbe vederci sistemati. (Da Michele da Siracusa).

Sui Concorsi per magistrati e simili. Sono il papà di un ex concorrente al concorso. Vi invio il testo di quanto ho scritto al Tgcom, sperando che qualcuno ne faccia una battaglia. Uno dei problemi di questi concorsi, come del resto per molti altri è l'assoluta mancanza di trasparenza. Infatti i concorsisti, molti dei quali prendono praticamente una seconda laurea, tanti sono gli anni che vengono dedicati ad una onerosa (anche economicamente) preparazione integrativa, alla fine hanno solo tre cartucce da sparare (solo tre concorsi); ma il bello è che non hanno nessun feedback dalle correzione dei compiti risultati inidonei; voglio dire che al di là del criptico giudizio non c'è altra informazione che consenta le prossime volte di "aggiustare il tiro". Ma non sarebbe più corretto pubblicare gli elaborati anche "mascherando" le generalità dei concorrenti, semplicemente indicando, come del resto è già, l'idoneità o meno? E' o non è un concorso pubblico per uno dei più importanti ruoli nell'ordinamento della repubblica? Ritengo ciò che è accaduto episodio ignobile e non c'è motivo di ritenere che precedentemente sia stato tutto in regola. Semplicemente, questa volta, la dilagante carenza organizzativa ha creato una situazione così ingestibile che ha avuto il pregio di fare da detonatore al peggiore approccio al concorso di chi si propone di amministrare la giustizia in modo adamantino e, dall' altra parte per chi, parte del sistema, dovrebbe garantire che tutto si svolga nella massima serietà possibile. Credo di non sbagliarmi nel dire che ciò che avviene e le questioni che contornano il prima durante e il dopo del concorso siano la manifestazione più forte di arroganza del potere oggi riscontrabile nel nostro Paese. Non si comprende perché a tanta serietà trasmessa e percepita non corrispondano comportamenti adeguatamente qualitativi, almeno quelli esprimibili attraverso gli atti prodotti, che dovrebbero essere il vero biglietto da visita da presentare al mondo esterno. A.M. (Una delle poche lettere firmate per capire il timore di ritorsioni da parte del sistema).

Egregio Direttore, sono un testimone oculare, aspirante magistrato. Ho letto un articolo sul vostro sito concernente il concorso a 380 posti di uditore giudiziario dove la commissione afferma che c'erano temi gravemente insufficienti. Personalmente partecipai a quel concorso e presi 19 allo scritto di amministrativo sull'acquisizione sine titulo coperto da giudicato, e non idoneo a penale. Credo che la commissione abbia esagerato dicendo quelle cose, perchè ho visto con i miei occhi che alcuni membri della stessa andavano ad aiutare i loro"pupilli", io chiamai il Presidente presente in sala, e per risposta disse che non poteva farci nulla. Sono accadute cose strane ad esempio un mio conoscente seppe in anticipo i risultati degli scritti. Come ne venne a conoscenza? Forse perchè il padre è agganciato politicamente? E' vero che i nomi devono restare segreti alla commissione? Ad esempio alcuni candidati non conoscevano le sentenze relative alla traccia di penale sulle scommesse clandestine e superarono lo scritto, io lessi le recensioni del Presidente Grillo sulla rivista Cassazione penale edita dalla Giuffrè e non lo superai. Altri candidati fecero scena muta alla prova orale e presero il massimo dei voti. Le pongo una domanda, siamo sicuri che la commissione non abbia volutamente esagerato, per mascherare le magagne come voi avete puntualmente pubblicato, avvenuta nei precedenti concorsi? La ringrazio anticipatamente, spero in un Suo riscontro. A.S. (lettera firmata)

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. ”C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca“, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte“, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto“. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una ”struttura’‘ attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta ”necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.

Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi  “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr )». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr )». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr ) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».

Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilita' di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte.  Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".

L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto,  pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".

L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello".  E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".

Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".

«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.

Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.

«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».

Che rapporto ha avuto con l'Anm?

«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».

Separazione delle carriere?

«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».

Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?

«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».

Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?

«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».

A che serve il Csm?

«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».

Come va riformato?

«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».

Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?

«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».

Per questo volevano rovinarle la vita?

«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».

Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?

«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».

In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?

«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».

Il fantomatico terzo livello...

«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».

Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?

«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».

Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?

«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».

Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?

«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».

Come ricondurre le toghe nell'alveo?

«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».

Giudizio finale sullo stato della giustizia?

«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».

RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!

COME TI GABBO IL POPOLINO. RIFORMA FARLOCCA DELLA DISCIPLINA SULLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI.

Un passo avanti nel nulla. Però, più del nulla assoluto di Silvio Berlusconi, che ci ha messo 20 anni per non metterci mano. Renzi ed il partito dei giudici, invece, ci mettono mano e gridano alla riforma per trasformare il niente. Non è stata nemmeno l’incompetenza giuridica del Ministro della Giustizia, che per altro non è nemmeno laureato, a partorire una nefandezza del genere, ma solo la voglia di far apparire importante una cosa inconsistente. La riforma di facciata attinente una legge esistente che a dire del viceministro alla Giustizia Enrico Costa “ha portato a risarcimento un numero di cause bassissimo, stimato tra 4 e 7, non di più". Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). E tale numero rimane agli annali. I magistrati sghignazzano divertiti dietro un’apparente disappunto. Tutto ciò si denota dalle blande contestazioni, che nascondono una malcelata soddisfazione dell’ennesima vittoria delle toghe. Sul punto è abbastanza d’accordo Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati in 26 anni. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più realistica responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la situazione effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione civile? Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi, visto che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Le domande sono di per sé pochissime: poco più di 16 all'anno. Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime, sta nella complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato. Del resto, fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di «ammissibilità» da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un'impugnazione da parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l'8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti (generalmente dopo lunghi anni dalla presentazione). E come sono terminati i giudizi? Malissimo per i ricorrenti: perché anche alla fine del tormentatissimo iter legale, quasi metà delle richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte: ben 17. E soltanto 7 sono state accolte. Sette in totale, sulle 410 avviate: ovverosia l'1,7%. A guidare la classifica dei giudizi negativi per i magistrati è il tribunale di Perugia, con 2 casi. Un caso a testa riguarda invece le avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce, Reggio Calabria e Trento. Al momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10 riguardano l'avvocatura di Messina, al primo posto; altri 7 sono a Salerno, altri 4 a Roma e altrettanti a Trento. Tre casi si segnalano a Potenza e ad Ancona. Due a testa sono pendenti davanti alle avvocature di Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova. Una riguarda Napoli, un'altra Brescia, l'ultima Venezia. I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto. 

La responsabilità soggettiva dell’errore giudiziario è troppo estesa, per renderne effettivo il risarcimento del danno causato, addebitandolo ai singoli. Sono troppi i gradi intermedi e troppi i livelli di verifica e di sindacato per prevenire il danno e se ciò non avviene è perché il sistema si conforma a se stesso. Quindi allo stato dei fatti è impossibile indicare il responsabile, se non coinvolgerli tutti. Accusare tutti significa condannare nessuno.

La responsabilità dell’evento dannoso è spalmata ed estesa tra troppi magistrati per poter rendere effettiva la pretesa di giustizia. E lasciare in mano loro l’efficacia della giusta applicazione delle norme di un equo e fattivo risarcimento del danno per responsabilità civile delle toghe sembra una utopia.

Il disegno di legge  n. 1626/2014 sulla riforma della disciplina della Responsabilità civile dei Magistrati,  presentato il 24 settembre 2014 dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan,  è strutturato in cinque articoli e interviene sulla legge 13 aprile 1988, n. 117, con la tecnica della novella.

Un escamotage per far procedere un testo che investe una materia su cui pendeva una procedura d'infrazione in sede Europea per mancata applicazione del diritto comunitario e per la quale l'Italia rischiava di pagare una multa stimata in 37 milioni di euro. Il Governo ha dato parere negativo a tutti gli emendamenti. Il testo con proposta di legge A.C. 2738 trasmessa dal Senato, il 24 febbraio 2015, è passato alla Camera in via definitiva, dopo il sì del Senato, con 265 sì, 51 no e 63 astenuti. Astenuti Lega, Fi, Sel, Fdi e Alternativa Libera. M5S ha votato contro. Il M5S ha votato contro il nulla e quello che è grave è che non se ne rendono conto. La legge – dice il deputato M5S Alfonso Bonafede - è "una intimidazione ai magistrati". "Rifiuto l'argomento dell'intimidazione", ha risposto in Aula il ministro. "A chi parla del travisamento dei fatti e delle prove come di un'estensione impropria, dico che questa è un'indicazione europea, e non produce un automatismo sul magistrato, che può essere chiamato in causa solo in caso di negligenza inescusabile". Di fatto nella relazione che accompagna il testo sono stati inseriti "dei correttivi, degli elementi di chiarificazione - ha spiegato la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti - che sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata, esplicitano che il danno c'è solo nel caso in cui il travisamento sia macroscopico e evidente ".

In questa prospettiva, l'intervento normativo interviene sul sistema sino ad oggi disciplinato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, che regola il risarcimento dei danni cagionati dall'esercizio delle funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati. Disciplina adottata all'esito del referendum abrogativo degli articoli 55 e 56 del codice di procedura civile indetto con il decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 1987.

L'articolo 1 reca modifiche alla disciplina sui presupposti della responsabilità modificando l'articolo 2 della legge Vassalli.

Il comma 1 del richiamato articolo 2 della legge n. 117 del 1988 è riformulato richiamando espressamente la responsabilità dello Stato anche per le condotte dei magistrati onorari (fermo quanto si dirà sui giudici popolari) ed eliminando la superabile limitazione del danno risarcibile ai danni non patrimoniali prevista per la sola ipotesi di provvedimento cha abbia determinato la privazione della libertà personale (lettera a)).

La lettera b) dell'articolo 1 riscrive il comma 2 dell'articolo 2 della legge Vassalli, prevedendo che l'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove non determina responsabilità se non nel caso di dolo del magistrato e laddove l'interpretazione si risolve in una violazione manifesta della legge o la valutazione dei fatti e delle prove in un travisamento degli stessi.

La lettera c) riscrive il comma 3 dell'articolo 2 della legge n. 117 del 1988 individuando, quale ipotesi di colpa grave predeterminata per legge, la violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove.

Va rilevato che, andando oltre alle esigenze di compatibilità col diritto dell'Unione, viene esteso l'ambito di operatività della responsabilità dei magistrati all'ipotesi di violazione manifesta anche del diritto interno da parte di organi giurisdizionali anche non di ultimo grado. Un’eventuale distinta considerazione, sotto questo profilo, del diritto dell'Unione europea e del diritto interno avrebbe potuto essere considerata del tutto improponibile sotto il profilo della razionalità e della ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione) e sotto l'ulteriore profilo, per quanto riguarda l'attività dei giudici, dell'osservanza della Costituzione e delle leggi (ovviamente anche interne) come sancita dall'articolo 54 della Costituzione.

Dalla lettera d) dell'articolo illustrato è aggiunto il comma 3-bis all'impianto originario dell'articolo 2 della legge n. 117 del 1988. Vengono individuati, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, una serie di criteri volti a determinare i casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione europea.

Per la violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione i criteri predetti sono il grado di chiarezza e precisione delle norme violate, l'inescusabilità e la gravità dell'inosservanza. In particolare per la violazione manifesta del diritto dell'Unione europea deve inoltre tenersi conto della posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, nonché della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

L'articolo 2 del provvedimento illustrato prevede l'abrogazione del procedimento di ammissibilità della domanda (il cosiddetto filtro all'azione di responsabilità) in chiave di semplificazione e maggiore effettività della tutela riparatoria accordata al danneggiato.

L'articolo 3 reca modifiche all'azione di rivalsa come disciplinata dagli articoli 7 e 8 della legge n. 117 del 1988, in particolare nel senso:

di mantenere il presupposto soggettivo di questa azione civile in termini di negligenza inescusabile;

di elevare a tre anni il termine entro cui lo Stato esercita l'azione nei confronti del magistrato;

di rendere espressamente obbligatoria l'azione di rivalsa stessa;

di razionalizzare il regime della rivalsa nei confronti dei magistrati onorari, ancorandola ai presupposti comuni di dolo e negligenza inescusabile, in tutti i casi diversi da quelli dei giudici popolari che resteranno responsabili solo per dolo (sul punto si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 18 dell’11 gennaio 1989).

Modificando l'articolo 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, la misura della rivalsa viene elevata da un terzo alla metà di una annualità dello stipendio del magistrato responsabile. Analogamente viene elevata ad un terzo la rata mensile dello stipendio del magistrato la quota espropriabile con esecuzione forzata.

Sostituendo l'articolo 9 si stabilisce (mutuando una previsione dell'abrogato articolo 5 sul cosiddetto filtro di ammissibilità) che il tribunale adito per il giudizio di rivalsa ordina in ogni caso la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare; per gli estranei che partecipano all'esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti sarà trasmessa agli organi ai quali compete l'eventuale sospensione o revoca della loro nomina.

Resta ferma l'immutata autonomia del giudizio disciplinare (attivabile anche prima e a prescindere da quello civile) rispetto al processo civile anche in sede di rivalsa.

Le modifiche apportate all'azione di rivalsa intercettano anche un generale consenso parlamentare, evidenziato da iniziative attualmente in discussione nelle due Camere.

L'articolo 4 reca disposizione finanziaria con norma di copertura degli oneri derivanti dall'applicazione della legge. È prevista l'effettuazione del monitoraggio degli oneri ai sensi della legge n. 196 del 2009.

Il testo si chiude con la norma sull'efficacia della normativa (articolo 5), che è previsto che si applichi ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato successivamente all'entrata in vigore della nuova normativa.

Più che un intervento legislativo a tutela dei cittadini è la tacitazione dell’opprimente e vessatoria ingerenza dell’Unione Europea negli interessi italiani.

Va rilevato che la sentenza Traghetti del Mediterraneo e la successiva Commissione/Repubblica italiana sono sulla stessa linea della legge n. 117 del 1988 sia sul punto che è lo Stato a dover rispondere degli errori dei giudici, sia sul punto che la responsabilità dello Stato per gli errori dei giudici si concretizza solo a seguito di una violazione «imputabile a un organo giudiziario di ultimo grado».

Piuttosto -- secondo le due sentenze della Corte di Lussemburgo -- ciò che urta contro il diritto dell’Unione europea, dei precetti contenuti nel vecchio articolo 2 della legge n. 117 del 1988, è che il danno risarcibile provocato da un giudice non possa derivare anche da interpretazioni di norme di diritto o da valutazioni di fatti e prove (comma 2); e che, in casi diversi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, possano essere imposti, per la concretizzazione della responsabilità dei giudici, «requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente» (comma 1).

Con l'intervento regolatorio che si è approvato, che conserva il sistema misto di responsabilità civile dei magistrati della legge Vassalli, strutturato cioè sulla responsabilità diretta dello Stato (in funzione compensativo-satisfattoria) e su quella, in sede di rivalsa, del magistrato (in funzione preventivo-punitiva), si intendono soddisfare le esigenze di compatibilità con l'ordinamento dell'Unione europea:

modulando lo spettro della responsabilità dello Stato sulla violazione del diritto ovvero sul travisamento del fatto e delle prove, purché manifesti, quali ipotesi paradigmatiche di colpa grave che qualifica l'illecito riferibile a tutte le magistrature, anche quella onoraria;

adeguando di conseguenza la cosiddetta clausola di salvaguardia per l'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove nel senso di non prevederne l’operatività in caso di dolo del magistrato e laddove l'interpretazione si risolva in una violazione manifesta della legge e la valutazione dei fatti e delle prove in un travisamento degli uni e delle altre.

Ancora, l'intervento normativo incontra l'esigenza di rendere più immediata ed effettiva la responsabilità del magistrato, in specie per il recupero di quanto pagato dallo Stato, attraverso:

l'eliminazione del filtro oggi posto all'azione di risarcimento costituito da un procedimento di ammissibilità della domanda giudiziale;

la modifica della disciplina dell'azione di rivalsa che lo Stato responsabile è chiamato a promuovere nei confronti del magistrato autore della condotta illecita, per negligenza inescusabile, in tre direzioni:

chiarire la natura obbligatoria dell'azione che lo Stato promuove nei confronti del magistrato per il recupero di quanto pagato al danneggiato;

aumento del tempo utile per proporre la domanda di rivalsa da parte dello Stato;

congruo incremento della misura della rivalsa stessa, fino alla metà dell'annualità dello stipendio del magistrato;

la precisazione in senso rafforzativo dei rapporti tra responsabilità civile e disciplinare.

Ma ai neofiti del diritto prospettiamo l’applicazione esemplare e pratica della norma e quindi la sua inefficacia.

La responsabilità civile del magistrato consegue ad un danno riconducibile a colpa grave o dolo: si desume, quindi, che l’evento dannoso sia conclamato se non al grado definitivo. Ad un attenta analisi ci si accorge, però, che ci sono troppi gradi intermedi e troppi livelli di verifica e di sindacato per prevenire il danno e se ciò non avviene è perché il sistema si conforma a se stesso. Quindi allo stato dei fatti è impossibile indicare il responsabile, se non coinvolgerli tutti. Accusare tutti significa condannare nessuno.

L’indennizzo per questioni oggettive già c’è:

per le lungaggini del processo c’è la legge Pinto, anche se con le novelle intervenute è stata resa inefficace;

per la illecita detenzione c’è la soddisfazione monetaria da parte della Stato.

Ma se si va a pretendere il risarcimento soggettivo al singolo magistrato per il maggior danno dovuto ad errore giudiziario ecco che alzano le scuri a difesa della categoria togata.

Prendiamo per esempio un evento dannoso nel processo penale per un imputato risultato innocente per assoluzione o per revisione, ma che nelle trame del processo ha perso tutto: chi è il responsabile?

E’ il Pubblico Ministero che si è prodigato a sostenere un'accusa inconsistente fondata su teoremi farlocchi?

E’ il GIP che ha convalidato il suo operato?

E’ il GUP che ha confermato la sua accusa?

E’ il giudice monocratico o i giudici di Corte di Assise che hanno approvato la tesi accusatoria?

E’ il giudice d’appello o i giudici di Corte di Assise di Appello che hanno avvalorato la condanna?

Sono gli ermellini di Cassazione che hanno accreditato l'operato sottostante?

La responsabilità dell’evento dannoso è spalmata ed estesa tra troppi magistrati per poter rendere effettiva la pretesa di giustizia. E lasciare in mano loro l’efficacia della giusta applicazione delle norme di un equo e fattivo risarcimento del danno per responsabilità civile delle toghe sembra una utopia.

Cosa diversa sarebbe stata se si fosse prevista una autorità sanzionatoria slegata alla categoria delle toghe, come per esempio il difensore civico giudiziario, o almeno che fosse mista: magistratura, avvocatura, politica: Non sarebbe cambiato nulla, comunque, ma almeno una parvenza di imparzialità ci sarebbe stata.

Naturalmente legge vera di tutela del cittadino sarebbe stata adottata, se essa avesse preveduto la responsabilità civile dei magistrati per colpa semplice o dolo, partendo dall'effettivo dato oggettivo come è quello dell'evento dannoso, e da lì partire con la quantificazione monetaria dello stesso, da soddisfare con la polizza assicurativa che i magistrati già hanno e che dovrebbero pagare di tasca propria.

LA STORIA

Il Partito Radicale, il Partito liberale italiano e il Partito socialista italiano, presentavano nel 1987 la richiesta di tre referendum per ottenere la responsabilità civile dei magistrati, come risposta ai sempre più frequenti problemi della giustizia.

Tra i principali protagonisti che in quegli anni si battevano per la riforma della giustizia vi era Enzo Tortora, conduttore televisivo accusato sulla base di alcune dichiarazioni di pentiti di essere colluso con la camorra e il traffico di stupefacenti, rivelatesi successivamente false. La lunga detenzione del conduttore, e la successiva elezione nelle liste Radicali che sosteneva le sue battaglie politiche, contribuiva ad alimentare la discussione pubblica nel paese e nei mezzi di comunicazione circa la situazione della giustizia italiana.

L'appello radicale per la riforma della giustizia veniva sottoscritto anche da molti magistrati: «L’otto novembre gli italiani sono chiamati ad esprimersi su due aspetti particolarmente rilevanti della crisi della giustizia. Di fronte a insensibilità politiche e a resistenza corporative, i referendum sulla giustizia rappresentano un’occasione unica offerta ai cittadini per riaffermare fondamentali principi dello stato di diritto, abolire anacronistici privilegi e irresponsabilità e rivendicare improrogabili riforme. Lo strumento referendario restituisce così la parola ai cittadini. Non è più accettabile che i magistrati che, per colpa grave, abbiano danneggiato un cittadino non siano chiamati a risponderne dinnanzi ad un loro collega. Introducendo la responsabilità civile dei magistrati per colpa grave (grave negligenza, grave imperizia, gravi omissioni) non si intacca ma si riafferma la loro autonomia ed indipendenza. Abrogando i poteri istruttori della commissione inquirente per i reati dei ministri si eliminano inammissibili impunità. Noi voteremo SI ed invitiamo a votare SI perché anche politici e magistrati rispondano, come ogni cittadino, di fronte alla legge».

I referendum abrogativi dell'8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei «si».

Dopo la scelta degli italiani circa la responsabilità civile dei giudici, il Parlamento approvava la cosiddetta «legge Vassalli» (votata da Pci, Psi, Dc), che, secondo i Radicali, si allontanava decisamente dalla decisione presa dagli italiani nel referendum, facendo ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sullo stesso, ma solo entro il limite di un terzo di annualità dello stipendio.

 

 

totale

percentuale (%)

 

Iscritti alle liste

45 870 931

 

 

Votanti

29 866 249

65,10

(su n. elettori)

Quorum raggiunto

Voti validi

25 896 355

86,70

(su n. votanti)

 

Voti nulli o schede bianche

3 969 894

13,30

(su n. votanti)

 

Astenuti

16 004 682

34,90

(su n. iscritti)

 

 

 

Voti

 %

 

 

RISPOSTA AFFERMATIVA

20 770 334

80,20%

 

 

RISPOSTA NEGATIVA

NO

5 126 021

19,00%

 

 

bianche/nulle

 

3 969 894

 

 

 

Totale voti validi

 

25 896 355

100%

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA LEGGE

"Art. 11 C.P.P. (Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati).

1.                             I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge.

2.                             Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 il magistrato stesso é venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.

3.                             I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato sono di competenza del medesimo giudice individuato a norma del comma 1".

"Art. 30-bis C.P.C. (Foro per le cause in cui sono parti i magistrati). Le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale.

Se nel distretto determinato ai sensi del primo comma il magistrato è venuto ad esercitare le proprie funzioni successivamente alla sua chiamata in giudizio, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello individuato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale con riferimento alla nuova destinazione".
"Spostamenti di competenza per i procedimenti penali nei quali un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato. 

 

Tabella A
 

Dal distretto di

Al distretto di

ROMA

PERUGIA

PERUGIA

FIRENZE

FIRENZE

GENOVA

GENOVA

TORINO

TORINO

MILANO

MILANO

BRESCIA

BRESCIA

VENEZIA

VENEZIA

TRENTO

TRENTO

TRIESTE

TRIESTE

BOLOGNA

BOLOGNA

ANCONA

ANCONA

L'AQUILA

L'AQUILA

CAMPOBASSO

CAMPOBASSO

BARI

BARI

LECCE

LECCE

POTENZA

POTENZA

CATANZARO

CAGLIARI

ROMA

PALERMO

CALTANISSETTA

CALTANISSETTA

CATANIA

CATANIA

MESSINA

MESSINA

REGGIO CALABRIA

REGGIO CALABRIA

CATANZARO

CATANZARO

SALERNO

SALERNO

NAPOLI

NAPOLI

ROMA

Il testo vigente dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante: "Risarcimento di danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati", come modificato dalla legge 420/98 , é il seguente: "Art. 4 (Competenza e termini).

1.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente é il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

2.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si é verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l'azione é esperibile.

3.                  L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si é concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si é verificato.

4.                  Nei casi previsti dall'art. 3 l'azione deve essere promossa entro due anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza.

5.                  In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio non abbia avuto conoscenza del fatto".

Il testo vigente dell'art. 8 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117, come modificato dalla legge 420/98, é il seguente: "Art. 8 (Competenza per l'azione di rivalsa e misura della rivalsa).

1.                  L'azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

2.                  L'azione di rivalsa deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

3.                  La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta, anche se dal fatto é derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.

4.                  Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa é calcolata In rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa é calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta".

LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE

ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma

Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione

Responsabilità Civile e Tutela Legale

(si prega di scrivere in stampatello)

Il sottoscritto_________________________________________________________________________________

Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________

Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________

Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:

Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________

Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________

Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza

Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:

a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.

Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.

_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma

CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: I MAGISTRATI RESPONSABILI ANCHE PER COLPA SEMPLICE

Sussiste la responsabilità dei magistrati per colpa semplice secondo la Corte di Giustizia europea.

Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi dello Stato è regolato dalla legge.

L’art. 3 della Costituzione esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti.

Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio o lesioni o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc.

L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche.

Al dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno riconosciuto.

Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati.

I magistrati sono liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona.

I magistrati sono liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per calunnia e diffamazione.

Al cittadino, che per anni ha subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto prosciolto, ovvero da vittima del reato ha visto il reato prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi.

C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni.

Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:

«1.      Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.

2.      Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

3.      Costituiscono colpa grave:

a)             la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b)            l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

b)             la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c)             l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria».

Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione di cui esso fa parte.

Se, come da molti è considerato, il magistrato è dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente.

Per il diniego di giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa, l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità di chi amministra la giustizia, ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia.

I magistrati devono meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini unti dal signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad equilibrare gli interessi in campo.

L’azione di rivalsa opera solo in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità dello Stato e ricade sulle spalle del cittadino.

La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati, e, con essa, il mancato utilizzo dell’art. 234 CE, attraverso la SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) del 13 giugno 2006:

«Responsabilità extracontrattuale degli Stati membri – Danni arrecati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado – Limitazione, da parte del legislatore nazionale, della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice – Esclusione di ogni responsabilità connessa all’interpretazione delle norme giuridiche e alla valutazione degli elementi di fatto e di prova compiute nell’ambito dell’esercizio dell’attività giurisdizionale»

Nel procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa

Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica italiana.

La sentenza, di seguito acclusa, si inquadra in un risalente filone nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva inoltre rifiutato di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

<Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.

Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler>  

A questo punto non si può pretendere che il cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.

LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE E CIVILE DEI MAGISTRATI

LA SENTENZA 13 GIUGNO 2006 DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL LUSSEMBURGO: LA LEGGE 117/88 VIOLA I PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO COMUNITARIO, NELLA PARTE IN CUI LIMITA ARBITRARIAMENTE L'AMBITO DELLA RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI.

CONVINTA ADESIONE DEI PRIMI AUTORI DELLA DOTTRINA.

La più autorevole, fra le conferme alle nostre tesi, non può che provenire dalla recentissima Sentenza 13 giugno 2006 resa dalla più alta magistratura esistente nell'ordinamento comunitario europeo, vale a dire dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. del Lussemburgo.

La pronunzia, integralmente pubblicata su www.aziendalex.kataweb.it/, oltre che (sempre integralmente) sui settimanali giuridici ""Diritto e Giustizia"" fasc. 29/2006, pagg. 105 segg., e ""Guida al Diritto"", fasc. nr. 4 / 2006 <>, pagg.30 - 39, si caratterizza per l'affermazione, netta e categorica, dei seguenti principi di diritto, assolutamente dirimenti a favore della dimostrazione della fondatezza delle tesi qui sostenute:

I. Gli Stati membri dell'U.E. rispondono a titolo extracontrattuale del danno patito dai singoli, in conseguenza di violazioni manifeste del diritto comunitario compiute dagli organi giurisdizionali, quand'anche tali violazioni derivino dall'attività di interpretazione delle norme o di valutazione dei fatti e delle prove;

II. Per stabilire quando una violazione del diritto comunitario debba ritenersi manifesta "" si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.234, terzo comma, del Trattato C.E., ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia "" (così il punto 43. della sentenza 13 giugno 2006); su questo punto, inoltre, il massimo giudice europeo conferma le precedenti sue statuizioni, rese a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C - 6 / 90 e C - 9 / 90 ricorrenti ""Francovich ed altri"", e poi dalla sentenza 5 marzo 1996 cause riunite C - 46 / 93 e C - 48 / 93, e in ultimo dalla la sentenza 30 settembre 2003 causa C - / 224 / 01 ricorrente ""Kobler"";

III. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto comunitario.

I primi commenti della dottrina si registrano in termini di grande interesse ed enfasi.

E' CHIARO CHE LA SINISTRA E' A FAVORE DEI MAGISTRATI E CONTRO I CITTADINI, LORO VITTIME DESIGNATE. SI APPALESA CHI E’ CONTRO I CITTADINI PER TUTELARE LE TOGHE.

Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.

Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.

Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Sbatti l'azienda in prima pagina. Troppo spesso la magistratura è entrata a gamba tesa nella vita delle imprese, lanciando inchieste che poi si sono sgonfiate. Lo dimostrano le accuse della Procura di Parma sul caso Lactalis-Parmalat. Un copione che potrebbe ripetersi su Unipol-Sai e Ilva. Come ha chiesto Giorgio Squinzi, è un problema che va finalmente affrontato, scrive Oscar Giannino su “Panorama. In nessun paese avanzato asset industriali restano per anni sotto il pieno controllo della magistratura. Il tema è stato seccamente posto da Giorgio Squinzi, all’ultima assemblea annuale di Confindustria. Poiché l’Italia ha tra i suoi numerosi nervi scoperti quello della legalità, i più hanno finto di non sentire. Ma è un errore di ipocrisia. Il tema andrebbe invece affrontato. Seriamente. Non è solo una questione di principio, visto che per dato di fatto i magistrati non hanno la competenza adeguata per giudicare piani aziendali, esaminati invece da periti delle Procure "attenti", come ogni perito di parte, ai fini del committente. Basta esaminare tre casi eclatanti in corso da anni, per capire che il problema esiste. Parmalat, Ilva e Unipol-Sai. In Parmalat, società quotata e dal luglio 2011 controllata dalla multinazionale francese Lactalis, solo il 26 maggio la Corte d’Appello di Bologna ha posto fine a un anno e mezzo di reiterate pronunzie della Procura di Parma volte alla revoca del cda e del consiglio sindacale, a seguito delle indagini civili e penali per l’acquisto di Lactalis America nel 2012. I procedimenti civili sono ora estinti, quelli penali no. A fine 2013 il cda si è dimesso, ad aprile in assemblea ne è stato eletto uno nuovo. Ma nell’anno e mezzo di scontro giudiziario nessun peso sembravano avere i risultati che Parmalat accumulava: nuove acquisizioni in Australia e Brasile, 24 prodotti nuovi nei 31 paesi in cui il gruppo opera, crescita del fatturato a parità di perimetro dai 4,4 miliardi del 2011 ai 5,7 nel 2013, aumento del margine operativo lordo da 374 a 493 milioni. Per l’Ilva, a luglio saranno due anni dall’arresto dei Riva. Da allora, una sfilza di provvedimenti giudiziari e molti divergenti nel merito, due decreti ad hoc dei governi Monti e Letta. Ma siamo al punto che il commissario straordinario Enrico Bondi ha un piano industriale che non convince né i privati né il pubblico, visto che il premier Matteo Renzi ha detto "così non va", promettendo novità a breve. La sopravvivenza delle produzioni è più che mai in gioco, le bonifiche e i relativi capitali ancora da vedersi. Per le indagini aperte dalla Procura di Milano sui concambi tra Unipol e Fonsai, è stato il senatore pd Massimo Mucchetti, di certo non sospettabile di pregiudizi avversi ai pm e favorevoli alla Consob di Giuseppe Vegas, a scrivere su Repubblica tutti i suoi dubbi, sul fatto che il magistrato possa far sicura questione di diritto partendo da opinabili valutazioni sulle analisi quantitative dei prezzi. Servirebbero interventi di legge. Volti a porre argini a una deriva cominciata con la legge 231 del 2011, che estende all’impresa, ai suoi manager e controllanti responsabilità amministrative e penali per reati compiuti da dipendenti. E che poi via via, con ordinanze e decreti ad hoc sui singoli casi aziendali, ha esteso le facoltà della magistratura di nominare commissari giudiziali che diventano capiazienda, e di inibire cda regolarmente nominati. La magistratura deve fare il suo dovere, non sostituirsi a proprietà e manager. Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei giudici

Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.

Sabelli (Anm): "Fatto grave". Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto "un fatto grave". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che : "in un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione". Con l'emendamento votato oggi "si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli - cioè un'introduzione dell'azione diretta di responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento occidentale e che presenta evidenti profili di incostituzionalità". Parte all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice: "E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio del magistrato". Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte dei conti "l'emendamento all'art. 26 della legge comunitaria, che prevede l'azione diretta di responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa, oltre ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli Stati membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus all'autonomia e all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino. "Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è  giusto, come chiede l'Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte contro i giudici e peraltro anche per mero errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - . Piuttosto bisogna proporre un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno". Nell'emendamento approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "La norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d'accordo la parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una proposta alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di mano del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento esistono proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso - aggiunge Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza Italia, come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata azzurra Daniela Santanchè, che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e gli organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente la volontà degli italiani. D'altro canto, l'astensione del M5S è del tutto vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini". Anche i 5 Stelle mostrano soddisfazione: "La nostra decisione di astenerci ha tirato fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il grillino Andrea Colletti.

A fine aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del Senato, l'emendamento del M5S che cancella l'art.1, cioè il cuore del testo.  Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma non colpisce magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia", dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla responsabilità civile dei giudici e qiundi a battere il governo, 187 a 180. "Il tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge, "non so perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il centrodestra".

E comunque in ogni giornalista c'è il comunista che è in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su “L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato, senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere “strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan (e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla necessità di rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come farlo. A presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge comunitaria in discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle, suona almeno in parte come una risposta della politica all’accanirsi della magistratura con inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti. “In questo momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, puntando l`indice contro chi, “proprio ora, cerca di intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”. Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente vero, infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria, era stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che il vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì (quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale), e soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori, i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema sia affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia del Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il via libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier - pur favorevole a cambiare la Vassalli - spiegò che “finché c’è un clima da derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”. Ecco, insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una pericolosa ambivalenza.

I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci ed in malafede.

Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto.

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

In Italia potente è uguale a impunito. Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale, mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi” proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe, raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi, disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione: «All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente. Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una «riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così, mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013), raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro) e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento, è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori” Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise, Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di “Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana, basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000, una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza d’appello la direzione  dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti». «Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa. Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire: dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di Padova, solo uno aveva rifiutato  di rioperarsi: «È morto durante il processo, il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia», ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere  accusato di aver maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con una  neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina, nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento, procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio (rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere, Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali. Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.

IL GIORNALISTA, SICURAMENTE FILO TOGHE, OMETTE DI DIRE CHE LA RESPONSABILITA' DEI TEMPI LUNGHI E' DELLE TOGHE.

E poi, il cittadino, quanto deve aspettare per avere giustizia e vedersi riconosciuta l'innocenza, sotto la mannaia perdurante della gogna aizzata da tesi giudiziarie strampalate?

E poi di chi ci dobbiamo fidare?!?

FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

Corruzione Gdf, Pm: «Nella Finanza sistema di tangenti», scrive “Il Messaggero”. Una macchina perfetta lubrificata dalle mazzette e messa in moto dagli ufficiali della Finanza. L’inchiesta della procura di Napoli, che due giorni fa ha portato all’arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza di Livorno, Fabio Massimo Mendella, e all’iscrizione sul registro degli indagati del vicecomandante generale Vito Bardi, non riguarda un solo episodio di corruzione. E’ sul sistema che lavorano i pm, «sull’abitudine» con caratteristiche di «professionalità nel reato»: imprenditori disposti a pagare e militari, a tutti i livelli e senza soluzione di continuità, propensi a incassare. Da Emilio Spaziante, comandante in seconda del corpo arrestato per il Mose di Venezia, al suo successore, Vito Bardi. E a confermarlo ai pm sono anche alcuni alti ufficiali della Finanza. L’indagine è ancora ”coperta”: agli atti non ci sono soltanto le testimonianze dei fratelli Pizzicato, che hanno raccontato di avere pagato Mendella 15mila euro al mese (poi diventati 30) per evitare che gli accertamenti avessero conseguenze. Altri, come loro, hanno deciso di parlare. All’esame c’è anche la posizione di Achille D’Avanzo, il proprietario degli immobili adibiti a caserme, che ogni mese incassava il massimo dei canoni. La struttura del sistema, del quale Bardi avrebbe fatto parte, emerge con chiarezza dal decreto di perquisizione a carico di Bardi firmato dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Si legge nel decreto che ieri ha portato proprio gli uomini della Finanza a perquisire gli uffici del capo: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme, illecitamente richieste asseritamente per sé e altri, e il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni». E ancora: «Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». All’esame dei pm sono finiti anche i canoni d’affitto pagati alla Solido Property dell’imprenditore napoletano Achille D’Avanzo, per alcuni immobili adibiti a caserme. In base alle risultanze, l’Ufficio tecnico erariale aveva fissato i canoni più bassi nelle tabelle di locazione ma, proprio Bardi, contrariamente alle indicazioni dell’Ute, avrebbe dato l’autorizzazione per pagare il prezzo massimo previsto. Inoltre, la sede della società di D’Avanzo, esattamente come quella dei fratelli Pizzicato, sarebbe stata spostata da Napoli a Roma in coincidenza con il trasferimento di Mendella. Gli avvocati dell’imprenditore, Roberto Guida, Luigi Petrillo e Luigi Pezzullo, precisano che «le società del gruppo di Achille D'Avanzo hanno sede in Roma dal settembre del 2004, epoca antecedente al trasferimento dell'ufficiale, che sarebbe avvenuto solo nel 2012». E aggiungono che la vicenda degli affitti era già stata oggetto di un’indagine chiusa con un’archiviazione. In realtà, l’inchiesta del 2012, poi archiviata, riguardava alcuni immobili che la società di D’avanzo aveva venduto a prezzi fuori mercato ai familiari dell'ex capo del Sismi Niccolò Pollari e del generale della Finanza Walter Cretella Lombardo.

Fiamme Gialle travolte dagli arresti ai vertici. Riemerge il caso: chi controlla i controllori? Alti ufficiali della Guardia di Finanza fermati, perquisiti e indagati che gettano ombre sull'impegno dei militari onesti. E, come venti anni fa, si ripropone il problema della prevenzione: come impedire che i funzionari corrotti facciano carriera, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Chi controlla i controllori? Per la seconda volta in pochi giorni, le istruttoria coinvolgono ufficiali di alto livello della Guardia di Finanza. Ieri è stato arrestato per corruzione il colonnello Fabio Massimo Mendella, attualmente comandante delle Fiamme Gialle a Livorno, ma soprattutto è stato perquisito l'ufficio del numero due del Corpo, il generale Vito Bardi, anche lui indagato. Non era mai successo prima. Il comando generale della Finanza non era stato perquisito nemmeno nella tempesta del 1994, quando Mani Pulite coinvolse decine di graduati e ufficiali che in Lombardia avevano alimentato un sistema di bustarelle. La scorsa settimana, la piena del Mose aveva investito con violenza l'istituzione. L'ex generale Emilio Spaziante è stato arrestato, con un'accusa ancora più grave delle bustarelle per chiudere un occhio sulle verifiche fiscali: secondo i magistrati avrebbe ottenuto oltre due milioni di euro per garantire alla macchina di quattrini veneziana la protezione dalle inchieste penali. Una circostanza mai accaduta durante la vecchia Tangentopoli. Con lui sono stati perquisiti Mario Forchetti, ex generale a tre stelle nominato garante per la trasparenza degli appalti Expo, e il colonnello Walter Manzon, ex comandante di Venezia: entrambi non risultano indagati. Spaziante è stata fino a pochi mesi fa una figura di primissimo piano, arrivata fino alla carica di capo di stato maggiore e comandante dell'Italia Centrale. Un ufficiale a dir poco discusso. Le intercettazioni del faccendiere Valter Lavitola avevano rivelato le pressioni nel 2009 su Silvio Berlusconi per farlo arrivare al vertice del Corpo. «No, non per fare il numero uno. Per fare una mediazione e lui fare il numero due», diceva Lavitola al premier: «La mediazione la sta facendo il ministro (dell'Economia Giulio Tremonti, ndr) ed è quasi fatta. Lei mi autorizzò a parlargliene. Lui mi ha detto che teneva tutto fermo fino a quando lei non si muoveva e noi si rischia il caso che da persone proprio amiche amiche amiche rischiamo insomma quanto meno che gli diventiamo antipatici». Il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di finanza indagato per corruzione, intervistato a Bari nel 2012 spiega i principi del finanziere modello: ''Un cittadino non avulso dal contesto che lo circonda, di sani principi e pronto ad affrontare le difficoltà'' (immagini da AntennaSud). Nonostante questo, Spaziante è riuscito nel 2013 ad arrivare alla poltrona caldeggiata da Lavitola, grazie agli automatismi che regolano le carriere. Poco dopo è esplosa un'altra inchiesta, questa volta della procura antimafia di Roma, che ha registrato gli interventi sull'ufficiale di un'industriale di Ostia per ottenere un documento, con cui realizzare un falso e farsi assegnare un bene demaniale. Una vicenda in cui compariva anche un ruolo dello studio professionale di Giulio Tremonti, chiamato a mediare su un finanziamento da 100 milioni di euro che doveva essere stanziato da Unipol. Guarda caso, la stessa società da cui pochi mesi fa Spaziante ha ottenuto una consulenza dopo avere lasciato l'uniforme. Adesso l'ex generale è agli arresti. Secondo gli accertamenti, condotti dalle stesse Fiamme Gialle, Spaziante e la sua convivente hanno complessivamente dichiarato entrate per poco più di 2 milioni di euro, mentre sono state scoperte uscite pari a quasi 3,8 milioni. Scrivono i pm: «In questo caso emerge inequivocabile l’elevatissimo tenore di vita. Dalla scheda patrimoniale risultano auto sportive, barche di lusso, villa con piscina, prestigiosi immobili, nonché la frequentazione di costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia. Soggiorni settimanali a Milano in hotel da mille euro a notte». E durante le perquisizioni nella residenza della sua convivente, gli investigatori hanno trovato 200 mila euro con banconote sporche di terra che sembravano essere state appena dissepolte. La correttezza dell'istituzione non viene messa in discussione. Sono i militari delle Fiamme Gialle a condurre le istruttorie più delicate del momento. Ed è stato proprio un ufficiale, il colonnello Renato Nisi, a impedire che Spaziante venisse a conoscenza della rete di microspie che hanno smascherato la ragnatela di tangenti dell'Expo. Anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, che ha ordinato la perquisizione nel comando generale, ha detto: «Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici». Gli ultimi sviluppi mostrano però con chiarezza l'esistenza di un problema di prevenzione, che riguarda tutta la pubblica amministrazione. Quali strumenti esistono per impedire che la corruzione dilaghi? La questione era stata posta venti anni fa, quando Mani Pulite aveva fatto finire in carcere decine di militari e di funzionari degli uffici fiscali. Allora erano stati proposti organismi di controllo, banche dati sui beni e altre iniziative, rimaste lettera morta. E adesso tutto si ripropone. Uno dei punti chiave, che anche in questo caso riguarda l'intera pubblica amministrazione, è l'assenza di efficaci meccanismi disciplinari per valutare il comportamento dei funzionari. Prima delle sentenza definitiva, non vengono quasi mai presi provvedimenti. Ma il verdetto della Cassazione arriva dopo parecchi anni e la prescrizione cancella quasi sempre le ipotesi di reato per i colletti bianchi. Come ha evidenziato due mesi fa un'inchiesta de “l'Espresso”, in Italia l'impunità per la corruzione è praticamente garantita. E nel frattempo le carriere proseguono, fino ai piani più alti delle istituzioni. Figure come Spaziante o come Bardi erano già state segnalate a vario titolo in diverse istruttorie: nell'estate 2011 entrambi erano citati nelle intercettazioni sulla cosiddetta P4. All'epoca i pm avevano ricostruito una fuga di notizie sulle indagini, che aveva permesso di mettere in guardia Gianni Bisignani, uomo chiave del potere romano. Ma non c'erano state ripercussioni. Così come nulla è stato fatto per arginare le frequentazioni molto interessate tra ufficiali e politici, in quella commistione tra affari e nomine che è diventata il pilastro della nuova Tangentopoli, da Milano a Venezia. Ora è necessario che questa nuova lezione si trasformi in misure concrete, per evitare che accada ancora. E per impedire che la corruzione di pochi getti ombre sull'attività di centinaia di militari delle Fiamme Gialle, che tutti i giorni si impegnano con rigore e onestà per difendere quel che resta della legalità nel nostro Paese.

Gdf, indagato per corruzione il comandante in seconda Bardi. L’inchiesta della Procura di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Indagato per corruzione il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare» verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in servizio a Napoli. Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma. Il colonnello Mendella - comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno - è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali.

Bufera giudiziaria sulla Finanza. Arrestato per concussione il comandante Gdf di Livorno: tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Indagato il generale Bardi. Il provvedimento a carico di Fabio Massimo Mendella nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Fermato anche il commercialista napoletano De Riu. Perquisiti gli uffici romani del numero due della Guardia di Finanza che risulterebbe sotto inchiesta per corruzione in vicende collaterali, scrivono Dario Del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Finiscono in carcere l'attuale comandante provinciale della Finanza di Livorno, colonnello Fabio Massimo Mendella e il commercialista napoletano Pietro De Riu. Nell'inchiesta risulta indagato il generale Vito Bardi, numero due della Guardia di Finanza: i suoi uffici romani sono stati perquisiti. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock ipotizzano per gli arrestati il reato di concorso in concussione per induzione e di rivelazione del segreto d'ufficio. Per l'accusa, l'importo delle dazioni di denaro e di varie utilità incassate dagli indagati ammonta, in totale, ad un milione di euro. Somme che, è scritto in una nota della Procura di Napoli, sarebbero state "asseritamente richieste ed incassate da De Riu per conto di Mendella". I fatti, stando alle indagini condotte dalla Digos napoletana con la direzione centrale della polizia criminale e dai finanzieri del Comando provinciale partenopeo e della Tributaria di Roma, si riferiscono a rapporti intercorsi negli anni tra il 2006 e il 2012, quando Mendella era responsabile del settore Verifiche al comando provinciale di Napoli, e successivamente trasferito a Roma. A beneficiare dei presunti favori della Finanza sarebbero stati due fratelli imprenditori napoletani della società Gotha. Secondo la tesi accusatoria, il legame tra quel colonnello e quella società, saldata attraverso l'opera del commercialista, era così forte che quando il colonnello fu trasferito nella capitale, anche la Gotha cambiò sede, pur di continuare ad usufruire di quei vantaggi illeciti. Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici del comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi, che risulterebbe indagato per corruzione in vicende collaterali. Il generale di corpo d'armata, in pratica il numero due del corpo, è subentrato al generale Emilio Spaziante che è andato in pensione ed è stato arrestato con l'accusa corruzione nell'ambito della maxi inchiesta sulle tangenti del Mose. Bardi, 63 anni, è originario di Potenza. Ha ricoperto, tra l'altro, l'incarico di comandante interregionale dell'Italia meridionale. Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, dopo una lunga telefonata con il comandante generale della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, tiene a ribadire: "Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici, tanto che abbiamo affidato congiuntamente ad essa e alla Digos l'esecuzione delle misure, e l'attività integrativa continua ad essere svolta dalle Fiamme Gialle insieme all'ufficio della Digos". Tra gli episodi della vicenda giudiziaria viene riportata anche una festa in barca con Vip per Mendella. Il colonnello, nell'estate del 2006 partecipò alla festa di compleanno dell'imprenditore Paolo Graziano assieme ai calciatori Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro (i tre sono del tutto estranei alla vicenda; il solo Graziano è stato sentito come persona informata sui fatti). La festa si svolse sulla barca di Graziano, attuale presidente dell'Unione industriali di Napoli. La circostanza viene riferita dal gip Dario Gallo solo come elemento di riscontro delle dichiarazioni accusatorie dell'imprenditore Giovanni Pizzicato, che sarebbe stato indotto da Mendella a pagare somme di denaro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali. Nell'estate del 2007, invece, sia Mendella, accompagnato dalla fidanzata, sia il commercialista De Riu avrebbero trascorso le vacanze in Sardegna a spese di Pizzicato. Trasferito da Napoli a Roma, il colonnello Mendella - dice l'inchiesta - suggerì agli imprenditori Giovanni e Francesco Pizzicato di trasferire nella capitale anche la loro società Gotha spa. Dopo appena due giorni dal trasferimento della società, l'ufficiale propose ai suoi superiori una nuova verifica fiscale, che necessitava di una specifica autorizzazione a derogare dagli ordinari criteri di competenza. L'autorizzazione giunse 24 ore dopo. La tempistica dell'operazione, sottolinea il gip, è un decisivo elemento di conferma dell'ipotesi accusatoria: in quella circostanza spuntò il coinvolgimento di "due generali". Anche le modalità di concessione della deroga appaiono sospette, dal momento che non fu interessato il comando generale della Guardia di Finanza ma solo quello provinciale, mentre nè nella richiesta nè nell'autorizzazione erano specificate le circostanze eccezionali per derogare dai criteri di competenza. Nella sua denuncia, l'imprenditore Giovanni Pizzicato ha riferito di avere appreso dal commercialista Pietro De Riu, anche lui arrestato oggi, che la verifica "aveva richiesto una speciale autorizzazione da parte di due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante". In quella circostanza, De Riu chiese a Pizzicato 150.000 euro "perchè a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell'iniziativa, i generali". Il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in pensione, è stato arrestato la settimana scorsa nell'ambito dell'inchiesta sul Mose.

Terremoto Gdf: arresti, perquisizioni ed incredulità. Arrestato il comandante della Finanza di Livorno, Mendella, con l'accusa di concussione ed indagato il comandante in seconda Bardi a Roma per corruzione. Lo sgomento delle fiamme gialle, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. "...è davvero impossibile". Diverse telefonate, identico però il tono e quel filo di voce di chi davvero ha preso un pugno nello stomaco. Sono le reazioni (anonime) dei militari delle Fiamme gialle di Livorno dopo l'arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella, accusato di concorso in concussione nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Il colpo è davvero tremendo: in caserma, nella città di Livorno e anche a Roma. In pochi hanno voglia di parlare. Mendella era arrivato al comando provinciale livornese neanche un anno fa, nel luglio del 2013, guadagnandosi immediatamente la stima del personale. Anche alti ufficiali della Finanza, raggiunti telefonicamente da Panorama.it, manifestano stupore ed incredulità. Oltre ad una profonda tristezza e smarrimento: E' impossibile per Mendella e ancora di più per il generale Bardi. Sembra quasi una voglia di colpire il Corpo.. cosa pensano di trovare all'interno di un ufficio di un comandante in seconda che cambia continuamente..” Poi qualcuno prosegue: "Mai una voce su Mendella..non è mai stato un collega chiacchierato come a volte ci può essere". Infatti, mentre la Digos di Napoli stava arrestando il comandante di Livorno, la procura di Napoli stava effettuando una perquisizione, sempre nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto del colonnello, nell’ufficio del generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza presso il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Il generale Bardi, al momento, risulterebbe indagato per corruzione. Ma perché il colonnello Mendella sarebbe finito in carcere?  E perché perquisire le stanze del Comando Generale di Roma? Secondo i pm napoletani, Piscitelli e Woodcock, gli imprenditori partenopei avrebbero versato oltre un milione di euro tra il 2006 ed il 2012 al commercialista Pietro De Riu, anche lui finito in manette questa mattina, che faceva da tramite con il responsabile verifiche ed accertamenti del Comando provinciale Guardia di Finanza di Napoli, ovvero il colonnello Fabio Massimo Mendella. Mendella, dopo sei anni nel capoluogo campano, fu trasferito dal Comando di Napoli a Roma. E in concomitanza con il suo trasferimento anche  la holding "Gotha s.p.a.", oggetto di una verifica pilotata eseguita dall'ufficio coordinato dal colonnello, avrebbe trasferito la propria sede legale nella Capitale. Se l’arresto del comandante di Livorno ha destato non poco stupore, meno “impatto”, tra alcuni finanzieri, ha avuto la notizia della perquisizione a carico del generale. Il generale Vito Bardi, infatti, non è nuovo alle vicende giudiziarie. Nel 2011 era stato indagato con le accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4. L'anno successivo, tuttavia, la sua posizione fu archiviata dal gip su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Al centro dell'inchiesta era l'ex deputato del Pdl Alfonso Papa, per il quale ora e' in corso il processo. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'ex parlamentare riceveva notizie coperte da segreto su indagini in corso e se ne serviva per ricattare alcuni imprenditori dai quali riceveva cosi' denaro o altre utilita'. Nell'inchiesta era coinvolto anche l'uomo d'affari Luigi Bisignani che ha patteggiato la pena. Ma la tristezza di moltissimi alti ufficiali della Finanza è dettata anche dal susseguirsi, di accuse verso gli appartenenti al Corpo o graduati ormai in pensione. E’ il caso del generale Emilio Spaziante rientrato nella maxi inchiesta, pochi giorni fa, sulle tangenti del Mose, a Venezia. Emilio Spaziante, in qualità "di Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza" è  stato arrestato perché "influiva in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova" e avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, in cambio, la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. E' quanto stato scritto nell'ordinanza del gip dove si precisa anche che la somma versata fu poi di 500 mila euro divisa anche con Milanese e Meneguzzo. Le indagini della Procura di Napoli che hanno portato all'arresto di Mendella, sono state condotte dalla Digos partenopea con il contributo della Direzione centrale di Polizia criminale e anche del Comando Provinciale e del nucleo di Polizia tributaria della stessa Guardia di Finanza di Roma.

Ci sono imprenditori che collaborano, ma a parlare sono soprattutto ufficiali e sottufficiali, scrive Fiorenza Sarzanini su  “Il Corriere della Sera”. Uomini della Guardia di Finanza che accusano i loro superiori di aver preso tangenti. E svelano al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock l’esistenza di un «sistema» di corruzione che ha già fatto finire in carcere il colonnello Fabio Massimo Mendella, mentre sono indagati il comandante in seconda Vito Bardi e il suo predecessore Emilio Spaziante, tuttora agli arresti per lo scandalo del Mose di Venezia. Non sono gli unici. Ci sono nomi ancora coperti, componenti di quella «rete» che avrebbe preteso soldi, vacanze, favori e forse, ma su questo i controlli sono tuttora in corso, appuntamenti con alcune escort. È l’ordine di perquisizione notificato ieri al generale a svelare gli elementi raccolti dai pubblici ministeri facendo emergere un quadro di testimonianze incrociate: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme illecitamente richieste asseritamente per sé ed altri, ed il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni. Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». Tra gli imprenditori interrogati c’è Achille D’Avanzo, in passato legato al generale Nicolò Pollari e poi molto vicino a Bardi. Sono soprattutto due le circostanze emerse dagli accertamenti affidati agli investigatori della Digos. Il primo riguarda l’affitto della caserma di Napoli dove ha sede il Comando provinciale delle Fiamme Gialle e altri stabili che l’immobiliarista avrebbe concesso proprio ai finanzieri. I canoni vengono fissati dall’Ufficio tecnico erariale, ma per questo caso si è deciso di fare un’eccezione. E dunque Bardi avrebbe stabilito di concedere all’amico il massimo possibile ottenendo una contropartita che sarebbe già stata svelata e sulla quale sarebbero tuttora in corso le verifiche. Ma a destare sospetto è anche la decisione presa dallo stesso D’Avanzo di spostare la sede di una delle sue società da Napoli a Roma proprio in seguito al trasferimento di Mendella nella capitale. Esattamente come accaduto per la «Gotha spa» dei fratelli Pizzicato che collaborano con i magistrati e hanno raccontato di aver ricevuto il suggerimento proprio dal colonnello. I difensori dell’imprenditore mettono le mani avanti sostenendo che «le società del gruppo hanno sede nella capitale sin dal 2004». Al fascicolo di inchiesta è stato allegato il verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già coinvolto insieme ad Angelo Capriotti nell’inchiesta sugli appalti all’estero gestiti dal faccendiere Valter Lavitola. Il 23 luglio scorso l’uomo viene interrogato da Woodcock e dichiara: «Mi chiedete se Capriotti mi abbia mai riferito di rapporti con ufficiali della Guardia di Finanza e di eventuali richieste avanzate da questi ultimi. Posso dire che intorno al 2006 Capriotti mi mandò negli uffici del generale Bardi per consegnargli un esposto denuncia. Ricordo che io e Capriotti andammo una prima volta insieme dal generale Bardi nel suo ufficio di Napoli e poi Capriotti mi mandò da solo sempre negli uffici del Comando regionale. In questa occasione prese una copia del mio esposto e mi disse che avrebbe seguito lui direttamente la vicenda, tuttavia non abbiamo saputo più nulla. Credo un anno dopo Capriotti mi disse che il generale Bardi gli aveva fatto delle richieste “strane” ovvero richieste di utilità, se non sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia». L’8 marzo scorso viene intercettata una telefonata tra Mendella e un amico avvocato, Marco Campora. Il colonnello dovrebbe aver appreso di avere i telefoni sotto controllo e dunque usa il legale come tramite per incontrare il commercialista Pietro De Riu. Per questo i pubblici ministeri vogliono adesso accertare se l’incontro con la donna sia effettivamente avvenuto o se invece fosse una «finta» per mascherare invece un appuntamento.
Mendella : ué Marco! Ti chiamo dopo
Campora : no, no Fabio! Perché ti stavano aspettando
Mendella : ma chi?
Campora : no là ... quella ragazza che ti volevo presentare a piazza dei Martiri là, quindi ti aspetto un quarto d’ora
Mendella : no e non ce la faccio a venire. Oggi non ce la faccio
Campora : eh ... ma scusa questo ti ... cioè qua sta figa qua, ti sta aspettando Fabio
Mendella : non ce la faccio!
Campora : ... una figura di merda. Sta amica di Cristiana qua devi
Mendella : ma non ce la faccio dai, sto al Vomero!
Campora : e devi venire per forza, che cazzo! Cioè
Mendella : dai, non ce la posso fare. C’ho pure ... adesso è arrivata pure Catia
Campora : eh no e Fabio dai, vieni, vieni! Fammi sta cortesia perché ... vieni, vieni capisci... Perché questo mò ti vo ... ti voleva sc.. mò, qua ... se ti dico vieni è perché devi venire, insomma, capito? Sennò mica ti dicevo cazzate ... hai capito?

I soldi in contanti gli sarebbero stati consegnati nelle scatole dei telefonini cellulari, continua la Sarzanini. Ma evidentemente quei 30 mila euro al mese non bastavano. E allora il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella si faceva pagare anche le vacanze in Sardegna, oppure le gite in barca a Capri con i calciatori del Napoli. Atteggiamento spregiudicato che i magistrati di Napoli inseriscono in un vero e proprio «sistema» di corruzione che avrebbe avuto tra i referenti il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Il sospetto degli inquirenti è che proprio a lui possa essere finita una parte dei soldi versati dai fratelli Pizzicato, amministratori della «Gotha spa» che si occupa di metalli e gestori di alcuni locali notturni napoletani per evitare le verifiche fiscali. Non è l’unico. Anche altri alti ufficiali tuttora in servizio - oltre all’ex numero due delle Fiamme Gialle Emilio Spaziante - potrebbero aver partecipato alla spartizione delle «mazzette» pagate dagli imprenditori. Un dubbio alimentato da quanto raccontato al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock proprio da Giovanni Pizzicato che sostiene di aver ricevuto anche notizie sulle indagini in corso, compresa la decisione «di mettere sotto controllo 42 utenze». «Fondi in Romania e Lituania». È il 14 novembre scorso quando l’imprenditore decide di collaborare. E dichiara: «Nel 2005 venni avvicinato da un mio collega Pietro Luigi De Riu e mi disse che sarebbe stato bene che per la mia attività incontrassi un suo amico, il maggiore Fabio Massimo Mendella, con il quale fu organizzata una cena presso uno dei locali che all’epoca gestivamo, “La Scalinatella” di Napoli... De Riu ci propose di trovare un accordo economico con Mendella, in misura proporzionale al volume d’affari della società. Mi fu detto che con 15 mila euro al mese avremmo potuto star tranquilli... Cominciai quindi a pagare, ma poi nel tempo i versamenti sono cresciuti a 20 mila e poi fino a 30 mila euro. Non abbiamo avuto mai alcun controllo generale o comunque mirato dalla Guardia di Finanza. Complessivamente avrò versato oltre l milione di euro. Questi versamenti sono stati tutti quanti effettuati a Napoli... in qualche circostanza io avevo messo i soldi contanti in una confezione di un cellulare richiedendo alle mie segretarie di consegnarli al dottor De Riu. L’ultimo dei pagamenti è avvenuto a settembre, ottobre del 2012. Il contante lo abbiamo ritirato in banca in Italia fino al 2011 più o meno, poi ho utilizzato somme che venivano prelevate dai conti presenti in Lituania e Bulgaria». «Soldi ai due generali». Fila tutto liscio, poi Mendella viene trasferito a Roma. Ma lì avrebbe trovato la soluzione: trasferire nella capitale la sede della «Gotha spa» in modo da poter far partire una verifica «pilotata». Racconta Pizzicato: «De Riu mi aveva detto che questa verifica per poter essere autorizzata, in quanto di competenza territoriale di altro Comando, aveva richiesto una speciale autorizzazione concessa da due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante. De Riu mi disse anche che successivamente c’era stata una segnalazione da parte del colonnello Baldassari di Napoli. Quest’ultimo, poi trasferito anche lui a Roma, aveva segnalato questa anomalia richiedendo spiegazioni al Comando generale sul perché la verifica era stata aperta dal Comando di Roma. In proposito devo aggiungere che il De Riu, in relazione a questa verifica mi aveva richiesto la somma di euro 150 mila perché a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell’iniziativa, i generali che avevano autorizzato la stessa. Io anche in questa occasione ritenni di dover pagare». In barca con i calciatori. Ci sono le «mazzette», ma anche gli svaghi. L’imprenditore ha svelato di aver «pagato nel 2007 una settimana di soggiorno al residence “Smeraldina” di Porto Rotondo dove alloggiarono sia il De Riu che il Mendella, che era con la sua compagna, e io, che ero presente, pagai tutte le cene della settimana». Ma anche di aver organizzato nel 2006 una gita «a Capri con il presidente degli industriali napoletani, Paolo Graziano, amico di Mendella, che festeggiava a bordo della sua barca il suo compleanno. La barca di Graziano era un Mangusta e a bordo della stessa c’era l’ex calciatore del Napoli Ciro Ferrara con la famiglia di Fabio Cannavaro, quest’ultimo a bordo della sua barca. La barca del Graziano fu da noi raggiunta con un gommone che era di proprietà di mio cugino, Sergio Reale. Noi partimmo da Ischia dove io ero con la mia barca, a bordo della quale c’era Mendella con la sua compagna, oltre De Riu con la sua fidanzata dell’epoca». Nell’ordinanza il giudice elenca gli elementi di riscontro ai viaggi. E poi allega le intercettazioni di conversazioni durante le quali il colonnello Mendella fa finta di incontrare «belle donne» quando invece vede il commercialista De Riu per farsi consegnare le tangenti.

INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA. Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”. L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi.

"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere". Il presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”.  «Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.

«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».

Il giudice parteggia?

«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell'imputato».

Partito preso?

«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».

Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?

«Non penso proprio. Poi è ben assistito».

Intanto è in galera e non si intravede la fine.

«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».

Maramaldeggiano?

«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».

Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi...

«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».

Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?

«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».

In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l'incolpevole.

«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in cui sono ammesse».

Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.

«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».

Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?

«Questo reato è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».

Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?

«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece gli umori della piazza».

E le toghe sono dilagate.

«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».

Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?

«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).

Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.

«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».

Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).

«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».

Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?

«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».

La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?

«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».

Come se ne esce?

«Con la ventilazione della magistratura».

Frullarla via?

«Aprire ad altri l'accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».

E?

«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».

"I magistrati forzano le leggi. Ormai è scontro con lo Stato". Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti, nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario, perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che, oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale, come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio, quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato, direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete dunque l'intervista con queste lenti.

Il giudice è più vicino al pm che ai diritti della difesa?

«Sostanzialmente vero. Il grande problema del processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».

Equilibrio che manca.

«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».

Cioè?

«Quello tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato (trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».

C'è abuso del carcere prima del processo?

«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare, semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».

C'è abuso di intercettazioni?

«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge per farle».

I giudici violano le leggi?

«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato, che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».

Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in piazza.

«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è sensibilissimo a questi umori».

È tollerabile la legislazione speciale per i mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?

«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno impiccato i terroristi in carcere».

Con la scusa dei mafiosi si è finito per colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno. Costituzionale?

«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il caso Contrada».

Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa per concorso esterno.

«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».

L'Università come si schiera di fronte a queste bestiali forzature?

«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista. Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i principi di garanzia della Convenzione Ue».

La magistratura dilaga dalla politica industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?

«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe solo applicare la legge».

Le colpe della politica per le invasioni di campo?

«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie. Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».

L'ultimo Guardasigilli degno del nome?

«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di procedura penale».

Separazione delle carriere tra giudici e pm?

«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri. Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».

Pensiero finale.

«Grande confusione sotto il cielo».

Tanto fanno parte tutti della grande mangiatoia. Lo scandalo del doppio lavoro: busta più ricca per mille toghe, scrive Stefano Sansonetti su “Il Giornale”. Un festival di incarichi extragiudiziari. Per un cospicuo numero di toghe italiane, a quanto pare, la cuccagna non accenna a finire. Negli ultimi tempi sono letteralmente fioccate le collaborazioni che i magistrati riescono a ottenere da un'infinita serie di enti pubblici e privati. Inutile dire che tutti questi lavori extra, svolti cioè al di fuori della missione tipica di giudici e pubblici ministeri, si portano appresso un bel corredo di compensi che vanno a cumularsi ai già lauti stipendi. Il fatto è che l'organo di autogoverno della magistratura, guidato dal vicepresidente Michele Vietti, ha appena sfornato un «volumone» di 362 pagine che contiene l'ultimissimo aggiornamento delle attività extragiudiziarie autorizzate dal 14 novembre 2013 al 13 maggio del 2014. A impressionare è il loro numero: parliamo di 1.085 incarichi, più che raddoppiati rispetto ai 466 del semestre precedente e comunque in aumento rispetto ai 961 autorizzati nello stesso semestre di un anno fa (ovvero dal 14 novembre 2012 al 13 maggio 2013). Molti incarichi vengono assegnati da società private di consulenza e formazione, per non parlare di veri e propri centri di potere come la Luiss, l'ateneo della Confindustria guidato dall'ex numero uno degli industriali Emma Marcegaglia, che per questa via si trova a pagare numerosi giudici. E qui restano di grande attualità due questioni. Innanzitutto la montagna di incarichi rischia di sottrarre ore preziose di lavoro a un sistema-giustizia stritolato da pendenze sempre più difficili da smaltire. E poi la «vitale» questione della terzietà: siamo sicuri che ricevere compensi da Confindustria e gruppi privati, seppur autorizzati dal Csm, garantisca l'imparzialità della toga nel momento in cui è chiamata a svolgere il suo «vero» lavoro? Nelle 362 pagine gli esempi si sprecano. Si prenda Paolo Sordi, presidente della sezione lavoro del tribunale di Roma, che per lezioni di diritto del lavoro ha ottenuto la bellezza di 9 incarichi: 4 ore dalla Scuola nazionale dell'amministrazione per complessivi 600 euro, 3 ore dalla Scuole superiore dell'economia e delle finanze per 390 euro, 2 ore dall'Università Roma Tre per 200 euro, 40 ore dalla Lumsa per 4 mila euro, ancora 4 ore da Roma Tre per 480 euro, un'ora dalla società di formazione Optime srl per 400 euro, un'ora dalla Synergia Formazione srl per 500 euro, 20 ore dalla Scuola di specializzazione in professioni legali della Sapienza per 3.600 euro e 6 ore dalla Fondazione dell'avvocatura pontina per 750 euro. Oppure la situazione di Angelo Spirito, consigliere della Corte di Cassazione che ha ottenuto 5 incarichi per docenze di procedura civile dal gruppo Altalex: due da 14 ore e 2.600 euro ciascuno, un altro da 14 ore per 2.450 euro e due da 5 ore ciascuno per complessivi 1.450 euro. Poi c'è il caso della Luiss, l'università di Confindustria che direttamente o per il tramite della sua Scuola di specializzazione in professioni legali ha assegnato nel semestre incarichi a 10 magistrati. Tra questi c'è Domenico Carcano, capo dell'ufficio legislativo del ministero della giustizia, che per 45 ore di lezione di diritto processuale civile prenderà 6 mila euro. A seguire il sostituto procuratore di Roma Barbara Sargenti, con 36 ore di lezioni di diritto penale dell'informatica pagate 4.500 euro. Ancora, tra le toghe più dinamiche si segnala Gaetano Ruta, pm di Milano, il castigatore degli stilisti Dolce e Gabbana. In questo caso parliamo di 5 incarichi per lezioni di diritto penale: 5 ore per 650 euro dalla Scuola superiore dell'economia e delle finanze, 2 ore per 325 euro dalla Cattolica di Milano, un'ora per 400 euro da Synergia Formazione srl e 2 ore da 500 euro l'una da Informa srl. Un altro pm milanese, Carlo Nocerino, sempre per docenze di diritto penale ha ottenuto 20 ore dall'Università Bicocca per 2.064 euro, un'ora da Optime srl per 400 euro e un'ora da Paradigma srl per 800 euro. Tra i più impegnati a livello di ore ci sono anche Bruno Giordano, giudice del tribunale di Milano, e Marcello Buscema, giudice del tribunale di Roma. Il primo ha ottenuto dall'università di Milano e dal Consorzio interuniversitario per il diritto allo studio 50 ore di docenza per complessivi 7 mila euro. Il secondo 42 ore dall'onnipresente Scuola superiore dell'economia e delle finanze per 5.460 euro. Dall'elenco emergono i profili di alcune società private di formazione che la fanno da padrone. Optime srl, Paradigma srl, Synergia, Wolters Kluwer e Altalex pagano decine di magistrati. Anche se la maggior parte degli incarichi arriva dalle Scuole di specializzazione nelle professioni legali delle varie università italiane. È bene ripetere che si tratta di incarichi regolarmente autorizzati dal Csm, che però non spazzano via le questioni «tempo» e «terzietà» del magistrato. Del resto lo stesso Csm è consapevole del problema se solo si considerano le circolari che si sono succedute sul tema. In sostanza oggi si individuano tre tipologie di incarichi extra: espletabili senza autorizzazione, inderogabilmente vietati e soggetti ad autorizzazione. Il fatto è che ogni norma viene interpretata, ed è soprattutto la linea di confine tra le ultime due categorie a rischiare di rivelarsi labile.

Ma tutto questo alle toghe di tutti i ranghi non basta. Mose, politici e magistrati: mazzette per tutti, scrive “L’Unità”. I conti segreti e criptati all’estero li hanno già trovati nelle prime due tranche di questa inchiesta (2013). Ora salta fuori «Il fondo Neri», fondo comune di danaro contante versato pro-quota dalle imprese. Il meccanismo arriva al punto «di integrare in un'unica società corrotti e corruttori». Di più: «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha accettato l'incarico e quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale, quale rendita di posizione che prescinde dal singolo atto illecito commesso e che trova giustificazione solo nel ruolo rivestito dal pubblico ufficiale e nella possibilità, che egli comunque mantiene, di poter influire sfruttando le proprie conoscenze e relazioni personali con i funzionari che - scrive ancora il gip - permangono in servizio». Il sistema L'ex presidente della Regione Giancarlo Galan e l'ex generale della Gdf Vincenzo Spaziante, i dirigenti del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso: «Ciascuno di essi, per anni e anni, ha asservito totalmente l'ufficio pubblico che avrebbe dovuto tutelare, agli interessi del gruppo economico criminale, lucrando una serie impressionate di benefici personali di svariato genere». Scrive il gip che Giovanni Mazzacurati, il presidente del Consorzio Nuova Venezia (CvN) «dopo aver concordato» con i principali componenti del Consorzio «la necessità» di pagare tangenti, dal 2005 al 2011 avrebbe corrisposto - tramite l'assessore Chisso (che a sua volta riceveva il denaro o direttamente dallo stesso Mazzacurati o dai collaboratori di quest'ultimo) - a Galan, «non solo lo stipendio annuo di un milione, ma anche 1 milione e 800 mila per il rilascio di due pareri favorevoli ai progetti». In particolare 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 e altri 900 mila tra il 2006 e il 2007 «per il rilascio del parere favorevole della Commissione Via della Regione Veneto, sui progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia». La campagna per le comunali Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni entra nell'inchiesta sui fondi neri delle aziende legate agli appalti del Mose per aver ricevuto, secondo l'accusa, oltre 110mila euro in più occasioni a sostegno della campagna elettorale delle comunali nel 2010. Orsoni avrebbe ricevuto i fondi tramite «contributi formali» di aziende che a loro volta ottenevano il denaro dal Cvn sulla base di false fatturazioni. Le ditte coinvolte, a vario titolo, sarebbero Mazzi, Grandi Lavori Fincosit, Mantovani e Covela, Consorzio Italvenezia e Società italiana condotte d'acqua, Coveco, San Martino e Clodia. Secondo il gip queste società partecipavano al sistema di false fatturazioni «consapevoli della destinazione a fine di finanziamento illecito di esponenti politici del denaro sovraffatturato in favore del Cvn per la realizzazione del Mose». I postini delle somme sarebbero stati Luciano Neri e Federico Sutto, uomini di fiducia dell'ex presidente del Cvn, Mazzacurati, entrambi arrestati. I passaggi sono tre: i primi due riguardano l'emissione di due fatture per 500 mila euro emesse da Coveco e da San Martino a favore del Cvn. Il terzo passaggio riguarda la dazione vera e propria, che sarebbe avvenuta con tre consegne a uomini di fiducia di Orsoni, per un totale di 110 mila euro». La domanda è se Orsoni fosse o meno consapevole delle provenienza di quel danaro. In una delle intercettazioni, Nicola Falconi (ai domiciliari), uno degli imprenditori del CvN, riferisce che Orsoni gli ha detto: «Siete dei veri amici, sono meravigliato dello sforzo addirittura superiore alle attese e ti ringrazio molto». E quella per la regionali Tra gli arrestati anche Giampietro Marchese, consigliere regionale veneto del Pd. Avrebbe ricevuto un finanziamento illecito di 33mila euro per la campagna delle regionali 2010. Il finanziamento risulterebbe confermato dall’imprenditore Pio Savioli (già arrestato nel 2013), consigliere del CvN e consulente della cooperativa Coveco nella cui contabilità è stato rintracciato il passaggio di denaro. «Finanziamento ufficiale» (con relativa fattura) si difendono gli indagati. Per l’accusa, invece, «frutto dei pagamenti del CvN sulla base di false fatturazioni Coveco». Nelle carte dell'inchiesta c’è un appunto scritto a mano sequestrato a luglio 2013 ad una dipendente del Coveco con le «erogazioni» effettuate dalla cooperativa fino all'11 ottobre 2011. Ci sono i nomi di Marchese, del consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo (33mila euro), della Fondazione Marcianum (100mila euro), il polo pedagogico-accademico dell'allora patriarca di Venezia Angelo Scola, il Pd provinciale di Venezia (33mila) e il Premio Galileo a Padova (15mila euro). Il giudice Giuseppone della Corte dei Conti, prima a Venezia e poi a Roma, «avrebbe percepito uno stipendio annuale oscillante tra i 300mila e i 400mila euro che gli veniva consegnato con cadenza semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008». Tra il 2005 e il 2006 la dazione aumenta: «Non meno di 600mila tra il 2005 e il 2006». I soldi, afferma ancora il gip, servivano per «accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli sui bilanci e sugli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova». Il generale e le Fiamme Gialle Tra gli arrestati anche l’ex, ormai è in pensione, generale di corpo d’armata Emilio Spaziante. Secondo il gip, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del CvN», avrebbe ricevuto la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. La somma versata poi è solo di 500 mila euro divisa anche con Marco Milanese (indagato), allora collaboratore politico del ministro Tremonti e parlamentare della Commissione Bilancio. La cifra sarebbe stata versata tra aprile e giugno 2010, «per influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose».

Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori". Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno Amoroso, scrive Giusepep Caporale s Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro. "Poi, signora, a un certo punto registriamo all'interno del suo ufficio la consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima del suo arresto" dice il pm Buccini. "Sì lo ricordo - risponde la Minutillo - quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di rapporti importanti, tant'è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico presidente del Tar del Veneto, Amoroso". Chiede il pm Tonini: "Perché essere consegnata questa somma?". "Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull'Autostrada del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n'erano stati anche altri. Maltauro aveva
fatto ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo. Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d'accordo Mantovani e Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre". La interrompe il pm Ancilotto: "Ecco, ma allora perché pagare?". "Perché questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar..." risponde l'ex segretaria di Galan. "Senta, è l'unico pagamento fatto ad Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?" chiede ancora uno dei tre inquirenti. "Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo". Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. "Conosco Crialese quando come vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell'acquisto dell'area ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in nero". "E come la giustifica questa parte in nero?" chiedono i magistrati. "Che lui ha i suoi rapporti da... pagare ". E poi fa la lista delle mazzette per i giudici: "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...". Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola accusa di millantato credito.

Sbirri venduti e magistrati corrotti: il sistema Mose. Il generale Spaziante chiese 2 milioni di euro per orientare le indagini. La guerra nella Gdf, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. La Guardia di Finanza ha dovuto indagare su se stessa nell’inchiesta sul Mose di Venezia dove è stato arrestato il generale Emilio Spaziante. Ma anche nell’indagine sull’Expo 2015 di Milano l’ex Dc Gianstefano Frigerio, il professore della cupola, millantava rapporti con il capo generale delle fiamme gialle Saverio Capolupo. Non è un caso che l'operazione veneziana si chiamasse in codice "Antenora" (come ricordato dal quotidiano IlPiccolo), seconda "delle zone in cui è distinto il cerchio nono dell'Inferno dantesco", quello dei traditori. «In essa sono puniti coloro che hanno tradito la fede spezial (If XI 63) creata dall'appartenenza alla stessa patria o allo stesso partito politico». Gli scandali che stanno terremotando il Nord Italia in queste ultime settimane, colpendo esponenti del Pdl o del Pd, tirano in ballo non solo i ladri, ma anche «le guardie» (copyright Matteo Renzi). E oltre ai guardiani delle legalità, personaggi spesso impegnati in interviste tese a condannare la corruzione, a finire in arresto ci sono anche magistrati della Corte dei Conti, come Vittorio Giuseppone o giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche. Non solo. In entrambe le inchieste compare l’ombra dei nostri servizi segreti (in particolare in relazione all'imprenditore Enrico Maltauro, costrutture di caserme e basi militati statunitensi in Italia ndr), altro tassello funzionale a garantire sicurezze giuridiche e a far viaggiare spedito il giro di appalti, mazzette e conti all’estero con l’aiuto di uno come Roberto Meneguzzo, numero della Palladio Finanziaria, la Mediobanca del Nord-Est. Del resto non è la prima volta che la nostra Guardia di Finanza viene travolta dalle inchieste della magistratura. Già nel 2011 il generale Spaziante, insieme con l'ex capo di stato maggiore Michele Adinolfi comparve per alcune soffiate nell'inchiesta sulla P4 di Luigi Bisignani. E a ben guardare i protagonisti sono sempre gli stessi e riportano a galla una guerra che si consumò nel 2008, quando nel cambio della guardia tra il governo Prodi a quello Berlusconi, l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti fece fuori tutti gli uomini dell’ex numero uno di via XX settembre Vincenzo Visco. Il deus ex machina di quella operazione di spoil system fu Marco Milanese, ex Gdf, ex braccio destro, indagato nell’inchiesta sul Mose e accusato di aver intascato una mazzetta da 500mila euro. Ma la vera mente dell’operazione di occupazione del potere da parte dei tremontiani fu Vincenzo Fortunato, ex magistrato, potente capo di gabinetto del ministero dell’Economia per quasi dieci anni, che caso vuole sia stato fino al marzo del 2014 “collaudatore” proprio del Mose, del sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dalle maree. A nominarlo nel 2011 insieme a Pietro Ciucci, presidente di Anas, fu il Magistrato dell’Acque di Venezia, allora ancora di nomina della cricca del capo supremo, Giovanni Mazzacurati. Grazie alla Gdf gli indagati sapevano di essere intercettati. Spaziante, arrestato giovedì scorso all’Hotel Savoia di Milano, secondo gli inquirenti, è stato un tassello fondamentale per la cricca bipartisan che gestiva il giro delle tangenti su un’opera faraonica da svariati miliardi di euro. Perché oltre a collaborare insieme a Milanese per sbloccare i fondi del Cipe, teneva informati i sodali della cricca sulle indagini della Guardia di Finanza. Non solo. Consigliò pure a Mazzacurati di acquistare un blackberry con una nuova scheda telefonica per evitare di essere ascoltato. Nell’ordinanza di custodia cautelare i magistrati spiegano nel dettaglio le richieste che i vertici del Consorzio Nuova Venezia volevano sapere sulle inchieste in corso. E’ l’allora generale della Gdf della provincia di Venezia, Walter Manzon, perquisito nei giorni scorsi, ad attivarsi. E a chiedere al colonnello Renzo Nisi, l'ufficiale che per primo ha indagato sul Cvn scoprendo il marcio delle acque veneziane, di fornirgli le informazioni delle ultime indagini in corso. Nisi è il cosiddetto «buono» di tutta la vicenda, grazie al suo operato l'inchiesta non è stata insabbiata. Nel 2013 è stato trasferito a Roma e prima di andarsene disse: «La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga». Come si legge nei verbali agli atti, Nisi, uomo appunto integerrimo, non avendo in quel momento «alcun tipo di sospetto trattandosi di dati richiesti da suo diretto superiore gerarchico» fornì i dati. E’ il 26 ottobre del 2010. Grazie all’intervento di Speziante e Manzon la cricca viene a sapere tutto. «Il nominativo dei soggetti nei cui confronti sono in corso le indagini tecniche e la qualifica»; il tipo di intercettazioni in corso, se ci fossero cimici o fossero solo intercettati i cellulari; le utenze monitorate dalla fiamme gialle per conto della procura. Per questo motivo Mazzacurati e Spaziante non parlano mai al telefono, perché sanno di essere intercettati. Ma il 3 dicembre del 2010 una microspia piazzata nell’ufficio delll’ex presidente del Cvn svela che il gran burattinaio del Mose conosce la situazione. Ne parla con un ex diplomatico, Antonino Armellini. E svela: «Mi hanno detto di una telefonata che hanno registrato con il dottor Letta, una con Matteoli...le hanno registrate». L'accordo con la Guardia di Finanza trovato nella casa di Baita: 2 milioni di euro per orientare le indagini. Il sodale di Mazzacurati è Piergiorgio Baita, l’ex top manager della Mantovani costruzioni, Il re del project financing arrestato lo scorso anno, altra gola profonda nell’inchiesta. È nella sua casa che gli inquirenti trovano in un'agenda la conferma dell’accordo con il relativo importo delle spese a «risultato raggiunto». E nel corso dell'interrogatorio Mazzacurati spiega che non solo Milanese ringraziò dopo aver ricevuto una tangente di 500mila euro («Io ho un po’ di ritegno su queste cose, mi colpì» dice ai magistrati), ma che dopo si trovò a dover fronteggiare le richieste di Spaziante che per «orientare le indagini» chiedeva una tangente di 2 milioni di euro. Di questi soldi Mazzacurati ne verserà solo un quarto in due tranche, nel 2011 e 2012. «Mi rifiutai di corrispondere altro denaro, anche per le difficoltà di reperire una somma quale quella richiesta» afferma durante l’interrogatorio del 9 ottobre del 2013. Servizi segreti e magistrati. Oltre a Giuseppone della Corte dei Conti, anche lui arrestato e anche lui addetto, secondo gli inquirenti, a dare una mano al Consorzio Nuova Venezia, nelle carte dell'inchiesta ci sono pure i magistrati del Tar. E' soprattutto Claudia Minutillo, ex segretaria del Doge Giancarlo Galan, a raccontare ai magistrati delle lotte interne alla burocrazia italiana, alla Gdf e ai Servizi. La Minutillo racconta anche degli intrecci tra Baita, Corrado Crialese, avvocato cassazionista e numero uno di Adria Infrastrutture già in Fintecna, e Bruno Amoroso, presidente del Tar di Venezia. Lo stesso Baita conferma a più riprese di aver pagato giudici del Consiglio di stato fino a 120 mila euro per avere sentenza favorevoli. Se nelle carte dell'Expo 2015 spunta il nome del numero uno del Dis Giampiero Massolo, in quelle sul Mose è sempre la Minutillo a raccontare altri dettagli sull'assuzione di una figlia «di uno dei servizi segreti». Si legge: ««I cognomi di queste due ragazze sono significativi: una si chiama Splendore, il cui padre è comandante dei Servizi segreti (si tratta del direttore dell'Aise del Triveneto Paolo Splendore ex Sisde noto alle cronache per aver lavorato con Bruno Contrada ndr), che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della Laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse».

1. MOSE, LE MAZZETTE-VITALIZIO: “PAGA FISSA, VIAGGI E HOTEL”, scrive Paolo Berizzi per “La Repubblica”. Mose ha aperto le acque, sotto c’è il baratro di Venezia. Un fondale melmoso dove hanno strisciato per dieci anni politici squali affamati di tangenti «anche dopo il pensionamento», tipo vitalizio, «pacchetti e pacchettini» per «ristrutturare la villa» come è riuscito a Giancarlo Galan al quale, bontà sua, non bastassero i muratori pagati dalla Mantovani spa, casualmente nella torta Mose, era assicurato «uno stipendio annuo di 900mila euro». Più morigerato, ma forse è solo questione di ruoli e di tempi, il sindaco Giorgio Orsoni: 560 mila. Una tantum anzi no, a rate. «In tre mesi ho portato i soldi a casa sua», confessa Giovanni Mazzacurati. Il «capo supremo», il «re», il «monarca», l’«imperatore», il «doge». Lo chiamano così i sottoposti, le iperboli che si addicono a chi presiede il consorzio a cui è stata affidata un’opera da 5miliardi, «il progetto più grande del mondo». «Il capo supremo era scoglionato... ma poi è diventato tutto arzillo dopo la cena con il mio amico di Padova » (il sindaco di Padova Zanonato, ndr), dice del suo dominus uno dei più fidati collaboratori. Avevano addosso gli occhi dei sindacati: «C’è uno che al Tg3 ha detto: “È ora di finirla, questi qua fanno soldi con il Mose, poi vengono qua e si comprano la sanità pubblica”». Questi qua sono loro, il branco di piranha che s’addensava intorno agli squali. I «loro» imprenditori. Quelli che «prima li paghiamo — i politici — e poi andiamo a batter cassa». Dice ancora l’ingegnere Mazzacurati: «Adesso con i tagli grossi vengono pacchetti piccoli... ». Glieli portava direttamente lui i soldi al consigliere regionale Pd Giampiero Marchese, invero non il più ingordo giacché il «meccanismo », come lo chiamano i magistrati nelle 710 pagine di ordinanza del gip Alberto Sacaramuzza, si accontentava di piccole tranches «da 15 mila euro a volta». Più che un’idrovora una cerniera, Marchese. «Era il collettore di soldi del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) per la sinistra. Galan e Chisso (Renato Chisso, assessore regionale forzista alle Infrastrutture, ndr) lo erano per la destra». C’è un codice più o meno sofisticato che i mazzettari della Laguna osservavano per tessere la loro rete. È fatto di «dazioni obbligate», «rendite di posizione», «fondi neri» che qui, splendido anagramma della corruzione, diventano «fondo Neri» (dal nome di Luciano Neri, il “cassiere” di Mazzacurati” del Cvn). Bisogna leggere attentamente le parole del gip. «Il meccanismo — annota — arrivava al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori». Un abisso «talmente profondo che non sempre è stato possibile individuare il singolo atto specifico contrario ai doveri d’ufficio». Eccoli gli ingranaggi del meccanismo. C’è un sindaco che nella sua bella casa di San Silvestro, due passi dal ponte di Rialto, riceve il corruttore: il «grande amico» Mazzacurati. Un caffè veloce? «Ho saturato la cifra richiesta», ammette il costruttore. «Anche tranches da 150 mila euro». Non è uno che va per il sottile il «doge». «Tutti i nostri amici gonfiano», ammonisce al telefono. Fatturazioni off shore, «esterovestizione» per dirla con l’economichese della polizia tributaria. Ma anche di carta igienica si parla. Racconto di Pio Savioli, responsabile del Consorzio per i rapporti con le cooperative: «Il magistrato alle Acque era in subordine al Consorzio Venezia Nuova... cioè Venezia Nuova li comprava... sudditanza psicologica e anche operativa... Cioè gli comprava anche la carta igienica, è vero, non è una battuta». Tutto nello stesso contenitore che tiene dentro squali, piranha e pesci piccoli. «Le nomine del Magistrato delle Acque da sempre le ha fatte l’ingegnere Mazzacurati — dice Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e imprenditrice del cemento — Cioè faceva in modo che venisse nominata una persona a lui gradita, gradita al Consorzio». Non manca nessuno nel canovaccio di questa commedia dell’arte (di rubare). Il sindaco (Orsoni). L’assessore (Chisso). Il “governatore” (Galan). Gli altri politici da oliare (Marchese, Lia Sartori eurodeputata Pdl non rieletta). Poteva mancare il generale della Guardia di Finanza in pensione? No, infatti è spuntato lui, Emilo Speziante. «Con Mazzacurati si incontrano nella residenza romana dell’imprenditore ». Residence Ripetta, via di Ripetta. Il doge gli chiede un occhio di favore. E qualche soffiata. Speziale è richiesto di «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Cvn». Tutto bene oliato con «la promessa di 2,5 milioni di euro». Il sistema Mose sapeva essere riconoscente. Anche quando uno lasciava il suo incarico. Anche dopo la pensione. «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha cessato l’incarico o quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale», recita l’ordinanza del gip. Si chiama «rendita di posizione». Un «conguaglio», o «stipendio fisso» che «prescinde dal singolo atto illecito commesso». Così ingrossava il conto Vittorio Giuseppone, ex magistrato della Corte dei conti. Così Orsoni e Chisso e Lia Sartori potevano farsi le campagne elettorali ma non solo. «Orsoni prima ha fatto una cifra e poi l’ha aumentata», dice Mazzacurati che del primo cittadino veneziano ricorda, in alcune occasioni, la prudenza. «Chiedeva di consegnare denaro a qualcuno che lo copriva». I «pacchettini» sono scivolati di mano in mano dal 2003 a oggi. Ognuno riceveva in base a quanto era in grado di dare. Ecco, se esiste un asso pigliatutto quello potrebbe rispondere al nome di Giancarlo Galan. «Era a libro paga dei costruttori del Mose», scrive il gip. Tra 2005 e 2008 l’ex governatore e fedelissimo berlusconiano si è messo in tasca emolumenti per 900 mila euro l’anno. Un affarista il Galan che esce dalle carte. Tra conti a San Marino e pacchetti azionari nelle società coinvolte negli affari della Regione, con il suo fidato assessore Chisso faceva lavorare «imprese con le quali era in debito». «Galan ha continuato a chiedermi denaro anche dopo la scadenza del suo mandato in Regione», dice l’ad della Mantovani spa Piergiorgio Baita. VERA E PROPRIA LOBBY. Questo era il Consorzio Venezia Nuova. «Un gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d’interesse», scrive il gip. «Buste bianche» e «bigliettoni». E poi viaggi. Viaggi per agganciare i big della politica. Come Tremonti, allora superministro, a cui Mazzacurati prova a arrivare attraverso il suo braccio destro Marco Milanese oliato con 500mila euro. «Prenotami una stanza al Grand Hotel», chiede il “Doge” alla sua segretaria. «Sì, che in quei due giorni c’è Matteoli che parla». Non gli è andata giù, a Mazzacurati, che il governo abbia nominato Ciriaco D’Alessio presidente del Magistrato alle Acque. «Oggi vedo il Dottore», promette sior Giovanni. Il Dottore è Gianni Letta. Lo riceva a Roma il 23 settembre 2011. Ma forse Letta non basta. «Lì ci vuole un atto di imperio di Berlusconi». Così parlo l’uomo del Mose prima che le acque si aprissero.

2. IL MANAGER REO CONFESSO “AL GENERALE SPAZIANTE TRECENTOMILA EURO” - MAGISTRATI E 007 A LIBRO PAGA PER SPIARE LE INDAGINI, scrive Paolo Colonnello per “La Stampa”. «Questo incontro che Mazzacurati aveva fatto con Meneguzzo avrebbe comportato il pagamento di due milioni e mezzo alla Guardia di Finanza, di cui 300 mila subito e il conferimento a Meneguzzo (ad di Palladio Holding, ndr) di 300 mila euro all’anno, più 400 mila euro di fee… Seppi poi che la Guardia di Finanza a cui si riferiva era il generale Emilio Spaziante e, oltre ai 300 mila euro, ne furono richiesti altri 200 mila…». Parola di Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani Costruzioni, grande reo confesso di questa vicenda. Per esempio: «Se il presidente della Regione mi dice: “Mi dai una mano?”, lei gliela dà, non si chiede perché». Chiede il pm: quindi lui chiedeva e voi davate? «Per forza, come fai a dire di no?… Sì ma, voglio dire, Galan non era più governatore, era ministro, eh!…». Non c’è scampo: un milione all’anno «di stipendio», più lavori in villa pagati. Ricatti, intrighi, spionaggio, tangenti: c’è di tutto in questa marea di schifezze che sta sommergendo Venezia. Confronto alla cricca maneggiona e un po’ millantatrice che ruotava intorno all’Expo, questi del Mose sono un’organizzazione di geometrica potenza il cui fine «era quello di una sistematica e continuativa condotta corruttiva di pubblici ufficiali, sia in qualità di funzionari che di politici… essendo la corruzione finalizzata all’ottenimento di finanziamenti e di lavori da parte delle società consorziate rientranti nel gruppo Mantovani». Un gruppo che, a partire dall’ingegner Baita, finito nel mirino anche nelle inchieste milanesi di Expo, per arrivare al «Grande Vecchio» del Consorzio Venezia Nuova, l’ingegner Giovanni Mazzacurati, (liquidato l’anno scorso dalla società pubblica con 7 milioni di euro) si era strutturato perfino con un servizio di «controspionaggio» per intercettare le inchieste che li riguardavano. Ed è questo, forse, il dato più inquietante che emerge dall’indagine e che si riassume nel nome del generale di corpo d’armata Emilio Spaziante, un passato nei Servizi Segreti, fino a due mesi fa numero due della Guardia di Finanza, che ieri gli ha messo le manette. Al generale, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova», vengono promessi da Mazzacurati 2 milioni e mezzo di euro, di cui 500 mila versati e spartiti con Marco Milanese, altro personaggio plurinquisito (è indagato nell’inchiesta Bpm), ex braccio destro del ministro delle Finanze Giulio Tremonti, e con Roberto Meneguzzo, Ad di Palladio Holding, gruppo finanziario vicentino molto noto. D’altronde la torta da spartire era quasi illimitata: 5 miliardi di euro per salvare Venezia dalle sue acque ma non dagli squali, e avere in concessione la quasi totalità degli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun confronto tra costi e progetti alternativi. Nelle carte è documentato un incontro tra il generale e Meneguzzo nella sede di Palladio a Milano l’8 settembre 2010 per ricevere una parte dei soldi. Scrivono i giudici: «Ecco che proprio nel momento in cui riceve i soldi, Spaziante chiama per 4 volte il comandante del Nucleo della Gdf di Venezia che stava svolgendo attività di verifica, per dimostrare… di essere in grado di acquisire notizie riservate sulle indagini». Del resto, i benefici effetti del rapporto tra il presidente del Consorzio Mazzacurati e Spaziante, mediato da Meneguzzo, si vedono in fretta: «Sei mesi di registrazioni… il mio telefonino, mi hanno detto è ancora sotto controllo fino alla fine dell’anno», spiega Mazzacurati all’ex diplomatico Antonio Armellini. «Mi hanno detto, che mi hanno registrato una telefonata con Matteoli (l’ex ministro di An finito sotto inchiesta, ndr) e col dottor Letta… pensi che la telefonata che mi hanno raccontato io me la ricordavo benissimo…». Secondo i magistrati la rete di spionaggio comprendeva di tutto: da magistrati contabili, a poliziotti, a funzionari dei Servizi. L’acqua marcia di Venezia.

3. MOSE, LA SEGRETARIA DI GALAN AI PM: “PER LUI UNO STIPENDIO DALLE AZIENDE”, scrive Mario Portanova per "Il Fatto Quotidiano". “La cosa era molto variabile, si può considerare un milione l’anno”. Così, agli atti dell’inchiesta della Procura di Venezia sul Mose, che ha portato all’arresto di 25 persone, tra le quali il sindaco Giorgio Orsoni, è descritta la retribuzione di Giancarlo Galan, già presidente della Regione Veneto e attuale deputato di Forza Italia, da parte delle aziende che si sono aggiudicati i lavori del sistema di dighe mobili destinato a proteggere la città lagunare dall’acqua alta. Un affare da oltre 5 miliardi di euro. A raccontarlo ai pm, nell’interrogatorio del 31 luglio 2013, è Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, che raccoglie appunto quelle imprese. Una conferma arriva ai magistrati da Claudia Minutillo, segretaria di Galan all’epoca dei fatti, poi passata alla Mantovani costruzioni, grande protagonista dei lavori del Mose: ”Era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. Dall’ordine di custodia – che per quanto riguarda l’onorevole Galan dovrà essere esaminato dalla Camera – emergono tanti altri pagamenti. Un milione e 100mila euro per ristrutturare la villa sui Colli Euganei; 200mila euro consegnati nel 2005 all’Hotel Santa Chiara di Venezia da Piergiorgio Baita, allora presidente della Mantovani Costruzioni, diventato la gola profonda dell’inchiesta con ampie confessioni, per finanziare la sua campagna elettorale.  E ancora: 50mila euro, nello stesso anno, versati in un conto corrente presso S.M. International Bank Spa di San Marino. Più altri finanziamenti per altre campagne elettorali consegnati sempre da Baita alla Minutillo. Ed è ancora la segretaria a raccontare ai pm che un’ulteriore ricompensa consisteva nell’”intestare quote di società che avrebbero poi guadagnato ingenti somme dal project financing a prestanome dei politici di riferimento”, Galan in primis. Qual era, secondo l’indagine, la contropartita di retribuzioni così sostanziose? Dalla Regione, per procedere con i lavori, il Consorzio Venezia Nuova doveva ottenere essenzialmente la Valutazione d’impatto ambientale e la salvaguardia per la realizzazione delle dighe in sasso.  Da qui, secondo l’accusa, la necessità di ungere abbondantemente le ruote. In interrogatorio, a proposito dei soldi versati a Galan e all’assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso (Forza Italia), Baita parla di “fabbisogno sistemico” e afferma: “Credo che noi abbiamo pagato tra Adria e Mantovani 12 milioni di euro. Penso che ne siano stati retrocessi sei”. Galan ha un ruolo fondamentale: è lui ad accompagnare Mazzacurati, presidente del Consorzio, al cospetto di Gianni Letta, quando quest’ultimo è sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo di Silvio Berlusconi. Nel 2006, ricostruisce il gip Alberto Scaramuzza, “la giunta regionale  - presidente Giancarlo Galan, relatore Renato Chisso – individuava nel segretario alle Infrastrutture Silvano Vernizzi il ruolo del presidente della Commissione di valutazione di’impatto ambientale. In violazione della legge regionale 10/1999″, che assegna il compito “al segretario regionale competente in materia ambientale”.  Passo successivo, “l’estromissione” di un ente di controllo terzo, l’Ispra, emanazione del ministero dell’Ambiente, sostituito dalla Regione medesima per iniziativa, ancora, di Chisso. Dice Baita nell’interrogatorio del 28 maggio 2013: per “l’approvazione da parte della Commissione Via della regione Veneto delle dighe in sasso, Mazzacurati mi disse che gli era stato richiesto dall’assessore Chisso a nome di Galan il riconoscimento di 900mila euro. Altro episodio specifico è stata l’approvazione in Commissione di salvaguardia del progetto definitivo del sistema Mose per il quale, sempre attraverso l’assessore Chisso, ma a nome del presidente Galan, fu richiesta la somma di ulteriori 900mila euro”. Era Chisso a farsi portavoce delle richieste, “perché Galan lo pressava”. E ancora Baita, il 27 settembre 2013, a precisare ai pm che le somme non erano per il partito, ma “per il singolo lucro del singolo destinatario”. Da qui l’accusa di corruzione, e non di finanziamento illecito. Il comportamento del presidente della Regione, scrive il gip, ha “particolannente danneggiato l’interesse pubblico alla tutela ambientale“. Secondo Baita, i versamenti a Galan sono continuati anche quando il politico padovano non era già più presidente del Veneto. Lo conferma in interrogatorio, il 19 marzo 2013, l’ex segretaria dello stesso Galan, Claudia Minutillo, secondo la quale i pagamenti non erano finalizzati a ricompensare i singoli passaggi amministrativi del Mose. “Le procedure andavano avanti (…), ma era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. “Come fosse uno stipendio“, chiede il pm? “Sì, di fatto”. Tanto che “Baita a volte si lamentava di quanto veniva a costare Galan”. Soldi comunque ben spesi, a quanto spiega ancora Minutillo: “A fronte dei pagamenti, il governatore e l’assessore Chisso agevolavano il Gruppo Mantovani nella presentazione e nell’iter burocratico relativo al project financing che le società del gruppo Serenissima Holding presentavano in Regione. Quasi sempre era la Mantovani a presentare il progetto, ma i tempi di presentazione, i lavori in relazione ai quali presentarli erano concordati con il Galan e il Chisso da parte del Baita”. Tale era poi il controllo di Galan su “commissioni e assessorati”, che qualunque progetto passava senza “alcun tipo di intoppo o di obiezione”. E’ Mazzacurati a ricordare, per esempio, quella volta che Galan tornò precipitosamente in sede per far approvare un’opera in laguna, funzionale al cantiere Mose, “contrastata dai Verdi”. Fra le contestazioni a Galan c’è quella di aver ottenuto il pagamento della ristrutturazione della propria villa di Cinto Euganeo, nel padovano. Nel 2007/2008 venne ristrutturato il corpo principale del casale e nel 2011 la “barchessa”. Per portarli a termine, la Tecnostudio Srl “sovrafatturava alla Mantovani alcune prestazioni effettuate presso la sede e per il Mercato Ortofrutticolo di Mestre”. La ristrutturazione della villa quindi a Galan non costò nulla: con le fatture false a pagare era la Mantovani Costruzioni. Il politico di Forza Italia, più volte ministro e attuale parlamentare, si dichiara estraneo a tutta la vicenda. “Dalle prime informazioni che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d’informazione, mi dichiaro totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare”.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.

FINANZA E GIUSTIZIA.

«L’archiviazione, falla al più presto per il mio amico Berneschi». Anche l’avvocato Andrea Baldini nelle intercettazioni della maxitruffa: il banchiere lo pressava perché facesse chiudere il caso, scrive Cristina Lorenzi su “La Nazione”. Un pasticciaccio brutto che ha coinvolto banchieri, magistrati, avvocati, professionisti. L’arresto di Giovanni Berneschi, ex presidente di Carige e vice della Cassa di risparmio di Carrara, e di altre sei persone per una presunta truffa ai danni della banca ha avuto come effetto domino una ricaduta su procuratori e avvocati della nostra zona coinvolti dalle intercettazioni telefoniche a ambientali. Nello specifico Berneschi avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio, attraverso la gentile intercessione dell’avvocato di Pontremoli Andrea Baldini e della moglie di quest’ultimo Pasqualina Fortunato, detta Lilly, giudice del lavoro alla Spezia. Casus belli il nostro articolo sulla cronaca di Carrara della Nazione attraverso cui lo stesso Berneschi sarebbe venuto a sapere di essere indagato in seguito a una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Poli denunciò alla Procura, e sul nostro giornale, di essere stato rovinato, fino al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia, circa 2 miliardi di lire, dallo stesso Berneschi, da Araldo Michelini, funzionario di Carige, e dal figlio di quest’ultimo il commercialista Enrico, adesso irraggiungibile. Dalle intercettazioni emerge che Baldini sarebbe stato incaricato da Berneschi di informasi a che punto era in Procura la denuncia di Poli. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: «Sono andato a parlare con Caporuscio...il quale procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer sì... sì la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l’ha data solo perchè son io eh!...». Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. «Grazie all’intervento di Lilly (sua moglie, ndr) è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi». Non si sa se le dichiarazioni di Baldini abbiano riscontri di verità o se, come riferisce di lato lo stesso avvocato, abbia «raccontato un sacco di balle per rassicurare una persona depressa, agitata e instabile», di fatto sulla denuncia per truffa di Poli dalla Procura della Spezia era già partita la tanto attesa richiesta di archiviazione. Richiesta che non avrebbe nemmeno avuto bisogno di tante spinte dal momento che Poli riferisce di fatti avvenuti 20 anni fa e quindi facilmente soggetti a prescrizione. Tuttavia la denuncia sembra bruciasse particolarmente a Berneschi visto che lo stesso Baldini si prende la briga di rassicurarlo: «E’ il più bel giudice che c’è a Spezia... intelligente e buona. Vado da lei a parlarle e le dico Oriana... il mio amico Berneschi... C’è l’archiviazione, falla al più presto possibile. Lei lo archivia e a questo punto siamo liberi di fare tutto quello che vuoi». E Berneschi risposte: «Il giornalista che scriva quattro righe. Sulla diffamazione gli voglio far paura eh». Con Berneschi, 77 anni, sono finiti nei guai anche l’ex numero uno di Carige Vita, Ferdinando Menconi, 67 anni, l’imprenditore immobiliare Ernesto Cavallini, 66, sono tutti e tre ai domiciliari. L’avvocato svizzero Davide Enderlin, 42 anni, l’imprenditore Sandro Calloni (61), il commercialista Andrea Vallebuona (51) e la nuora di Berneschi Francesca Amisano (48) sono invece in carcere. Le ipotesi di reato vanno dalla truffa al riciclaggio.

Carige - Indagine su 4 magistrati talpe di Berneschi: nomi e dettagli, scrive “Oggi Notizie”. Se nei giorni scorsi si diceva che era partita la caccia alla cosiddetta talpa in Procura che avrebbe aiutato Giovanni Berneschi, quando era presidente del Cda di Carige Spa a portare a termine la truffa e il riciclaggio ai danni della stessa banca, ora, mentre le indagini procedono serrate, ecco che si scopre come le talpe, in realtà, sarebbero state almeno quattro, e le procure coinvolte tre. La Procura di Torino ha infatti ricevuto da quella di Genova gli atti relativi a sospetti contatti tra magistrati vicini a Berneschi. Le procure interessate sono quella di La Spezia, Savona e Milano. Nello specifico Berneschi, secondo quanto emerge dalle indagini della Guardia di finanza di Genova nel merito della presunta truffa a Carige e Carige Vita Nuova, attraverso l'avvocato di Pontermoli Andrea Baldini e la moglie di quest'ultimo, Pasqualina Fortunato, detta Lilly, magistrato del lavoro a Spezia, avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio. A Savona il procuratore Francantonio Granero, procuratore capo, il cui figlio Gianluigi Granero è consigliere del Cda di Carisa, avrebbe offerto suggerimenti processuali a Berneschi nell'ambito del crack Geo Costruzioni in cui risulta indagato. A Genova l'ex vice presidente di Carige Vita Nuova Ferdinando Menconi avrebbe assunto informazioni da un "vice procuratore" sull'indagine sulla Carige. Tutto ciò si evince dalle intercettazioni telefoniche e ambientali sviluppate dalla Finanza (coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente e dal sostituto Silvio Franz). A La Spezia Berneschi aveva appreso il primo marzo del 2013 da un articolo della Nazione di essere indagato in seguito ad una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Un funzionario di Carige lo avrebbe portato alla rovina, giungendo al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia. E lui, ad un passo dal tracollo, aveva denunciato tutti, anche Berneschi. Baldini era stato incaricato di informarsi sul caso. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: "Sono andato a parlare con Caporuscio... procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer si... si la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l'ha data solo perchè son io eh!... Cossu... mi son consultato con lui dico... inc.le... io mi appoggio a Gianardi... va benissimo?". Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. "Grazie all'intervento di Lilly (sua moglie) - dice - è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi". A Savona, Berneschi è coindagato nell'ambito del crack della Geo Costruzioni. Convocato per un interrogatorio e si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dell'episodio l'11 novembre 2013 Berneschi riferisce a Baldini, i finanzieri annotano: "Sono andato a Savona e il giudice mi dice: ma... non risponda per favore (si sente Berneschi ridere) si avvalga della facoltà di non... solo per far casini... e gli ho detto giudice lo dice lei, però se permette le dico anche fuori verbale dico due tre cose...  quindi, non ho risposto però però gli ho già detto tutto...". Il giudice è il procuratore Francantonio Granero titolare dell'inchiesta sul crack Geo Costruzioni con Ubaldo Pelosi. Poi Genova. Ferdinando Menconi il 13 febbraio del 2014 dice al telefono: "Il vice procuratore di Genova... mio carissimo amico mi ha detto te non sei... stattene fuori" invitandolo a discostarsi dagli affari in e con Carige. Qualche giorno prima, in un'altra conversazione, Menconi dice: "Ma comunque io credo che a Genova sorprese... c'è il procuratore capo... già procuratore capo momentaneamente... di Di Lecce... che tra l'altro lui mi ha detto che è di sinistra, di magistratura democratica... aver fatto una domanda, allora fra un anno e mezzo va in pensione... chiedo a lui... quello che lo è già stato due anni adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè e tutto... non credo... non credo... poi tutto può.. in quest'Italia, figurati...". Il procuratore di Genova Michele Di Lecce ha affermato di avere inviato questi atti a Torino, procura competente su presunti reati commessi da magistrati liguri.

Carige e lo scandalo talpe, indagine su 4 giudici, scrive Il Secolo XIX”. L’inchiesta sulla maxi-truffa a Carige si trasforma in uno tsunami per pezzi da Novanta della magistratura ligure. La Procura di Genova invia infatti a Torino tutte le intercettazioni nelle quali banchieri, immobiliaristi e prestanome arrestati giovedì scorso, chiamano in causa almeno quattro fra giudici e pm quali presunte “sponde” nella loro ricerca di protezioni e informazioni segrete. È un passaggio cruciale, che si consuma mentre vengono depositate nuove carte nel fascicolo che ha portato ai domiciliari in particolare l’ex presidente di Carige Giovanni Berneschi, l’ex numero uno del comparto assicurativo Carige Vita Ferdinando Menconi e l’immobiliarista Ernesto Cavallini. I primi due, secondo l’accusa, erano soci occulti dell’imprenditore, e facevano comprare a Carige Vita immobili e società di Cavallini a prezzi spropositati; poi si dividevano la “cresta”, che nascondevano all’estero tramite vari prestanome. Dai nuovi documenti si capisce meglio quali erano, potenzialmente, «le inquietanti entrature» di Berneschi e Menconi «in ambienti giudiziari in tutta la Liguria». Partendo da Genova, il primo magistrato su cui si concentrano gli accertamenti è l’attuale procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico. È Menconi a circoscriverne la figura parlando con Walter Malavasi, che di Carige Assicurazioni è stato condirettore generale. Non lo nomina direttamente, ma definisce «carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato» il magistrato che ha retto la Procura genovese prima dell’insediamento di Michele di Lecce, e che attualmente gli fa da vice. Solo Scolastico corrisponde a quel ritratto e al Secolo XIX risponde: «Non si fa mai il mio nome; inoltre, io ho la scorta e si potranno facilmente verificare i miei movimenti. Conoscere Menconi? In Liguria si può sapere chi sono i massimi dirigenti di una banca, ma escluso un rapporto di frequentazione come quello descritto in quelle conversazioni». «Situazione delicatissima», per sua stessa ammissione, è quella dell’attuale procuratore capo della Spezia Maurizio Caporuscio. Un colloquio telefonico fra l’avvocato spezzino Andrea Baldini (ex componente cda Carige) e Berneschi rivelerebbe come proprio Caporuscio fece in modo che fosse fornita all’ex numero uno dell’istituto genovese la copia d’una denuncia «riservata», che l’imprenditore Gianfranco Poli sporse contro lo stesso Berneschi per truffa. Non solo. Sempre Baldini spiega a Berneschi che grazie all’intercessione «della Lilly» (per i finanzieri si tratta di sua moglie Pasqualina Fortunato, magistrato del lavoro di nuovo alla Spezia) la Procura chiederà l’archiviazione del fascicolo. «Al momento non voglio aggiungere altro - conclude Caporuscio - risponderò a chi mi verrà a chiedere conto». Baldini rifiuta invece commenti su di lui e la moglie: «Siete molto cari - dice al telefono - arrivederci e tante grazie». In un altro stralcio si fa riferimento a un terzo magistrato spezzino, una donna dal nome forse travisato nelle registrazioni, che avrebbe favorito l’archiviazione. L’ultimo capitolo preso in esame sul fronte toghe chiama in causa capo dei pm savonesi Francantonio Granero. Berneschi, discutendo con il manager Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio cui doveva essere sottoposto a Savona, dov’è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che Granero gli avrebbe suggerito di non rispondere. E ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi Granero, membro del cda della Cassa di risparmio di Savona (controllata da Carige). «Tutto falso - replica Francantonio Granero - e sporgerò querela semplicemente perché non l’ho mai incontrato».

Talpa in Procura anche Torino indaga su Carige. Si cerca chi anticipava le mosse degli inquirenti. Nelle carte sequestrate il piano “Mungi la mucca”. Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. La caccia alla talpa può partire. Gli atti sull’informatore all’interno della procura di Genova sul quale potevano contare l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, e l’ex boss della controllata Carige Vita Nuova, Ferdinando Menconi, arrestati con altre 5 persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, sono in partenza per la procura di Torino, competente sui magistrati del capoluogo ligure. Lo conferma il procuratore capo, Michele Di Lecce, che ha affidato il coordinamento delle indagini dalla Guardia di Finanza all’aggiunto Nicola Piacente e al pm Silvio Franz. «Devo uscirne perché sento odore di procure - dice, intercettato, Menconi -. Ho delle previsioni... il viceprocuratore di Genova, mio carissimo amico, mi ha detto... stattene fuori». Menconi però si sente le spalle coperte e qualche tempo dopo parlerà dei magistrati che hanno in mano l’inchiesta Carige: «Quello lì - dice riferendosi al pm Silvio Franz - sogna di risolvere un problema che non ha risolto in sette anni, in realtà non risolve un cazzo». Previsione errata: passa qualche mese, Menconi viene arrestato. Nelle 122 pagine dell’ordinanza del gip Adriana Petri ci sono anche altri riferimenti. Primo novembre 2013, Berneschi dice all’avvocato toscano Andrea B.: «Devi farmi un piacere, devi vedere se a Genova c’è qualche contenitore a nome mio, mi segui? Mi hai capito?». Risponde il legale: «No, per ora mi risulta che è tutto contro ignoti».  Ed ecco la telefonata fra Menconi e Sandro Maria Calloni, prestanome di Berneschi: «Lo trasmettono due miei amici che son venuti qua due volte... il capo della sala operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi... gli dai un nome e un numero, data di nascita, nome e cognome ti leggono la vita e tutto... Prima avevo anche la Legione Carabinieri, l’Investigativa qui di via... dove c’è la Questura... Il numero uno... a prendere il cappuccino più volte... poi lo abbiamo aiutato... andato ai Servizi... Ma quello là, l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico chi è questo testa di cazzo, sai quello che minacciava... l’han buttato fuori». La gestione disinvolta e truffaldina ha finito per creare una voragine nei conti, mentre il titolo in Borsa è crollato nel giro di due anni, bruciando i risparmi di migliaia di piccoli azionisti. Duecento di questi hanno promosso una class action e si sono affidati all’avvocato Mirella Viale dello studio legale bolognese Galgano. Ieri la sesta sezione del tribunale civile di Genova avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’iniziativa: si è invece dichiarata incompetente, rimandando la questione alla prima sezione. Se ne riparla fra una decina di giorni.  Sempre ieri la nuora di Berneschi, Francesca Amisano, è stata interrogata per due ore in carcere dal Gip. «Ha risposto a tutte le domande - dice il suo avvocato, Enrico Scopesi - Ha detto di non sapere nulla della provenienza del denaro. E di essersi limitata a eseguire regolari operazioni di compravendita». Il lavoro degli inquirenti, intanto, si allarga. Durante le ultime perquisizioni nelle case degli indagati sono stati trovati appunti, accordi e anche il business plan dell’operazione “Mungi la Mucca”, quella che secondo gli inquirenti ha portato Banca Carige, guidata dall’ex padre-padrone Berneschi, a ripianare i debiti del ramo assicurativo, nominare ad Menconi e farlo diventare filtro di acquisizioni supervalutate. L’operazione serviva per costituire le plusvalenze che, tramite la società dell’immobiliarista Ernesto Cavallini, finivano in Svizzera.  “Mungi la Mucca”, appunto. Ossia Carige Vita Nuova che comprava alberghi, quote societarie, società intere, proprietà immobiliari che venivano stimate da un commercialista che era anche consulente di Carige (Andrea Vallebuona, arrestato) che provvedeva a gonfiarne il prezzo. Nell’inchiesta ci sono altri quattro indagati per riciclaggio in concorso: le mogli di Menconi (Adriana Westerweel) e Calloni (Maria Imelda Bellini Dominguez), il commercialista Alfredo Averna, collega di Vallebuona (arrestato) e l’avvocato Ippolito Giorgi di Vistarino. Nell’inchiesta “madre” su Carige, nata dalla relazione di Bankitalia, ci sono invece una decina di indagati: ostacolo alla vigilanza e falso in bilancio.  

Carige, nel 2002 inchieste archiviate. Il gruppo era sponsor della squadra del GIP.

Dall'ordinanza che ha portato all'arresto dell'ex presidente Berneschi emergono rapporti strettissimi con giudici e forze dell'ordine. Entrature grazie alle quali poteva verificare l'esistenza di procedimenti a suo carico e addirittura condizionarne l'andamento. E sui dipendenti a rischio diceva: "Quelli si mandano via", scrive Ferruccio Sansa da Il Fatto Quotidiano di sabato 24 maggio 2014. “Sento odore di Procure… io c’ho delle previsioni… il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, così dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova e braccio destro di Giovanni Berneschi indicato dai suoi amici come il “Magro”. A Genova vacilla anche il Palazzo di Giustizia. Si apre il capitolo sui rapporti della magistratura con un potere per anni risparmiato dalle inchieste. E la Liguria si scopre malata fino al midollo. Sono finiti in manette gli uomini che hanno dominato la regione, quelli cui tutti – a destra e a sinistra – baciavano la pantofola. Prima Claudio Scajola, re del Ponente. Poi Luigi Grillo, che dominava a Levante. Quindi Giovanni Berneschi, che con la sua Carige (dove sedevano mezza famiglia Scajola, amici del centrosinistra e uomini della Curia) teneva i cordoni della borsa e distribuiva centinaia di milioni di finanziamenti (come all’operazione immobiliare degli Erzelli, voluta dal centrosinistra e sponsorizzata da Giorgio Napolitano). Intanto l’amico Ior comprava – e rivendeva – cento milioni di bond Carige. Liguria, primatista di scandali. Qui sono in ginocchio la Lega di Francesco Belsito e l’Idv di Giovanni Paladini e Marylin Fusco. Quasi mezzo consiglio regionale è nei guai per i rimborsi. Le “entrature” negli ambienti giudiziari – Ora tocca alla magistratura. Come mostra l’ordinanza che ha portato all’arresto di Berneschi, Menconi e altre cinque persone (ci sono dieci nuovi indagati). Così il gip Adriana Petri motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (originario di Pontremoli, marito di magistrato e considerato vicino alla famiglia del suo concittadino, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. Il 28 ottobre 2013 Berneschi chiama Baldini: “Devi vedere se a Genova ci sono contenitori (fascicoli, ndr) a nome mio”. E Baldini: “Qui non c’è ancora aperto niente!… No, per ora non c’è… Da quello che mi risulta dalla persona che si è mossa, è tutto contro ignoti”. Interpol, carabinieri, servizi: solo millanterie? – Ce n’è anche per carabinieri, Interpol e servizi. “Menconi – annota il gip – cita le sue numerose conoscenze presso esponenti di vertice delle varie forze pubbliche”. Ecco l’intercettazione: “…se poi ricade nel penale… gli viene trascritto all’Interpol e lo ricevono anche là! Lo trasmettono due miei amici… son venuti qua due volte… il Capo della Sala Operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi… prima c’avevo anche la Legione Carabinieri… c’è l’Investigativa dei carabinieri, il numero uno… a prendere il cappuccino più volte… poi lo abbiamo aiutato… andato ai Servizi… ma quello là che fa l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico…”. Millanterie? I magistrati sono convinti di no. Scrive il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti penali che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. Quali sono le “ragioni diverse”? In Tribunale c’è chi ricorda che proprio la società assicuratrice della Carige, guidata da Menconi e Berneschi, era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 – dopo un lavoro immane del Gico – archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna oggi è in pensione, indagato a Torino per presunte false sponsorizzazioni della sua squadra. Tra i cronisti c’è chi ricorda le reprimende di passati vertici della Procura in occasione di inchieste giornalistiche su imprenditori legati al centrosinistra e soci di Carige, che erano sponsor della squadra di Fucigna oltre ad avere legami di amicizia con gli allora vertici della Procura e della Corte d’Appello. I vertici del Palazzo di Giustizia ora sono cambiati. I 140 dipendenti? “Quelli si mandano via” – Ma le carte genovesi contengono altro. A cominciare dalle operazioni che avrebbero provocato a Carige un danno di 34 milioni. Con il padre padrone della banca che, secondo le accuse, spenna la sua creatura come un pollo: “Vengano a far tutte le indagini che vogliono… non mi possono accusare di riciclaggio, perché è una vita, da 35 anni che accumulo”. Così ecco, a sentire la Finanza e i pm Nicola Piacente e Silvio Franz, il tentativo di Berneschi di ripescare il consuocero morto per usarlo come prestanome quando scopre di essere indagato per altri 13 milioni scudati: “Va bene, io approfitterò del tuo cognome”. La donna (arrestata) si allarma: “Nonno, per favore, qualsiasi cosa ne parliamo un attimino”. Intanto, sostiene l’accusa, la “banda del magro” avrebbe investito dalle Canarie alla Cina, soprattutto nei porti. Fino al progetto di trasferirsi a Panama. Pagine che faranno rabbrividire i dipendenti Carige. Mentre la “banda del magro”, incassati 34 milioni, si scanna per consulenze da 200mila euro, la Carige Vita Nuova rischiava di licenziare: “L’ideale… è che società così… vadano in commissariamento, il commissario manda via i dipendenti… mi preoccupa il fatto c’ha 140 persone…”, dice Menconi. Berneschi, annota il gip, non sembra preoccuparsi: “Quabielli si mandano via”. Il commercialista Vallebuona: “Io i milioni in tasca li ho infilati” -  Ecco in 127 pagine il ritratto dell’Italia delle banche, della Liguria del potere. Con frasi inconsapevolmente geniali, come quando Berneschi definisce Menconi “testa di pera”. Come quando parla dei milioni come di “ragazze” e poi di “vecchie un po’ rincoglionite”. Come la “banda del magro”. O quella breve autobiografia stile Blade Runner del commercialista Andrea Vallebuona: “Io qualche cazzatina nella mia vita l’ho fatta… passare un confine con duecentomila… milioni in tasca infilati, io l’ho fatto, morendo di paura… ho capito che poi certe cose era meglio non farle, però le ho imparate sulla mia pelle”. O forse su quella dei dipendenti Carige.

Carige e i regali allo Ior, "Anche il Papa chiamò per avere spiegazioni". Dalle intercettazioni spuntano gli affari con la banca vaticana Il manager: "Assunte 28 persone tra parenti o amanti di giudici", scrivono Anche papa Francesco ha "indagato" su Carige e lo Ior. Le intercettazioni dell'inchiesta che ha portato agli arresti l'ex presidente della banca genovese, confermano l'esistenza di quell'asse bancario Genova-Vaticano che nasconde ancora segreti. Rivelano un inquietante intreccio di rapporti tra l'istituto diretto dal vicepresidente nazionale dell'Abi Giovanni Berneschi e la magistratura ligure: "C'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri o amanti di magistrati liguri " dice Ferdinando Menconi ex ad del comparto assicurativo anche lui ai domiciliari. In un'intercettazione dell'11 novembre del 2013, racconta il verbale dei finanzieri della tributaria che "Berneschi parla di papa Francesco che avrebbe chiamato i tre vescovi del ponente ligure a Roma per chiarire la faccenda legata allo Ior. Due giorni fa Berneschi dice di aver ricevuto monsignor Luigi Molinari il quale per conto di Bagnasco (Angelo, cardinale di Genova e presidente Cei, ndr) voleva sapere cosa era successo tra la Fondazione e lo Ior". Si tratta dell'operazione del 2010 voluta dal presidente di Fondazione Carige Flavio Repetto (nemico giurato di Berneschi). In pratica 100 milioni di euro di obbligazioni acquistate dallo Ior che però non si trasformarono in azioni come preventivato e vennero poco dopo rilevate dalla Fondazione la quale, peraltro, non incassò i diritti visto che "aveva deliberato di metterli a disposizione dello Ior". Berneschi si confida con l'attuale vicepresidente della Fondazione Roberto Rommelli: "Lo Ior, non puoi regalare da 7 a 9 milioni al... Papa, no, non c'entra il Papa.. a Bertone, mi segui?". Sull'operazione il ministero delle Finanze ha chiesto chiarimenti, anche alla luce delle elargizioni, 2008 e 2010, della Fondazione ad ambienti vicini al cardinale Tarcisio Bertone: 300mila euro alla Lux Vide per i dvd della fiction La Bibbia e 90mila euro per le stole dei vescovi. Dal sacro al profano, ossia le relazioni "proibite" tra il potente banchiere e i magistrati. L'episodio più inquietante è quello che riguarda La Spezia. Berneschi utilizza l'avvocato Andrea Baldini, ex consigliere Carige, affinché si interessi della querela presentata contro di lui da un imprenditore della Val di Magra, Gian Paolo Poli. Il legale lo aggiorna: "Sono andato a parlare con Caporuscio (Maurizio, procuratore capo, ndr) e gli ho detto... ehm ... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi vediamo subito! ... ha aperto il computer sì ... sì la pratica è qua, è nelle mani di (segue nome di un pm, ndr) quindi è riservatissima... me l'ha data solo perché son io eh!". Baldini informerà successivamente Berneschi che è stata chiesta l'archiviazione e lui andrà dalla gip che "tra l'altro è una f...". La moglie, il giudice Pasqualina Fortunato, interviene nel colloquio spiegando che non è riuscita a convincere una segretaria ad ottenere informazioni e allora ha detto al marito: "Andrè, va a parlà tu cò Maurizio direttamente". Altro fronte imbarazzante quello genovese dove Menconi al telefono con un amico spera che l'attuale procuratore capo Michele Di Lecce vada presto in pensione e spiega che gli è stato detto da "quello che (procuratore) lo è già stato due anni e adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè". Il riferimento sembra essere a Vincenzo Scolastico, unico ad aver ricoperto la funzione, che però nega categoricamente tale frequentazione. Sembra invece pura millanteria il riferimento ad un colloquio che Berneschi dice di aver avuto con il procuratore di Savona Francantonio Granero (il figlio Gianluigi è consigliere della controllata Carisa) quando il banchiere venne indagato per la prima volta. Granero nega di aver mai incontrato Berneschi. Parlando della polemica tra la Coop e Esselunga che a Genova incontrò grandi difficoltà ad aprire un punto vendita, Menconi dice "l'artefice del rinvio è stato Berneschi... la sinistra, c'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri, amanti di magistrati liguri". Berneschi racconta invece di quando fu processato e assolto per la scalata alla Bnl: "Sulla pratica Bnl... non ho sbindato di una virgola, però ... se avessi avuto paura e dicevo "eh si quelli dell'Unipol mi hanno fatto delle pressioni" il signor Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr) era morto".

Anche l’Ing De Benedetti è intoccabile, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Anche mia nonna invecchiando si fece un po’ più dura. Ma mai quanto Carlo De Benedetti. La sua è una parabola micidiale. Sembra quel cartone animato, Cattivissimo me. Nella fiction il cattivone è un buono, ha solo l’aria dello spregiudicato delinquente. Deb, l’Ing, Cdb, insomma il Nostro, invece sta diventando proprio cattivello. Proviamo a citare i suoi ultimi bersagli. «A Marchionne darei un voto 4 in sincerità, a Romiti zero, a Elkann il voto dei nipoti. Colaninno? Un poveraccio. Agnelli? Un pessimo imprenditore. Il Vaticano una fogna. Tronchetti? Un incapace». E poi ancora sulla gestione Telecom da parte di Mtp: «La comunicazione è fatta bene, la rapina ancora meglio». Ma guai a replicare. Ci ha provato, incautamente, Tronchetti e si è beccato una querela e un’inchiesta da parte della Procura di Milano per diffamazione a mezzo stampa, con annessa aggravante della continuità del reato. Insomma Mtp rischia il carcere perchè Carletto non tollera la seguente frase: «Se anche io raccontassi – si legge nell’avviso di conclusioni indagini, in riferimento ad una dichiarazione rilasciata all’Ansa da Tronchetti – la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli…». Abbiamo cercato di ricostruire punto per punto i casi citati da Tronchetti per capire dove ci fosse la diffamazione o il sanguinario insulto da dover lavare con una pena massima, comprese le aggravanti, di sette anni.

LO SCANDALO LEGATO ALLE POSTE. Se c’è una cosa sicura come il sole sono le tangenti pagate dalla Olivetti, guidata da De Benedetti, per fornire apparecchiature alle Poste. Non è un luogo comune, è una certezza. E a confessarlo, assumendosene la responsabilità, è lo stesso De Benedetti. In questo senso Tronchetti è fin troppo generoso. Una domenica mattina, in piena bufera Tangentopoli, Deb si presenta in una caserma dei carabinieri (è il 16 maggio del 1993) e ammette davanti a Di Pietro di aver pagato stecche per una ventina di miliardi di lire, di cui solo 10 per forniture alle Poste. Presenta un memoriale in cui racconta la rava e la fava. Repubblica, di sua proprietà, in un famoso titolo detta la linea della casa: «Era un clima da racket, o pagavi o non lavoravi». De Benedetti pagò. Eccome. Solo dopo un paio di giorni rilascia un’intervista al Wall Street Journal, sperando, forse, che De Pietro non avesse il tempo di leggerla, o non capisse l’inglese. La reporter, Lisa Bannon, nota: «De Benedetti non chiede scusa per le tangenti pagate e dice che lo rifarebbe, perchè queste erano le regole del gioco negli anni 80». Cdb, tra le virgolette, dichiara: «Lo rifarei con lo stesso disgusto con cui l’ho fatto negli anni passati». Insomma è il contesto che gli fa fare quelle cose brutte. Ohibò. Chissà se oggi, per fare un esempio, l’Expo può ispirare medesime giustificazioni. Il filo tra concussione e corruzione è sempre sottile. Come quello che c’è tra dichiarazione spontanee e paracule. Cdb all’epoca disse di essersi liberato da un macigno nel fornire il suo dossier a Di Pietro. Eppure nel medesimo documento scrive, riguardo alle tangenti alle Poste: «Ho visto che è circolato il nome Olivetti». Inoltre avevano già pizzicato tal Lo Moro, il grande collettore delle mazzette Olivetti. Insomma il cerchio si stava chiudendo. La dichiarazione è spontanea, ma giusto un attimo prima…Quanto è valso all’Olivetti di De Benedetti sottoporsi a questo racket? In cinque anni circa 600 miliardi di lire. Nel 1987 Ivrea fatturava 2 miliardi con le Poste, l’anno dopo 205 miliardi. Già nel 1983 Olivetti aveva predisposto una bella voce di bilancio per l’abbisogna. La dicitura era: spese non documentate. Insomma si erano preparati contabilmente a subire quei mascalzoni dei politici. Indro Montanelli su questo giornale scrisse: «Forse i piccoli e indifesi devono subire, ma per i grandi che avrebbero avuto tutti i mezzi – compresi i più autorevoli organi di stampa – per resistervi, la corsa al Principe era non solo voluttuaria, ma anche voluttuosa». Tronchetti non si preoccupi, la memoria sulle tangenti viene e va all’Ing. Due settimane prima della consegna del memoriale a Di Pietro, lo stesso Ingegnere davanti all’assemblea degli azionisti e in conferenza stampa giurava: «Non ho mai pagato tangenti». Dopo due settimane mise nero su bianco il contrario. In seguito Cdb provò a difendersi: queste cose «si dicono prima ai magistrati e poi alla stampa». Ahi ahi ahi, non ci siamo anche con questa. Circa dieci anni prima, il 16 giugno del 1985, lo stesso Ingegnere, meno rispettoso evidentemente delle prerogative della magistratura, urlò al mondo intero: «Per l’affare Sme mi hanno chiesto tangenti». Dopo qualche settimana fu ovviamente convocato dal magistrato Pasquale Lapadura all’oscuro di tutto, che dopo poco archiviò. Come la mettiamo con la storiella delle tangenti che prima si raccontano ai magistrati e poi alla stampa? Qualcuno può forse contestare che «la vicenda di apparecchiature alle Poste» non sia stata scandalosa? E soprattutto qualcuno ha il coraggio di slegarla da Carlo De Benedetti, dopo che proprio lui ammise tutto con un memoriale e un’intervista cazzuta al Wall Strett Journal?

L’INGEGNERE FINÌ DENTRO PER TANGENTOPOLI. Anche questa affermazione è vera. Della tangentopoli postale abbiamo abbondantemente parlato. Sergio Luciano, in un’intervista per la Stampa, il 18 maggio del 1993 chiese al Nostro: «Oltre che fornire prodotti alle Poste, l’Olivetti ha avuto molti altri rapporti con la pubblica amministrazione. Ha dovuto pagare anche per questo? Risposta di Cdb: «Non posso rispondere, c’è il segreto istruttorio». Bene così. Poche settimane prima uno dei manager di punta delle sue aziende (la Sasib) aveva ammesso di aver pagato due miliardi estero su estero a Dc e Psi, relativamente ad alcuni appalti per la metro milanese. Si parlò di stecche per i pc dei magistrati e del sistema informatico dell’Inps. Ma il punto fondamentale è: l’Ingegnere finì o non finì in galera? Per una giornata, per una benedetta giornata, la risposta è sì. A Roma, a Regina Coeli. Dal memoriale, cosiddetto spontaneo, sono passati solo sei mesi. Il 31 ottobre del 1993 due magistrati romani, Maria Cordova e il gip Augusta Iannini, spiccano un mandato di cattura. A Milano l’Ing è indagato; a Roma temono che possa inquinare le prove o reiterare il reato. La Repubblica ci dice che entra in carcere con doppiopetto grigio e camicia celeste e che, dopo le formalità del caso e l’ufficio matricola, gli verrà consentito di mantenere la fede al dito. Il cronista, con enorme sprezzo del pericolo, nota come lo psicologo di Regina Coeli «sia rimasto colpito dalla chiacchierata con De Benedetti e che alla fine i due si sono salutati come vecchi amici». Più dura la Iannini che spiega i motivi del provvedimento per la «pericolosità sociale» e il rischio di reiterazione del reato. Il pm lamenta che ci sono fatti nuovi: macchinari scadenti accatastati al ministero. Gli arresti si tramutano dopo poco in domiciliari. Il processo finirà con assoluzioni e prescrizioni. Ma una cosa è certa: l’Ing tecnicamente dentro c’è finito. E lo diciamo senza alcun compiacimento. La Iannini recentemente alla nostra Anna Maria Greco ha detto: «L’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura nel confronti dell’Ingenger De Benedetti è abbondantemente motivata, mettendo in luce una serie di elementi esistenti a carico dell’indagato» che nell’interrogatorio di garanzia aveva ammesso di aver pagato «alcuni miliardi per corrompere al ministero delle Poste chi aveva garantito all’Olivetti l’acquisto di telescriventi obsolete». Comprendiamo sia duro ricordare l’episodio alla ex tessera numero uno del Pd, come all’epoca fu duro per Eugenio Scalfari ammettere che De Benedetti non fosse quel «cavaliere solitario non intaccato da nessuna macchia e nessun compromesso» che il direttorone sperava.

DE BENEDETTI È STATO DISCUSSO PER MOLTI BILANCI OLIVETTI. La parola discusso è il minimo che si possa dire. L’ingegnere De Benedetti è stato indagato per false comunicazioni sociali, falso in bilancio e insider trading. E se non fosse stato per le cosiddette (proprio dal gruppo De Benedetti) leggi ad personam fatte da Silvio Berlusconi, oggi probabilmente avrebbe la fedina penale meno linda. Un po’ di discussione la concediamo dunque? Sarebbe erroneo dire che l’Olivetti sia tecnicamente fallita. Ma che i suoi bilanci siano stati un colabrodo questo è provato. Nell’estate del ’96 succede il patatrac. Negli ultimi tre anni Ivrea aveva perso ai livelli di un ubriaco al tavolo della roulette: 3mila miliardi di lire. Nel settembre del 1995, l’ubriaco aveva chiesto ai soci risorse fresche per 2.250 miliardi. A luglio del 1996 l’Ingegnere si dimette da amministratore delegato per lasciare il posto a Francesco Caio che si porta con sè come capo della finanza Renzo Francesconi. Dopo poche settimane di lavoro i due capiscono che le cose sono peggio del previsto, l’azienda è in coma etilico, e vogliono nuovi quattrini e un piano di salvataggio da parte di Mediobanca. Caio mette nero su bianco le sue considerazioni pessime sui conti. Il titolo crolla. La semestrale post aumento di capitale brucia 440 miliardi. L’uomo dei numeri sbatte la porta e dice: «Sul piano strategico si possono fare mediazioni, sui numeri e la cassa, no». La Procura di Ivrea e la Consob iniziano ad indagare. Che sta succedendo nei bilanci di Olivetti? Passa qualche settimana e i giudici di Torino aprono un fascicolo per insider trading. L’Ing. avrebbe venduto allo scoperto titoli Olivetti prima della semestrale, per poi ricomprarli a valori più bassi dopo la stessa. Giulio Anselmi sulla prima del Corriere della Sera il 18 settembre di quell’anno scrive: «Tutti ricordano nel caso Olivetti quattro bilanci consecutivi accompagnati da promesse di pareggio. C’è da stupirsi se diffidando della trasparenza contabile delle aziende italiane si dà credito ai giudici». E ancora «il dato più grave e sconcertante è il fatto che l’ipotesi di enormi perdite occulte nei conti del gruppo di Ivrea non sia apparsa immediatamente inverosimile, ma sia stata considerata da tutti, analisti finanziari, banchieri, gestori di patrimoni tristemente possibile fino a prova contraria». La storia finisce con un patteggiamento per l’insider trading che gli costerà 50 milioni. Anche la partita del falso in bilancio si conclude con un patteggiamento. Ma la sentenza nel 2003 viene revocata. Sapete perchè? Grazie alla revisione del reato di falso in bilancio introdotta nel 2002 da Berlusconi. E non diteci che sui bilanci di Deb e sui falsi non ci sia stata alcuna discussione. Tronchetti, se proprio vogliamo, si è dimenticato il caso di insider. Su cui la discussione si è chiusa con un patteggiamento.

DE BENEDETTI COINVOLTO NELLA BANCAROTTA DEL BANCO AMBROSIANO. Vi diciamo subito che questa vicenda è davvero intricata. E a beneficio degli avvocati dell’Ingegnere che, come si è capito, sono dal grilletto facile, bisogna dire che il Nostro alla fine ne è uscito pulito. Chiaro? Pulito. Assolto dalla Cassazione. Ma il punto resta. Tutto si può dire tranne che l’Ing. non sia stato coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano. Se non si può dire neanche questo, bisognerebbe fare una legge speciale per la quale appena si nomina l’Ing. si inizi a cospargere di petali il suolo e si declami: bello, bravo e buono. Vi risparmiamo i dettagli. Ma la cosa è semplice. De Benedetti fa un passaggio veloce nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ci rimane, come vicepresidente e azionista, per una sessantina di giorni. Lui sostiene di esserne uscito senza una lira di plusvalenza. L’universo mondo pensa che abbia realizzato un guadagno di 30 miliardi. Peppino Turani dalla Repubblica sintetizzò: «Calvi si è dichiarato pronto a riacquistare le sue azioni (51,5 miliardi più gli interessi) e a comprare le azioni Brioschi, di futura emissione, per 32 miliardi. De Benedetti non ha potuto rifiutare l’affare». I magistrati di Milano prima ipotizzano l’estorsione: Deb sapeva dei conti in profondo rosso del Banco e per il suo silenzio e uscita di scena, si è fatto profumatamente liquidare. La tesi viene respinta dal Tribunale. Ma si insinua un nuovo reato: la bancarotta fraudolenta. L’Ing. si fa liquidare sapendo del prossimo fallimento della banca. Viene condannato in primo grado a sei anni, in secondo ridotti a quattro. La Cassazione casserà per una illogicità procedurale. Ma è netta, poichè neanche rinvia ad un possibile riesame. De Benedetti ne esce pulito. Per scappare dal Banco ci mette 65 giorni, per liberarsi da questo gorgo giudiziario nove anni. Vi risparmiamo le dure critiche ai giudici che lo hanno condannato, alle insinuazioni e alle ispezioni che sono state fatte ai magistrati dell’accusa. Tutto troppo simile al caso Berlusconi, con la drammatica differenza del diverso esito in Cassazione. E allora si può dire che l’Ingegnere sia stato coinvolto nella bancarotta dell’Ambrosiano? Decidete voi. Con una postilla d’obbligo (prima di sparare, avvocati dell’Ing., leggete): e cioè De Benedetti è stato alla fine assolto. Buon per lui.

DE BENEDETTI FU ALLONTANATO DA FIAT. Un signore che conosce bene la Fiat di quegli anni, per averci lavorato, mi dice: «nel 1976, quando De Benedetti diventa amministratore delegato della Fiat e azionista al 5%, i soci erano debolissimi. Io non so se l’Ingegnere avesse in mano le carte per una scalata, di cui pure molto si parlò. In molti, all’epoca, pensavano che un golpe in Fiat si potesse fare. Anzi si può dire che ci furono solo due grandi manager Fiat che non ebbero questa ambizione: Romiti e Valletta. D’altronde De Benedetti poi, in Société Générale de Belgique, una scalata dalle modalità simili la mise in piedi». l nostro resterà al Lingotto per una centinaio di giorni e ne uscirà con un bel gruzzoletto. Appena arrivato non perde tempo, va dall’Avvocato, allora presidente del gruppo, e gli dice: «Bisogna mandare via 20mila persone e 500-700 dirigenti». L’avvocato fece un rapido passaggio per i palazzi romani tornò a Torino e replicò: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile un’operazione del genere». Chi allontana chi, allora? Cesare Romiti, l’uomo di Mediobanca in Fiat e anch’egli amministratore delegato del gruppo in quegli anni (due galli in un pollaio, che sciocchezza) in un’intervista rilasciata nel 2013 dice: «De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici: diceva in giro di essere il primo azionista individuale di Fiat. Cosa vera perchè gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi mi disse che bisognava cacciare via i dirigenti a lasciare a casa 50mila persone, l’Avvocato rispose: «Mi spiace non si può fare». «Allora me ne vado». «Va bene se ne vada» fu la risposta». E sulla possibile scalata, Romiti dice: «Non escludo che ci pensasse». Scalata o non scalata, anche in questo caso, come in quello del Banco Ambrosiano, è sempre difficile stabilire la verità. Ci sono sfumature che si giocano e nascondono in conversazioni che rimarranno sempre private. Ma pensare che De Benedetti, con le sue idee, potesse essere accettato e anestetizzato in azienda dall’Avvocato è davvero difficile.

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO. La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini suIl Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

I GIORNALISTI DI SINISTRA: VOCE DELLA VERITA’? L’ESPRESSO E L’OSSESSIONE PER SILVIO BERLUSCONI.

I giornalisti di sinistra: voce della verità? L’Espresso e l’ossessione per Silvio Berlusconi.

«Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio  ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe, non solo politicizzate», così opina Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di tantissimi saggi, tra cui “Governopoli”, “Mediopoli” ed “Impunitopoli”.

Il declino di un’era. 20 anni di niente. Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra, nel difenderlo, e di sinistra, nell’attaccarlo.

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.

Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. Sono 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.

5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….

17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!

21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.

7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Craxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?

4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.

11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.

29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.

26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?

18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.

14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!

9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.

10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.

17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.

25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.

2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.

5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…

24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.

18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.

3 maggio 1996. THE END.

10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.

3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.

22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.

16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.

24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.

19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.

7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.

15 maggio 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.

11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.

29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.

13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.

24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.

3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.

7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.

21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.

2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.

6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.

9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.

29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.

24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.

15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.

25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.

3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….

19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.

19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.

14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.

11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.

17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.

25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.

9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.

16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.

23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.

30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?

12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.

3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.

10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.

1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.

8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.

15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.

19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.

16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.

21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.

4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.

18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.

31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.

13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.

27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.

8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.

15 luglio 2010. SENZA PAROLE.

11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.

18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.

16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.

22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.

27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.

10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.

26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.

21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.

7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.

21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.

25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.

15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.

29 settembre 2011. SERIE B.

13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.

17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.

19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.

5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.

14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.

19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.

29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Il 9 maggio 2014 Silvio Berlusconi ha cominciato a scontare la pena per frode fiscale con il “servizio sociale” per gli anziani della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma continua a dominare le tribune elettorali, convinto di un destino da «padre della patria» e dei risultati di Forza Italia. Inarrestabile, come è sempre stato. Ecco gli albori della sua ascesa descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto e pubblicato proprio dal “L’Espresso” il 12 maggio 2014. In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi. Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”. Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella). «II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio », era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato. Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo. Camilla Cederna.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Formidabile quell'anno. È il 1977 quando il Dottore, come l'hanno continuato a chiamare i suoi collaboratori più intimi, diventa per tutti gli italiani il Cavaliere: il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. L'onorificenza viene concessa dal presidente Giovanni Leone all'imprenditore quarantenne che ha tirato su una città satellite, sta comprando la maggioranza del "Giornale" di Indro Montanelli e promette di rompere il monopolio della tv di Stato. È l'anno in cui il neocavaliere stabilisce rapporti fin troppo cordiali con il vertice del "Corriere della Sera" e in un'intervista a Mario Pirani di "Repubblica" annuncia di volere schierare la sua televisione al fianco dei politici anticomunisti. Fino ad allora lo conoscevano in pochi e soltanto in Lombardia: era il costruttore che aveva inventato Milano Due, la prima new town che magnificava lusso, verde e protezione a prova di criminalità. Il segno di quanto in quella stagione di terrorismo e rapine, ma soprattutto di sequestri di persona, la sicurezza fosse il bene più prezioso. E lui, nella prima di queste foto riscoperte dopo trentatre anni, si mostra come un uomo d'affari che sa difendersi: in evidenza sulla scrivania c'è un revolver. Un'immagine che riporta a film popolari in quel periodo di piombo, dai polizieschi all'italiana sui cittadini che si fanno giustizia da soli agli esordi pistoleri di Clint Eastwood. "Con una Magnum ci si sente felici", garantiva l'ispettore Callaghan e anche il Cavaliere si era adeguato, infilando nella fondina una piccola e potente 357 Magnum. È stato proprio quel revolver a colpire oggi il fotografo Alberto Roveri mentre trasferiva la sua collezione di pellicole in un archivio digitale: "Le stavo ingrandendo per ripulirle dalle imperfezioni quando è spuntata quell'arma che avevo dimenticato". Come in "Blow Up" di Antonioni, a forza di ingrandire il negativo appare la pistola: "All'epoca quello scatto preso da lontano non mi era piaciuto e l'avevo scartato". Roveri era un fotoreporter di strada, che nel 1983 venne assunto dalla Mondadori e negli anni Settanta lavorava anche per "Prima Comunicazione", la rivista specializzata sul mondo dei media: "Quando nel 1977 il direttore mi disse che dovevo fare un servizio su Berlusconi, replicai: "E chi è?". Lui rispose: "Sta per comprare il "Giornale" e aprire una tv. Vedrai che se ne parlerà a lungo"". Quella che Roveri realizza è forse la prima serie di ritratti ufficiali, a cui il giovane costruttore volle affidare la sua immagine di vincente. L'incontro avvenne negli uffici Edilnord: "Fu di una cordialità unica, ordinò di non disturbarlo e si mise in posa. Con mio stupore, rifiutò persino una telefonata del sindaco Tognoli". Il solo a cui permise di interromperlo fu Marcello Dell'Utri, immortalato in un altro scatto inedito che evidenzia il look comune: colletti inamidati e bianchi, gemelli ai polsini, pettinature simili. Sono una coppia in sintonia, insieme hanno creato una città dal nulla, con un intreccio di fondi che alimentano sospetti e inchieste. Una coppia che solo pochi mesi dopo si dividerà, perché Dell'Utri seguirà un magnate molto meno fortunato: Filippo Alberto Rapisarda, in familiarità con Vito Ciancimino. Tornerà indietro nel 1982, organizzando prima il colosso degli spot, Publitalia, e poi quello della politica, Forza Italia. La loro storia era cominciata nel 1974, trasformandosi da rapporto professionale in amicizia. Dell'Utri è anche l'amministratore di Villa San Martino, la residenza di Arcore. E dopo pochi mesi vi accoglie uno stalliere conosciuto a Palermo che fa ancora discutere: Vittorio Mangano, poi arrestato come assassino di Cosa nostra. Una presenza inquietante, che per la Procura di Palermo suggella le intese economiche con la mafia in cambio di tutela contro i sequestri. Nel 1977 però Mangano è già tornato in Sicilia. E Berlusconi tanto sereno non doveva sentirsi, come testimonia il revolver nella fondina. Ricorda il fotografo Roveri: "Dopo più di due ore di scatti mi invitò a pranzo ma prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l'autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: "Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?". Poi siamo saliti su una Mercedes che lui definì "blindatissima" per raggiungere un ristorante a soli 200 metri da lì". Sì, quelli in Lombardia erano anni cupi, prima che, grazie anche a Canale 5, alla nebbia di paura si sostituisse il mito luccicante della Milano da bere. Dall'archivio di Roveri ricompare il momento della svolta, quando si cominciano a materializzare i pilastri dell'impero del Biscione tra partiti, media e relazioni molto particolari. È la festa del 1978 che trasforma il Cavaliere in Sua Emittenza, con l'esordio di Telemilano nelle trasmissioni via etere. La politica ha il volto di Carlo Tognoli, sindaco socialista che per un decennio guida la metropoli mentre passa dagli scontri di piazza al jet set danzante della moda. Un personaggio defilato rispetto alla statura del grande sponsor di Berlusconi, quel Bettino Craxi che ne ha sorretto la crescita con decreti su misura, ricevendo in cambio spot e finanziamenti. Li univa la stessa cultura del fare che dà scarso peso alle regole, la stessa visione di una politica sempre più spettacolo, fino a plasmare la società italiana di oggi. In questa metamorfosi tutta televisiva la carta stampata ha avuto un ruolo secondario. All'epoca però l'attenzione era ancora concentrata sul "Corriere della Sera", la voce della borghesia lombarda. In questi scatti il direttore Franco Di Bella ammira soddisfatto il giovane Silvio. Rapporti letti in un'ottica molto più ambigua dopo la scoperta della P2: negli elenchi di Licio Gelli c'erano Di Bella, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din e l'editore Angelo Rizzoli. E c'era pure il nome di Berlusconi, data di affiliazione gennaio 1978, anche se lui ha sempre negato l'iscrizione alla loggia delle trame. Sin da allora le smentite a qualunque costo sono un vizio del Cavaliere a cui gli italiani si sono abituati. Come i divorzi, che segnano la sua carriera professionale, quella politica e la vita privata. Nelle foto del party al fianco di Silvio c'è Mike Bongiorno, il testimonial della sua ascesa mediatica. Resteranno insieme tra alti e bassi fino al 2009: un altro legame chiuso con una rottura burrascosa. E c'è anche Carla Dall'Oglio che si offre ai flash sorridente, afferrando per il braccio un marito dall'aria distaccata. Lei ha 37 anni e da dodici è la signora Berlusconi: poco dopo, nel 1980, quella scena di ostentata felicità sarà spazzata via dal colpo di fulmine per Veronica Lario. Il divorzio è arrivato nel 1985, consolidato da una manciata di miliardi e da una decina di immobili: da allora Carla Dall'Oglio è scomparsa dalla ribalta, dove però sono sempre più protagonisti i suoi figli Marina e Piersilvio, i nuovi Berlusconi.

Contro Berlusconi la sinistra contrappone i suoi miti.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

Perché Berlinguer sì e Togliatti no!

Lo stalinista Togliatti che non disse mai: "Compagni, ci siamo sbagliati". Il segretario del Pci appoggiò l’eliminazione politica e fisica di molti comunisti dissidenti. Non per paura di Mosca ma per "coerenza" ideologica, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Molti anni fa, in un libro diventato famoso (Togliatti 1937, Rizzoli 1964) Renato Mieli si chiedeva perché anche i comunisti italiani - dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin - non sentissero la necessità di «stabilire la verità sulla fine di quei dirigenti comunisti europei che scomparvero nell'Unione Sovietica durante quel periodo». Commentava Mieli: «Il silenzio dei comunisti europei su questo doloroso passato è veramente sconcertante». Ma, scomparso Togliatti, l'ultimo dei grandi superstiti del Comintern e anche l'unico che avrebbe potuto parlare e rifiutò di farlo, la verità resta sepolta sotto la pesante coltre delle complicità e dell'omertà. «Il tempo - scriveva allora Mieli - cancellerà le tracce e gli uomini dimenticheranno ciò che è stato. È questo che si vuole? Un delitto perfetto insomma». Palmiro Togliatti era, nel 1937, col bulgaro Dimitrov, il finlandese Kuusinen e il sovietico Manuilski, uno dei membri della segreteria del Comintern. Furono loro ad avallare lo sterminio di tutti i dirigenti del partito comunista polacco (con l'eccezione di Gomulka) a opera della polizia staliniana con una sentenza di condanna politica. Quali fossero le ragioni che potevano aver indotto Stalin a liberarsi del partito comunista polacco appare evidente dal particolare momento in cui si svolsero quegli avvenimenti. Mosca stava per accordarsi con Hitler attraverso il Patto del 1939 che avrebbe portato alla spartizione della Polonia e allo scoppio della guerra. Il Pc polacco rappresentava un ostacolo a tale spartizione e perciò Stalin lo eliminò per spianarsi la strada all'eliminazione della stessa Polonia come Stato indipendente. A spiegare l'atteggiamento dei dirigenti del Comintern c'è invece una sola ragione, e cioè, come scrive Mieli, «la loro fedeltà al comunismo e quindi la loro totale sottomissione al tiranno e la conseguente loro impotenza ad opporsi». Ma avrebbero potuto Togliatti e i suoi compagni opporsi a Stalin? Lo stesso Mieli riconosce che «c'era poco da scegliere in quelle condizioni: o si collaborava con il regime o si finiva in galera. Togliatti, come tanti altri, è riuscito a sopravvivere appunto perché non ha scelto la galera». Il clima di terrore instaurato da Stalin in Urss e all'interno del movimento comunista internazionale non è sufficiente, però, a giustificare la remissività e persino la complicità di cui si resero responsabili gli uomini come il segretario del Pci. Alle radici più profonde dei loro comportamenti c'era una ragione sostanziale: che essi erano intimamente stalinisti e che in quel momento essere comunisti e militare nella Terza internazionale equivaleva a essere dalla parte di Stalin e condividerne i metodi. Togliatti non solo approvò ed esaltò, a titolo personale e a nome del suo stesso partito, gli eccidi di Zinoviev e di Kamenev, di Bukharin e di Rykov, del maresciallo Tukacevski e degli altri ufficiali dell'Armata rossa, ma adottò del sanguinario dittatore al servizio del quale si era messo e aveva messo il suo partito anche e soprattutto l'ideologia. Mieli ce ne fornisce intelligentemente un esempio, riferendo dell'atteggiamento tenuto dal segretario del Pci sulla questione polacca anche dopo le rivelazioni di Kruscev al XX congresso del Pcus. Togliatti, da quel momento, non sostenne più, come in precedenza, che la lotta di frazione all'interno del Pc polacco fosse una prova sufficiente a dimostrare che il partito era stato infiltrato dalla polizia di Pilsudski. Ma non smise, solo per questo, di affermare che all'epoca in cui si erano svolti i fatti ciò poteva essere ritenuto verosimile, cioè che il frazionismo bastava da solo a rendere responsabili i dirigenti di quel partito delle colpe di cui li si accusava ingiustamente. «Questo - concludeva Mieli - è esattamente il pensiero di Stalin che fu all'origine del periodo del terrore». In altre parole il segretario del Pci, pur riconoscendo di essere stato indotto in errore dalla falsa teoria staliniana sull'inasprimento della lotta di classe e dalle prove fornite dalla polizia sovietica, non ammise mai di essere stato egli stesso uno degli artefici della condanna politica del Pc polacco che giustificò l'annientamento fisico dei suoi dirigenti. E soprattutto non riconobbe mai di non aver neppure cercato di appurare se le accuse a loro carico fossero false, in base all'assunzione che le motivazioni di Stalin erano «in sé» sufficienti a giustificare il comportamento di un buon comunista in quella circostanza. «Che questa scelta fosse coerente con l'ideologia originaria - scriveva Mieli - è ovvio. Ma come si coniuga al presente, tenendo conto della pretesa del Pci di essere considerato come democratico? Come può un partito sedicente democratico riconoscersi in un passato che è una negazione brutale della democrazia?» Scriveva Mieli che, per i comunisti, «non si tratta di processare questo o quel dirigente di altri tempi, bensì di condannare il sistema che essi tentarono di instaurare, in ossequio a una ideologia totalitaria, che non sembra del tutto scomparsa nelle loro file». In altre parole, il Pci avrebbe dovuto riprendere il grido disperato a suo tempo inascoltato di una delle vittime italiane del terrore staliniano, Emilio Guarnaschelli: «Compagni, ci siamo sbagliati». Ma poteva un'organizzazione di massa, un grande partito come il partito comunista proclamare formalmente il fallimento degli ideali per i quali è nato e si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza? Personalmente ne dubito. Del resto, è proprio questa la ragione per la quale le generose sollecitazioni di Mieli al Pci affinché facesse luce sul proprio passato sono cadute nel vuoto: perché ciò che per lui era un imperativo morale, per il Pci era un impedimento politico. I comunisti italiani sono sempre stati inchiodati alla loro storia come a una croce, perché è la parola stessa «comunismo» che la storia ha condannato senza appello. Il fatto poi che molti di loro, presi individualmente, lo sapessero non significa che tale consapevolezza dovesse tradursi in comportamenti politici concreti a livello di coscienza collettiva, cioè di partito. È a quest'ultimo che ieri furono immolate tante vittime innocenti e oggi è sacrificata la ricerca della verità sulla loro tragica sorte. Come membro autorevole del Comintern, Togliatti ne divenne uno dei massimi dirigenti, contribuendo all'eliminazione, politica ma anche fisica, di molti comunisti la cui sola colpa era di non condividere, nei confronti dei propri Paesi, i brutali metodi di Stalin. Ciò non di meno fu, in questo caso, ortodossamente machiavelliano, un grande realista sia escludendo, con la «svolta di Salerno» e l'adesione alla democrazia parlamentare e monarchica ormai nell'orbita degli Usa - che sarebbero intervenuti militarmente in caso di pericolo rivoluzionario - sia in occasione dell'attentato subito, quando raccomandò ai compagni di «non perdere la testa» e di non abbandonarsi a tentativi rivoluzionari, un'avventura impraticabile che avrebbe portato il Partito comunista, del quale era segretario pur non essendo mai stato eletto da un Congresso, alla rovina.

Peccato però che davanti ai soldi, così come al pelo, tutti si arrendono alle tentazioni.

Ci sono giornalisti che forse Tangentopoli la rimpiangono, del resto segnò la loro giovinezza, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario, fatto di personaggi straordinari, copie alle stelle, carriere in decollo: vien da pensarlo, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Facciamo due esempi: 1) Il pm di Reggio Calabria voleva contestare a Scajola e agli altri arrestati anche l’aggravante mafiosa, ma il gip l’ha negata perché mancavano prove e anche solo indizi. L’ha confermato lo stesso pm su Libero di sabato, dunque era noto. Bene, ecco l’apertura di prima pagina del Corriere di domenica: «Scajola indagato per mafia»; testo di prima pagina: «La stessa ipotesi di reato sarà contestata a tutte le persone sospettate di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena». Un falso. Una notizia manipolata, nella migliore delle ipotesi. 2) Secondo esempio. Questa è l’apertura di prima pagina del Messaggero di domenica: «Appalto Expo, c’è la ’ndrangheta»; sottotitolo: «I pm di Milano: legami tra gli arrestati e le cosche"; testo di prima pagina: «La cupola di Frigerio, Greganti e Grillo avrebbe avuto legami anche con la ’ndrangheta». Ah sì? E allora perché l’aggravante non è stata neppure contestata? Risposta: perché non importa, l’aggravante mafiosa ormai è come una spezia per insaporire inchieste e resoconti. E poi scrivere, una tantum: uh, torna tangentopoli, magari.

Montanelli stronca Travaglio. In materia di giustizia Montanelli smentisce il capofila dei giornalisti forcaioli anche dall'oltretomba, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Il tintinnio di manette riaccende gli entusiasmi di Marco Travaglio, capofila dei giornalisti forcaioli tanto cari alle procure. Si è autonominato erede unico del pensiero di Indro Montanelli, del quale millanta (sapendo di non poter essere smentito) l'amicizia e la stima. Sarà, ma il vecchio Indro, che non ha mai amato presunti portavoce, lo smentisce anche dall'oltretomba. E che smentita. È contenuta in un articolo scritto su Il Giornale il 13 luglio dell'81. Il giorno prima Spadolini aveva ottenuto la fiducia del suo primo governo ma il Pci annunciava sfaceli perché il neopremier aveva posto con forza la questione della riforma di una giustizia già malata allora. Ecco come commentava l'accaduto Montanelli: «Riduciamo i termini all'osso. Ci sono state, per eccesso di garantismo istruttorie svogliatamente durate anni e concluse con assoluzioni poco meno che scandalose; mentre ci sono le manette per reati che non le comportano obbligatoriamente, seguiti da procedimenti penali che, anche quando si concludono col proscioglimento da ogni accusa, segnano la rovina materiale e morale di chi ne è stato bersaglio». E ancora: «Non è possibile andare avanti con queste invasioni di campo della magistratura che sono arrivate a tal punto da rendere plausibile il sospetto che certi magistrati le pratichino non per ristabilire l'ordine ma per sovvertirlo, scatenando caccia alle streghe e colpendo all'impazzata». Aggiungeva Montanelli: «Questi magistrati sono inamovibili, impunibili, promossi automaticamente, pagati meglio di qualsiasi altro dipendente pubblico, incensati dai giornali di sinistra (cioè dalla maggioranza) e molto spesso malati di protagonismo». E ancora: «I comunisti non possono rinunciare alla magistratura com'è. Essa costituisce la più potente arma di scardinamento e di sfascio di cui il Pci dispone». E chiudeva: «Questa non è la magistratura, è solo il cancro della magistratura. Ma che è già arrivato allo stadio di metastasi». Trent'anni dopo siamo ancora lì. I giornali di sinistra (più Travaglio) a fare da addetti stampa a magistrati eversivi ed esibizionisti, noi de Il Giornale a puntare il dito sul «cancro della magistratura» che sta distruggendo il Paese. E siamo fermi anche nel puntare il dito contro ladri e mascalzoni. Ma contro tutti i mascalzoni (anche se di sinistra, anche se magistrati) e soprattutto se davvero ladri oltre ogni ragionevole dubbio.

Chissà qual è la verità tra tutte quelle propinate dai pennivendoli.

Le strane relazioni del giudice che ha condannato Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una famiglia di imprenditori di Cassino, in provincia di Frosinone, in guerra con la magistratura da trent'anni. Loro, come spiega Giacomo Amadori su Libero in edicola oggi, sono Vincenzo Gabriele Terenzio, 62 anni, e il figlio Luigi, 41 anni. Sono stati arrestati e processati diverse volte. Tra prescrizioni ed assoluzioni hanno sempre evitato la galera. "Sono vicini alla camorra", dicono i magistrati. I reati? Truffa, evasione fiscale, bancarotta. Ma soprattutto l'accusa di rapporti con la criminalità organizzata. Nel luglio 2013, la Corte d'Appello di Roma ha confermato la confisca dei beni del 2009 e del 2011: un tesoro da circa 150 milioni di euro. Ora si attende la conferma del sequestro da parte della Suprema Corte. Tra i beni confiscati diversi immobili, terreni, imbarcazioni, auto e rapporti bancari. Secondo la Dia, i Terenzio, nel corso degli anni hanno movimentato la bellezza di "76 milioni di euro a fronte di redditi minimi". Il figlio Luigi, il membro più facoltoso, risulta dipendente della società svizzera Az Fashion: stipendio di 10mila euro lordi. Insomma, la storia dei Terenzio è costellata da guai giudiziari, e sulla stessa storia si allunga l'ombra lunga della criminalità organizzata. La famiglia, oggi, si è stabilita sulle rive del lago di Lugano. La Svizzera, dunque, da cui comunque continuano ad intessere la loro rete di rapporti. Ed è proprio spulciando tra le relazioni dei Terenzio che spunta il nome di Claudio D'Isa, 65 anni, di Piano di Sorrento: nel 2013 fece parte della sezione feriale che condannò Silvio Berlusconi nel processo Mediaset (per inciso, D'Isa fu più volte corteggiato dal Pd per candidarsi a sindaco di Sorrento). Claudio D'Isa avrebbe conosciuto i Terenzio tramite il figlio Dario, avvocato e imprenditore. Da quella che era una vicenda giudiziaria nacque un'amicizia, tanto che Luigi Terenzio e Dario D'Isa, dopo la sentenza Mediaset, trascorsero insieme le vacanze estive. Un legame scivoloso, insomma, quello tra la famiglia del giudice D'Isa e una famiglia di pluriinquisiti e arrestati, sospettati di rapporti con la criminalità organizzata. Un rapporto che Claudio D'Isa - intervistato da Libero in edicola oggi - cerca di ridimensionare. Eppure sul nostro quotidiano riportiamo testimonianze che raccontano di un quadro ben differente. Un rapporto difficile da giustificare, per D'Isa, sempre in prima linea contro la criminalità organizzata, tra presentazioni dei libri di Antonio Ingroia a e lezioni nei licei sorrentini. A una di quelle lezioni, nel 2013, attaccò Berlusconi poiché aveva criticato Roberto Saviano. Durante quella lezione, al fianco di Claudio D'Isa, era seduto Antonio Esposito, il presidente di quella sezione feriale di Cassazione che pochi giorni prima aveva condannato Berlusconi. Proprio quell'Esposito finito al centro delle polemiche per aver anticipato le motivazioni della condanna al quotidiano Il Mattino.

Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.

Quando gli attacchi al governo italiano vengono da fuori.

Caso Geithner, ira Berlusconi: “Fu un complotto contro di me”. La ricostruzione dell’ex segretario Usa del Tesoro anticipata da La Stampa: “Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far cadere Silvio”. Brunetta: s’indaghi. Bruxelles: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela. Kerry: io non so nulla, scrive “La Stampa”. La ricostruzione di Timothy Geithner in merito alla caduta di Silvio Berlusconi irrompe nella campagna elettorale. Il leader di Forza Italia è furioso: «Questa è la mia rivincita. La conferma che nel 2011 c’è stato un Colpo di Stato», dice. Mentre i suoi parlamentari chiedono un’inchiesta per fare luce sull’accaduto. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato “Stress Test”.  La ricostruzione di Geithner, anticipata da La Stampa, fa discutere. Berlusconi si butta in un nuovo tour mediatico (intervista al Corriere.it, al Tg5, e poi al quotidiano il Foglio). È incontenibile: sono stato vittima di un «complotto» e con me «è stata messa in discussione anche la sovranità dell’Italia». Berlusconi non fa trasparire in pubblico tutta la rabbia che ha dentro per quanto trapelato dagli Stati Uniti. Anzi, si affretta a ribadire più e più volte di «non essere per nulla sorpreso » da quanto detto dall’ex ministro dell’economia americano: «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico». In privato però la reazione è bene diversa. L’ex premier con i suoi si dice consapevole che questa storia non sposterà un voto, ma chiede comunque ai vertice azzurro di alzare il polverone. Da Forza Italia parte il fuoco di fila con la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 ed un chiarimento da parte del governo: «Renzi venga a riferire in Parlamento», dice Renato Brunetta pronto a chiamare in causa anche Giorgio Napolitano: «Gli ho scritto una lettera - fa sapere - proprio per sapere cosa intenda fare». Già perché è proprio il Capo dello Stato che l’ex capo del governo ha sempre chiamato in causa bollandolo come «regista» dell’operazione che portò alle sue dimissioni. Dal Quirinale non trapela nessuna replica, così come dalla Casa Bianca: no comment, è il massimo che fanno sapere dallo staff del presidente americano. Sulle barricate è invece Bruxelles che non ci sta a passare come parte in causa di un complotto: «Erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela», è la replica delle fonti europee alle rivelazioni di Geithner. A parlare ufficialmente è il presidente della Commissione Barroso sostenendo che ai tempi del G20 del 2011 «l’Italia era vicinissima all’abisso e alcuni tentarono di metterla sotto la supervisione del Fmi, mente noi siamo stati quasi soli a dire che questo non doveva succedere». Anche la linea del governo italiano è quella di non intervenire sulla questione: «Abbiamo voltato pagina, non è utile tornare su questi eventi», si limita a dire il ministro degli Esteri Federica Mogherini. A palazzo Grazioli però la pensano diversamente, tanto che il Cavaliere coglie ogni occasione per ricordare come sono andati i fatti: «I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero “riscontri” del colpo di Stato». L’idea però che la vicenda possa avere dei riscontri positivi sui sondaggi non sembra convincere Berlusconi, pronto però a «sfruttare» in termini di voti a Forza Italia la «delusione degli elettori verso Matteo Renzi». L’ex capo del governo non nasconde lo scetticismo per il governo guidato dal leader del Pd tanto, raccontano da Forza Italia, da averne parlato nei giorni scorsi con il Colle. Il leader di Fi è sempre più convinto che le elezioni politiche si avvicinano perché il presidente del Consiglio è sempre più impantanato, anche sul fronte del rilancio dell’economia: Le persone iniziano ad essere stanche degli annunci - è stato il ragionamento fatto a via del Plebiscito - e le riforme non sono certo un tema che Matteo può giocarsi per coprire l’aumento delle tasse. Dagli Usa, invece, il segretario di Stato Usa John Kerry dice (in italiano): «Io non so niente». «Assolutamente è la prima volta che ne sento parlare», ha aggiunto Kerry che aveva accanto a se il ministro degli Esteri Federica Mogherini al termine dell’incontro al dipartimento di Stato a a Washington. Rispondendo alla domanda se avesse letto il libro ha detto: «No , non l’ho letto».  

L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio. Geithner: ovviamente dissi a Obama che non potevamo starci, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro del Tesoro americano Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato, e puntò invece sull’asse col presidente della Bce Draghi per salvare l’Unione e l’economia globale. «Ad un certo punto, in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i presti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato». Geithner, allora segretario al Tesoro Usa, rivela il complotto nel suo saggio «Stress Test», uscito ieri. Una testimonianza diretta dei mesi in cui l’euro rischiò di saltare, ma fu salvato dall’impegno del presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto il necessario», dopo diverse conversazioni riservate con lo stesso Geithner. I ricordi più drammatici cominciano con l’estate del 2010, quando «i mercati stavano scappando dall’Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo». L’ex segretario scrive che aveva consigliato ai colleghi europei di essere prudenti: «Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario». Ma all’epoca Germania e Francia «rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008», e non accettavano i consigli americani di mobilitare più risorse per prevenire il crollo europeo. Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea - Spagna, Italia e Grecia - stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, e suggerì l’adozione di un piano come il Talf americano, cioè un muro di protezione finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale, per impedire insieme il default dei paesi e delle banche. Fu quasi insultato. Gli americani, però, ricevevano spesso richieste per «fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinché fossero più responsabili». Così arrivò anche la proposta del piano per far cadere Berlusconi: «Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, io dissi». A novembre si tenne il G20 a Cannes, dove secondo il Financial Times l’Fmi aveva proposto all’Italia un piano di salvataggio da 80 miliardi, che però fu rifiutato. «Non facemmo progressi sul firewall europeo o le riforme della periferia, ma ebbi colloqui promettenti con Draghi sull’uso di una forza schiacciante». Poco dopo cadde il premier greco Papandreu, Berlusconi fu sostituito da Monti, «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e la Spagna elesse Rajoy. A dicembre Draghi annunciò un massiccio programma di finanziamento per le banche, e gli europei iniziarono a dichiarare che la crisi era finita: «Io non la pensavo così». Infatti nel giugno del 2012 il continente era di nuovo in fiamme, perché i suoi leader non erano riusciti a convincere i mercati. «Io avevo una lunga storia di un buon rapporto con Draghi, e continuavo ad incoraggiarlo ad usare il potere della Bce per alleggerire i rischi. “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di forza bancaria intelligente e creativa”, gli scrissi a giugno. Draghi sapeva che doveva fare di più, ma aveva bisogno del supporto dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il supporto della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso del’Europa. “Li devi mollare”, gli dissi». Così, il 26 luglio, arrivò l’impegno di Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. «Lui non aveva pianificato di dirlo», non aveva un piano pronto e non aveva consultato la Merkel. A settembre, però, Angela appoggiò il «Draghi Put», cioè il programma per sostenere i bond europei, che evitò il collasso. 

Usa, l'ex ministro del Tesoro: "Nel 2011 complotto contro il Cav". Le rivelazioni choc di Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, nel saggio Stress test: "Alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per costringere Berlusconi a cedere il potere". Ma a Obama disse: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani", scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi, inquietanti tasselli al golpe ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un golpe ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media progressisti hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il golpe non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro inquietante di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. A G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare per le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente.

Gli Stati Uniti: "Funzionari Ue ci chiesero di far cadere Silvio Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Monti. Non solo Napolitano. Non solo Prodi. Anche a Barack Obama fu chiesto da alcuni funzionari europei di prendere al complotto per far cadere Silvio Berlusconi. A fare pressioni sul presidente Usa furono alcuni funzionari europei, che proposero ad Obama un piano per far crollare l'esecutivo, nell'infuocato 2011. Gli Stati Uniti, però, si sottrassero al complotto: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani". La fonte di tali rivelazioni? Niente meno che l'ex ministro del Tesoro, Timothy Geithner, che spiega quanto accaduto in un libro di memorie uscito lunedì, Stress Test, e anticipata dalla stampa. Dopo il il libro-rivelazione di Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, che svelava le indebite e (troppo) preventive pressioni di Giorgio Napolitano su Mario Monti, ecco un nuovo pamphlet destinato a fare molto rumore politico. Geithner, uno degli uomini più potenti degli States, scrive: "Ad un certo punto in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all'Italia, fino a quando non se ne fosse andato". L'ennesima prova al fatto che l'Europa berlinocentrica voleva far fuori lo Stivale e il suo presidente del Consiglio. Geithener si riferisce ai mesi più difficili per l'Italia, alle prese con le bizze dello spread, nell'autunno 2011. In particolare le richieste agli Stati Uniti furono avanzate già a settembre 2011, prima che lo spread raggiungesse i massimi, quando in Polonia all'Ecofin ricevette richieste per "fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili". Contestualmente, come detto, arriva anche la proposta di far cadere Berlusconi. Ma Geighner precisa che, per quanto gli Usa avrebbero preferito un altro leader, gli Stati Uniti preferirono evitare il complotto.

Angela Merkel pianse con Barack Obama: "Obbedisco alla Bundesbank", scrive Martino Cervo su “Libero Quotidiano”. Sul Financial Times è apparso uno degli articoli di giornale più appassionanti degli ultimi anni. L’intero testo si trova all’indirizzo goo.gl/p11UOo (necessaria una registrazione gratuita). È un lunghissimo retroscena sulla notte dell’euro, a firma Peter Spiegel, che della testata è corrispondente da Bruxelles. Un romanzo breve (5 mila parole), primo di una serie che il quotidiano dedica alla ricostruzione delle giornate che cambiarono per sempre l’Europa. L’interesse per il lettore italiano è doppio: il nostro Paese è, nel novembre 2011, lo spartiacque per la sopravvivenza dell’euro, e manca una ricostruzione non strumentale di cosa accadde in ore che costarono la caduta di due governi (Papandreou e Berlusconi), sotto il rischio concreto di una catastrofe finanziaria. Il racconto si apre con una scena difficile da immaginare: Angela Merkel è in una stanza di hotel con Obama, Barroso, Sarkozy, e piange. «Non è giusto», stritola tra i denti con le lacrime agli occhi, «Io non mi posso suicidare». Perché la signora d’Europa è ridotta così? Libero riassume l’articolo di Spiegel per i suoi lettori. Siamo, come detto, a inizio novembre 2011. L’estate si è conclusa avvolta dalle fiamme dello spread. La Grecia è sul filo della permanenza nell’euro. L’Italia è la prossima preda di chi scommette sull’implosione della moneta unica, lo spread vola a quota 500, il governo traballa sulle pencolanti stampelle dei «responsabili», Merkel e Sarko hanno appena sghignazzato in mondovisione alla domanda sull’affidabilità di Berlusconi. Il G20 di Cannes del 3-4 novembre diventa un appuntamento carico di tensione. Il premier greco Papandreou ha annunciato un referendum sull’uscita dall’euro. L’eventualità manda letteralmente nel panico soprattutto i paesi creditori. A 48 ore dall’inizio del vertice Sarkozy raduna tutti i protagonisti del redde rationem: il premier greco, la Merkel, il capo dell’eurogruppo Juncker (oggi candidato del Ppe alla guida della Commissione Ue), il capo del Fondo monetario Christine Lagarde, i capi dell’Unione José Barroso e Herman van Rompuy. Il dramma greco è affiancato a quello italiano. Roma, rispetto ad Atene, è «too big to bail». La Lagarde è durissima: «L’Italia non ha credibilità». Quel che si fa con la Grecia avrà una ricaduta immediata, ed esponenziale, sul nostro Paese. Con Papandreou c’è Venizelos, ministro delle Finanze. Sarkozy mette spalle al muro il premier ateniese, per evitare il referendum e costringerlo a prendere una decisione lì, sul posto: dentro o fuori. Qui si apre un retroscena nel retroscena: il Ft racconta che Barroso poche ora prima, all’insaputa di Merkel e Sarko (padrone di casa del G20), incontra il capo dell’opposizione greca Samaras, offrendogli sostegno istituzionale a un governo di unità nazionale a patto di abbattere il referendum. Poi inizia il vertice «vero». Senza che i premier sappiano dell’accordo Barroso-Samaras, il capo della Commissione Ue fa il nome di Lucas Papademos, vicepresidente della Bce, come possibile guida di un esecutivo di larghe intese ad Atene. «Dobbiamo ammazzare questo referendum», dice Barroso. Venizelos soppianta il suo premier e cancella il referendum con una dichiarazione ufficiale. Papademos diventerà premier sette giorni più tardi. La Grecia è «sistemata». A questo punto bisogna sollevare una barriera contro l’assedio dei mercati all’euro. La trincea si chiama Italia. Molti delegati sono sconcertati dalla presenza al tavolo di Obama, che in teoria non ha titoli per sedersi a una riunione informale sull’eurozona. Segno di debolezza delle istituzioni comunitarie? Della gravità globale di un possibile tracollo che rischia di far saltare un mercato decisivo per i prodotti Usa? Il nodo cruciale è il ruolo del Fondo monetario. Come più volte raccontato da Giulio Tremonti, l’Italia declina l’offerta di una linea di credito da 80 miliardi di dollari, accettando solo il monitoraggio del Fmi. «I think Silvio is right», dice Obama, buttando sul tavolo una carta nuova, che assegna a Berlino una posizione cruciale. Per aggirare i veti dei trattati che impediscono alla Bce di finanziare direttamente gli Stati, il presidente Usa - in accordo coi francesi, alla faccia del tanto sbandierato asse Merkozy raccontato in quei giorni - propone l’utilizzo del «bazooka» con un’ennesima sigla: SDR. Che sta per «special drawing rights» (diritti speciali di prelievo), un particolare tipo di valuta che il Fmi stesso usa come unità di conto della partecipazione finanziaria dei singoli Stati. Una strategia simile (usare la potenza di fuoco degli SDR contro la crisi) era stata usato nel post-Lehman. Qui si tratterebbe di riversare quelle risorse nel fondo salvaStati europeo in via di formazione. Quel che segue è il miglior esempio possibile per raffigurare il nodo della democrazia ai tempi della crisi, e investe in pieno il tema della famosa «indipendenza» delle Banche centrali. La gestione degli SDR è infatti in capo a queste ultime. E il capo della Bundesbank è Jens Weidmann, custode dell’ortodossia dell’austerity tedesca. Appena si diffonde il piano Obama-Sarko, il «falco» apre le ali e dice «nein» al telefono con i delegati tedeschi: la Germania non paga. La Merkel scoppia in pianto e pronuncia il suo: «Non è giusto, non posso suicidarmi. Non posso decidere io al posto della Bundesbank». Il dramma dell’euro è qui: quattro tra i più potenti governi democraticamente eletti del mondo si fermano davanti al veto (legittimo) di un banchiere. Obama vuole che la Germania alzi la quota degli SDR. La Merkel apre, purché l’Italia accetti di farsi commissariare dal Fondo. Tremonti e Berlusconi non mollano, Angela neppure, a causa di Weidmann. La tensione è totale. La riunione si scioglie con un nulla di fatto, salvo la richiesta al governo di Berlino di provare a smussare la Buba . «Non mi prendo un rischio simile se non ottengo in cambio nulla dall’Italia». Alla conferenza stampa dopo il G8 Berlusconi rivela l’offerta del Fmi e il «no» italiano. Pochi giorni dopo, il governo cade. Al supervertice non è successo nulla. Toccherà a Draghi tenere in piedi l’euro, e (anche) a noi pagare per il fondo salvastati.

Gli attacchi vengono anche dal'interno. L'accordo tra Fini e Napolitano per "eliminare" Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. "Il golpe contro Silvio Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini". A tirare in ballo altri protagonisti del complotto anti Cav è Amedeo Labboccetta. In una intervista al Tempo, l'allora braccio destro di Fini, racconta le ambizioni dell'ex presidente della Camera che ha giocato di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al leader azzurro con l'obiettivo di prendere il suo posto a Palazzo Chigi. "Fini me lo disse in più circostanze. 'Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?!", rivela Labboccetta a Carlantonio Solimene che racconta anche di come nacqua il feeling tra Fini e il Colle: "Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno". E lui, dice, di essere testimone di quelle chiamate essendo in quel periodo in una posizione privilegiata. All'inizio, prosegue l'ex deputato del Pdl, Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale. Lui e Dell'Utri tentarono più volte di fargli cambiare idea. Berlusconi, secondo il racconto di Labboccetta, arrivò perfino ad offrirgli la segreteria del partito. Ma niente, Fini, non smetteva e alzava la posta chiedendo la testa dei ministri La Russa e Matteoli e del capogruppo al Senato Gasparri. "Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva tenere per le palle Berlusconi', continua Laboccetta secondo il quale l'obiettivo di Fini era di "eliminare politicamente Berlusconi". "Quando lo costrinsi a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo", rivela, "mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"». Labboccetta non raccontò mai a Berlusconi quello che Fini stava ordendo alle sue spalle, ma si giustifica sostenendo che si diede da fare perché quel piano saltasse: "Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale". "Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni". Alla domanda di Solimente: "Ma perché dice queste cose solo oggi?" Labboccetta risponde: "All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni".

Sallusti: "Dietro al complotto per far fuori Berlusconi c'è Clio Napolitano", scrive “Libero Quotidiano”. “Dietro al golpe del 2011 c'è Clio Napolitano". Alessandro Sallusti ai microfoni de La Zanzara su Radio 24 aggiunge nuove elementi alle rivelazioni di Alan Friedman che parlano di una strategia chiara da parte del Colle per destabilizzare il governo Berlusconi nel 2011 e sostituire il Cav a palazzo Chigi con Mario Monti. Il direttore de Il Giornale punta il dito contro la moglie del Capo dello Stato e afferma: "Mi dicono che la moglie di Napolitano, la comunista Clio, odia Silvio, e ha molto peso sulle scelte del Quirinale. Dietro al complotto politico finanziario che ha fatto cadere Berlusconi, c'è Clio Napolitano". Insomma secondo Sallusti la mano occulta che guidò la caduta di Berlusconi nel 2011 appartiene a Clio Napolitano. Il direttore de Il Giornale però non risparmia critiche nemmeno agli ex alleati del Cav: "Sia Fini che Alfano sono stati cooptati da Napolitano per uccidere Berlusconi". Sallusti parla anche dello spread: "Fu creato ad arte ed il complotto contro Berlusconi ci fu". Infine l'annuncio poi confermato nel suo editoriale di oggi su il Giornale: "Se siamo in un Paese libero, mettiamo in stato d'accusa Napolitano".

Berlusconi: «Complotto contro di me? Obama si comportò bene». «Non mi sorprende che l’uomo del presidente Usa abbia confermato le manovre nei miei confronti… Ma lui si comportò bene durante tutto il G20 e mi diede ragione», scrive Alan Friedman su “Il Corriere della Sera”. Seduto nel giardino di Villa San Martino a Arcore, Silvio Berlusconi è più che soddisfatto. Le anticipazioni del libro di memorie di Timothy Geithner (Stress Test) confermano quello che il Cavaliere dice di sapere da tempo, e cioè, che la Casa Bianca bocciò una richiesta da parte di alcuni europei di far cadere il suo governo nell’autunno del 2011. «Non sono sorpreso. Ho sempre dichiarato che nel 2011 nei confronti del mio governo, ma anche nei confronti del mio Paese, c’è stato tutto un movimento che era partito dal nostro interno ma poi si è esteso anche all’esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro governo», dice Berlusconi. «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico. E poi abbiamo saputo anche che ci sono state quattro successive tappe di scrittura, con l’ultima addirittura di 196 pagine». Berlusconi è in grande forma e viene fuori un ricordo preciso. «Io avevo la contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo anche ad un certo punto ritenuto che ci fosse una precisa regia. Al G-20 di Cannes, addirittura, amici e colleghi di altri paesi mi dissero: "Ma hai deciso di dare le dimissioni? Perché sappiamo che tra una settimana ci sarà il governo Monti…". E l’ha rivelato per esempio Zapatero in un suo libro che riguardava quel periodo». Non è sorpreso che queste nuove rivelazioni vengano da un uomo di Obama. «Io devo dire che Obama si comportò bene durante tutto il G20. Noi fummo chiamati dalla Merkel e Sarkozy a due riunioni in due giorni consecutivi e in queste riunioni si tentò di farmi accettare un intervento dal Fondo Monetario Internazionale. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti dall’esterno e rifiutai di accedere a questa offerta, che avrebbe significato colonizzare l’Italia come è stata colonizzata la Grecia, con la Troika».

Eppure son tutti uguali.

Expo, appalti e tangenti: la sinistra spunta ovunque. Nelle carte ci sono dozzine di nomi dell'area Pd tirati in ballo dagli arrestati. Da Bersani fino al sottosegretario Delrio e al portavoce del partito Guerini, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Lo dicevano spesso, quelli della cupola. «Copriamoci a sinistra». Nel Paese degli appalti truccati servono santi bipartisan. Di qua e di là. Ma di là - a sinistra - ce n'erano davvero parecchi. Realtà o millanterie, sta di fatto che nelle carte dell'inchiesta milanese su Expo e non solo ci sono dozzine di nomi dell'area Pd. Non è un caso, secondo una teoria dell'ex senatore Luigi Grillo. «L'ho visto anche ieri Pier Luigi (Bersani, che ha già smentito, ndr), io tengo sempre i rapporti - dice a Giuseppe Nucci, ex ad della Sogin - lo informo degli sviluppi. Sai, loro, i post-comunisti non sono diversi dai comunisti, cioè il dialogo lo accettano, sono anche garbati e sono simpatici. Poi quando c'è da stringere per questioni di potere preferiscono sempre il cerchio stretto». Ecco, gli affari sono affari. E per ogni torta sul grande tavolo degli appalti pubblici, sostengono i pm, una fetta doveva andare a sinistra. Attraverso le cooperative, che si aggiudicano i lavori. Attraverso Primo Greganti, che avrebbe fatto da tramite tra il partito, le coop e i manager di Stato, e che ieri è stato sospeso in via cautelare dalla sezione del Pd di Torino a cui era iscritto («Ma qui non l'abbiamo mai visto», racconta il segretario della sezione). E attraverso i mille canali - più o meno reali - che ciascuno degli interessati sostiene di poter smuovere per passare all'incasso. Greganti, per rendersi credibile, si «vende» anche il nome di Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alle primarie del Pd, il quale ha smentito un suo interessamento su Expo. «Io sono andato giù a Roma - dice Greganti il 6 marzo - ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (Greganti si sbaglia, ndr)... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco...». Poi qualcuno bussa anche al ministero. Così, proprio Nucci racconta di aver incontrato Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo economico nel Governo Renzi. «Mi ha detto - racconta Nucci a Grillo - “io sono a disposizione per tutte le cose che voi c'avete da fare”, e dico “io voglio lavorare per il mio Paese”, lui ha detto “Ne parlerò col Gabinetto, col ministro, questa cosa mi piace molto”». Ma a lambire il governo Renzi c'è anche un riferimento - assai fumoso - a Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A parlare è l'ex Dc Gianstefano Frigerio. «Però Guerini è un buon... adesso non so se lo porta al governo ... forse lo lascia ... al partito i suoi giri ... uno è Delrio e l'altro Guerini». Decisamente più significativi altri passaggi che riguardano proprio Lorenzo Guerini, portavoce del Pd. Ancora Frigerio al telefono, parla con Sergio Cattozzo della Città della salute e degli appalti Sogin. «Devo parlarne a Guerini... a Lorenzo, devo parlarne... ». «Bisogno organizzare un incontro - suggerisce Cattozzo - io te e Guerini, così lo tiriamo dentro il Guerini. Stiamo parlando di sette miliardi di lavoro, ragazzi!». Tanti, tantissimi soldi. E gli appalti Sogin portano la cupola a cercare più sponde possibili. È in questo contesto che spuntano i nomi di Giovanni Battista Raggi, tesoriere del Pd in Liguria, e di Claudio Burlando, già ministro dei Trasporti e ora governatore ligure. Greganti avrebbe dovuto avvicinare Raggi e attraverso questi Burlando, per ottenere - si legge in un sms di Cattozzo del settembre scorso - «un po' di sponsorizzazione forte nazionale». Ma la cupola, secondo la Procura di Milano, era «glocal». Oltre alle coperture nazionali, infatti, cercava appoggi sul territorio. Ovunque c'era una gara milionaria, c'era da muoversi. Ed è così che si arriva in Sicilia, dove la cricca sta seguendo i lavori per l'ospedale di Siracusa. Frigerio, al telefono con Cattozzo, ragiona. «Sei amico di Enrico Maltauro (uno degli imprenditori arrestati, ndr) tieni conto che stiamo seguendo per lui un ospedale a Siracusa che dobbiamo parlare con Crocetta (Rosario Crocetta, governatore siciliano, ndr) per l'autorizzazione compagnia bella ma tu sei d'accordo... mah aspetta adesso ne parlo al mio consulente poi vediamo venerdì quando viene da me glielo dirà a Enrico, mi ha chiamato Foti (Luigi Foti ex parlamentare della Dc ora ritenuto vicino al Pd, ndr) vuole la mia copertura sulla Sicilia per l'ospedale di Siracusa». Ma alla fine, erano ganci reali o solo chiacchiere? Altro che balle, a sentire Stefano Boeri. Per l'ex assessore comunale Pd di Milano, era tutto vero. «Sono stato fatto fuori dalla partita Expo dalle lobby economiche, compresa la Lega delle Cooperative. Io costituivo un ostacolo», ha spiegato in un'intervista. A Boeri ha replicato l'assessore milanese Pierfrancesco Majorino. «Di Boeri si può pensare tutto e il suo contrario, ma il nesso è totalmente inventato». Al netto delle faide interne al partito, il dubbio resta.

Quelle larghe intese Cl-Coop per spartirsi affari e poltrone. Nelle carte della Procura le prove dell'asse tra cooperative rosse e aziende cielline. L'indagato Frigerio: "Anche Lupi è amico loro", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che Peppone e don Camillo. Oggi i vecchi nemici fanno affari insieme. Nascosta nelle carte dell'indagine sugli appalti dell'Expo 2015 c'è una traccia che costringe a rivedere antiche certezze. E a prendere atto che quando oggi si parla dei colossi delle coop, lanciati alla conquista di fette sempre più grosse degli appalti pubblici, si parla di qualcosa di assai diverso dalle vecchie cooperative emiliane, tutte business e ideologia, che fanno parte della storia del Novecento italiano. Il grosso delle aziende aderenti alla Lega nazionale cooperative e mutue continua, ovviamente, a stare nell'orbita del Pd. Ma dentro la Legacoop cresce un nuovo partito di tutt'altra estrazione: uomini e aziende che vengono dalla storia di Comunione e liberazione, e dal suo braccio nell'imprenditoria, la Compagnia delle opere. Ex comunisti e ciellini convivono e collaborano. E si ritrovano, nelle carte dell'indagine, a godere di protezioni bipartisan. A spiegarlo chiaramente, tranquillizzando un interlocutore è Gianstefano Frigerio, l'ex parlamentare della Dc e di Forza Italia, arrestato mercoledì. Scrive la Guardia di finanza: «Frigerio dice che quelli che gli presenterà della Manutencoop (alti dirigenti) non sono di sinistra ma sono dei loro». Non è chiaro a chi si riferisca Frigerio. Ma il vecchio democristiano torna sul tema in un'altra conversazione: «Ieri ho parlato con Pellissero e gli ho raccomandato, guarda che la cosa migliore è Manutencoop e anche qualche sua azienda... “sì sì lo so anche se hanno fatto un po' di alleanze eccessive con i ciellini”». Un asse che può apparire singolare, quello tra i due mondi: ma che si basa su due pilastri comuni, la vocazione sociale e il pragmatismo imprenditoriale. Di fatto, Cdo e Legacoop si ritrovano da tempo alleate in un'opera di lobbismo comune e trasversale per ottenere leggi che tutelino l'imprenditoria sociale. Questo ha generato contiguità e alleanze. E anche intrecci di poltrone: il caso più noto è quello di Massimo Ferlini, ex assessore comunista a Milano, che oggi è uno dei principali esponenti della Compagnia delle opere ma siede anche nel consiglio di amministrazione di Manutencoop. Così, in nome di un comune sentire, si saldano intese un tempo impensabili. Ancora Frigerio: «Anche Maurizio Lupi (ministro delle Infrastrutture, ciellino doc) è amico di quelli di Manutencoop». Scrive la Finanza: «Frigerio sostiene di conoscere bene i legami che ci sono tra Manutencoop e i ciellini tanto che negli ultimi anni, con Formigoni, sempre a dire dell'indagato Manutencoop avrebbe già ottenuto importanti lavori». E d'altronde in Lombardia non è un mistero che dopo la caduta di Formigoni le aziende della Cdo, rimaste orfane di protezione politica, si stiano ulteriormente avvicinando alle coop rosse. «Parlando con Levorato lui è un vecchio comunista, io un vecchio democristiano, quindi sappiamo come si parla tra noi», dice Frigerio di Claudio Levorato, il manager di Manutencoop per cui la Procura aveva chiesto l'arresto: e in questa frase c'è dentro un bel ritratto di storie simili cresciute su sponde diverse. D'altronde, dice sempre Frigerio, «ti manderò il capo delle coop (...) copriamoci perché sono le coop rosse e corrono meno incidenti. Prendeteveli perché sono rossi» . E fin qui potrebbe sembrare un semplice calcolo di opportunità o un preaccordo di spartizione. Ma quello che raccontano le carte è qualcosa di più, una sorta si compenetrazione tra mondi solo apparentemente distanti. C'è una matrice forse cattocomunista: basta guardare il profilo Linkedin di Fernando Turri, altro manager coop che compare nell'inchiesta, a capo della Viridia: studi dai salesiani, ma alle spalle il Quarto Stato di Pellizza. E c'è soprattutto una consapevolezza che i tempi sono duri, la spending review ha tagliato gli appalti, e così se si vuole sopravvivere bisogna abbattere vecchi steccati. Frigerio: «Manutencoop, aldilà di quello che pensa Rognoni, è “così” con Cl».

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

Politica e criminalità organizzata. L’arresto di Scajola e lo scoperchiamento del potere italiano, scrive Gad Lerner. Tra Scilla e Cariddi, fra le due rive dello Stretto: da una parte Amadeo Matacena (finito per caso a destra in Forza Italia) e dall’altra Francantonio Genovese (finito per caso a sinistra nel Pd). In comune il business dei traghetti con la società Caronte, ma non solo. Sono capoclan locali che con la loro dote di preferenze ottengono facilmente candidature al parlamento nazionale, usano i partiti come strumenti intercambiabili, entrano in relazione con i vertici dello Stato, ne ottengono protezioni e complicità. E’ in questo meccanismo che rimane impigliato oggi Claudio Scajola, a suo tempo ministro degli Interni e massimo dirigente organizzativo di Forza Italia. Un politico di razza, vecchio navigatore democristiano, a sua volta radicato su un territorio come il Ponente Ligure dove la ‘ndrangheta calabrese ha messo radici da parecchio tempo. Non è un caso che la magistratura abbia intercettato le manovre di Scajola per favorire la latitanza di Matacena nel corso di altre indagini sui rapporti fra il tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, e alcune famiglie della malavita calabrese. Stiamo assistendo allo scoperchiamento di una parte rilevante del potere italiano, costituito dall’intreccio fra politica in cerca di consenso e interessi malavitosi bisognosi di protezione e riciclaggio. Sotto l’ombrello del berlusconismo (ma non solo, e non solo a destra) episodi come quello che ha portato all’arresto di Scajola sono numerosi. Guarda caso anche Matacena voleva scappare in Libano, come Dell’Utri. E Berlusconi che subito dichiara “non ne sapevo niente, povero Claudio”, non vi ricorda il proverbio secondo cui la prima gallina che canta ha fatto l’uovo?

In realtà sono rimasti identici solo i metodi dei magistrati e dei giornalisti, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Forse non vi siete accorti che nell'inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: sono sullo sfondo assieme a fisiologici referenti (tanti) che vengono consultati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette e pilotava appalti. È come se dei mazzettari professionisti avessero lasciato l'azienda e si fossero messi in proprio, col dettaglio che frattanto le aziende abbandonate sono fallite tutte: come i vecchi partiti, come quella politica che manca non perché sia virtuosa, ma perché non conta più nulla. Primo Greganti, ventun anni fa, disse che rubava per sé e non per il partito, e non era vero: ora invece lo è, perché la «cupola» non alimentava il finanziamento illegale della politica, alimentava le proprie tasche; e i politici ne escono perlopiù gabbati, usati per promuovere carriere. Lo scandalo è sufficientemente grave da essere analizzato nel suo specifico, non servono riflessi tipo «Come prima, più di prima» (Corriere) o «Ora e sempre tangentopoli» (Repubblica) con ridicole interviste al vecchio pool di Milano. Servirebbe chiedersi se le manette fossero tutte necessarie (quisquilie da garantisti) ma soprattutto chiedersi che accidenti c'entrino certe intercettazioni, quelle in cui vengono sputtanate persone che non c'entrano niente su questioni che non c'entrano niente. Ma pare che, tra gli appalti pilotati, ci sia anche quello della libera stampa a Beppe Grillo.

Manette a gogò. Magistrati scatenati alla vigilia del voto. Arrestati in 20 tra cui Greganti e Scajola Sospetti di corruzione per l'Expo. L'ex ministro accusato di aver aiutato un latitante, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Tecnicamente parlando si tratta di una manovra diversiva. Come arginare la verità fangosa che sta emergendo sulle porcate commesse dai magistrati, prima fra tutte quella sulle illegalità della Procura di Milano nell'inchiesta Ruby? Semplice, una bella retata all'alba. Anzi due, perché - come diceva Totò - meglio abbondare. Così in poche ore finiscono dentro in tanti, nomi eccellenti ovviamente, altrimenti addio titoloni. Da ieri mattina sono in carcere, tra gli altri, a Roma l'ex ministro degli Interni Claudio Scajola (accusato di intrattenere rapporti con la famiglia dell'ex deputato, oggi latitante, Matacena), a Milano, per tangenti, due ex politici (Stefano Frigerio e Primo Greganti, già coinvolti in Tangentopoli) e uno dei capi di Expo 2015. Pareva strano che il partito dei giudici si astenesse dal partecipare a questa campagna elettorale. E, infatti, eccoli, più decisi che mai: un colpo al Pd (Greganti), uno a Forza Italia (Scajola), insomma una secchiata di merda sui due partiti che stanno cercando di riformare il Paese. Grillo ringrazia e guadagna ancora qualche punto. Lui ai magistrati non fa paura, anzi, è lo strumento ideale per fermare l'asse Renzi-Berlusconi che ha già annunciato la riduzione degli stipendi d'oro dei magistrati e la riforma della giustizia. Le procure mandano a Renzi un segnale chiaro, in stile onorevole Antonio Razzi versione Crozza: «Amico, attento, te lo dico un'ultima volta: fatti li cazzi tuoi». Può essere, lo vedremo, che tra gli arrestati ci siano ladri e malfattori. Però mi fa strano il tempismo e il clamore, perché la verità sarà accertata solo a urne chiuse. E viste le tante inchieste spettacolo finite nel nulla, la cosa preoccupa perché falsa le regole del gioco democratico. Dicono che Bruti Liberati, capo della Procura di Milano, abbia le ore contate e sia al centro di una guerra tra le fazioni di pm che si contendono potere e successione a suon di accuse e controaccuse. Ieri un suo vice, Robledo, si è rifiutato di firmare gli ordini di arresto e non ha partecipato alla conferenza stampa. C'è il terribile sospetto che la resa di conti finale tra magistrati stia avvenendo sulla pelle di veri, presunti o falsi delinquenti. In un Paese normale, una procura così messa, delegittimata, divisa e incarognita, sarebbe già stata commissariata. Questi sono un pericolo vero, più pericolosi del più pericoloso tangentista.

La settimana terribile dell'Italia. Prima settimana di maggio 2014. Bacchiddu, Scajola, Expo, Nuova Tangentopoli, Genny 'a carogna. Il paese sprofonda inesorabilmente, senza la forza di cambiare davvero. Anche per colpa nostra, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Una settimana da dimenticare sta finendo, specchio di una vecchia Italia. Un’Italia che non cambia. Che va in retromarcia. Che guarda indietro. Non è più questione di ricambio generazionale (quello finalmente un po’ c’è, anche se a ben vedere l’arroganza di certi giovani non è inferiore a quella di certi anziani). Il problema è nazionale. Siamo noi italiani, forse, che abbiamo qualche problema con la storia e con noi stessi. Non riusciamo a esser seri, a concentrarci sulle cose da fare, a renderci conto della gravità dell’emergenza che stiamo attraversando, a prendere coscienza del declino che ci sta portando verso il baratro, del grado di inciviltà che viviamo nelle nostre città. C’è qualche tarlo che ci corrode, qualche virus che non vuol saperne di abbandonare la presa. Come si spiega altrimenti l’escalation di notizie da paura degli ultimi giorni? Siamo alla terzultima settimana prima del voto del 25 maggio che servirà a  ridisegnare il Parlamento europeo, tornata importante anche per la politica nazionale. Forse, ci si poteva aspettare che prendessero il sopravvento temi concreti e veri. Non so: l’economia, l’istruzione, l’Europa. Invece ci siamo dibattuti e abbiamo dibattuto sul “caso Bacchiddu”, sulle spacconate di Genny ‘a Carogna, su Greganti 2 la vendetta, la corruzione dietro l’Expo 2015 e le lotte fratricide tra i magistrati di Milano, per finire coi fischi di Grillo all’Inno di Mameli. Tutte robe che non ci cambiano la vita, che ci distraggono dai veri problemi, che peggiorano terribilmente l’immagine dell’Italia e di noi italiani in Europa. Che scoraggiano irrimediabilmente le persone per bene ed esasperano chi già non ne può più. La Lista Tsipras riesce a far parlare di sé solo perché il meccanismo dei media e della politica si tuffa sulla foto accattivante di una bella ragazza e una brava giornalista, Paola Bacchiddu, che in un clic di (auto)ironia posta su facebook una propria istantanea balneare con la motivazione scherzosa di voler usare ogni mezzo, ora che il giorno cruciale del voto si avvicina, e quindi invita a barrare la lista “L’Altra Europa con Tsipras”. Apriti cielo. Si scatena la polemica su “chiappetta rossa”, la gogna del web, l’assalto del branco (a sinistra, a destra), il groviglio di considerazioni femministe e/o machiste… 

Ed a proposito di questo..."Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro, scrive “Libero Quotidiano”. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista Se non ora quando aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

Tornando alla riflessione di Ventura...Poi, sabato, lo spettacolo immondo e barbarico di una sparatoria in piena Roma, con tifosi che si confrontano in un delirio di violenza finché dentro lo stadio un energumeno tatuato con maglietta che chiede la liberazione dell’omicida di un poliziotto alza il pollice fischiando di fatto l’inizio di una tristemente memorabile finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, sotto gli occhi e le bocche aperte, mute, delle più alte cariche di uno Stato ridicolizzato e impotente. Genny ‘a Carogna, imparentato con camorristi, detta legge. Le famigliole tremano. Renzi neanche s’accorge del tenore di quella maglietta insultante. E per finire, ecco l’ordalia giudiziaria come da copione: la raffica di arresti per presunte tangenti relative all’Expo 2015 di Milano accende i riflettori su un passato per nulla esaurito. Con l’aggiunta piccante di uno scontro interno alla magistratura per irregolarità additate dal procuratore aggiunto Robledo nell’assegnazione delle inchieste a chi non ne avrebbe avuto titolo. Come non bastasse, finisce in manette un ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola. E Grillo si tuffa sugli arresti con la goduria del capobranco che assapora un punto in più il 25 maggio, perché la rovina dell’Italia significa la sua apoteosi. Un Grillo che si mette fra gli ultrà dello stadio dicendo che anche lui avrebbe fischiato l’Inno d’Italia e che mette in campo tutta la sua finezza di analisi affibbiando le solite trito-comiche etichette agli avversari, dal “pregiudicato Berlusconi” (dimentico d’esser lui stesso condannato in via definitiva per omicidio colposo, senza neppure esser vittima di chissà quale persecuzione giudiziaria) a “Renzi ‘a Menzogna” che evoca “Genny ‘a Carogna”. Questo, dopo avere ravvivato malamente la campagna elettorale con parabole che hanno per protagonisti gli ebrei della Shoah e i lager (riferimenti privi di qualsiasi pietà umana). Mamma mia, che Italia è questa. Che paura. Che futuro ci aspetta.

Dell'Utri. Sette anni di reclusione. Condanna confermata, scrive “Il Corriere della Sera”. Il verdetto della Cassazione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri era atteso in serata del 9 maggio 2014. I giudici della Prima sezione penale si sono ritirati in Camera di consiglio per decidere se confermare o no il verdetto d’appello: 7 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Sostituto Procuratore Generale di Palermo Luigi Patronaggio ha già emesso un ordine di carcerazione per Dell’Utri. Il provvedimento verrà trasmesso al ministero della Giustizia che lo allegherà alla richiesta di estradizione alle autorità libanesi. Il caso giudiziario di Marcello dell’Utri dura da 20 anni. Era infatti il 1994 quando la Procura di Palermo avviò le indagini per mafia sull’ex senatore, che fu rinviato a giudizio nell’ottobre del 1996. Il primo processo, aperto il 5 novembre del 1997 davanti al Tribunale di Palermo, presieduto da Leonardo Guarnotta, era durato sette anni e si era concluso l’11 dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, più due anni di libertà vigilata, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento per le parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. «Vi è la prova», aveva scritto il collegio nella motivazione, «che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale». Quel verdetto era stato parzialmente corretto in secondo grado, in un processo assai più rapido del primo, iniziato il 16 aprile del 2010 e conclusosi il 29 giugno dello stesso anno quando la Corte di Appello, presieduta da Claudio Dall’Acqua, aveva ridotto a sette anni la pena per Dell’Utri, a fronte di una richiesta di 11 anni formulata dal procuratore generale Antonio Gatto. I giudici avevano ritenuto provati i rapporti tra Dell’Utri e la mafia fino al 1992 mentre lo avevano assolto «perché il fatto non sussiste» per i fatti successivi. Aveva però retto l’impianto accusatorio, ribadito anche oggi dal Pg della Cassazione, secondo cui Dell’Utri avrebbe fatto da mediatore tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, e lo avrebbe tra l’altro convinto ad assumere come stalliere ad Arcore il boss Vittorio Magano, morto di cancro in carcere.

E poi.....Scajola: io non so se ci rendiamo conto. Rischio di essere ripetitivo ma il rischio vale la candela, scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. Ogni volta che scriviamo, discutiamo e parliamo di criminalità organizzata, di programmi di protezione, di “utilizzo” di testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia o di un’appropriata legislazione antimafia non possiamo non tenere conto che Claudio Scajola (ma anche con ruoli comunque apicali  Cosentino, Dell’Utri, la lista è lunga e folta) sia stato non un politico qualsiasi ma un Ministro dell’Interno di questa Repubblica. Quindi sarebbe veramente ora che si trovi una narrazione che funzioni, un vocabolario leggibile per raccontare le mafia fuori da Corleone, Platì o Scampia e  che arriva sempre ai punti più alti dello Stato. Perché Scajola (quello che aiuta un latitante a trasferirsi in Libano) e i suoi sodali sono gli stessi che decidono se e come vanno presi in considerazione e protetti coloro che denunciano e quindi mi pare normale che chiunque provi ad “raccontare” il terzo livello (come lo chiamava Giovanni Falcone) non possa sentirsi sicuro in questo Paese. E dovremmo trovare il coraggio di insegnarlo nelle scuole, farne memoria tutti i santi giorni in tutti i santi posti che frequentiamo bucando questa coltre di presunto “allarmismo” che ci rovesciano addosso ogni volta che si alza il tiro contro la politica. Penso, oggi, a chi si ritrova in pericolo per avere denunciato il malaffare e legge l’arresto di un ex responsabile della propria incolumità. Non lo so, mi viene da pensare questa cosa qui, oggi, prima di tutte le valutazioni politiche. Questa ferita qui che sta più profonda di tutti gli editoriali di stamattina.

8 maggio 2014. Arrestato l'ex ministro Scajola. Avrebbe favorito la latitanza dell'ex parlamentare Amedeo Matacena, condannato a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. L’ex ministro Claudio Scajola è stato arrestato dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. Tra le otto persone finite in manette figurano anche alcune persone legate al noto imprenditore reggino ed ex parlamentare Amedeo Matacena, colpito da provvedimento restrittivo insieme alla moglie Chiara Rizzo e alla madre Raffaella De Carolis. A seguito della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (giugno 2013) Matacena si è reso latitante. Perquisizioni effettuate in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Calabria e Sicilia, oltre a sequestri di società commerciali italiane, collegate a società estere, per un valore di circa 50 milioni di euro. L'arresto di Scajola è avvenuto in un noto albergo della Capitale. Appresa la notizia Silvio Berlusconi, ai microfoni di Radio Capital, ha manifestato il proprio dolore: "Non so per quali motivi sia stato arrestato, me ne spiaccio e ne sono addolorato". Il Cavaliere ha tenuto a precisare che non aveva avuto alcun sentore dell'inchiesta, tale da giustificare la mancata candidatura alle Europee del politico ligure nelle liste di Forza Italia. "Avevamo commissionato un sondaggio su di lui che ci diceva che avremmo perso globalmente voti se lo avessimo candidato, ma abbiamo capito che la sua candidatura ci avrebbe fatto perdere punti". In serata, intervistato dal Tg1, ha detto di non credere che la vicenda avrà ripercussioni sui risultati di Forza Italia. Perché è stato arrestato? Come ha rivelato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, l’ex ministro avrebbe aiutato l’ex parlamentare Matacena a sottrarsi alla cattura per l’esecuzione della pena. L’inchiesta è nata nell’ambito di una indagine su tutt’altro argomento, i presunti fondi neri della Lega Nord, in cui la figura chiave sarebbe il faccendiere Bruno Mafrici. Grazie a un’intercettazione gli inquirenti sono venuti a conoscenza di rapporti fra l’ex ministro e la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. La donna, secondo quanto emerso, si sarebbe adoperata per ottenere l’aiuto dell’esponente politico ai fini del trasferimento del marito, in Libano. Dalle indagini sarebbe emerso il ruolo di un’altra persona che avrebbe lavorato al trasferimento di Matacena nel paese dei cedri. Si tratterebbe dello stesso personaggio che avrebbe avuto contatti con Marcello Dell’Utri ai fini di una sua fuga nel paese mediorientale. "Amedeo Matacena - ha detto il procuratore De Raho - godeva e gode tuttora di una rete di complicità ad alti livelli grazie alla quale è riuscito a sottrarsi all’arresto". Scajola, secondo l’accusa, avrebbe aiutato Matacena a sottrarsi alla cattura in virtù dei rapporti che ha con la sua famiglia. Matacena è un noto imprenditore, figlio dell’omonimo armatore, noto per avere dato inizio al traghettamento nello Stretto di Messina e morto nell’agosto 2003. La frase incriminata. Lo spostiamo in "un posto più sicuro e molto migliore, ma più vicino anche". È questa una delle frasi pronunciate da Scajola in una conversazione telefonica con Chiara Rizzo, moglie di Matacena. La telefonata risale al 12 dicembre del 2013 alle ore 12.12. Nella conversazione, sostiene il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, emerge che "alcuni soggetti si stanno attivando per spostare Matacena da Dubai verso altro Stato". Dialoghi cifrati. "Poi ti racconto un po' di cose anch’io perché Daniele è andato a fare un viaggio sulle isole e ci sta fino al 28, è andato in giro, capito?". Così Scajola avrebbe informato la moglie di Matacena sugli spostamenti del marito, latitante dopo la condanna definitiva a cinque anni e quattro mesi. Il riferimento era, secondo gli investigatori, allo spostamento programmato per il 28 agosto dello scorso anno, data in cui Matacena è stato fermato a Dubai. Questa conversazione dimostrerebbe "la piena consapevolezza dello Scajola in merito agli spostamenti del latitante". In quegli stessi giorni si parlava ancora della vacanza di Daniele. La Rizzo chiedeva all’ex ministro "ma lì?", e lui rispondeva "per dieci giorni" "Daniele il mio amico, sai chi è Daniele?". E ancora: "E' andato in vacanza con Adele per dieci giorni a fare i bagni su.... Secondo il gip "si intuisce che è in difficoltà a parlare in quanto non vuole rivelare la località". A questo punto Chiara Rizzo esclamava "aaa ho capito! E tu glielo hai detto?". Scajola quindi rispondeva: "Nooo, no! Cercavo di dirlo a te in modo che tu lo sai che se dovesse mai farti venire qualche idea me lo dici, hai capito bene?". "Dite alla mia famiglia che sto bene, che sono tranquillo, la verità emergerà". Lo ha detto SCajola ai propri difensori, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito. Gli inquirenti hanno perquisito a Imperia l’ufficio dell’ex ministro in viale Matteotti e la sua villa in via Diano Calderina. Si sarebbe interessata a Matacena anche la figlia di Amintore Fanfani, Cecilia. È quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Reggio Calabria. Il nome di Cecilia Fanfani era sulla lista dei passeggeri del volo proveniente da Dubai e diretto a Nizza il primo agosto dello scorso anno. Nei suoi confronti, e anche a carico del fratello Giorgio Fanfani, è stata disposta una perquisizione. Proprio a Dubai il 28 agosto scorso è stato fermato Matacena. Il rampollo della famiglia di armatori era appena giunto negli Emirati Arabi dalle Seychelles. Lì, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, si era recato per incontrarsi con alcuni legali del posto "i quali - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - interessando i competenti uffici amministrativi, lo avrebbero assistito nelle operazioni di rinnovo del visto necessario al prolungamento della sua permanenza alle Seychelles". Di questa strategia sarebbero stati informati anche Carlo Biondi, figlio del politico Alfredo Biondi, ed Elvira Tinelli. A Cecilia Fanfani viene attribuita la scelta e la possibilità di usufruire dell’appoggio di uno studio legale per risolvere "il problema". Il fratello Giorgio Fanfani avrebbe presentato a Chiara Rizzo, moglie di Matacena, un avvocato.  I figli di Fanfani  non sono indagati e vengono definiti, nel provvedimento della Dda, "soggetti di interesse investigativo risultati in contatto e in rapporti anche di affari con gli indagati", insieme ad altre sette persone pure perquisite senza essere indagate.

Il patto Scajola-Matacena così la ’ndrangheta fece crescere Forza Italia. “L’ex ministro dell’Interno favorì gli interessi dei boss”. Ecco perché i pm volevano arrestarlo anche per mafia, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano arrestare anche per favoreggiamento mafioso Scajola Claudio, nato ad Imperia il 15/01/1948, ivi residente, ex ministro dell’Interno? «Perché dopo la sentenza di condanna per concorso esterno di Amedeo Matacena lui è diventato la proiezione politico-istituzionale- imprenditoriale del primo che consapevolmente agevolava gli interessi della ‘ndrangheta nella sua composizione unitaria». Così scrivono i pm calabresi nella loro richiesta di custodia cautelare contro Scajola, erede in qualche modo — secondo loro — del potere economico e criminale del latitante eccellente riparato negli Emirati Arabi e in fuga verso il Libano. Una coppia al servizio di consorterie e cosche, logge, circoli segreti. Prima sicuramente uno, poi probabilmente anche l’altro. La proposta dei pubblici ministeri è stata respinta dal giudice delle indagini preliminari «per mancanza di un supporto indiziario idoneo», ma nelle carte che hanno depositato ricostruiscono contro Scajola — oltre alle accuse di aver tentato di occultare il patrimonio di Matacena, di averlo soccorso nella sua dorata irreperibilità, di avere pianificato il suo spostamento da Dubai a Beirut — il “profilo” di Matacena, tutti i suoi affari e i suoi legami con l’ex ministro degli Interni e soprattutto una lontana vicenda che riporta alla nascita di Forza Italia. È nelle prime pagine del documento dei magistrati della procura firmato dal capo Federico Cafiero De Raho e dai sostituti Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, una mezza dozzina di fogli ripescati da un’indagine palermitana (la numero 2566/98 contro Licio Gelli + 13) finita nell’inchiesta sulla famigerata trattativa Stato-mafia e poi girata a Reggio. È il racconto di un pentito che ricorda un summit al santuario della Madonna dei Polsi — luogo sacro per la ‘ndrangheta, tutti i suoi capi ogni anno si riuniscono lì a settembre per stringere alleanze, dichiarare guerre, decidere strategie criminali — avvenuta qualche mese prima della fondazione di un nuovo partito. Siamo alla fine dell’estate del 1991, il pentito si chiama Pasquale Nucera, uno della ‘ndrina dei Iamonte di Melito Porto Salvo. Confessa Nucera: «C’è stata una riunione al santuario di Polsi nel comune di San Luca, nel corso del quale si parlò di un progetto politico...». C’erano tutti i capi più importanti della mafia calabrese. C’era Anche Amedeo Matacena, l’amico dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. C’era anche un misterioso personaggio «che parlava italiano con un accento inglese o forse americano». È stato identificato come Giovanni Di Stefano, un affarista che negli anni passati ha provato a comprarsi gli studios della Metro Goldwyn Mayer, un sedicente avvocato (è stato denunciato poi anche per esercizio abusivo della professione) che comunque è riuscito a difendere in aula gente come Saddam Hussein, il suo braccio destro Tariq Aziz, Slobodan Milosevic, il leader paramilitare serbo Zeliko Raznatovic meglio conosciuto come la “Tigre Arkan”. Questo personaggio, finito nelle pieghe delle indagini siciliane sulle stragi, era presente al santuario di Polsi e fu lui a parlare per primo di «un “partito degli uomini” che doveva sostituire la Democrazia Cristiana in quanto questo partito non garantiva più gli appoggi e le protezioni del passato». Parole testuali del pentito Pasquale Nucera, che in un secondo momento si dichiarerà anche agente del Sisde, il servizio segreto civile italiano. In due interrogatori, ricorda uno per uno tutti i presenti al summit: «Seppure defilato, c’era anche Matacena, “il pelato”, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace. Poi c’erano anche tutti i vari esponenti dei “locali” della ‘ndrangheta calabrese». Fa l’elenco: «Pasquale e Giovanni Tegano, Santo Araniti, uno dei Mazzaferro di Taurianova e uno dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che abitava vicino al cimitero, Marcello Pesce, uno dei Versace di Africo, parente di un certo Giulio Versace, Antonino Molè, due dei Piromalli, Antonino Mammoliti ed altri…». I pm riassumono in una trentina di pagine le attività oscure di Matacena e i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Poi scrivono: «Emerge con univoca chiarezza dalle complessive acquisizioni, invero, che di tale rete di relazioni è membro di rilievo lo stesso Claudio Scajola, unitamente alle altre persone sottoposte ad indagine, il quale diviene funzionale nel complessivo panorama criminale oggetto di ricostruzione proprio in quanto interlocutore istituzionale proiettato verso una candidatura di rilievo alle prossime elezioni europee…». E riferendosi agli uomini e alle donne — compreso l’ex ministro degli Interni — che hanno protetto l’ex deputato latitante: «Nel caso in specie si comprende, quale dato di dirompente rilevanza, che l’attività di protezione svolta a favore del Matacena, finalizzata a preservarne la piena operatività, non è più rivolta a suo esclusivo vantaggio ma diviene il passaggio necessario a proteggere lo strumento indispensabile di agevolazione delle capacità economico-imprenditoriali del complessivo sistema criminale nella sua componente riferibile alla ‘ndrangheta reggina, di cui il politico/imprenditore (Matacena, ndr) è ormai componente essenziale e non sostituibile». Hanno favorito Amedeo Matacena e favorendo lui e il suo “sistema” hanno favorito tutta la ‘ndrangheta. Anche Claudio Scajola. Ecco perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano il suo arresto con l’aggravante dell’articolo 7. Dopo la decisione negativa del giudice, il procuratore capo Cafiero De Raho ha già annunciato appello.

Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.

Da Scajola agli amici in Medioriente. Tutti i nomi dietro il "Circolo Matacena". Il decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria mette in luce un doppio binario diplomatico-finanziario per garantire la fuga dell'ex deputato Amedeo Matacena. Con personalità che vanno dalla massoneria alla politica. E l'arresto del già titolare dell'Interno è solo la punta dell'iceberg, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. La rete di Amedeo Matacena è impressionante. L'ex ministro Claudio Scajola è soltanto l'uomo più in vista di un network che spaziava fra l'Italia, il principato di Monaco e il Medioriente. Nel decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria emerge un doppio binario diplomatico-finanziario per mettere in sicurezza l'ex deputato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco come la Procura di Reggio Calabria riassume la situazione: “Nel corso delle indagini sono emersi continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati e appartenenti a ambienti politici, istituzionali e imprenditoriali... La gestione di tali operazioni politiche, istituzionali ed economiche ha consentito alle persone sottoposte a indagini di diventare il terminale di un complesso sistema criminale, la gran parte di natura occulta e operante anche in territorio estero, destinato anche ad acquisire e gestire informazioni riservate fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione”.Poco dopo le 11 l'ex ministro Claudio Scajola ha lasciato la sede della Dia di Roma per essere portato in carcere a Regina Coeli, dove è in arresto per aver favorito la latitanza dell'ex deputato Amedeo Matacena. All'uscita dell'edificio Scajola ha mostrato un momento di evidente sorpresa per la presenza delle telecamere e fotografi che lo attendevano nel breve tragitto verso l'auto delle forze dell'ordine. Insomma l'operazione conclusa all'alba dell'8 maggio con l'arresto di Scajola, della sua segretaria Roberta Sacco, della moglie di Matacena, Chiara Rizzo, e di altri cinque indagati è soltanto l'inizio. Indagato ma non arrestato risulta il trentanovenne Vincenzo Speziali junior, che in un colloquio con Scajola dice di sé: “io sono programmato per non sbagliare”. Speziali ha sposato la libanese Joumana Rizk, che risulta essere nipote di Amin Gemayel, ed è omonimo dello zio senatore ed ex presidente di Confindustria Calabria, oltre che presidente dell'aeroporto di Lamezia Terme su nomina di Giuseppe Scopelliti, governatore dimissionario e candidato Ncd alle Europee. Speziali senior è anche indagato per concussione all'Asp di Crotone. Molti degli amici del “circolo Matacena” sono semplicemente citati nei documenti della Dda reggina. Molti hanno cognomi storici o vicende giudiziarie alle spalle. Appena Matacena viene arrestato a Dubai, dove si è recato per rinnovare il visto di permanenza alle Seychelles nello scorso agosto, è Giorgio Fanfani, figlio di Amintore, ad attivarsi per trovare un legale italiano negli Emirati: Ottavia Molinari. La sorella Cecilia Fanfani è definita “buona amica” da Chiara Matacena. Al consulto legale partecipa anche Carlo Biondi, figlio dell'ex Guardasigilli e avvocato Alfredo. C'è poi Marzia Mittiga, moglie dell'armatore Manfredi Lefebvre d'Ovidio, anch'egli residente a Montecarlo come l'armatore Matacena. Marzia Lefebvre, secondo gli investigatori, ha prestato la sua mail per alcuni messaggi che Chiara doveva mandare al marito negli Emirati. Speziali junior è l'ufficiale di collegamento che organizza, l'11 febbraio 2014, l'incontro romano tra Chiara Matacena e Luigi Bisignani. Lo stesso giorno, Speziali pranza con un altro piduista, il livornese Emo Danesi, vicino all'Udc. Durante il pranzo, Speziali telefona a Scajola mentre l'ex ministro si trova al ristorante romano Le tamerici con Daniele Santucci e Giovanni Morzenti. Santucci, presidente dell'Agenzia italiana per pubbliche amministrazioni e socio di Pier Carlo Scajola, figlio di Claudio, sarà arrestato il 14 marzo 2014 con l'accusa di peculato per 7 milioni di euro. Bisignani finirà agli arresti il 14 febbraio, tre giorni dopo l'incontro per l'affaire Matacena, per gli appalti di Palazzo Chigi. Morzenti, ex presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi), è stato condannato in via definitiva per concussione nel febbraio 2013. Alla comitiva dell'11 febbraio di unisce a un certo punto anche l'ex deputata crotonese del Pd Marilina Intrieri. Ma l'aiuto più importante a Chiara Rizzo arriva sicuramente da Scajola. È lui che la moglie di Matacena chiama in lacrime alle 9 di mattina appena dopo l'arresto del marito a Dubai, il 28 agosto 2013, chiedendogli subito un incontro a Montecarlo. L'ex ministro glielo concede. Da lì in avanti le intercettazioni fra i due sono spesso criptiche, con il latitante che viene a volte indicato come “la mamma” oppure con il nome del figlio Athos. Quando poi, dopo una serie di incontri a Beirut e all'ambasciata romana del Libano, il circolo Matacena deciderà di tentare la carta dell'asilo politico sotto l'ombrello protettore di Amin Gemayel, Scajola parlerà al telefono di “scuola”. Peraltro, senza subito essere compreso da Chiara Matacena. Più complessa è l'articolazione del salvataggio economico. In previsione della fuga, Matacena organizza un reverse merger delle sue società (Amadeus con le sue tre motonavi, la finanziaria Solemar, la lussemburghese Xilo, la Mediterranea shipping, più le due liberiane Amshu e Athoschia) per evitare di essere coinvolto nel blocco dei beni. Anche la moglie subisce il blocco del suo conto al Monte dei Paschi di Siena per decisione della direzione a settembre del 2013. Il flusso di soldi, però, è proseguito.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

Università, concorsi truccati. Indagati sessanta professori. A Milano parte l'inchiesta per le selezioni. Già coinvolto nella vicenda il docente barese Loiodice, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La maxi inchiesta sui presunti concorsi universitari truccati si allarga e un filone investigativo finisce a Milano per competenza territoriale. Sono 35 i professori indagati nello stralcio inviato alla Procura lombarda dai pm baresi Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli, tra questi c’è anche il docente barese Aldo Loiodice. L’indagine trasmessa a Milano riguarda solamente le selezioni svolte in tutta Italia, tra il 2008 e il 2010, per posti da professori di prima e seconda fascia in diritto pubblico comparato. A Bari, invece, restano altre due indagini che si concentrano sui concorsi di diritto ecclesiastico e costituzionale svolti nello stesso periodo. Complessivamente, nella maxi inchiesta sono coinvolti una sessantina di docenti mentre sono nove le selezioni finite nel mirino della guardia di finanza. Il troncone dell’inchiesta che è rimasto Puglia è in fase di chiusura, i pm inquirenti a breve notificheranno gli avvisi di conclusione delle indagini. La Procura barese ipotizza i reati di associazione per delinquere finalizzata a corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico. Le carte che riguardano il concorso di diritto pubblico comparato sono state inviata a Milano perché, secondo i pm Nitti e Pirrelli, la presunta associazione per delinquere contestata agli indagati sarebbe stata costituita nel capoluogo lombardo. Tra i 35 nomi stralciati non figurano quelli dei cinque «saggi» incaricati nei mesi scorsi di supportare il governo Letta nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento nell'inchiesta emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche riportate nell'informativa conclusiva della guardia di finanza e depositata circa un anno fa. Secondo gli inquirenti, in una sorta di circoli privati si sarebbe deciso il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà. Nell’ambito di questa inchiesta, nel marzo 2011, furono eseguite perquisizioni in 11 Atenei diversi: Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo, e 22 docenti furono iscritti nel registro degli indagati. Nel corso delle verifiche il numero dei professori è salito, i 35 indagati nello stralcio finito a Milano rappresentano solamente un terzo del numero complessivo di docenti sotto indagine. L’inchiesta è partita nel 2008 grazie ad un esposto anonimo - finito nella mani della Pirrelli - nel quale veniva segnalato che quattro bandi da ricercatore all’università telematica Giustino Fortunato di Benevento avevano già i loro vincitori, ancora prima che venissero eseguite le prove. L’indagine ha così mosso i primi passi, ma poi scavando tra i documenti sequestrati, indagando e intercettando, gli inquirenti baresi hanno intrapreso altre strade fino a ricostruire la presunta rete non lecita di favori tra i docenti italiani. Secondo i pubblici ministeri, come le tessere di un grande puzzle, i vincitori dei concorsi universitari banditi in tutta Italia tra il 2008 e il 2010 si sarebbero andati ad incastrare a seconda dei desideri dei docenti. Le selezioni per posti di prima e seconda fascia, per ordinari e associati, all’interno dei dipartimenti di diritto costituzionale, canonico e pubblico applicato, sarebbero state decise a tavolino dagli stessi baroni ancora prima che venissero eseguite le prove. Come? Secondo la Procura attraverso uno «scambio di favori». I docenti avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e anche patti di fedeltà». Secondo la magistratura inquirente pugliese, alcuni docenti provarono anche a fare pressioni sull’ex ministro Gelmini per bloccare alcune riforme.

Non solo Expo 2015, scrivono Emilio Randacio ed Attilio Bolzoni su “La Repubblica. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e gli altri arrestati e indagati nell’inchiesta milanese gestivano appalti anche nella Sanità lombarda. Intanto emergono nuovi particolari nell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola. E da Dubai, dove si trova da latitante, Amedeo Matacena dice a Repubblica: faccio il maître, non tornerò in Italia. Ieri sera la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per Marcello Dell’Utri. La «cupola» o la «cordata»: così nelle carte della procura viene indicato il gruppo di sette persone finite in carcere a Milano per associazione a delinquere all’alba di giovedì. Un «circuito deflagrante e perverso», scrive sempre la procura, pilotato dagli gli ex parlamentari Luigi Grillo e Gian Stefano Frigerio insieme al «compagno G» Primo Greganti. Quest’ultimo, alla vista dei militari che gli notificavano l’ordinanza diciannove anni dopo quella che lo portò in cella durante Tangentopoli, è scoppiato in lacrime. Insieme al direttore generale degli acquisti Expo Angelo Paris, all’ex segretario Udc ligure Sergio Mattozzo (al quale i militari hanno trovato in casa 12.500 in contanti nascosti), puntavano a mettere le mani su appalti per mezzo miliardo. La fetta più corposa erano gli oltre 300 milioni che vale il progetto della “Città della salute”, le cui buste con le offerte dovevano essere segrete e sono invece state rinvenute e sequestrate durante gli arresti.

Expo e sanità, il sistema spiegato da un factotum dell’ex dc Frigerio. L’accordo con Greganti. «Ragazzi, adesso c’è la Città della Salute», scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Il manuale d’istruzioni della catena di montaggio degli appalti truccati, l’autopsia in diretta dei «delitti» compiuti nei lavori della sanità o delle opere pubbliche come Expo: il Virgilio che guida in questo girone infernale è, in una impagabile intercettazione ambientale nel circolo culturale milanese «Tommaso Moro» dell’arrestato ex dc ed ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio, il suo factotum di fiducia: l’indagato Giovanni Rodighiero, orgoglioso il 31 luglio 2012 di magnificare il sistema a un non identificato dirigente sanitario tanto desideroso di esservi ammesso. «I primari, i medici che gareggiano, vengono e vanno dai politici perché la Sanità è gestita dai politici - esordisce Rodighiero - . Allora se tu hai il santo protettore», che nel contesto sarebbe Frigerio, «il santo protettore ne prende atto (delle tue esigenze ndr ), ti chiede il curriculum e poi va a parlare con chi di dovere... Se gli garantisce il direttore generale che lo porta quello là, questo si afferma... fa la gara e vince lui...». Il risultato è che «lui è riconoscente a Gianstefano» e «Gianstefano è riconoscente al direttore generale». E «dato che soldi non ce ne sono sempre», o «si rompe le scatole al direttore generale di dargli un po’ di soldi o di mettere questo cavolo di macchinario che serve... capito?». Si può così passare alla fase due: la gara d’appalto per il tipo di fornitura in questione, e cioè - riassume il gip Fabio Antezza - «i meccanismi tramite i quali si riesce a predeterminare l’aggiudicazione a favore delle imprese per cui opera l’associazione, in primo luogo con il confezionamento ad hoc di bandi di gara e capitolati». Anche qui lo spiega Rodighiero, che fa l’esempio di una gara da 40 milioni di euro nella ristorazione in ambito ospedaliero: «C’è il provveditore e c’è l’ingegnere che stanno preparando il tutto, l’ingegnere l’ho fatto conoscere all’azienda. Come è pronto il documento (lo schema del bando ndr ), viene dato a una persona fidata, va in azienda, glielo dà, lo guardano... “questo non va bene e questo va bene... c’è da aggiungere questo questo e questo... farla su misura a me”... Viene ridato, l’ingegnere mette dentro e toglie (quello che l’impresa aveva chiesto di aggiungere e levare ndr ), il provveditore e l’ingegnere sono in sintonia. E quando è pronto il capitolato, è stato fatto su misura a te e non ad altri». Terzo tempo: adesso c’è da concordare il prezzo per la corruzione. «Se hai vinto, c’è un accordo a monte, che tu devi riconoscere ics...». Anche con rateizzazioni della mazzetta: l’appalto «viene dato a te, perché si chiude con l’accordo a te e tu sei l’uomo che deve andare dal direttore generale a dargli i soldi, ogni anno... Subito tutti non li hai... hai un anticipo annuale alla firma. Quando hai vinto l’appalto, un ics... ti tieni la tua parte e il resto gliela dai a quello là... l’anno prossimo quando fanno i pagamenti gli dai la rata... per nove anni». Quarta e ultima fase: il mantenimento degli accordi. E qui, per quanto buffo possa sembrare nel contesto tangentizio, la credibilità è tutto. L’importante è che l’accordo sia osservato qualunque cosa succeda, perfino se quel determinato manager statale corrotto dovesse cambiare posto: «Lui va via? Vai avanti a dargliela, eh?... è sempre stato così». Perciò i componenti dell’associazione a delinquere temono come la peste quegli imprenditori che non siano puntuali nel rispettare la tabella dei pagamenti programmati. Lo si ascolta, in un’altra intercettazione, quando il 15 marzo 2013 uno dei mediatori che collaborano con Frigerio, Walter Iacaccia, gli esprime l’irritazione per un imprenditore che non sta onorando una rata di 50.000 euro, che Frigerio a sua volta attende di dover poi consegnare a un pubblico ufficiale: «Io gli ho semplicemente detto (all’imprenditore inadempiente ndr ): non devi farmi fare figure di cacca... perché se tu fai così, non sai cosa ti precludi... ma soprattutto non puoi più chiedere favori... Ma che persona sei? Io ci metto la faccia sempre... ma porca miseria, ma tu pensi veramente di poter lavorare senza di noi?». Ieri, intanto, dai politici evocati «de relato» nelle intercettazioni sono arrivate altre smentite. Dopo aver letto che Frigerio asseriva «devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio Rognoni (allora direttore generale uscente di Infrastrutture Lombarde ndr ) per suggerirlo come presidente Anas», l’alfaniano ministro delle Infrastrutture ieri ha dichiarato «con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». Di «illazioni o millanterie» aveva già parlato anche l’ex segretario pd Pierluigi Bersani, citato il 7 settembre 2012 da Frigerio che aggiornava Rognoni sul progetto della Città della Salute a Sesto San Giovanni, del valore di 323 milioni e con stazione appaltante proprio Infrastrutture Lombarde: «Ho sentito un po’ a Roma Bersani e poi gli altri sulla Città della Salute, tu devi cominciare a fare delle riflessioni, poi, senza responsabilità tue, mi dici come far partire un colosso macello perché è una cosa grossa... Poi Bersani mi ha detto “a sinistra cosa fate?”, bisogna che senta, se Rognoni mi dice Manutencoop per me va bene». Ma per Bersani questo discorso non c’è mai stato. Le buste sigillate con le offerte relative alla gara ancora da aggiudicare per la realizzazione della Città della Salute sono fra le carte che l’altro ieri gli inquirenti hanno sequestrato a margine dei 7 arresti: a detta del gip, per l’associazione capeggiata da Frigerio era «necessario coinvolgere da subito un grande pool di imprese», procedendo «in accordo con Primo Greganti» e spingendo sulla «Cooperativa Manutencoop» (il cui indagato amministratore Claudio Levorato è una delle 12 persone per cui il gip ha respinto l’arresto per carenza di esigenze cautelari) «in quanto la coop ha i necessari collegamenti» a sinistra, là dove Frigerio si ritiene «coperto» appunto da Greganti, il «compagno G» già arrestato in Mani pulite vent’anni fa. Sin dal settembre 2012, ritiene quindi il gip, «il sodalizio imposta la consueta strategia di individuazione delle opzioni anche politiche in grado di assicurare un intervento efficace, e degli imprenditori da favorire con avvicinamento e corteggiamento». Che le intercettazioni possano sempre avere più spunti di lettura, del resto, affiora persino nel caso di Rognoni, sul cui conto l’arrestato Sergio Cattozzo (ex segretario dell’Udc ligure e collaboratore di Frigerio) il 20 gennaio di quest’anno esprimeva delusione dopo un iniziale periodo di abboccamenti reciproci, concordando con Frigerio su quanto fosse invece il caso di investire meno su Rognoni e più sul successore Angelo Paris, general manager di Expo 2015 pure arrestato giovedì: «...perché fra poco c’è la Città della Salute, ragazzi!... E siccome Rognoni a noi non ha dato niente, non abbiamo nemmeno debiti nei suoi confronti». Greganti, per parte sua, appare molto interessato a ritagliarsi un ruolo nella realizzazione del padiglione della Cina (con la quale ha noti legami d’affari) all’Expo 2015. Il 21 marzo scorso, al telefono con il liquidatore di Tempi Moderni S.r.l., Greganti - annota il gip - «sottolinea che la Cina ha intenzione di predisporre l’intero padiglione in modalità self-built», cioè costruendoselo da sola, «tuttavia Greganti riferisce di aver comunque rappresentato l’importanza della sua mediazione», per la quale sembrerebbe tenere rapporti con l’ambasciata di Pechino e mandare una memoria in Cina. Intanto le comiche, come talvolta accade, fanno capolino al confine di cose serie. E così giovedì, durante le perquisizioni Gdf contemporanee all’arresto delle 7 persone, Cattozzo è quasi riuscito a far sparire davanti ai militari, strappandoli da una agenda e nascondendoli nelle mutande, alcuni post-it. I foglietti, una volta recuperati dall’imbarazzante nascondiglio, si sono rivelati annotazioni di cifre e percentuali e nomi: forse proprio la medesima contabilità delle tangenti su una gara di Expo 2015 che i pm Antonio D’Alessio e Claudio Gittardi avevano ascoltato in una intercettazione.

Caso Expo, Greganti e la pista cinese. Come per Mani pulite la Cina è il cuore del business dell'ex tesoriere Pci: il suo braccio operativo è la società Seinco, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sindrome cinese: scavi nell'Expo di Milano e sbuchi in Cina. Negli affari di Primo Greganti, il «compagno G» tornato in cella a ventun anni da Tangentopoli, riaffiora prepotentemente la potenza asiatica. Di Cina l'ex tesoriere del partito comunista torinese aveva già parlato nel 1993, quando aveva cercato di convincere i pm milanesi che i 621 milioni incassati da Panzavolta non erano destinati a Botteghe Oscure ma a cercare appalti nella Repubblica Popolare. E di Cina si torna a parlare nelle carte della retata che l'altro ieri rispedisce in carcere Greganti insieme al suo coevo dell'altra sponda, l'ex dc Gianstefano Frigerio.A stimolare l'interesse di Greganti è il padiglione che il governo di Pechino deve realizzare per l'esposizione universale milanese del 2015. Business di «grande interesse», secondo l'ordine di custodia, per il «compagno G», che tiene rapporti con l'Ambasciata cinese in Italia e manda memorie in Cina. «Beh i cinesi li abbiamo incontrati, li ho incontrati a Milano», dice Greganti in una intercettazione, «fanno fare tutto giù in Cina, qui c'è solo un problema di montaggio (...) Perché c'è un rapporto con le Istituzioni, con l'Amministrazione, un rapporto con le altre imprese che lavorano lì». «Comunque - aggiunge - in ogni caso, gli abbiamo detto noi siamo qua (...) che se avete bisogno noi ci siamo, insomma, vi assistiamo in tutto, voi state tranquilli, definiamo prima quali sono i costi, voi sicuramente risparmiate, accelerate i tempi e noi vi diamo una mano». D'altronde «la Cmc già c'ha un ufficio in Cina a Shangai». L'ultima affermazione è interessante, perché riporta a uno degli assi conduttori dell'inchiesta su Expo: il rapporto tra Greganti e le cooperative rosse, il ruolo del «compagno G» nell'assicurare alle coop fette rilevanti della torta milanese. Secondo la Procura, il braccio operativo di Greganti è una società torinese che si chiama Seinco. È a nome della Seinco, per esempio, che l'11 dicembre scorso Greganti telefona a Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, il colosso pubblico dello smaltimento nucleare: «Sono della società Seinco, gli dica Primo Greganti, lui si ricorderà probabilmente». Oggi, negli uffici della Seinco i telefoni suonano a vuoto, la mail è irraggiungibile. Ma fino a pochi mesi fa la Seinco era pienamente operativa, il sito vanta appalti in Cina, a Cuba, lavori per le cooperative e per il gruppo Ferruzzi (sarà ancora la consulenza dei 621 milioni?). Per il giudice preliminare Fabio Antezza la Seinco è lo scherma dietro cui viaggiano le tangenti: «Il documento in oggetto - scrive il gip commentando uno scambio di mail tra Greganti e un dirigente della cooperativa Cmc - conferma il sovente (sic) utilizzo da parte degli associati di fittizi contratti di consulenza come mezzo attraverso cui giustificare la percezione delle indebite dazioni di denaro». Il confine tra consulenza e tangente può risultare esile: e proprio su questa linea è facile prevedere che si attesterà Greganti, quando dopodomani si troverà faccia a faccia col giudice che lo ha arrestato. Anche a lui, come vent'anni fa a Di Pietro, il tarchiato ex cassiere del Pci spiegherà di non essere un collettore di mazzette ma un semplice, scrupoloso cucitore di rapporti commerciali. D'altronde, anche a leggerle una per una, è impossibile trovare nelle intercettazioni una sola frase in cui Greganti si sbilanci. Mentre Frigerio ne dice di cotte e di crude, Greganti è sempre lui: attento, preciso, taciturno. È innocente, o ha semplicemente imparato la lezione?

C'è il compagno G, D'Alema si scopre garantista. L'ex premier freddo sull'inchiesta. E Lupi si difende sul pizzino di Frigerio: mai ricevuto, scrive Giannino della Frattina su“Il Giornale”. Dopo i sette arresti dell'alba di giovedì e le 80 perquisizioni in 15 città che hanno decapitato i vertici dell'Expo con il general manager Angelo Paris finito a San Vittore, Massimo D'Alema si riscopre garantista. Sarà perché questa volta alle patrie galere sono state associate anche due vecchie conoscenze di Mani pulite come l'allora segretario della Dc Gianstefano Frigerio e il cassiere del Pci Primo Greganti e quello erano tempi in cui «Baffino» era giovane e sognava per sé un futuro ben più radioso di quanto sia poi stato. O forse perché quando l'inchiesta cominciò a occuparsi delle tangenti rosse al Pci-Pds, fu proprio D'Alema a definire con disprezzo il pool «soviet di Milano». In realtà un soviet che si occupò di tutti fuorché dei comunisti, spianando loro la strada verso un potere che mai avrebbero conquistato. Son passati gli anni ed ecco D'Alema a difendere (forse per gratitudine) il «compagno G», quel «militante di scarsa fama, ma di sicura fede» che, arrestato nel '93, tenne testa ai magistrati negando che una tangente da 1,2 miliardi di lire fosse destinata al suo partito. Risparmiando così qualche guaio ai «rossi», ma arrecandone parecchi al nostro sventurato Paese. «Sono molto prudente a parlare di vicende giudiziarie che non conosco», ha detto ieri D'Alema presentando il suo Non solo euro al Salone del libro di Torino con il direttore del Tg3 Bianca Berlinguer. Tanto per non andare troppo lontano. «Ho imparato - ha assicurato iper garantista - che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Dicendosi perciò scettico sulla «smania di pronunciare sentenze su istruttorie parziali». E assicurando che «oggi sono finiti i partiti ma non la corruzione che è un fattore endemico nella società italiana». A Roma, intanto, un «biglietto» galeotto fa tremare il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nella sfida dell'Expo si è buttato a capofitto. Perché molti lavori e finanziamenti sono di sua competenza, ma anche perché sogna di correre tra due anni per diventare sindaco di Milano dove fu assessore nella giunta Albertini. Allora formigoniano di ferro, oggi in rampa di lancio per prendere il suo posto al vertice di quella galassia ciellina da cui sta cercando di estromettere il Celeste, ormai troppo invischiato nelle vicende giudiziarie per essere un buon testimonial del nuovo corso dell'Ncd alfaniano. «Leggo che nell'ordinanza per gli arresti dell'indagine sugli appalti di Expo - si legge in una nota di Lupi - vengo citato da Gianstefano Frigerio. Il quale, il 29 aprile dell'anno scorso, affermava: Devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio per suggerirlo come presidente Anas. Posso dire con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». A parlare del biglietto è il gip di Milano Fabio Antezza nell'ordinanza di custodia cautelare, mentre l'Antonio di cui si parla è quel Rognoni arrestato un mese fa nell'inchiesta su Infrastrutture Lombarde. A Milano, intanto, il giorno dopo le manette il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Maroni spingono per accelerare al massimo la nomina del sostituto di Paris. «Purtroppo - dice Maroni - Paris faceva tutto e deve essere sostituito immediatamente con una persona che abbia due requisiti: grande competenza e professionalità e, visto questo rigurgito di Tangentopoli, magari se viene da fuori e non ha avuto rapporti con questi ambienti è meglio». Fretta e condizioni che sembra non siano piaciute al commissario Expo Giuseppe Sala a cui spetta la decisione. E martedì a Milano arriva il premier Matteo Renzi.

Come prima, più di prima, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop. Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela. È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa. L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

Romanzo criminale bipartisan, scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Gli arresti di Reggio Calabria nei confronti di Claudio Scajola (per aver favorito nella latitanza l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena) e quelli nei confronti di due ex democristiani passati a Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo, per gli appalti dell’Expo di Milano, insieme al compagno Primo Greganti, fotografano due momenti di un unica storia iniziata venti anni fa. Se le accuse saranno confermate non sarà poi tanto esagerato parlare di un ‘romanzo criminale’ che affianca e spesso si intreccia con la storia ufficiale del partito fondato e tuttora guidato nei fatti da Silvio Berlusconi. Claudio Scajola è stato arrestato, con l’accusa di avere favorito l’ex parlamentare calabrese di Forza Italia Amedeo Matacena nella sua latitanza. L’ex parlamentare calabrese che ha avuto un momento di gloria quando testimoniò in favore di Marcello Dell’Utri al suo processo, è stato condannato a 5 anni per i suoi rapporti con le cosche di Reggio. Voleva andare in Libano da Dubai dove era stato localizzato ed era in attesa di estradizione.    Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie”. La storia è intrigante perché c’è un punto di connessione tra la fuga di Dell’Utri e quella del suo vecchio amico degli inizi di Forza Italia. Secondo il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “C’è qualche identità personale in relazione alle due indagini. Si tratta di un personaggio destinatario di perquisizione che ci risulta protagonista nella vicenda Dell’Utri, Speziali”, cioé Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl, sarebbe lui l’uomo che aveva un gancio con l’ex presidente del Libano Gemayel, candidato alle prossime elezioni e in buoni rapporti con Silvio Berlusconi. L’indagine della Dia di Reggio Calabria racconta quindi che un ex ministro dell’interno nonché ex coordinatore del partito di Silvio Berlusconi, avrebbe favorito un condannato definitivo per concorso esterno con la ’ndrangheta nella sua fuga. Non solo. Ci racconta che la destinazione finale e il gancio della fuga di Matacena a Beirut sarebbero comuni con quella appena avvenuta del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. L’immagine di Scajola, ministro dell’Interno che guidò il Viminale nel triste momento del G8 di Genova nel 2001, che viene portato negli uffici della Dia di Roma e poi nel carcere di Regina Coeli è certamente inquietante ma almeno appartiene ormai al passato dell’Italia berlusconiana. Come anche l’immagine di Marcello Dell’Utri trattenuto in ospedale a Beirut o quella di Matacena, per ora libero di circolare a Dubai. L'altra indagine, quella di Milano sugli appalti delll’Expo, invece è molto più inquietante perché riguarda l’oggi. Non solo nel campo del centrodestra ma anche in quello del centrosinistra. L’ordinanza di arresto di Milano ha colpito quella che sembra, secondo la ricostruzione dell’accusa, una sorta di cupola bipartisan degli appalti. Sono stati infatti arrestati Primo Greganti, il compagno G simbolo del coinvolgimento del Pci nell’indagine Mani Pulite nel 1992 da un lato e Gianstefano Frigerio, simbolo della continuità tra le mazzette della prima repubblica e la politica della seconda repubblica, dall’altro lato. Frigerio infatti, nato nel 1939 a Cernusco sul Naviglio, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese. Era il capo della Dc a Milano ed è diventato deputato di Forza Italia grazie a Berlusconi nel 2001.    Primo Greganti, classe 1944, divenne famoso per il suo silenzio con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Il primo marzo 1993 venne arrestato su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). Il compagno G. negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattava di consulenze personali. Alla fine Greganti patteggiò solo una pena di 3 anni poi ridotta di sei mesi. Tra gli arrestati di ieri c’è anche un vecchio democristiano ligure, Luigi Grillo, poi passato a Forza Italia e decisivo nella nascita del primo Governo Berlusconi nel 1994. Grillo parlava al telefono con l’ex ministro della difesa del primo Governo Berlusconi. Non dei bei tempi del 1994 ma della nomina di un manager pubblico, Giuseppe Nucci, che aspirava a una nomina a Terna. Previti parla con Grillo dell’argomento Nucci e quest’ultimo parla con Greganti. Insomma, se Frigerio, Greganti e Grillo sono personaggi del passato. Gli affari di cui si occupavano sono quelli di oggi, dell’expo di Milano. In carcere è finito infatti anche il direttore dell’ufficio contratti dell’Esposizione di Milano, Angelo Paris. I pm contestano un’associazione a delinquere per pilotare bandi. In carcere è finito anche il genovese Sergio Catozzo, ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano. Ai domiciliari Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. E’ indagato anche il ras della Manutencoop Claudio Levorato. Al presidente della cooperativa bolognese rossa, come si diceva una volta, i magistrati contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e al traffico di influenze. L’uomo della Manutencoop Levorato e l’amico di Berlusconi, Gianstefano Frigerio, sono stati intercettati il 7 novembre 2013 mentre parlavano dell’appalto della Città della Salute. Frigerio propone, mentre una cimice della Dia registra le sue parole, a Levorato di usare i suoi appoggi politici nel Governo di centrosinistra (allora guidato da Letta) per favorire la nomina di Antonio Rognoni, allora presidente della società Infrastrutture Lombarde che si occupa degli appalti dell’Expo, alla guida dell’Anas. Frigerio dice: “io gli ho detto che una mano gliela do, per quello che posso fare io , della parte di Governo con cui ho rapporti io. Questa è una carta che può servire anche a lei perché un pezzo di Govemo ce l’ha anche lei … forse anche di più”. Frigerio suggerisce di piazzarlo al posto di direttore dell’Anas e Levorato non si scandalizza. In una conversazione intercettata c’è anche una telefonata del febbraio scorso in cui Frigerio sostiene di volersi mettere in contatto con Lorenzo Guerini, il nuovo portavoce della segreteria, il volto nuovo del Pd di Matteo Renzi. Il 24 febbraio scorso Frigerio dice all’amico Cattozzo “devo parlarne con Guerini” e Cattozzo replica: “devo organizzare un incontro con te e Guerini così lo tiriamo dentro, stiamo parlando di sette miliardi di lavoro”. Ma Lorenzo Guerini dice al Fatto: “Non li ho mai visti né sentiti. Non so chi sia questo Cattozzo”. Anche Pierluigi Bersani è tirato in ballo da Frigerio. L’ex parlamentare berlusconiano racconta di avere parlato con lui degli appalti dell’expo. Bersani al Fatto dice: “Pura millanteria non ho mai incontrato questa persona. Non mi sono mai occupato di queste questioni”.

La giustizia è e rimane la vera questione politica in Italia, scrive Fabio Camilleri su “La voce di New York”. Gli ultimi “clamorosi arresti” quali monotone variazioni sul tema. E mettere la testa sotto la sabbia non serve, a meno di non volerla perdere. A Milano arrestano l’Expo, a Reggio Calabria arrestano l’ex ministro Claudio Scajola e, per non restare indietro con la campagna elettorale, arresta pure la Camera dei Deputati, autorizzando i ceppi per Francantonio Genovese, deputato del partito Democratico, già sindaco di Messina. Per una volta, provo a ritenere che siano stati raccolti sufficienti indizi di colpevolezza in ciascuno di questi casi. Solo che rinchiudere in prigione prima del processo, lo sanno ormai anche i muri, dopo ventidue anni di ManiPulite Continua, è possibile se ricorrono uno o più dei “pericoli” per il processo medesimo: e cioè che l’inquisito si dia alla macchia, oppure che ricada nel peccato, o, infine, che provi a strappare le carte del Pubblico Ministero. Gli stessi muri di prima sanno che queste ultime generalmente sono tutte previsioni (di legge) che si autoavverano. In concreto, il pericolo c’è se chi accusa lo afferma. Perciò non ci resta che giurare in verba magistri: se li hanno arrestati, evidentemente un motivo c’era. Così va in Italia e così, per una volta, vorrei provare a ritenere anch’io. Solo che la mia buona volontà Legge e Ordine viene subito messa alla berlina. Già Scajola ristretto (in via cautelare) perché avrebbe aiutato un condannato per un reato di dubbia oggettività (“vicinanza”, “sostegno intermittente”, “contatti” “conoscenze” e via enumerando da una secolare coscienza, si dice per dire, inquisitoria) a fuggire, da uno stato in cui era legittimamente libero (gli Emirati Arabi Uniti, che avevano rigettato le richieste italiane) ad uno (il Libano) in cui è invece possibile l’arresto (come per Dell’Utri), qualche scossone alle mie buone intenzioni lo dà subito. Ma il vero tormento viene da Milano. Perché il Procuratore Aggiunto Robledo ha formalmente espresso il suo dissenso sull’indagine Expo, e non ha controfirmato, come gli altri, l’ordinanza di custodia cautelare? Perché il Procuratore Capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti”? Prima, possibile, risposta. Sono cosucce, miserie burocratiche; allora la conferenza stampa risulterebbe una tribuna vistosamente sproporzionata per una bega interna. Seconda, possibile, risposta. No, in effetti non sono proprio cosucce, tanto è vero che si è aperto un conflitto pure innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura; allora non è chiaro in che cosa consista “l’impostazione dell’inchiesta”. Se le manette hanno fondamento, allora è grave che un alto magistrato, con funzioni direttive, faccia mancare la sua approvazione in un momento così delicato, qual è la presentazione al pubblico, sia pure al pubblico-bue dei risultati di un’indagine preliminare così significativa. Se è fondata l’opposizione, allora è grave che un altro alto magistrato con funzioni direttive abbia chiesto la custodia cautelare, nonostante un così incisivo dissenso sui contenuti dell’indagine. C’è una terza ipotesi, però. Che il contrasto non sorga realmente dai contenuti dell’indagine, ma che riduca questi ad un semplice sfondo spendibile sul piano formale, su cui possano ergersi maestose le supreme ragioni del “riparto dei fascicoli”. Sarebbe l’ipotesi peggiore, se possibile. Significherebbe la manifesta e totale strumentalità delle indagini rispetto a vicende di rango, se così si può dire, eminentemente personale. E le persone in galera? E noi che osserviamo? Insisto: se gli arresti per la vicenda Expo sono fondati, cioè vi sono elementi sufficienti di colpevolezza e così via, non si può discettare di “impostazione dell’inchiesta” e inscenare un improbabile aventino procuratorio; se, invece, “l’impostazione dell’inchiesta” non è questione di “incompetenza per scrivania”, ma è locuzione che tradisce verità contenutistiche, rimaniamo col dubbio che la libertà personale di un certo numero di persone sia stata impropriamente mutilata, senza però, che ci si spinga oltre una sorta di arbitrato interno, eretto, con regale indifferenza, su carne viva. E sorvolo sul timing. Questa ulteriore espressione di eccellenza istituzionale e civile dovrebbe interessare anche il Governo in carica. Invece, la custodia permessa nei confronti dell’On. Genovese, quanto al Partito Democratico, olezza di viltà preelettorale. L’indagine che lo riguarda è aperta da anni; ha già attinto alla moglie, amici, collaboratori e vari altri soggetti; aveva ripetutamente espresso l’autodafè contemporaneo (“dichiaro la mia piena fiducia nell’operato della magistratura”, o formula equivalente), gli indizi sono acquisiti e stanno ormai macerando come neanche i mosti d’annata; dunque, l’arresto preventivo serve per “comunicare”. Ignorare le implicazioni allusive delle “indagini sensibili” non serve, caro Renzi. Significherebbe riconoscere di essere sotto tutela. Se vuole fare qualcosa di nuovo, di veramente politico e nobile, il Presidente del Consiglio deve intestarsi la questione giustizia e calarvi con la scure di Gordio: carriere, CSM, responsabilità civile, nuovi codici, soprattutto, nuovo Ordinamento Giudiziario, non a carriera “automatizzata”: altrimenti, può già preparare il collo; e la testa non la salva nemmeno se la ficca cinque metri sotto la sabbia dell’ignavia. L’annunciato trionfo elettorale, se non agisce in questa direzione, servirà solo ad amplificare il tonfo della caduta. 

Ancora manette in favore di tv. L'arresto di Scajola e l'agghiacciante parabola di questi 20 anni. Da Renzi ci si aspetta il segno di una riforma intellettuale e morale, Fabrizio Rondolino su “Europa Quotidiano”. Il nostro codice di procedura penale, all’articolo 274, è molto chiaro: le «esigenze cautelari», cioè l’obbligo di arresto, necessitano di tre requisiti essenziali: il rischio di inquinamento delle prove («purché si tratti di pericolo concreto e attuale»), il rischio di fuga dell’imputato, il rischio di reiterazione del reato. È molto difficile ravvisare nell’arresto di Claudio Scajola la presenza anche di un solo requisito richiesto dal codice. Scajola non stava fuggendo (e, nel caso, sarebbe bastato ritiragli il passaporto come per esempio è accaduto con Berlusconi), non inquinava nessuna prova perché al momento prove contro di lui non ce ne sono, né tantomeno era in procinto di reiterare il reato. Già, il reato. Di che cosa è accusato l’ex ministro? Secondo la Dia di Reggio Calabria, Scajola avrebbe intrattenuto rapporti “sospetti” con Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare del Pdl Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (un reato a sua volta di assai incerta definizione), e avrebbe “interessato” un faccendiere italiano con interessi in Libano – lo stesso implicato nella fuga di Dell’Utri – per favorirne la latitanza. La parabola di questi vent’anni è agghiacciante. Nel fuoco di Tangentopoli un isolato deputato missino agitò le manette nell’aula di Montecitorio e fu, giustamente, subissato di critiche. E molti, se non tutti, si scandalizzarono alle immagini di Enzo Carra, allora portavoce di Forlani, ammanettato come un assassino colto in flagrante. Oggi la galera ha sostituito l’avviso di garanzia, fra gli applausi della plebe urlante (che spesso e volentieri magari passa col rosso, non paga le tasse e devasta gli stadi) e di mezzo sistema politico. Non era necessario arrestare Scajola, e tanto meno era necessario allestire una gogna pubblica, chiamando giornalisti, fotografi e telecamere come se si trattasse di una conferenza stampa o di un reality show. E non era neppure necessario richiedere l’arresto di Francantonio Genovese, il deputato del Pd coinvolto nell’inchiesta della procura di Messina sui finanziamenti alla formazione professionale: eppure la Giunta per le autorizzazioni, con il voto decisivo di un Pd evidentemente spaventato dalla campagna elettorale, ha concesso senza batter ciglio ciò che i pm chiedevano. Lasciamo da parte, per favore, la solita stucchevole retorica sulla presunzione d’innocenza e sulla piena fiducia nell’operato dei giudici. In Italia da molti anni non è così, le sentenze si emettono prima dei processi (mentre spesso i processi si concludono con un nulla di fatto) e vale invece, sempre, la presunzione di colpevolezza, tanto più se sei un politico. I politici, come per esempio sostengono ormai apertamente Travaglio o Grillo, si dividono in inquisiti e non ancora inquisiti. Ai primi le manette in favore di telecamera, ai secondi il sospetto incancellabile. Può andare avanti un paese così? No, non può. Non si cura la rabbia con la vendetta, non si placa l’indignazione (spesso giustificata) con l’esemplarità del gesto inquisitorio. Succede invece l’esatto contrario, in una spirale di rancore e di rivalsa dalla quale, alla fine, nessuno può sperare di salvarsi. Soprattutto, nessuno può sperare che così si ricostituisca una civiltà giuridica ormai dispersa e si gettino le basi di una nuova, indispensabile etica pubblica. Da Matteo Renzi, che alla sua ultima Leopolda prima di diventare segretario del Pd e presidente del consiglio aveva pronunciato parole importanti e impegnative sulla giustizia, ci si aspetta non una battuta più o meno polemica né tantomeno una guerra ideologica e personalissima “a la Berlusconi”, ma il segno di un cambiamento culturale, psicologico, emotivo – di una riforma intellettuale e morale.

La bufala della "giustizia a orologeria": nel 2014 almeno 27 fra condanne, arresti, indagini e prescrizioni, scrive Claudio Forleo su “International Business Times”. Ecco, puntuali come un orologio rotto che segna l'ora giusta solo due volte al giorno, arrivare i commenti dei soliti fenomeni che vedono negli arresti di oggi non una classe politica marcia fino al midollo, ma il solito complotto ordito dalle toghe politicizzate. E' la colossale balla della "giustizia ad orologeria", quella che si farebbe viva solo prima delle Elezioni, allo scopo di condizionare il voto.  Lo sostiene Elisabetta Gardini, candidata alle Europee nel partito di Berlusconi: "Avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente".  Le fa eco su Twitter Bruno Vespa, uno che ama solo i processi 'alla Cogne', non quelli ai politici. "Arresti eccellenti in campagna elettorale. Giusto per rendere il clima più sereno e trasparente". Chiaro, no? Se un ex ministro dell'Interno, fino all'altro ieri in corsa per un posto alle Europee, viene accusato di aver aiutato la latitanza di un condannato per mafia, chi se ne frega! Se si vota ogni anno (Politiche, Europee, Comunali, Regionali) e se la classe dirigente si fa arrestare, condannare o indagare almeno una volta al mese, è ovviamente colpa dei magistrati che fanno politica e che avvelenano il clima. Teoria riciclata anche quando le elezioni non sono alle porte. Qualsiasi arresto, sentenza o apertura di indagine è sempre 'a orologeria', che sia Ferragosto o Natale una 'spiegazione' si trova sempre. Purtroppo per questi teorici del complotto di serie Z notizie del genere sono le più frequenti quando si parla di politica in Italia, voto o non voto. Da gennaio ad oggi contiamo almeno 3 condanne, 6 rinvii a giudizio, 6 arresti o richieste di arresto (compresi i casi Scajola, Greganti e Frigerio) 10 aperture di indagini e 2 prescrizioni.

Parlamentari, ministri, candidati, consiglieri regionali, membri di spicco dei partiti (presenti e passati). Ecco il dettaglio:

2 maggioLuigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, poi senatore del PD, condannato a otto anni di carcere per appropriazione indebita. Avrebbe intascato 25 milioni di euro. 

16 aprileMaurizio Gasparri, ex ministro e vicepresidente del Senato, rinviato a giudizio per peculato. Si sarebbe appropriato di una somma pari a 600mila euro dell'allora gruppo PDL per intestarsi una polizza sulla vita.

11 aprile: richiesta d'arresto per Marcello Dell'Utri. Il braccio destro di Silvio Berlusconi che, pur non facendo più politica attiva, resta il padrino di Forza Italia che riscrive la Costituzione con Renzi. Ma la "persona perbenissimo" (copyright dell'ex premier) fugge a Beirut. La richiesta di estradizione è di 48 ore fa.

3 aprile: nuovo arresto per Nicola Cosentino, già reduce da svariati mesi a Secondigliano (solo dopo aver perso il seggio da parlamentare), poi tornato a fare politica attiva con Forza Campania e ad incontrarsi con Denis Verdini nei giorni che precedono la nascita del governo Renzi. L'accusa è di concorrenza sleale ed estorsione con metodo mafioso.

1° aprile: chiusa indagine sulle spese pazze nella Regione Campania e notifica dell'atto, che in genere precede la richiesta di rinvio a giudizio, per Umberto Del Basso De Caro (PD, sottosegretario alla Sanità), Domenico De Siano ed Eva Longo (senatori di Forza Italia). Per tutti l'accusa è di peculato.

31 marzoSilvio Berlusconi incassa l'ennesima prescrizione, la settima della sua 'carriera', nell'ambito del procedimento Fassino-Consorte. Dopo la condanna in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d'ufficio, la Corte d'Appello di Milano dichiara il reato estinto.

27 marzo: il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, da poco passato con il NCD di Alfano, viene condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per aver firmato falsi bilanci all'epoca in cui era sindaco di Reggio Calabria, Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose, il primo capoluogo di provincia nella storia d'Italia a subire questo provvedimento. Scopelliti, che avrebbe comunque dovuto lasciare la carica per effetto della legge Severino, non fa una piega, come il ministro degli Interni e leader del suo partito: candidato alle Europee.

27 marzo: l'ex tesoriere dell'UDC Giuseppe Naro è condannato ad un anno di reclusione per concorso in finanziamento illecito ai partiti: avrebbe intascato dall'imprenditore Di Lernia una tangente da 200mila euro. 

26 marzo: Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC e candidato alle Europee, è indagato per finanziamento illecito nell'inchiesta su tangenti e fondi neri che coinvolge Finmeccanica e il SISTRI, il sistema di tracciabilità dei rifiuti mai entrato in funzione. 

19 marzo: richiesta d'arresto per il deputato del Partito Democratico Francantonio Genovese, re delle preferenze alle parlamentarie PD, ras di Messina e dintorni. portatore di conflitti di interesse e soprattutto re della formazione professionale in Sicilia. Lui si 'autosospende' dal partito, in compenso i colleghi della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio se la prendono comoda: Genovese resterà al suo posto almeno fino a dopo le Europee. Ma guai a parlare di 'ritardi ad orologeria', sono solo molto scrupolosi.

3 marzo: l'ex presidente della Regione Lombardia, oggi presidente della Commissione Agricoltura nonchè 'diversamente berlusconiano', il Celeste Roberto Formigoni, viene rinviato a giudizio. per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Sanità: la sua Giunta, nel corso degli anni, avrebbe adottato provvedimenti favorevoli ad aziende private, in cambio di viaggi e regali di varia natura. 

Marzo: al sottosegretario alla Cultura Francesca Barraciu, già indagata per peculato in Sardegna, vengono contestati altri 40mila euro di rimborsi non giusitificati ottenuti all'epoca in cui era consigliere regionale. La posizione della Barraciu si aggrava nonostante le rassicurazioni arrivate dal PD sul chiarimento che il sottosegretario avrebbe offerto ai magistrati. 

28 febbraio: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi è indagato per concorso in abuso di atti d'ufficio per la nomina all'Authority di Olbia di un ex deputato del PDL, Fedele Sanciu, il quale non avrebbe i titoli per ricoprire tale incarico.

27 febbraioFilippo Penati, accusato di concussione a Monza nell'inchiesto sulle tangenti del cosiddetto 'sistema Sesto' incassa la prescrizione nonostante avesse più volte dichiarato di volerci rinunciare.

21 febbraio: l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini sono indagati per finanziamento illecito relativamente ad una provvista di denaro di 25mila euro, che sarebbe stata "realizzata con false fatture di Accenture e destinata ad un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici".

28 gennaio: Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche Agricole, viene iscritta nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle nomine all'ASL di Benevento.

23 gennaio: Silvio Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano nel terzo filone di inchiesta sul caso Ruby (per cui ha già ricevuto una condanna in primo grado a sette anni). Per lui e gli avvocati-parlamentari Longo e Ghedini l'accusa è di corruzione in atti giudiziari. 

16 gennaio: richiesta di rinvio a giudizio per l'ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota e per altri 39 consiglieri regionali. L'inchiesta è ancora sul grande scandalo delle spese pazze. 

14 gennaio: Davide Faraone, membro della segreteria PD, è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze nella Regione Sicilia.

Una lista infinita, e abbiamo considerato solo l'anno in corso. Ma condanne, imputazioni o indagini a carico non limitano la carriera dei politici o dei manager che orbitano nella stessa galassia. Nonostante il rinvio a giudizio per la strage di Viareggio (disastro colposo plurimo), Mauro Moretti è stato scelto dal governo Renzi come AD di Finmeccanica. Paolo Scaroni ha guidato l'ENI per un decennio nonostante una condanna ricevuta durante Mani Pulite e altre indagini a carico. Come dimenticare le liste dei partiti per le prossime Europee, piene di impresentabili, come abbiamo riassunto nell'articolo dello scorso 17 aprile. Quella della giustizia ad orologeria è una bufala, mentre una bella indagine a carico, meglio ancora una condanna, fa curriculum.

Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco. Dalle carte del Csm sullo scontro tra Bruti e il suo vice Robledo spuntano anomalie anche per assegnare il caso Expo. Le nuove accuse del pg Minale. E il procuratore capo attacca i pm. Scomparsa gli indagati per mafia dal fascicolo sull'esposizione 2015, scrivono Michelangelo Bonessa e Luca Fazzo su “Il Giornale”. Che fine hanno fatto le accuse di associazione mafiosa che Ilda Boccassini ha utilizzato per conquistare la gestione dell'inchiesta sugli appalti dell'Expo? Di queste accuse, nell'ordine di custodia eseguito l'altro ieri mattina, quello che ha portato in carcere tra gli altri Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, non c'è più traccia. E così anche di questo dovrà occuparsi il Consiglio superiore della magistratura, che la prossima settimana interrogherà tra gli altri proprio la Boccassini: e dovrà capire se lo scontro in corso a Milano sia figlio di protagonismi personali e di «populismo giudiziario», come sostiene ieri il procuratore Bruti Liberati. O se invece, come afferma il principale accusatore di Bruti, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, a Milano una ristretta cerchia di magistrati, tutti più o meno legati a Magistratura Democratica, si impadronisca di tutti i fascicoli più delicati in violazione delle regole della stessa Procura. Nelle carte già in mano al Csm ci sono già alcuni dati di fatto da cui sarà impossibile distaccarsi. Sono i punti fermi che ha messo Manlio Minale, l'anziano procuratore generale, spiegando al Csm che in almeno due casi non è stata attivata la «necessaria interlocuzione» con Robledo, modo ostico per dire che il procuratore aggiunto è stato scavalcato, e che nell'inchiesta sulla Serravalle, che lambiva il Comune di Milano, il ritardo di Bruti nell'avviarla «ha pregiudicato le indagini». Ma davanti al Csm, Minale ha parlato anche di Expo, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. Al Csm, Robledo aveva denunciato come una plateale anomalia il fatto che una inchiesta per reati di corruzione non fosse coordinata da lui, competente per questi reati, ma da Ilda Boccassini, ovvero dal pool antimafia. Ed ecco quanto dichiara Minale: «Robledo era portatore di un convincimento assoluto, che in quel procedimento ci fossero solo reati contro la pubblica amministrazione» e che dunque lui «fosse stato ingannato e messo da parte (...) tant'è che anche ultimamente ho detto: Guarda che io voglio essere tranquillo, mi sono fatto dare le iscrizioni e risultano iscritti alcuni indagati per 416 bis», cioè per associazione mafiosa. Così, con la presenza anche di un filone mafioso dell'indagine su Expo, si giustificherebbe la presenza della Boccassini nell'inchiesta. Ma l'altro ieri vengono eseguiti gli arresti, e nell'ordine di cattura non c'è traccia di accuse di mafia. Nella retata dell'Expo si parla di appalti, di tangenti, di politica, ma non di Cosa Nostra né di 'ndrangheta. E allora, che fascicolo venne fatto vedere a Minale, con le accuse di associazione mafiosa? Forse i vecchi fascicoli sulla penetrazione 'ndranghetista in Lombardia, da cui ufficialmente scaturisce l'inchiesta Expo. Ma è una parentela assai remota, passata per mille passaggi successivi. Non era certo di quei filoni, che Robledo si sentiva spodestato per scarsa affidabilità politica. Proprio ieri, per andare al contrattacco Bruti Liberati sceglie un convegno all'università Statale. E lì afferma esplicitamente che il «populismo giudiziario è un virus endemico nei corridoi delle Procure della Repubblica, ma da noi a Milano ha potenti antidoti». La frase di Bruti parte da una citazione di un libro di Luigi Ferrajoli, padre fondatore di Magistratura Democratica, che si riferiva soprattutto a Antonio Ingroia, capofila di quei pm che «cercano di costruire un consenso popolare non solo alle proprie indagini ma anche per la propria persona». Ma questo, per Bruti, è anche il caso di Alfredo Robledo. E quei «potenti antidoti» di cui parla ieri Bruti sembrano voler dire che il procuratore è convinto di uscire vincente dallo scontro, in cui si sente attaccato non in nome della trasparenza ma del «populismo» e dell'ambizione personale.

Stefania Craxi: "Ora l'Italia chieda scusa a mio padre". La figlia dello statista socialista accusa i metodi da «Mani pulite»: "Una vergogna le modalità dell'arresto di Scajola e i processi aperti sulla stampa per Expo 2015", scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «In questo paese sarebbe venuta l’ora di chiedere scusa a Bettino Craxi….». Dopo l’ondata di arresti di giovedì 8 maggio 2014, che hanno resuscitato stili e metodi spettacolari da «Mani pulite» e che hanno fatto parlare di «una nuova Tangentopoli», Stefania Craxi in questa intervista a Panorama.it invita ad andare a rileggersi il celebre e inascoltato intervento dello statista socialista alla Camera nel luglio 1992.

Ora quelle parole cadute nel vuoto perché tornano secondo lei più che mai attuali?

"In un coraggiosissimo discorso di fronte al parlamento e alla nazione Craxi denunciò la degenerazione alla quale era arrivata la società italiana e chiamò la politica del tempo a porvi un rimedio. Ma seguì un vile silenzio. In questi vent’anni hanno fatto come le scimmiette: non vedo, non parlo, non sento.  Il degrado è andato avanti di pari passo con una Giustizia che utilizza spesso due pesi e due misure. Due fenomeni che sono andati a braccetto.  Certi magistrati dalla tentazione golpista, favoriti anche da una politica imbelle, hanno fatto avanzare la corruzione. Se prima c’era qualche corrotto, ma la politica era forte, ora non conta  più la politica, contano solo le lobby e gli affari.  L’Italia somiglia sempre più a un paese del Sudamerica che non  a un paese moderno e occidentale".

Che effetto le ha fatto rivedere le stesse scene di vent’anni fa e le paginate dei giornali che ricalcano gli stessi schemi del processo mediatico? Da una lato, l’ex ministro Claudio Scajola, arrestato di fronte a una marea di telecamere e fotografi, si dice avvisati per tempo, dall’altro ondate di verbali di intercettazioni riversate sulla stampa, da Scajola all’inchiesta Expo 2015…

"Il metodo dell’arresto di Scajola è una vera vergogna. E la vergogna  di processi che avvengono prima sulla stampa che nell’aula di tribunale continua. Anche un colpevole ha diritto a non avere la gogna. E poi i contorni dell’inchiesta Expo sono pochi chiari perché tutto avviene all’interno di uno scontro di potere dentro la mitica  Procura di Milano".

Che opinione si è fatta?

"I tempi e i modi di questi nuovi arresti non sono estranei a  questo scontro dove c’entrano protezioni, coni d’ombra. Tutto si consuma in una contrapposizione dove è emersa con molta chiarezza la voglia da parte di certi magistrati di protagonismo e di avere assegnate le inchieste di grido. Questa è la novità".

Gli arresti dell’8 maggio avvengono a meno di due settimane dal voto europeo. La tempistica fa sempre riflettere?

"Avvengono come al solito a pochi giorni dalla elezioni. C’è un uso improprio della custodia cautelare, che è anche un costo sociale abnorme per le nostre carceri e i cittadini.  A leggere i giornali italiani sembra la sceneggiatura della stessa telenovela,  con le medesime formule giornalistiche, tipo la cupola, la cupola massonica internazionale…Ma dove è?".

Che impatto politico avranno questi nuovi arresti?

"Questo spettacolo indecente è chiaro che favorirà Beppe Grillo che è un sintomo anche grave di un sistema malato.  La sinistra ha sparso il morbo giustizialista che è entrato nelle vene dell’elettorato italiano mischiandosi a un impasto di invidia sociale e odio verso i potenti, aggravato da una politica che non ha saputo dare risposte. Nella Prima Repubblica i difetti c’erano, non a caso mio padre parlò di Grande Riforma già nel 1979, ma c’erano anche le regole, a cominciare dall’articolo 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare,  ora invece sono rimasti i difetti ma sono saltate le regole".

È un fatto che la giornata degli arresti avviene dopo che Silvio Berlusconi è tornato centrale per fare le riforme, non a caso è stata Forza Italia a salvare Matteo Renzi al Senato. Che ne pensa?

"Da un lato c’è un giustizialismo che ha offuscato le menti e generato mostri, e poi c’è sempre una regia da parte di poteri neppure tanto dichiarati. Quelle di Renzi sono riformicchie, riforme fatte un tanto al chilo, ma è chiaro che quello che è successo è volto a far saltare il banco. Questo premier che sembra uscito dalla penna di Collodi elude la riforma della Giustizia. E intanto il Pd l’altro giorno in commissione ha votato contro la responsabilità civile dei magistrati".

Expo all’italiana: tangenti, pizzini e liti in procura. Scrive Tommaso Caldarelli su “Giornalettismo”. Caos totale a Milano: spuntano nuovi appalti truccati. E in Tribunale i pm litigano. Expo Milano 2015, il lavoro per i magistrati sembra non avere fine: spuntano nuovi guai giudiziari, nuovi appalti truccati e nuove tangenti. Come se non bastasse, davanti al Consiglio superiore della Magistratura è compiutamente uscita fuori la frattura all’interno della Procura di Milano, con il Procuratore Generale Edmondo Bruti Liberati che replica alle accuse del suo vice Alfredo Robledo, sostenendo che egli abbia intralciato il corso delle indagini. Insomma, veleni in procura: ne abbiamo parlato ieri raccontando della guerra di note inviate al Csm che in qualche modo dovrà dirimere la patata bollente. Lo scontro fra i due cavalli di razza, Bruti Liberati e Robledo, con il primo che accusa il secondo di intralcio alle indagini (ricorda Paolo Colonnello sulla Stampa: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della Guardia di Finanza” con il rischio che il pedinato scoprisse di esserlo. Solo l’abilità del personale operativo ha scongiurato questo rischio) e il secondo che accusa il primo di tenerlo fuori dall’indagine, attraverso un esposto al Csm che ha fatto finire, però, tutte le carte dell’inchiesta Expo sui giornali e sui settimanali come Panorama ben prima che fosse opportuno. Intanto i pubblici ministeri scoprono nuovi appalti truccati. Ancora il giornalista della Stampa racconta che l’imprenditore Enrico Maltauro da Vicenza, il principe delle tangenti della vicenda Expo Milano avrebbe versato a Giuseppe Cattozzo, esponente dell’UdC ligure, qualcosa come un milione di euro complessivamente, in più forme: contanti, fatture false, una bella Audi da 60mila euro. La domanda è: “Se Maltauro per un paio di appalti aveva versato quasi un milione e promessi altri 600mila euro, gli altri imprenditori per gli appalti sulal Sanità lombarda che rappresentano oltre il 90% di questa inchiesta, quanto hanno pagato?”. Sembra, moltissimi soldi, ed è per questo che una rogatoria con la Svizzera è già stata avviata. E con ogni probabilità si aprirà anche una “fase due dell’inchiesta”, con “file di imprenditori schierate in procura per confessare corruzioni e tangenti”. Secondo il sondaggio della Stampa “si è aperta una nuova tangentopoli”; ma non è tutto. Dall’ordine di arresto del manager Expo Angelo Paris risulta che la cupola degli appalti (i magnifici tre: Frigerio, Grillo, Greganti) aveva accesso libero ad Arcore, da Silvio Berlusconi, e buoni agganci a Palazzo Lombardia da Roberto Maroni: con sempre nelle mani i famosi “pizzini” sui quali sono annotati gli uomini delle tangenti e le percentuali da esigere. L’uomo del contatto è Gianni Rodighiero, collaboratore di Sergio Frigerio, che in più occasioni è ricevuto ad Arcore – e in un caso, lo stesso Frigerio è con lui: principalmente “di lunedì e di venerdì”, dicono i protagonisti dell’inchiesta; solo che, in tempi più recenti, bisogna stare più attenti, si dicono al telefono, per scansare “il cerchio magico di Silvio Berlusconi”. Per quanto riguarda Roberto Maroni e la regione, le carte riportate da Pietro Colaprico ed Emilio Randacio su Repubblica sembrano dimostrare che Roberto Maroni è stato agganciato una volta “per caso” e sarebbe stato proprio il presidente a sollecitare Frigerio “per il lavoro sulle vie d’Acqua”, aggancio che poi lo stesso Frigerio si rivendica, al telefono. Il figlio, Frigerio Gianluigi, “risulta essere un funzionario di Regione Lombardia”: insomma, Frigerio, in regione, possiede “maniglie solide” di cui non esita a vantarsi ogni volta che è possibile.

Una nuova tangentopoli su Expo 2015. Il blitz, scattato alle prime luci dell'alba del 8 maggio 2014, ha portato all'arresto di sette persone, tra cui il top manager Paris e l'ex parlamentare Grillo ma anche vecchie conoscenze come Greganti e l'ex dc Frigerio. L'accusa è di aver pilotato e gonfiato gli appalti dell'Esposizione universale, scrive “Panorama”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, nomi che riportano indietro di oltre vent'anni le lancette dell'orologio della cronaca giudiziaria e, in parte anche di quello del Paese. C'è poi quello di Luigi Grillo, ex parlamentare ligure che i suoi guai giudiziari (per poi essere assolto in appello) li ebbe in tempi più recenti, con la scalata della Banca popolare italiana ad Antonveneta nel 2005, quella dei "furbetti del quartierino".  Greganti, Frigerio e Grillo ora sono in carcere per una complicata vicenda di appalti, legata anche ad Expo: Frigerio quale "capo, promotore ed organizzatore dell'associazione, con funzioni direttive e di coordinamento degli altri associati". Greganti e Grillo quali "organizzatori incaricati dell'attività di raccordo con il mondo politico, sia con finalità di copertura e protezione in favore dell'imprese di riferimento, sia con finalità di appoggio ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto allo scopo di assicurare agli stessi sviluppi di carriera nell'ambito degli enti e delle società pubbliche quale corrispettivo del trattamento preferenziale riservato alle imprese". Tradotto: associazione a delinquere, turbativa d'asta, corruzione. Il blitz, imponente, che ha coinvolto oltre 200 finanzieri,  è scattato a Milano, alle prime luci dell'alba. Gli ordini di cattura sono sette. L'accusa, sostanziata anche da alcune intercettazioni definite clamorose dai pm milanesi, è quella di turbativa d'asta e associazione per delinquere per pilotare e gonfiare i prezzi degli appalti pubblici, tra cui quelli di Expo 2015. Tra coloro che sono stati raggiunti dall'ordine di custodia cautelare ci sono nomi pesantissimi. C'è Angelo Paris, 48 anni, il top manager di Expo. C'è l'ex dc ed ex parlamentare di Forza Italia, Luigi Grillo, passato armi e bagagli nelle fila dell'Ncd di Angelino Alfano.  Ci sono  vecchie conoscenze di Mani Pulite che avevamo dimenticato, come Primo Greganti,  il compagno G, l'ex cassiere del Pci che rifiutò ogni collaborazione con i magistrati nei primi anni 90. O Gianstefano Frigerio, l'ex segretario regionale della Democrazia cristiana, finito già allora in carcere con un passato anche come parlamentare di Forza Italia, arrestato insieme al suo collaboratore Sergio Cattozzo, ex segretario Udc Liguria. E ancora, il costruttore di riferimento del gruppo, il vicentino Enrico Maltauro (che versava secondo i pm «30-40mila euro al mese» in contanti o come fatturazione di consulenze alla «cupola degli appalti»);  Antonio Rognoni, di Infrastrutture Lombarde, la stazione appaltante voluta da Roberto Formigoni, già accusato - nell'ambito della stessa inchiesta - di aver pilotato appalti a favore di aziende amiche e gonfiato di almeno due milioni di euro di spese ingiustificate (mascherate come consulenze) i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza. Un gruppo di immobiliaristi, politici e faccendieri, secondo la ricostruzione dei pm  Claudio Gittardi (pool antimafia) e Antonio D’Alessio (anticorruzione), che - muovendosi per tempo sulla base delle informazioni riservate cui non avevano accesso i concorrenti - si intascavano percentuali di tangenti, si aggiudicavano grazie alle loro amicizie appalti pubblici chiave (come quello di Expo per l'assegnazione delle case per le delegazioni straniere o il progetto definito 'Le vie d’acqua') gonfiandone i prezzi e azzerando la concorrenza pulita. Avevano anche una sede, il circolo culturale «Tommaso Moro», che per dirla con Bruti Liberati «nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe immaginato». L'inchiesta (un faldone di 600 pagine in cui compaiono anche i nomi, ma non sono indagati, di Maurizio Lupi, Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani e Cesare Previti) su cui i pm lavoravano da mesi ha subito un'accelerazione dopo che sono state registrate alcune intercettazioni compromettenti che sarebbero giunte fino ai primi mesi del 2014. "Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera" avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere finiti agli arresti. Ne emerge, dagli incartamenti, una «cupola degli appalti» in Lombardia, con un meccanismo operativo definito dai pm molto semplice che puntava a intascarsi percentuali di guadagno sugli appalti pubblici chiave non solo di Expo ma anche di altri grandi lavori pubblici: quando c’era una gara d’appalto giudicata interessante, l’associazione diretta da Frigerio avvicinava il pubblico ufficiale competente, utilizzando gli appoggi e le amicizie politiche che poteva vantare. Al sodalizio criminale venivano comunicati in anticipo i bandi di gara interessanti, con le caratteristiche utili da presentare per poterseli aggiudicare rispetto a eventuali concorrenti. La squadra operava insomma «in modo coordinato», coinvolgendo aziende legate a diversi partiti politici nei quali trovavano protezione. La promessa di carriera e promozione  - secondo i pm - diventava la leva fondamentale per coinvolgere i nuovi adepti. Tra i lavori pubblici su cui il gruppo aveva rivolto le sue mire ci sono anche  (per un valore di bandi di gara di 323 milioni) i lavori della Città della Salute di Sesto San Giovanni, gli appalti e le presunte finte consulenze gonfiate per i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza, la Pedemontana  e la gestione dei servizi di supporto non sanitari rivolti alle due Fondazioni IRCCS Carlo Besta e Istituto Nazionale dei Tumori. «La politica non metta becco sulle indagini»  ha dichiarato Matteo Renzi a Genova, nell'ambito di un'iniziativa di Ansaldo Energia. 

La confessione di mister Expo. «Appalti in cambio di protezioni». Prime ammissioni di Paris, il manager chiave dell'inchiesta: «E' vero, ho favorito Frigerio e Greganti, perché ero isolato e mi servivano appoggi politici per la carriera. Ho sbagliato, ora mi dimetto». Oggi due interrogatori paralleli per l'industriale Maltauro e il politico Udc Cattozzo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Prima svolta nell'inchiesta sugli appalti dell'Expo. Angelo Paris, il direttore tecnico arrestato per associazione per delinquere, ha confessato già nel primo interrogatorio i fatti fondamentali che gli vengono contestati dai pm milanesi: ha ammesso di aver fornito informazioni riservate sugli appalti dell'Expo alla cosiddetta “cupola” politica guidata dall'ex democristiano poi berlusconiano Gianstefano Frigerio e dall'ex comunista poi democratico Primo Greganti, entrambi ora in carcere. Paris ha anche confermato di aver chiesto, in cambio, l'appoggio dei due faccendieri politici per la sua futura carriera di manager pubblico, candidato in particolare a guidare la società regionale Infrastrutture Lombarde dopo il duplice arresto dell'ex numero uno ciellino Antonio Rognoni. In questo primo interrogatorio, molto sofferto, Paris ha ammesso di aver fatto questi «errori» e di volersene assumere la «responsabilità» presentando subito le dimissioni. L'ex manager, inoltre, ha cominciato anche a spiegare a grandi linee le ragioni che lo avevano spinto a mettersi a disposizione dei faccendieri della “cupola degli appalti”: Paris ha detto che si sentiva sempre più «isolato» nella struttura dell'Expo e di aver concluso che proprio personaggi come Frigerio e Greganti potevano garantirgli quelle «protezioni politiche» che gli sembravano necessarie. Dopo queste prime ammissioni, Paris verrà nuovamente interrogato lunedì prossimo, questa volta dai magistrati dell'accusa, per chiarire e approfondire tutti i fatti e spiegare meglio i motivi per cui un tecnico dell'Expo possa pensare di dover chiedere «protezione politica» a due noti pregiudicati per corruzione, concussione e finanziamenti illeciti come Frigerio e Greganti, entrambi condannati con sentenza definitiva come tesorieri delle mazzette nella storica Tangentopoli esplosa nel 1992-1994. Le ammissioni di Paris, che occupava il ruolo chiave di responsabile del settore costruzioni e dell'ufficio contratti, rappresentano un'importante conferma della solidità dell'inchiesta coordinata dai pm Ilda Boccassini, Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. Una svolta, arrivata già nel primo interrogatorio di garanzia davanti al gip Fabio Antezza, che contraddice i dubbi sollevati invece dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel suo durissimo scontro con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva segnalato al Csm di non aver condiviso né firmato proprio le accuse rivolte a Paris. Per oggi sono fissati altri due nuovi interrogatori importanti: i pm, divisi in due squadre, sentiranno contemporaneamente Enrico Maltauro, l'industriale vicentino che ha già ammesso le prime tangenti, e Vito Cattozzo, il politico dell'Udc ligure che faceva da tramite tra Frigerio e l'ex parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo, curando i rapporti con il centrodestra e con le banche. Gli interrogatori contemporanei serviranno ad impedire ai due arrestati di poter concordare versioni di comodo, mentre i pm potranno contestare subito all'uno le eventuali ammissioni dell'altro, favorendo così dichiarazioni meno reticenti. Maltauro è il re degli appalti che è stato videoregistrato dagli investigatori della Dia mentre concordava e pagava tangenti, fino a consegnare di persona l'ultima bustarella con 15 mila euro pochissimi giorni prima degli arresti.

Expo, Bruti Liberati: "Robledo è stato d'intralcio alle indagini", scrive “Libero Quotidiano”. Nuovo atto nella violenta guerra tra toghe che sta sconvolgendo il pool di Milano. A riferire davanti al Consiglio superiore della Magistratura tocca a Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della procura meneghina, il "grande accusato" dal collega Alfredo Robledo. Bruti Liberati, in riferimento alla vicenda Expo, ha affermato che "le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini". La vicenda affonda le sue radici allo scorso marzo, quando Robledo aveva denunciato al Csm "fatti e comportamenti in essere dal procuratore della Repubblica, Edmondo Brunti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione". Le ragioni - In soldoni si tratta di un caso clamoroso che sta turbando la presunta armonia del pool di Milano: il magistrato (Robledo) denuncia il suo capo (Bruti Liberati). Perché? Perché Robledo si sente scavalcato a causa del fatto che, afferma, il capo assegnerebbe i fascicoli che riguardano reati contro la pubblica amministrazione (di cui sarebbe competente il suo ufficio) al pool reati finanziari, guidato dall'altro procuratore aggiunto, Francesco Greco, vecchia conoscenza di Mani Pulite. Oppure a Ilda Boccassini, la pm anti-Cav per eccellenza (la Boccassini è stata accusata dal pg di Milano, Manlio Minale, di non avere la titolarità dell'inchiesta Ruby; l'accusa è piovuta sempre nell'ambito dell'inchiesta avviata dopo l'esposto di Robledo). La battaglia - Lo scontro, in atto da mesi, è deflagrato nuovamente lo scorso giovedì, in parallelo all'esplosione dello scandalo Expo. Si è scoperto che Robledo non aveva firmato gli atti dell'inchiesta. Bruti Liberati, in una conferenza stampa in cui si era notata proprio l'assenza di Robledo, aveva spiegato che il collega "non ne condivide l'impostazione" e dunque "non ha vistato" gli atti dell'inchiesta Expo che non ha portato all'arresto di sette nomi di rilievo, e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre dodici persone, nonché a perquisizioni a Milano, Roma, Torino, Vercelli, Alessandria, Pavia, Lecco, Vicenza e Bologna. Ultimo atto - Ora, dunque, l'ultimo atto di questa vera e propria battaglia che tiene banco tra i corridoi dei tribunali di Milano, ossia l'accusa del capo (Bruti Liberati) al suo magistrato (Robledo) di aver "ostacolato" l'inchiesta Expo che sta mettendo a repentaglio l'organizzazione dell'evento e sta facendo tremare la politica italiana. Un'accusa pesantissima, e che non farà altro che dilatare il conflitto. Bruti Liberati e Ilda Boccassini da un lato, Alfredo Robledo dall'altro.

Bruti Liberati, Robledo e il doppio pedinamento. La querelle tra magistrati al vertice della Procura di Milano finisce in guerra. Ma un po' anche in farsa: perché è stato chiesto un pedinamento che era già stato disposto, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Lo scontro al vertice della Procura di Milano si alza improvvisamente di livello e diventa guerra guerreggiata. Il procuratore Edmondo Bruti Liberati, in una nota destinata al Consiglio superiore della magistratura che da oltre un mese sta affrontando la querelle aperta dal suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha scritto che le  iniziative di quest'ultimo "hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sugli appalti dell'Expo, appena scoppiate con la retata dei mercoledì 7 maggio. Nella nota Bruti aggiunge che l'invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento ha anche "posto a grave rischio il segreto delle indagini". Ma qui, purtroppo, lo scontro scade in farsa. Perché Bruti cita un "doppio pedinamento" che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. Ecco che cosa annota il procuratore: "Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di finanza". Il procuratore aggiunge che "solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Si attendono ora altri "capitoli" dello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, e forse qualche conseguenza di tipo direttamente giudiziario. Robledo, qualche giorno fa, aveva spiegato al Csm le ragioni del suo mancato "visto" alle misure cautelari richieste per l’inchiesta sull'Expo: il numero 2 della procura aveva lamentato di non essere stato messo in condizioni dal procuratore Bruti Liberati, «in violazione della normativa», di fare una valutazione sulla posizione di uno degli indagati. In precedenza, Robledo aveva accusato il capo dell’ufficio Bruti Liberati di una serie di presunte irregolarità. Come il ritardo «di un anno» con cui era stato indagato Roberto Formigoni nell’inchiesta San Raffaele-Fondazione Maugeri e l'affidamento dell’inchiesta sul cosiddetto Rubygate, segnato a suo dire da gravi violazioni delle regole: l’assegnazione indebito del procedimento a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto dell’antimafia di Milano, che secondo Robledo non avrebbe avuto la competenza per occuparsi di quel procedimento. Bruti Liberati si è difeso davanti al Csm sostenendo che tutte le accuse erano prive di fondamento.

Expo, ecco tutte le beghe fra Boccassini, Robledo e Bruti Liberati, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. La ricostruzione dei dissidi fra i magistrati milanesi secondo i cronisti giudiziari dei principali quotidiani. Una lettura non troppo commendevole, come d'altronde quella sulle intercettazioni...Il terremoto giudiziario che si è abbattuto su Expo 2015 con la scoperta di una “cupola” trasversale finalizzata ad assegnare gli appalti in cambio di tangenti ha portato alla luce una ragnatela capillare di protezioni e intrecci affaristici tra manager, pubblici funzionari, politici e imprenditori, secondo le accuse dei pm. Ma ha fatto affiorare al contempo un conflitto radicale e reiterato fra le mura del Palazzo di Giustizia di Milano. A partire dallo scontro fra il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che ha vissuto un crescendo di accuse incrociate risalenti all’attribuzione a Ilda Boccassini del fascicolo investigativo e processuale sul Rubygate. E dall’accusa, rivolta al massimo responsabile dell’ufficio giudiziario milanese, di aver rinviato di un anno gli accertamenti per i presunti pagamenti di mazzette dei vertici dell’ospedale San Raffaele a favore dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Tensione che ha assunto una rappresentazione plastica nella conferenza stampa sui fenomeni di corruzione legati a Expo. E che non è rimasta inosservata da parte dei giornali più attenti alle dinamiche della magistratura ambrosiana. È il Corriere della Sera a mettere in rilievo una frase emblematica pronunciata da Bruti Liberati nella giornata di ieri. Ai cronisti giudiziari che gli ricordavano come l’inchiesta sulle illegalità relative agli appalti per Expo 2015 fosse uno dei filoni investigativi citati dal procuratore aggiunto Robledo nell’esposto presentato contro di lui al Consiglio superiore della magistratura per irregolarità nella gestione e assegnazione dei fascicoli di indagine, il capo dei pm milanesi ha così risposto: “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti. Ma prima vi erano state numerose riunioni”. Argomentazioni che hanno provocato una risposta repentina e sdegnata da parte del numero due della Procura. Il quale ha spiegato come il dissenso riguardasse la posizione di un indagato, su cui non vi erano a suo avviso gli elementi per una misura cautelare rispetto ai reati di corruzione e turbativa d’asta. Ragionamento di cui “mise a conoscenza Bruti Liberati e Ilda Boccassini, senza ricevere risposta”. A tutto ciò Robledo ha fatto riferimento nell’esposto trasmesso a Palazzo dei Marescialli. Un documento nel quale ha puntato il dito contro il comportamento centralizzatore del procuratore capo, “che frena ogni autonoma iniziativa di inchiesta, intercettazione e pedinamento”. Ma l’accusa va ben oltre. Bruti avrebbe gestito i dossier giudiziari penalizzando il suo ufficio specializzato nei reati contro la pubblica amministrazione, a vantaggio della Direzione distrettuale anti-mafia guidata da Boccassini. Le cui competenze, osserva il magistrato, non rientrano nelle indagini sulle tangenti correlate a Expo. La risposta della pm già appartenente al pool Mani Pulite giunge sulle pagine di Repubblica. L’inchiesta, rileva Boccassini, rappresenta “una delle numerose costole” di un filone investigativo risalente al luglio 2010 e concernente le relazioni nel territorio lombardo tra cosche della ‘ndrangheta, personaggi politici e manager di ospedali. Fattispecie criminose che spetta ai magistrati anti-mafia appurare. Soltanto più tardi, precisa la pm, vennero alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione: “Elementi che segnalai a Bruti per una sinergia con il dipartimento coordinato da Robledo”. A fornire una spiegazione sulle ragioni profonde della spaccatura nel Palazzo di Giustizia è un articolo apparso sul Giornale a firma Luca Fazzo. L’assenza fisica del procuratore aggiunto nella conferenza stampa dei magistrati milanesi, scrive il cronista, è legata agli orientamenti politico-ideologici dell’universo togato. Robledo, in breve, è estraneo all’entourage dei pm progressisti di Magistratura Democratica legati al capo della Procura. Figure tra le quali spicca la principale responsabile del pool anti-mafia, “capace di assumere la guida dell’indagine su Expo 2015 esattamente come fece nella vicenda Ruby. Un’inchiesta di cui non aveva la titolarità e che riguardava reati commessi da pubblici funzionari”. Ma vi è un dissenso più remoto, connesso al metodo di lavoro adottato dai capi dei due dipartimenti giudiziari: la scelta dell’organo di polizia giudiziaria cui affidare le indagini. L’ex pm del pool Mani Pulite, evidenzia Il Giornale, ha sempre  utilizzato una squadra assai ristretta di militari della Guardia di finanza in servizio alla Procura. Nell’inchiesta in corso la pm vuole in tutti i modi ricorrere a questo gruppo di propria fiducia. L’obiezione avanzata da Robledo riguarda il numero esiguo del personale investigativo. Poiché il materiale giudiziario è sterminato, i magistrati inquirenti rischiano di perdere il controllo su tutti gli spunti dell’inchiesta: “E sarebbero gli uomini delle Fiamme Gialle a stabilire con ampio margine di discrezionalità le intercettazioni da trascrivere”.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

Gli arresti esaltano i manettari: "Nuova Mani pulite". M5S processa Scajola, la Lega chiede pulizia. Pd spiazzato, Forza Italia garantista, scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”. C'è chi prova a salire sulla tigre giustizialista e a cavalcarla (probabilmente incrociando le dita, nella speranza di non trovarsi mai al posto degli indagati). E chi prova a far notare che c'è qualcosa che non va, che ci si trova di fronte a un canovaccio già visto, con una serie di eventi giudiziari a orologeria, dall'ampia eco mediatica, scoppiati a due settimane dal voto. Nel giorno del doppio affondo giudiziario - tra inchiesta Expo e arresto di Claudio Scajola - la politica si muove secondo schemi in qualche modo «identitari». I grillini partono subito all'attacco e in un post sul blog di Beppe Grillo, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato, Maurizio Buccarella, chiede l'approvazione «di una nuova e seria legge anti-corruzione». «Dopo Scajola», recita il post, «ecco la nuova Tangentopoli delle larghe intese sugli appalti Expo 2015. Il Movimento 5 Stelle in tempi non sospetti aveva denunciato con forza come l'Expo fosse un tangentificio a forte rischio corruzione e infiltrazioni mafiose: grandi opere... grandi tangenti!». Il Pd, invece, si muove in modo disordinato. C'è chi riflette sul clima dominante che oggi regna nel Paese e dice a mezza bocca: «Meno male che in giunta per le autorizzazioni a procedere abbiamo votato per l'arresto di Genovese, altrimenti oggi saremmo nel mirino». Nel partito, però, c'è anche chi teme che il voto in aula, che probabilmente ci sarà martedì o mercoledì, possa riservare qualche sorpresa. Matteo Renzi, comunque, invia un messaggio chiaro e invita tutti a stare alla larga dalla materia. «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati», chiarisce il presidente del Consiglio. «I politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura». Toni duri imbraccia, invece, la Lega con Matteo Salvini. «Su Expo vogliamo assoluta pulizia, spiace che certe facce del vecchio mondo siano ancora in giro». Chi non si tira indietro dal sollevare perplessità su modalità e tempistica degli eventi è Forza Italia. Una protesta che va al di là dei calcoli sull'opportunità tattica della presa di posizione e del timore che le manette possano tramutarsi in benzina versata sul fuoco grillino. «Il copione si ripete, non appena sono vicine le elezioni scatta la giustizia a orologeria quasi sempre verso esponenti di centrodestra anche quando, come nel caso di Scajola, non fanno parte di questa competizione elettorale. Forza Italia resta un partito garantista, Scajola dimostrerà la sua estraneità» dice Giovanni Toti. «Noi - prosegue - continueremo nell'azione di rinnovamento delle liste e dei quadri dirigenti del partito in modo totalmente indipendente dall'azione della magistratura». Gianfranco Rotondi invita ad approfondire e verificare dal punto di vista giuridico davvero la detenzione di Scajola sia una fattispecie contemplata dal codice, o non si sia esagerato con questa misura. Infine, Elisabetta Gardini, capolista nel Nord Est, non ha dubbi: «Non dico che ci sia un complotto, ma avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente. Possiamo dire che c'è un cronoprogramma, un affollamento di questi avvenimenti sempre intorno alle campagne elettorali».

Quella barbarie delle manette facili. Indagare su Scajola è lecito ma metterlo dentro è barbarie, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Era scontato che la Cassazione confermasse la condanna a 7 anni per Marcello Dell'Utri, attualmente a Beirut, piantonato in un ospedale. Certi verdetti, anche se non si possono sapere in anticipo, si annusano. Evidentemente lo stesso Dell'Utri aveva subodorato che gli avrebbero inflitto una pena pesante, tant'è che, in attesa di conoscere il proprio destino, si era trasferito in Libano, le cui autorità ora decideranno se concedere l'estradizione. Il che non è automatico, poiché in quel Paese il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non c'è e sarebbe una forzatura se esse, nonostante ciò, si piegassero alla richiesta italiana di rimandare in patria l'ex senatore del Pdl. In questi casi può succedere di tutto. Non siamo in grado di stabilire se Dell'Utri sia colpevole o innocente: la sua vicenda è talmente complicata anche per gli esperti di diritto, figuriamoci per noi semplici orecchianti. Se però consideriamo che i magistrati per arrivare alla sentenza definitiva hanno impiegato la bellezza di 20 anni, sorge il sospetto che i giudici abbiano faticato a capirci qualcosa. Insomma, la sensazione è che le accuse rivolte all'imputato non fossero poi così nette e sostenute da prove inoppugnabili. Pare che un processo durato quattro lustri meriti una citazione nel Guinness dei primati, essendo peraltro dimostrativo dell'inaffidabilità della nostra Giustizia, notoriamente bisognosa di urgente riforma, non solo perché lenta, ma pure incapace di apparire credibile. Il problema va oltre la tardiva e controversa condanna del cofondatore di Forza Italia. Come si fa a ostinarsi a tenere in piedi un sistema giudiziario barocco e farraginoso quale il nostro, che per giudicare una persona cui si attribuisce un reato le ruba preventivamente 20 anni di vita, costringendola a saltabeccare da un tribunale all'altro, a campare col cuore in gola per il terrore di essere imprigionata, a pagare parcelle su parcelle agli avvocati, ammesso che abbia i mezzi per saldarle? Non è già questa una pena dolorosa? Nossignori. A un certo punto, quando tale persona è stata distrutta nel morale e nel fisico, si trova a dover scontare 7 anni di galera. E ci si stupisce se taglia la corda e si rifugia in Medio Oriente allo scopo di non trascorrere gli ultimi sgoccioli di esistenza dietro le sbarre? È più scandalosa la fuga o la lungaggine mostruosa dei procedimenti che l'ha provocata? Domanda: se un giudizio si trascina per 20 anni, quanti secoli ci vorranno ancora per correggere i vizi e le storture della cosiddetta giustizia? In questi giorni campeggia sui giornali un'altra notizia di genere affine a quella che abbiamo esaminato sopra: l'arresto dell'ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver ordito un piano finalizzato a consentire ad Amedeo Matacena di nascondersi all'estero, infischiandosene di una condanna definitiva (5 anni di carcere) per il solito concorso esterno in associazione mafiosa. Scajola, passato alla storia per la famosa casa ricevuta in dono a «sua insaputa» (assolto), sarebbe stato inchiodato da intercettazioni telefoniche (più ambigue che schiaccianti). Ovvio. Occorre fare chiarezza. Ed è ciò che i Pm tentano lodevolmente di fare. Ma qualcuno ci spiega dove sia la necessità di trattenere in cella uno le cui malefatte non sono ancora state verificate? In circostanze simili, la risposta è la seguente: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Scusate. Il pericolo di fuga, come insegna l'esperienza, si presenta nel momento in cui scatta la sentenza definitiva, non durante l'indagine, altrimenti l'ex ministro sarebbe scappato anche quando era in corso l'inchiesta sulla casa. L'inquinamento delle prove è impossibile se è vero che esse sono contenute nelle intercettazioni telefoniche acquisite dal Pm. Infine, la reiterazione del reato, nella fattispecie, è improbabile a meno che Scajola non abbia cambiato mestiere e aperto un ufficio per l'espatrio dei pregiudicati. Altamente improbabile. Pertanto, i domiciliari sarebbero stati più che sufficienti. Senza contare che se il nostro tornasse a piede libero non avrebbe molte opportunità per intralciare le investigazioni. Non sarà che inconsciamente alcuni magistrati siano animati da una volontà punitiva insopprimibile per cui in dubbio pro manette? C'è di che turbarsi.

Ed ancora. Il caso Garlasco e l'inesauribile voglia di mostro. A sette anni o poco meno dal delitto, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia. Il clima in cui si celebrerà il processo non promette nulla di buono, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. A sette anni o poco meno dal delitto di Garlasco, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia, quella della terza Corte d'assise di Milano. Non sono bastate due assoluzioni a scagionare il fidanzato della vittima, Chiara Poggi, dall'accusa di esserne stato l'assassino. Incredibile la lunghezza del giudizio definitivo. L'imputato, Alberto Stasi, vive in un incubo ogni dì rinnovabile. Domani egli sarà di nuovo alla sbarra, come si dice, per difendersi, poiché la Cassazione, qualche tempo fa, nell'esaminare la sentenza d'appello che lo sollevava da ogni responsabilità, ha ordinato una sorta di riesame. In altri termini, l'appello è da rifare perché i giudici di terzo grado sono convinti che non tutti gli indizi siano stati valutati appieno. Cosicché, nonostante Stasi sia stato processato con rito abbreviato una prima volta (assolto) e una seconda (assolto) con tutti i crismi della legalità, è ancora ai nastri di partenza, come se fino adesso le toghe avessero scherzato. Sette anni sono lunghi da passare. Ma non conta. Il nostro sistema farraginoso prevede sempre la possibilità di rifare tutto. In effetti, si ricomincia. Le torture non finiscono mai. Ricostruire tutti i passaggi processuali, con i vari dettagli, sarebbe per noi un'operazione troppo complicata, noiosa e forse inutile giacché i lettori puntano al sodo. E il sodo è che Chiara Poggi è stata ammazzata in casa sua con un'arma contundente (mai ritrovata). Da chi? Da una persona che conosceva bene, tanto che la mattina di buon'ora le aprì la porta. Che cosa sia accaduto poi in quella villetta non è dato sapere: lite, colluttazione, fuga e inseguimento? Chi può dirlo. È un dato che la ragazza è stata trovata morta al piano terra. Macchie di sangue dappertutto. L'indagine si svolge nel raggio di mezzo chilometro. Chi può essere stato se non il fidanzato? Gli inquirenti puntano su di lui. Come al solito, in vicende di questo tipo, si guarda nell'ambito familiare. Stasi finisce subito in galera gravato da pesanti sospetti. Perché la sera precedente l'aveva trascorsa con lei. Perché qui perché là. Perché lui quella mattina si recò a casa di lei e la scorse morta in fondo alla scala. Perché Alberto telefonò ai carabinieri e la sua voce non tradiva emozione. Insomma, i racconti divulgati dalla stampa e dalle tivù sono interpretati quali indici di colpevolezza. Pochi giorni dopo l'arresto, tuttavia, Stasi viene rimesso in libertà in mancanza di prove. Andiamo veloci. Seguono decine di programmi televisivi che sviscerano ogni dettaglio del giallo; l'opinione pubblica, tanto per cambiare, si divide in colpevolisti e innocentisti. Personalmente, difendo il ragazzo non perché sia simpatico; anzi, è odioso. Ma contro di lui ci sono solamente pregiudizi: ha gli occhi di ghiaccio (in realtà è solo miope), è un tipo strano, ha trascorso un mese a Londra mentre la morosa aveva principiato a lavorare a Milano (uno stage), gli piaceva compulsare il computer laddove c'è del porno. Un sacco di stupidaggini che non c'entrano nulla con l'assassinio. Tra la coppia non vi sono state telefonate in cui si percepiscano liti, non si rintracciano mail in cui emergano liti o battibecchi. Tutto normale, piatto, piattissimo. Non è finita. Lui non si è sporcato le scarpe sulla scena del delitto. Però vi sono sue impronte sul sapone del bagno. Capirai. Uno che frequenta abitualmente la casa della fidanzata si sarà talvolta, suppongo, lavato le mani nel gabinetto. Avete capito? Tutta robetta. Manco una prova. Che dico, una prova, nemmeno mezza. Il movente eventuale? Gli inquirenti si arrampicano sui vetri. Dicono: lei ha scoperto che lui osservava le schifezze sul computer, ecco la causa della lite che ha scatenato la furia omicida di Alberto. Congetture. Se contrasti fra i due ci fossero, non sono stati appurati. E allora? Stasi dal presunto reato di pedopornografia web è stato scagionato. Quindi le porcherie non possono essere state il movente: tra l'altro piacevano anche a lei. Non mancano le elucubrazioni degli avvocati di parte civile che vorrebbero incastrare il giovane, ma sono inconsistenti e, quando si arriva davanti al giudice del rito abbreviato, il professor Angelo Giarda non fatica a far risaltare l'innocenza del suo assistito, Stasi, che viene assolto. Il verdetto di secondo grado è la fotocopia del primo. Basta? Nossignori. La Cassazione rimette tutto in discussione: bisogna approfondire questo e quell'elemento. Le toghe indicano sette od otto punti da verificare. Nel frattempo sono trascorsi sette anni (sette). Siamo al delirio. Ovvio che i genitori di Chiara pretendano che l'omicida sia inchiodato e condannato. Anch'io sono dalla loro parte. Concordo. S'identifichi l'assassino; non ci si accontenti però di punire uno qualsiasi cui addossare a casaccio la colpa di aver ucciso. Come si fa ad accanirsi su un tizio contro il quale non vi sono che oscuri presentimenti e dubbi? Il clima in cui si celebrerà l'ennesimo processo non promette nulla di buono. Trasformare pallidi indizi - mezzi indizi - in elementi probatori è tecnicamente un gioco da bambini per magistrati esperti. Una sentenza di condanna spesso placa le coscienze anziché tormentarle. Questo è il costume italiota. Fossi in Alberto, sarei terrorizzato. Sento puzzo di verdetto pesante. Spero di sbagliare. Il suo destino è nelle mani del professor Giarda, che è un fuoriclasse, ma non un padreterno. Auguri.

Ma a proposito di Pubblici Ministeri. Parliamo di loro. Per esempio quelli di Milano.

Liti e denunce, scoppiano i pm anti-Cav. Dall’inchiesta sull’Expo a Ruby, i vertici regolano i conti al Csm. Il pm Robledo si affida alla Gdf, scrive Matteo Di Paolo Antonio su “Il Tempo”. Lui, lei, l’altro. Non è un triangolo sentimentale, quello che sta andando in scena alla procura di Milano, ma ci assomiglia per tanti aspetti. Le corna, qui, sono professionali, forse anche con coloriture politiche. E anche in questo caso, come in quello di Mani Pulite e tanti altri, una faccenda diciamo così «domestica», rischia di scoperchiare il famoso "vaso di Pandora" in salsa meneghina. Lui, lei e l’altro sono il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, l’aggiunto di fiducia Ilda Boccassini e quello che si sente scavalcato e messo da parte, l’aggiunto Alfredo Robledo, anche lui tra gli otto «vice» del capo. L’esposto di quest’ultimo al Consiglio superiore della magistratura, a metà aprile, è l’atto che ha aperto ufficialmente la guerra, provocando la dura reazione di Bruti Liberati, secondo cui Robledo sarebbe stato d’«intralcio» in molte indagini importanti, a cominciare da quella sull’Expo. Ma Robledo, che ha già denunciato gravi irregolarità, manifeste violazioni e colpevoli ritardi nell’assegnazione delle indagini da parte del procuratore Capo, ieri è ripassato all’attacco producendo atti che proverebbero come Bruti Liberati, sull’ormai noto caso del doppio pedinamento, abbia dichiarato il falso. Ma torniamo alle «corna». Secondo le denunce di Robledo al Csm, Bruti Liberati avrebbe ignorato le competenze e le regole interne, preferendo pm fidati e magari della sua corrente, cioè Magistratura democratica, soprattutto per vicende dal forte impatto politico-mediatico. Mentre Robledo non è certo di sinistra, è un «cane sciolto», semmai più vicino ai moderati: si è candidato (senza successo) anni fa per Magistratura indipendente alle elezioni dell’Anm milanese, pur non essendo iscritto alla corrente. La delicatissima inchiesta sul caso Ruby sarebbe l’esempio principe di questi favoritismi: Bruti l’ha assegnata all’aggiunto responsabile dell’antimafia Boccassini, mentre Robledo, che guida il dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, ne rivendica la competenza. Al Csm anche Ferdinando Pomarici conferma «l’anomalia» di quella decisione. Bruti Liberati, dunque, volle che fosse proprio Ilda a condurre l’inchiesta che portò alla condanna a 7 anni di Berlusconi, per corruzione e prostituzione minorile. E poi ce ne sono altre di inchieste, finite sempre nelle mani dei pochi pm del «cerchio magico» del capo: quella sul San Raffaele, quella Sea-Gamberale. Fino all’ultima, la più esplosiva, quella che rischia di essere la nuova Tangentopoli per l’Epxo 2015 e sarebbe stata «scippata» a Robledo per finire anch’essa nelle mani di «Ilda la rossa». Robledo non ha voluto firmare le sette richieste di misure cautelari per altrettanti indagati, sostenendo di non essere stato informato dal procuratore e di non aver potuto compiere le sue valutazioni, «in violazione della normativa». E c’è anche, per altri versi, il caso-Sallusti, che avrebbe portato a una decisione «unicum» sui domiciliari (non richiesti) al direttore de Il Giornale , condannato per diffamazione. Una scelta in deroga alla prassi corrente e contestata dai pm: solo per questo diventata poi norma per tutti i casi analoghi, in seguito a una circolare che Bruti Liberati dovette firmare per placare la polemica interna. Il quadro è grave e può avere conseguenze pesanti non solo per i singoli, ma per la stessa procura. Il capo rischia quantomeno la mancata conferma alla scadenza dell’incarico, a luglio, se non un’indagine disciplinare. Il suo accusatore, Robledo, potrebbe essere invece trasferito ad altra sede per incompatibilità ambientale. La denuncia dell’aggiunto Robledo al Csm in queste settimane ha portato alle audizioni di tutti i protagonisti dello scontro e ognuno racconta la sua verità, rivelando scenari contraddittori. Del «cerchio magico» attorno a Bruti Liberati, per Robledo, fa parte anche l’aggiunto Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari. In questo caso, conteso è uno dei filoni dell’inchiesta San Raffaele, che per il grande accusatore ha portato a un ritardo di un anno nell’iscrizione dell’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, nel registro degli indagati. Per Bruti Liberati e Greco, invece, nessun ritardo: Robledo avrebbe voluto una sorta di spacchettamento dell’indagine, mentre il fascicolo era assegnato al pm Orsi che si era trasferito in quel periodo dal pool di Greco a quello di Robledo. Nell’audizione di Greco si è parlato di una vicenda molto delicata, quella che più di altri potrebbe prevedere sviluppi disciplinari per Bruti Liberati. É l’inchiesta Sea-Gamberale e il fatto che il procuratore Capo, come poi da lui stesso ammesso, avesse dimenticato il fascicolo in cassaforte. Per Greco, che difende Bruti Liberati, si è trattato di un episodio «incolpevole», ma Robledo insiste sul contrario. E al Csm la cosa viene valutata comunque come molto preoccupante. L’ultimo atto dello scontro interno è la controffensiva di Bruti nei riguardi di Robledo. In una lettera al Csm, che integra le sue dichiarazioni rilasciate a palazzo de’ Marescialli il 15 aprile, scrive che le iniziative dell’aggiunto «hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini» sull’Expo. In particolare, racconta che proprio per colpa del collega si è arrivati alla situazione «surreale» di un doppio pedinamento di un indagato, che avrebbe rischiato di compromettere l’inchiesta. Tesi accusatoria che Robledo ha smentito, accusando il Capo di falso: l’episodio del doppio pedinamento - spiega Robledo in una nota inviata al Csm, a cui ha chiesto anche di essere ascoltato - non è mai avvenuto. E a sostegno della sua tesi avrebbe fornito una prova documentale.

Nuovi scandali e luoghi comuni, scrive Enzo Carra su “Il Tempo”. Non c’è soltanto una rappresentazione di ordinaria, odiosa criminalità nelle vicende dell’Expo e in quelle della direttrice Roma-Beirut via Reggio Calabria. C’è purtroppo anche una nuova ondata di luoghi comuni. Tutto quello che serve a coprire le responsabilità di quanti, in oltre vent’anni da Mani Pulite, non hanno fatto abbastanza per bonificare i rapporti tra politica e affari e imporre sobrietà alla politica. L’elenco ha inizio con la ridicola domanda: questa è, o no, una nuova Tangentopoli? Ovvio che chi, come Di Pietro, allora era un magistrato rampante e oggi è un politico declinante rimpianga quel periodo. Altri tempi. C’è chi, invece, opta per un desolante giudizio sulla perversione dei nostri tempi: allora si rubava per i partiti, adesso si ruba per sé. I confronti, per nostra fortuna, non hanno ancora fatto imboccare agli spericolati opinionisti la scriteriata conclusione che si stava meglio quando si stava peggio. In attesa di arrivarci (non si sa mai) c’è chi invoca un’altra Mani Pulite. Come se le Procure italiane avessero ogni tanto bisogno di un evento speciale per dimostrare la propria efficienza anziché lavorare ogni giorno dell’anno. L’elenco comprende con il segnalato ritorno dei soliti noti, anche quello dei partiti che non ci sono più. Così, dirigenti locali della Dc come Frigerio vengono innalzati al ruolo di parlamentari di quel partito, mentre lo sono divenuti molti anni dopo, a Dc liquidata da tempo. Dietro il compagno G., come Greganti, si intravede lo scavo della vecchia talpa leninista ormai in letargo. Mancavano i socialisti, è vero. La loro assenza è stata tuttavia parzialmente riscattata dall’apprendere che la signora Matacena è figlia di un esponente socialista. In tanto discutere si fa però poca attenzione alla domanda più importante: chi ha rimesso in giro, e soprattutto perché, questi signori?

Inchieste e scontri di potere, scrive Stefania Craxi, figlia dell’ex premier Bettino, su “Il Tempo”. Caro direttore. Cui prodest? È questo il quesito che ci poniamo ogni qualvolta, nel pieno svolgimento di una competizione elettorale, assistiamo all’ormai abituale catena di arresti eccellenti. La risposta, questa volta, non solo è di più difficile individuazione ma è meno scontata del previsto. Se il caso Scajola dimostra ancora una volta l’uso selvaggio e improprio delle misure cautelari, le vicende che interessano il redivivo "Compagno G" e il mondo di "Infrastrutture Lombarde" vanno inquadrate in un contesto più ampio e articolato. Un’attenta lettura di questa vicenda è molto utile per comprendere in pieno le degenerazioni che interessano una parte della Magistratura da cui non è certo esente la Procura di Milano. Non bisogna essere dotati di grande intuito o fantasia per comprendere che talune indagini hanno subito un’accelerazione fulminea dopo l’esposto al Csm di Alfredo Robledo con il quale il procuratore aggiunto di Milano accusa senza mezzi termini il capo della Procura milanese, Edmondo Bruti Liberati, d’irregolarità nell’assegnazione e nella gestione dei fascicoli, denunciando, di fatto, un’ampia area di discrezionalità sui casi da perseguire e seguire. Non è questa una banale contesa sull’organizzazione interna. È uno scontro di potere tra «gruppi» dal quale emergono fatti inquietanti e si rivelano verità inconfessabili. Uno scontro in cui cadono i protetti e si spezzano gli equilibri di un sistema che fa scempio del diritto e della ragione in cui a farne le spese sono sempre e comunque i cittadini italiani. Un caso isolato? Affatto. Vi sono ormai fin troppi precedenti di conflitti interni il cui unico fine è l’accrescimento del potere personale. Eppure, nulla cambia. La riforma della giustizia continua a essere rinviata a un futuro futuribile senza che nessuno si interroghi sullo stato e la qualità del nostro sistema democratico, molto più simile ai modelli sudamericani che non alle liberal democrazie occidentali. Serve invertire la rotta. E subito. L’ordinamento giudiziario ha bisogno di mutamenti profondi e radicali. Se non ora, quando? Stefania Craxi.

Robledo vs Bruti Liberati: le tappe della guerra. Giorno per giorno, frase per frase, tutte le puntate della guerra interna a Palazzo di Giustizia di Milano, scrive “Panorama”. Da una parte Alfredo Robledo, classe 1950, procuratore aggiunto di Milano, massimo esperto di inchieste su politica e corruzione e legato a Magistratura indipendente (corrente di centrodestra). Dall’altra, Edmondo Bruti Liberati, classe 1944, Procuratore capo del tribunale di Milano vicino a Magistratura Democratica (corrente di centrosinistra). Al centro il Tribunale di Milano e le sue inchieste. ecco, passo dopo passo, le tappe della vicenda e della guerra tra i due:

- venerdì 14 marzo  2014. Robledo invia una lettera (11 pagine) al vicepresidente del Csm, Vietti. al presidente del Consiglio distrettuale milanese, Giovanni Canzio e al Capo della Procura generale di Milano, Manlio Minale, nella quale accusa il procuratore capo del Tribunale di Milano di  aver turbato“la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio”nella gestione delle inchieste più scottanti. Robledo va giù pesante contro il suo capo ritenendolo responsabile di “violazione dei criteri di organizzazione vigenti nell’ufficio sulla competenza interna” e lo definisce “garante di una serie di equilibri politici” favorendo i colleghi Ilda Boccassini e Francesco Greco.

- mercoledì 19 marzo 2014. Viene alla luce una lettera del protocollo riservato nella quale Bruti Liberati ammette che un fascicolo del 2011 sull’inchiesta che vedeva Vito Gamberale accusato di turbativa d’asta, era rimasto in un cassetto“per sua deplorevole dimenticanza”. Non solo, l’inchiesta, invece di finire per competenza sulla scrivania di Robledo, viene assegnata al capo del pool dei reati finanziari, Francesco Greco che lo gira al pm Fusco e che, a sua volta, fa notare a Bruti Liberati che sarebbe stato meglio assegnarlo a Robledo.

- giovedì 20 marzo 2014. Robledo apre il coperchio alla nuova Tangentopoli milanese legata all’Expo. A finire in manette sono Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, e molto vicino al Roberto Formigoni, e altre sette persone. Era questa una delle inchieste a cui faceva riferimento Robledo nella lettera con la quale accusava Bruti Liberati. Lo scontro tra i due magistrati sembra passare in secondo piano vista l’importanza della vicenda o addirittura rientrare e per qualche giorno i due si ignorano.

- venerdì 28 marzo 2014. La procura di Brescia decide di aprire un fascicolo per calunnia ipotizzando una manovra “orchestrata” per screditare Robledo.

- martedì 15 aprile 2014. I due magistrati vengono ascoltati al Palazzo dei Marescialli a Roma. Le due audizioni sono un susseguirsi di accuse e contro accuse senza esclusione di colpi. Robledo: “Non ho nessun motivo personale nei suoi confronti, ma siamo arrivati a un punto limite, oltre il quale non è più possibile andare”. Bruti Liberati: “Sia ben chiaro che io lezioni sull'obbligatorietà dell'azione penale non le prendo”. Nel corso dell’audizione davanti al Csm emerge che anche l’assegnazione dell’inchiesta di Ruby non doveva essere affidata alla Boccassini e a sostenerlo è il presidente del Tribunale di Milano, Manlio Minale: “Il procuratore aggiunto del pool antimafia cosa c'entra? Non aveva titolarità”.

- mercoledì 7 maggio 2014. Robledo non si presenta alla conferenza stampa, nonostante un suo magistrato abbia seguito le indagini. Bruti Liberati dichiara: “l'indagine non è firmata anche da lui in quanto non ha condiviso l'impostazione: per questa ragione non è qui con noi”. Robledo risponde che Bruti Liberati non lo ha messo nella condizione di fare una valutazione sulla posizione di un indagato: “Ogni volta che bisogna prendere un'iniziativa di indagine bisogna avvertirlo prima e lui deve dare il consenso di tutto, anche di stralci e così via”.

- lunedì 12 maggio 2014. Bruti Liberati invia un esposto al Csm accusando Robledo di aver “determinato un reiterato intralcio alle indagini sull’Expo”. Al centro dell’accusa c’è un doppio pedinamento nei confronti di un indagato: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza”.

- mercoledì 14 maggio 2014. Robledo che controattacca rispondendo al Csm: “Bruti Liberati dice il falso, ne ho le prove”. In effetti la Guardia di Finanza con un rapporto ufficiale conferma la tesi di Robledo spiegando che "non si sono registrati episodi di sovrapposizione operativa con altro personale di Polizia Giudiziaria presso la Procura di Milano".

Procura Milano, tutti contro tutti. Guerra Bruti Liberati-Robledo. Nuovo clamoroso scontro nella Procura di Milano. Il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati al Csm: da Robledo reiterato intralcio alle indagini. La risposta del pm: tutto falso, voglio essere sentito. Intanto l'Antimafia attacca Ilda Boccassini: "Con il suo arrivo i rapporti sono peggiorati", scrive “Affari Italiani”. "Le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sull'Expo. Lo scrive il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati in una nota trasmessa ieri al Csm. Bruti Liberati, in particolare, ricorda la "prospettazione di stralcio", avanzata da Robledo e da lui esclusa, che "non solo avrebbe fatto perdere la unitarietà di visione in questa vicenda specifica, ma avrebbe comportato sicuro intralcio e ritardo alle indagini". Inoltre, la trasmissione, da parte di Robledo, al Csm "di copie di corrispondenza interna riservata e di copie di atti del procedimento in delicatissima fase di indagine, con assunzione arbitraria della decisione delle parti da segretare, ha posto - scrive Bruti a Palazzo dei Marescialli - a grave rischio il segreto delle indagini". Il capo della Procura di Milano riferisce anche un'"ultima surreale situazione" avvenuta nell'ambito dell'inchiesta Expo: "Robledo - spiega Bruti - pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso una attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati", svolta da "personale della sezione di Polizia giudiziaria", ha "disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Gdf". Solo "la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno - osserva Bruti - ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Con la sua nota inviata a Palazzo dei Marescialli, Bruti Liberati integra quanto esposto nell'audizione al Csm dell'aprile 2014 scorso. Dopo gli arresti avvenuti negli scorsi giorni, sono infatti venuti meno i segreti istruttori che non avevano permesso al capo della procura milanese di essere più preciso davanti all'organo di autogoverno della magistratura. La richiesta di misura cautelare diretta al gip nell'ambito dell'inchiesta Expo "fu vistata dal procuratore aggiunto Boccassini", ricorda Bruti, e Robledo "da me personalmente interpellato - aggiunge il procuratore capo - mi disse che dissentiva in ordine ad alcune contestazioni di reato relative all'indagato Paris e che non intendeva apporre il visto". Dunque, "ritenevo - spiega Bruti Liberati - anche ad evitare una delegittimazione dei sostituti, di apporre anche il mio visto sulla richiesta" che poi è stata "accolta dal gip sui punti non condivisi dal procuratore aggiunto Robledo". Quest'ultimo, "pur continuando ad essere costantemente informato di tutti gli sviluppi ulteriori delle indagini ai fini del coordinamento in atto - conclude Bruti - si era sottratto alla fase del procedimento cautelare e pertanto non gli fu sottoposto al visto la successiva integrazione della richiesta al gip". Bruti Liberati, infine, auspica una "sollecita definizione della vicenda" scaturita dall'esposto di Robledo, "consentendo alla Procura della Repubblica di Milano di svolgere il suo difficile compito in un clima di normalità, fuori dai riflettori sul preteso scontro nella Procura di Milano". Con una nota inviata al Csm, il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo risponde alle accuse del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati secondo il quale avrebbe "determinato un reiterato intralcio alle indagini" sull'Expo. Nella nota, Robledo afferma che l'episodio del doppio pedinamento, di cui ha parlato Bruti, non è mai avvenuto e, a sostegno della sua tesi, fornisce una prova documentale all'organo di autogoverno della magistratura. Alfredo Robledo chiede di essere sentito dal Csm in merito alle accuse che gli ha rivolto il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati in una nota inviata all'organo di autogoverno della magistratura, nella quale lo accusa di avere intralciato le indagini su Expo. Bruti Liberati aveva citato anche l'episodio di un presunto doppio pedinamento che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. E' stata "anomala" l'assegnazione dell'inchiesta Ruby al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, "palesemente estranea" a quel tipo di inchiesta. Questo, secondo quanto si è appreso, è uno dei passaggi dell'audizione del pm di Milano, Ferdinando Pomarici, sentito oggi al Csm nell'ambito della pratica avviata dalla prima e dalla settima commissione a seguito dell'esposto con cui l'aggiunto Alfredo Robledo ha denunciato presunte irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli da parte del capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati. Pomarici è stato sentito per circa un'ora a palazzo dei Marescialli: davanti alle commissioni, riunite in seduta congiunta, ha ricordato di aver segnalato questi punti critici già in una lettera che aveva indirizzato proprio a Bruti Liberati. "Di tutto ha bisogno il sistema giudiziario, tranne che di delegittimazioni". Lo ha dichiarato il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, poco prima del plenum con il guardasigilli Orlando, affrontando la questione dello scontro alla Procura di Milano. "Il Csm se ne sta occupando - ha aggiunto - quindi non entro nel merito, ma mi auguro che le commissioni arrivino ad una conclusione rapidissima dell'istruttoria e che si possa arrivare al plenum con una decisione definitiva". C'è una "tradizione di difficili rapporti tra la Dna e la Dda" di Milano, e con l'arrivo del procuratore aggiunto, Ilda Boccassini, alla guida del pool antimafia milanese, c'è stato un "arretramento". E' quanto emerge dall'audizione svolta la scorsa settimana al Csm del pm della Direzione Nazionale Antimafia, Filippo Spiezia, che fino all'ottobre 2013 è stato magistrato di collegamento tra la Dna e la Direzione Distrettuale Antimafia milanese. "Col passaggio di consegne - ha detto Spiezia al Csm - la dottoressa Canepa (il magistrato che prima di Spiezia svolgeva il coordinamento con la Dda milanese, e che oggi è tornata a svolgere tale ruolo, ndr) mi mette a disposizione tutto il suo patrimonio conoscitivo riguardante i rapporti con Milano, scrive nel suo resoconto che la dottoressa Boccassini ha manifestato perplessità connesse a ragioni di sicurezza e riservatezza in relazione all'implementazione della banca dati nazionali, quindi in questo la collega Canepa rilevava un arretramento rispetto alla posizione del dottor Pomarici (l'aggiunto che era a capo della Dda di Milano prima di Ilda Boccassini, ndr) che invece riteneva che la Banca Dati Nazionale venisse implementata con gli atti dei procedimenti in corso". Tale dato, aggiunge Spiezia, "io poi l'ho riscontrato nella pratica" e "si è riflesso poi nel livello qualitativo e quantitativo degli atti trasfusi nella Banca dati nazionale". Nel corso del suo mandato come magistrato di collegamento con la Dda di Milano, Spiezia afferma di non aver registrato alcun "cambiamento di rotta", ma "addirittura c'è stato un aggravamento rispetto ai dati che aveva registrato la dottoressa Canepa". Un "bilancio assolutamente negativo", sottolinea Spiezia nelle sue audizioni, riguarda il rilevamento della situazione sulle cosiddette "iscrizioni multiple": "nel 2013 - osserva il magistrato della Dna - sono state inviate fino all'epoca in cui mi sono occupato di questi rapporti, 49 segnalazioni di iscrizioni multiple ricevendo zero risposte". "Ci sono difficoltà che il Csm sta affrontando. Attendo il lavoro del Csm". Così il guardasigilli Andrea Orlando, al termine del plenum al Palazzo dei Marescialli, ha risposto ai cronisti in merito alla richiesta, avanzata dal togato Antonello Racanelli, di valutare l'invio degli ispettori alla Procura di Milano.  E poi: "Non considero che diverse opinioni nella Procura di Milano abbiano compromesso l'imparzialità". "I fatti vanno analizzati - ha aggiunto il ministro - il sistema prescinde da potenziali conflittualità. Anche alla luce dell'inchiesta Expo, non bisogna pensare che venga meno il ruolo e la funzione che la Procura di Milano ha effettuato e continua a svolgere".

«Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», scrive “Tempi”. «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Parola di Giovanni Fiandaca, giurista, candidato Pd alle Europee 2014. «Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», dice oggi al Corriere della Sera Giovanni Fiandaca. Giurista palermitano, celebrato trai maggiori esperti di diritto penale, Fiandaca correrà nelle liste del Pd per le Europee. Il fatto è di straordinario interesse, soprattutto perché segnala che, anche a sinistra, qualcosa si muove nel campo di chi non ne può più di una politica asservita alla magistratura. Il fatto che poi Fiandaca sia un ex membro del Csm, maestro di Antonio Ingroia, uno dei penalisti di riferimento della sinistra, non fa altro che aumentare l’interesse per questa candidatura (molto osteggiata infatti dalle parti di Travaglio e manettari affini).
Nei mesi scorsi, l’ordinario di Diritto Penale all’università palermitana ha avuto parole molto nette sia sulla trattativa Stato-Mafia sia sul suo allievo Ingroia che ha pesantemente criticato. Ma Fiandaca ha fatto anche un discorso di più ampio respiro sulla situazione della giustizia in Italia, coinvolgendo nelle critiche anche il mondo dell’informazione per la “drammatizzazione” eccessiva con cui si sofferma su indagini e processi solo per attizzare gli istinti più bassi e forcaioli. Al Corriere, dunque, Fiandaca spiega che l’Antimafia oggi va ripensata perché «nessuno può arrogarsi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica o fasulla». Così come un ripensamento va fatto sulla stagione che ha seguito Tangentopoli: «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Anche a Repubblica il professore dice: «La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabilità dei magistrati. Da intellettuale non posso che criticare con forza questo appiattimento fideistico e dogmatico».

E poi c’è la coerenza, scrive “Lettera 43”. Grillo, spettacolo nel teatro sponsorizzato da Monte Paschi di Siena. Per lo show Beppe ha affittato il Mandela Forum di Firenze. Struttura sostenuta da Mps e Unicoop. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. E anche l'integerrimo Beppe Grillo, in prima linea nella crociata contro lo strapotere delle banche, ha fatto un passo falso. Quando il leader M5s ha fatto irruzione all'assemblea dei soci della Monte Paschi di Siena il 29 aprile, non ha certo usato i guanti di velluto. «Questa è la mafia del capitalismo, non la Sicilia», ha sbottato il comico. «Qui siamo nel cuore della peste rossa e del voto di scambio. Mps è in tutti gli appalti». Concetto ribadito anche nel comizio di Piombino di sabato 26: «Noi siamo qui nel regno schifoso di questa peste rossa. Il Pd è la peste rossa e voi continuate e votarlo... Se credete ancora nei sindacati e nella politica io non voglio il vostro voto». Una «peste» della quale evidentemente Grillo non teme il contagio, visto che la tappa fiorentina del suo tour Te la do io l'Europa è stata organizzata il 12 aprile al Mandela Forum. La struttura è in gestione dell'associazione Palasport di Firenze, costituita da Claudio Bertini, Rosetta Buchetti e Massimo Gramigni, si legge nel sito. Ed è sponsorizzata tra gli altri anche da Monte dei Paschi e Unicoop Firenze. E anche sulle coop Grillo non ci è mai andato giù leggero: già nel 2009 quando in un post le definì «rosse sì, ma di vergogna». Nel 2012, a Budrio, in provincia di Bologna, il capo pentastellato in un comizio disse pure che il M5s non avrebbe vinto perché «stanno comprandosi i voti, stanno comprandoseli le cooperative». Certo è che né Mps né Unicoop hanno finanziato in alcun modo lo show. E che la struttura, a quanto risulta a Lettera43.it, è stata noleggiata dall'agenzia Ad Arte di Firenze al «solito costo e cioè l'8% dell'incasso netto», cifra che nessuno ha voluto dichiarare. Fatto sta che un affitto dagli «appestati» Beppe non l'ha disdegnato.

Codice di comportamento grillino: incoerenza a cinque stelle. Oggi tuona contro l'assenza del vincolo di mandato e minaccia una multa di 250 mila euro per i parlamentari grillini a Strasburgo che vengano sfiduciati dalla rete. Ieri difendeva l'articolo 67 della Costituzione con toni altrettanto accesi: ma qual è il vero Grillo? Scrive Paolo Papi  su “Panorama”. Il codice di comportamento per i futuri parlamentari europei (con annessa penalità da 250mila euro per quei dissidenti che rifiutano di dimettersi a seguito di una espulsione decretata dagli iscritti certificati del M5S) che Beppe Grillo ha pubblicato ieri sul suo blog (Comunicato pubblico numero 54 ) ripropone il tema, caro al MoVimento, dell'assenza del vincolo di mandato previsto da un articolo della Costituzione contro il quale il comico ha spesso polemizzato con toni infuocati e barricaderi: «L'articolo 67 della Costituzione della Repubblica italiana - tuonava Grillo in un recente post dal titolo Circonvenzione di elettoreconsente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori. Insomma, l'eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno». Ora lasciamo perdere per un attimo la questione della palese illegalità di una norma tutta interna al Movimento  che obbligherebbe i parlamentari grillini a versare 250 mila euro qualora fossero espulsi e rifiutassero di dimettersi, sulla quale scrive oggi Pietro Salvatori dell'Huffington Post . Il punto è un altro e riguarda, come anche sostiene Grillo, l'omniscente memoria della rete, capace di conservare  dichiarazioni imbarazzanti in palese contraddizione con le nuove parole dei politici della Kasta, come la chiama, di cui a farne le spese sono stati negli anni quasi tutti i politici, da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Peccato che in questo caso, a pagare pegno all'incoerenza, sia proprio Grillo   che, fino a qualche anno fa, difendeva l'articolo 67 della Costituzione sull'assenza del vincolo di mandato con toni tanto accesi quanto quelli che usa ora per chiederne l'abolizione. Il primo post è del 2010, ai tempi della furibonda polemica tra l'ex presidente della Camera Gianfranco Fini (di cui Berlusconi chiedeva le dimissioni) e il premier allora in carica. Scriveva Grillo: «L'articolo 67 della Costituzione è molto chiaro. Chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito». Ancora più chiaro fu nel 2005 quando polemizzò in un altro post contro l'ex ministro Giovanardi, reo di avere dichiarato quello che oggi sostiene Grillo, e cioé che «Io non sono dipendente di nessuno se non dei miei elettori» e ancora «in democrazia ognuno risponde delle sue idee e degli elettori che lo hanno votato». Chiosava allora Beppe Grillo, nelle vesti allora di difensore dell'articolo 67 della Costituzione: «Se ne deduce che chi ha votato l’ex dipendente Giovanardi (ma come fa a sapere chi è se il voto è segreto?) deve pagargli lui solo lo stipendio, non tutti i cittadini italiani». Oggi, la nuova capriola. In nome di una coerenza che dura, come gran parte della classe dirigente, il tempo di un battito di ciglio.

ISTITUZIONI CONTRO. LA CASSAZIONE ACCUSA LA CORTE COSTITUZIONALE DI INSABBIARE.

Abu Omar, la Cassazione attacca la Consulta: un "nero sipario" per salvare il Sismi. Un attacco durissimo alla Corte costituzionale nelle motivazioni della sentenza che ha annullato le condanne di Pollari e Mancini. "Inaspettatamente" è stato tracciato un "ampio perimetro" di immunità, scrive “La Repubblica”. Abu Omar Sul segreto di Stato, nella tormentata vicenda di Abu Omar, riesplode il contrasto fra la Cassazione e la Corte costituzionale, alla quale gli 'ermellini' non perdonano di aver fatto calare il "nero sipario" sugli atti illegali compiuti dal Sismi per aiutare gli uomini della Cia a rapire l'iman egiziano sospettato di terrorismo. La Consulta - accusa la Suprema corte - ha "abbattuto in radice" con la sentenza 14 del 2014, l'ultima e definitiva ciambella di salvataggio lanciata ai servizi e a Palazzo Chigi, "ogni possibile controllo della magistratura sul potere di segretazione consegnandolo alla discrezionalità della politica". Solo per "neutrale lealtà istituzionale", la Cassazione ha preso atto della "dirompente" e "dilacerante" decisione della Consulta che ha cancellato le pesanti condanne inflitte nell'appello bis dalla Corte di Milano, il 12 febbraio 2013, agli ex vertici del Sismi: Nicolò Pollari e Marco Mancini. "Inaspettatamente" la Consulta ha tracciato "quell'ampio perimetro" di immunità, lamenta la Suprema corte affidandosi alla sintesi del consigliere Umberto Zampetti (Prima sezione penale). Nel mirino della Cassazione ci sono i giudici costituzionali colpevoli di aver minato "alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell'esercizio del potere di segretazione in capo alla competente autorità amministrativa, con compressione del dovere di accertamento dei reati da parte dell'autorità giudiziaria che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità della politica". E tutto ciò - prosegue la Suprema corte, in rotta di collisione con la Consulta - "non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo" e attingono i "capisaldi dell'assetto democratico del Paese". Nelle precedenti decisioni richieste da Palazzo Chigi, ad avviso degli 'ermellini', la Consulta si era mossa "secondo un filone valoriale custode degli equilibri costituzionali". Per cui aveva stabilito che la magistratura avrebbe dovuto rinunciare alla ricerca della verità e delle responsabilità quando fare questo metta in pericolo la sicurezza dello Stato. Pertanto sul sequestro, "la cui marcata illegalità, era a tutti ben evidentemente fuori dei perimetri istituzionali", non era stato apposto il segreto di Stato e si era proclamata la totale estraneità del Sismi. Nel suo ultimo approdo, però, la Consulta ha assunto un orientamento "francamente demolitorio" delle precedenti affermazioni. "In conclusione - scrive amaro Zampetti - risultano coperti da segreto di Stato, le direttive e gli ordini che sarebbero stati impartiti dal direttore del Sismi agli appartenenti al medesimo organismo ancorché fossero in qualche modo collegati al fatto di reato, con la conseguenza dello sbarramento al potere giurisdizionale". Dunque, per la prima volta, la coperta del segreto si è estesa anche all'area dei comportamenti illegali dei servizi di intelligence, mentre prima era "circoscritta" ai rapporti fra i servizi italiani e quelli stranieri "e agli interna corporis, intesi come assetti organizzativi e operativi di ambito istituzionale" con riferimento solo "ad attività istituzionale lecita".

L'imam rapito a Milano dalla Cia. I silenzi e la complicità con Washington, scriveva Giuseppe D’Avanzo il 28 giugno 2005 su “La Repubblica”. I sequestri in Italia per costruire prove contro l'Iraq. Le conclusioni errate della procura di Milano si spiegano solo con le manipolazioni dell'intelligence americana. Il silenzio del governo è sempre più assordante. George W. Bush ha autorizzato un'operazione illegale della Cia in territorio italiano nel febbraio del 2003, alla vigilia della guerra in Iraq (19 marzo). Diciannove agenti hanno sequestrato un cittadino egiziano (Abu Omar) ospitato in Italia con l'asilo politico, imam radicale in sospetto di terrorismo, per la procura di Milano. Abu Omar è stato torturato nella base di Aviano. Trasferito in Egitto, e ancora torturato, al fine di farne una spia americana. La missione degli agenti di Langley ha violato la nostra sovranità territoriale e il diritto internazionale; strapazzato la dignità nazionale e le regole non scritte della schietta collaborazione tra alleati, ma Palazzo Chigi non ha nulla da dire. Nessun commento. Non un fiato. Tacciono tutti, in coro: il presidente del Consiglio, Gianni Letta, autorità politica che sovraintende al lavoro dei servizi segreti, Fini (forse a ragione, non era ministro degli esteri nel 2003). Tacciono il ministro della Difesa e dell'Interno. La loquacità del governo è come evaporata per l'imbarazzo di dover dire qualcosa e di non poterlo dire per non essere clamorosamente smentito. Oggi il silenzio del governo appare come una conferma che Roma ha offerto un tacito assenso politico alla mossa di Washington e assicurato la neutralità (che poi vuol dire complicità) dei nostri servizi di sicurezza e della nostra polizia giudiziaria. Naturalmente, come scrive il New York Times, non c'è alcuna concreta probabilità che l'amministrazione americana possa consegnare a una magistratura straniera - anche se di un Paese alleato - agenti impegnati in un'azione antiterrorismo autorizzata direttamente dal presidente, secondo le regole che gli Stati Uniti si sono dati dopo l'11 settembre. L'affare non può essere dunque soltanto penale (se così fosse, sarebbe già moribondo), ma politico. Perché politiche sono le questioni sul tavolo: quale ruolo ha avuto l'Italia nella Guerra al Terrorismo pianificata da Washington? Quali attività illegali o extralegali sono state autorizzate dal governo e realizzate non solo dagli apparati di sicurezza, ma anche dalla polizia giudiziaria? Quelle attività illegali o extralegali erano necessarie per proteggere il Paese dal terrore o quali per "costruire prove" contro i cosiddetti "Stati canaglia"? Qual è stato il grado di coinvolgimento della magistratura e il livello di deformazione del paradigma del giudizio penale, che poi vuol dire certezza del diritto, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, immunità dall'arbitrio inquisitorio? Se queste sono gli interrogativi che la violazione degli Stati Uniti si trascina dietro, l'inchiesta del procuratore Armando Spataro è mutilata fino alla zoppia. A partire da un'elementare considerazione. Il disvelamento della cattura illegale di Abu Omar è il frutto del più agevole esercizio investigativo. Si raccolgono i numeri dei cellulari presenti nel luogo del rapimento. Se ne sviluppano le tracce. Si incrociano i contatti. Si registrano i movimenti. Si accertano le identità. Si controllano le presenze alberghiere e da qui, lungo la "scia" delle carte di credito, si può ricostruire chi era presente in quel luogo; da dove veniva; come ci è venuto; dove è andato; chi è o chi ha detto di essere; con chi ha avuto contatti. Ora se questa pratica investigativa è di assoluta routine, perché non è stata portata a termine in due lunghi anni dal pubblico ministero, Stefano Dambruoso, che ha preceduto Spataro nell'inchiesta? La circostanza rende cauti e invita a muoversi a ritroso lungo le iniziative del pool antiterrorismo di Milano (Dambruoso ne è stato punta di diamante fino all'aprile del 2004). Si scorgono alcune mosse sconnesse. In Milano, Bagdad, un libro pubblicato nel maggio del 2004 con la collaborazione di un giornalista del Corriere della Sera (Guido Olimpio), Stefano Dambruoso definisce Abu Omar "l'iman radicale faro di un nucleo estremista a Milano" (pag.43); "l'egiziano che, fino alla sua sparizione, ha diretto con il pugno di ferro i militanti di Al Qaeda a Milano" (pag. 22) e, con qualche disprezzo, "bizzarra dietrologia" che sia stata la Cia a rapirlo, nonostante nel maggio del 2004 sia chiaro a tutti che l'imam è stato sequestrato da un'intelligence occidentale (lo scrive il giudice Guido Salvini). Naturale chiedersi come la procura di Milano abbia potuto liquidare con tanta negligenza l'ipotesi della Cia quando sarebbe stato un gioco da ragazzi accertare la presenza, nel luogo del sequestro, di una ventina di americani con telefono cellulare che poi, a cose fatte, chiamano addirittura la Virginia e il consolato Usa a Milano. Come è del tutto illogico non aver chiesto, fino al 5 aprile di quest'anno, l'arresto di Abu Omar, l'imam radicale sospettato addirittura di essere il ragno della rete terroristica italiana. Dambruoso nel suo libro la racconta così: "Abbiamo la certezza che la cellula italiana è centrale in una filiera europea di mujahiddin da inviare nel Kurdistan iracheno. Combattenti, volontari e gente da addestrare. Lo stesso network, poi, provvede al finanziamento delle cellule attraverso un intricato trasferimento di somme di denaro che dall'Italia, via Germania, raggiungono Siria e quindi le basi di Al Ansar Al Islam" (pag.12). Ansar Al Islam, come Abu Omar, è più o meno una "scoperta" della procura di Milano secondo la quale il gruppo addirittura "ha sostituito, in Occidente e in Medioriente, Al Qaeda unendosi ai membri della banda di Abu Musab Al Zarqawi". È una "certezza" che convince Dambruoso ad abbandonare tutti gli altri filoni d'investigazione (Gia, Jihad, Gama'a Al Islamiya). È un'altra stravaganza. Ansar Al Islam è soltanto una piccola e marginale organizzazione curda di ispirazione islamica senza nessun rapporto, come è oggi da tutti accettato, né con Osama Bin Laden né con Abu Musab Al Zarqawi (che peraltro in quegli anni ha in odio lo sceicco saudita). La sola logica che può spiegare la girandola di errate conclusioni della procura di Milano sulla centralità dei curdi di Ansar al Islam e di Abu Omar non si afferra nelle evidenze probatorie delle indagini milanesi: all'esame dell'aula e del giudice, quelle, sono andate a ramengo. Questa ridefinizione delle relazioni di alcuni gruppi integralistici islamici con Al Qaeda e Bin Laden è soltanto coerente con le operazioni di influenza e le manipolazioni in corso in quegli anni per mano dell'intelligence americana. Una fonte indipendente, Jason Burke caporeporter del prestigioso settimanale londinese Observer, nel suo eccellente Al Qaeda, spiega che "nell'estate del 2002, il presidente Bush, i falchi della Casa Bianca e il primo ministro Blair hanno cominciato a parlare di "ampi legami" tra il regime di Saddam e al Qaeda, con Ansar Al Islam quale tramite principale. Sono stato nel Kurdistan iracheno per indagare su queste accuse e ho scoperto che erano totalmente infondate". Quell'intreccio Saddam-Al Qaeda-Ansar al Islam e, in Italia, Abu Omar, guida dal "pugno di ferro", appare oggi per quel che è: soltanto un capitolo della combinazione intelligence-guerra psicologica-guerra dell'informazione ingaggiata da Washington e Londra per giustificare l'invasione dell'Iraq. Le cose possono essere andate così. La procura di Milano riceve dallo spionaggio americano brandelli di intelligence senza alcuna attendibilità - "bufale" costruite a tavolino per necessità politica - e, a indagine conclusa, gliela restituisce con il timbro di attendibilità di un'inchiesta giudiziaria, in un circolo vizioso che può anche essere, né più né meno, una tecnica di disinformazione. Soltanto in questo contesto, che chiama in causa Casa Bianca, governo italiano, servizi segreti italiani e stranieri, polizia giudiziaria, magistratura, possono trovare una ragione accettabile le negligenze della procura di Milano, che (1) non fa arrestare Abu Omar; (2) non lo tiene d'occhio come meriterebbe lasciando così campo libero agli agenti della Cia; (3) non conclude, a ridosso del sequestro, la più sbrigativa delle indagini con l'analisi dei tracciati telefonici. Se non trova un perché a questi passi zoppi, l'inchiesta del procuratore Armando Spataro appare soltanto il modo dell'ufficio del pubblico ministero di Milano per salvare la faccia, come si dice, per "mettere le carte a posto" senza affrontare il vero nodo della questione: il governo ha saputo e assentito alla violazione della Cia? I servizi segreti italiani e la polizia giudiziaria hanno collaborato all'impresa? La procura si è lasciata intimidire dall'antica collaborazione con l'intelligence americana confondendo o attardando l'obbligo dell'azione penale? Sono interrogativi che si lasciano dietro un inquieto disagio che qualche mossa di Spataro accentua. Perché il solo agente Cia che non ha lasciato l'Italia (Robert Seldon Lady, capostazione dell'Agenzia a Milano) non è stato arrestato con un pericolo di fuga così concreto che poi si è naturalmente realizzato? Perché non sono stati ancora ascoltati Gianni Letta, i capi di Sismi e Sisde, il direttore del Cesis che li coordina, il capo della Digos e del Ros di Milano? L'inchiesta sul sequestro di Abu Omar consente di liberarci dal ragionato dubbio che, nella pianificazione dell'invasione dell'Iraq, l'Italia, con il consenso del governo, sia stata la sponda su cui far rimbalzare - rafforzandole, rendendole credibili e persuasive - le operazioni d'influenza e di disinformazione di Washington e Londra. La procura di Milano ha oggi l'opportunità e il dovere di venire a capo della nostra "guerra sporca" riconciliandoci con la realtà. È un'opportunità che ha avuto anche la procura di Roma quando ha indagato lo stravagante personaggio che mise insieme e consegnò agli inglesi e (con la complicità dell'intelligence italiana) agli americani, il falso dossier sull'uranio nigerino che divenne, nelle parole di Bush, la "prova" che Saddam radunava armi di distruzione di massa. Lo spione ammise, in un'intervista, di aver fatto quel lavoro "per conto del Sismi". Come da copione del Porto delle Nebbie, la procura di Roma ha archiviato il caso in gran fretta. È proprio la complicità di coloro che sono chiamati a ricostruire la verità dei fatti, alla fine, a proteggere il tenace silenzio del governo.

Le responsabilità italiane nella "guerra sporca" Usa, scrive ancora “La Repubblica”. C'è un lampo di luce nel "prelevamento forzato" di Abu Omar, l'imam egiziano clandestinamente e illegalmente sequestrato a Milano da ventidue agenti della Cia. È un lampo di luce che illumina le responsabilità della nostra intelligence (Sismi) e svela o una menzogna consegnata dal governo al Parlamento o - delle due l'una, "tertium non datur" - una frottola rifilata dall'intelligence politico-militare di Nicolò Pollari al governo. I fatti nuovi, ridotti all'osso, sono questi. Un congruo numero di testimonianze e un bel pugno di accertamenti istruttori, raccolti dal procuratore di Milano Armando Spataro (per quel che Repubblica è stata in grado di ricostruire), confermano che gli uomini della Cia si sono mossi a Milano, il 17 febbraio del 2003, con la collaborazione della Direzione Operazioni del Sismi che ha organizzato e "appoggiato" la extraordinary rendition (o forcible abduction) del cittadino egiziano Osama Mostafa Hassan Nasr (Abu Omar), ospite in Italia con lo status di rifugiato politico. Le indagini hanno accertato, come racconta L'Espresso nel prossimo numero in edicola, che molti militari italiani (carabinieri del Ros e agenti segreti del Sismi) erano tra via Guerzoni e via Conte Verde quando l'egiziano viene pedinato, afferrato, gettato in un furgone; trasferito nella base aerea di Aviano e torturato; "spedito" in Egitto e ancora lungamente torturato nelle carceri speciali di Mubarak. Lo confermano finora diciassette contatti telefonici, con pazienza certosina, estratti da una montagna di 10.700 telefonate; le ammissioni dei militari; il racconto di superiori gerarchici di medio livello. È la prova, o se si vuole la conferma, che l'Italia sapeva della extraordinary rendition. Che sapevano, per lo meno, i nostri apparati di sicurezza. Che il "gravissimo attacco all'autorità dello Stato italiano e ai trattati internazionali" (come ha scritto il giudice Chiara Nobili) o la "grave violazione della sovranità nazionale che, per la prima volta nella storia giudiziaria italiana, ha sottratto un indagato all'autorità giudiziaria per condurlo con la forza in uno Stato terzo" (come ha scritto il giudice Guido Salvini) sono state programmate, realizzate e autorizzate dalla Direzione del nostro servizio segreto (a meno di pensare che il Direttore delle Operazioni si muova senza il placet del Direttore del servizio). Ora la domanda che ancora non trova una risposta è: che cosa ha saputo il governo? Che cosa ha saputo Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega ai servizi segreti, e quindi la più alta autorità politica per l'intelligence? Il direttore del Sismi, Nicolò Pollari, lo ha informato dell'"operazione clandestina" o l'ha organizzata tacendogliela? E' un fatto che il governo ha sempre negato di aver saputo qualcosa dell'impiccio. Di più, ha fatto qualche pubblica mossa come convocare a Palazzo Chigi l'ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler. Nel gennaio del 2004, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi, sostiene infatti in Parlamento che "i nostri servizi segreti non erano a conoscenza dell'operazione". Nel giugno del 2005, Giovanardi ritorna a Montecitorio per spiegare che il governo "si è attivato con rigorosa determinazione al fine di ottenere ogni informazione utile sulla vicenda e intraprendere le azioni più appropriate e consone per la salvaguardia della nostra sovranità nazionale". Il governo ha mentito in cattiva fede o l'intelligence lo ha lasciato deliberatamente al buio accordandosi in solitudine, e senza autorizzazione e legittimità, con "l'amico americano"? È un fatto che il "prelevamento forzato" di Abu Omar, come è capitato a Repubblica di sostenere in questi anni, è non solo l'esempio dell'arroganza americana e della complicità italiana con quell'arroganza, ma anche il modello di come, in nome della Guerra al Terrore, segmenti delle burocrazie della sicurezza nazionale siano andate oltre quella "crisi della ragion giuridica" che in Italia, nei momenti di emergenza, concede di guardare al reo dietro al reato; alla sua pericolosità e non alla sua responsabilità; all'identità del nemico più che alla prova dei suoi atti di inimicizia. Il lavoro dell'intelligence ha fabbricato, lungo questa via, realtà tanto artificiose quanto minacciose; un mondo fittizio e manipolato rispetto a quello reale; un mondo immaginario attraversato da kamikaze armati di cianuro da versare negli acquedotti; di bombe da far esplodere nelle metropolitane e nelle cattedrali, di missili da lanciare contro San Pietro. Questa rappresentazione posticcia della realtà, creata dalle nostre "barbe finte" e subìta o avallata da alcuni pubblici ministeri e da una stampa sonnacchiosa, ha disperso energie e risorse, utili alla sicurezza nazionale, per metterle al servizio di una politica di guerra, voluta e decisa altrove, e di una strategia in cui Roma è stato soltanto l'alleato subalterno e volenteroso. Appare sempre necessario che il nuovo Parlamento crei una commissione d'inchiesta (o d'indagine o come la si voglia chiamare) per ricostruire quanto è accaduto in questi anni nella Guerra al Terrore (vera o presunta), nel mondo oscuro delle "barbe finte"; tra le "barbe finte" e il governo; tra il governo e il Parlamento. È sempre più chiaro, infatti, che anche in Italia si è radicato, dopo l'11 settembre, una sorta di "diritto speciale dello spionaggio" che ha trovato la sua fonte di legittimazione non dentro una nazionale ragione di Stato o nei dintorni del criterio pragmatico di proteggere la sicurezza della nostra collettività, ma al di fuori del nostro Stato di diritto in un oscuro altrove. O meglio, in quella dottrina americana post-undici settembre che si è fondata su una concezione della legittima difesa molto speciale. È la "dottrina" che ha polverizzato l'idea secolare dell'"autodifesa in ragione dell'attualità del pericolo e della sua inevitabilità"; che ha riconosciuto una natura preventiva all'azione; che l'ha declinata in una prospettiva amico/nemico utile a schiudere la porta a comportamenti essenzialmente fondati sul sospetto e sul pregiudizio. L'intelligence italiana, partecipando al sequestro illegale di Abu Omar, ha dimostrato di essere con il braccio e la mente dentro questa storia nera, protagonista di un paradigma che non ha alcun fondamento giuridico perché precipita ogni mossa in un baratro pregiuridico dove anche il più flessibile concetto di legalità perde di senso. Soltanto il lavoro di una commissione parlamentare potrà dirci quanto le mosse operative del Sismi siano state autorizzate dal governo, discusse e legittimate dall'autorità politica. Quanto il governo è stato consapevole di quei passi e, se consapevole, quanto questa politica - ai confini e oltre la legalità - può essere iscritta nel "patto di non belligeranza", approvato con le risoluzioni del Parlamento e, secondo il dettato costituzionale, dal Capo dello Stato.

ANCHE IL CSM INSABBIA.

Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”, scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;
b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;
c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;
d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;
e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;
f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm. E noi adesso lo diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);
b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);
c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa).

Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);
- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);
- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%);
- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);
- 2 sono stati  i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Quelle balle in Procura che il Csm vuol insabbiare. Incongruenze nella guerra tra toghe: qualcuno ha mentito. Ma il Consiglio superiore della magistratura starebbe pensando di archiviare tutto, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. C'è ormai solo una prospettiva peggiore del disastro in corso alla Procura della Repubblica di Milano, straziata da contrapposizioni, veleni, accuse frontali. Ed è che il Consiglio superiore della magistratura, chiamato a sciogliere questo nodo, a stabilire chi ha ragione e chi torto in questo scontro passato rapidamente dal fioretto alla clava, scelga di non decidere. Di insabbiare. Di chiudere senza vincitori né vinti, lasciando all'infinito uno degli uffici giudiziari più delicati del paese nel clima avvelenato di questi giorni. È un tentativo che serpeggia dentro al Csm, sempre in nome di quegli equilibri di corrente che sono in buona parte gli stessi colpevoli del degrado del tempio di Mani Pulite. Ma è chiaro che in queste settimane qualcuno ha mentito, e continua a farlo. E il Csm non potrà rinunciare a capire. Nelle ultime ore, il fuoco dell'indagine del Csm sembra concentrarsi su un dettaglio dello scontro tra Edmondo Bruti Liberati, procuratore della Repubblica, e il suo vice Alfredo Robledo: il pedinamento in contemporanea di un indagato del caso Expo da parte della Guardia di finanza, su incarico di Robledo, e di un'altra pattuglia, sempre delle Fiamme gialle, su ordine di Ilda Boccassini. La dottoressa sostiene che i «suoi» finanzieri dovettero sospendere l'attività per non andare a sbattere su quelli di Robledo («hanno fatto tremila passi indietro»); Robledo sostiene, forte di una dichiarazione dei vertici della Gdf, che l'episodio non è mai accaduto; Bruti ribadisce che è tutto vero, e che Robledo non l'aveva avvisato dell'indagine in corso; Robledo si prepara a mandare altri documenti al Csm per dimostrare il contrario. E in tutto questo, i magistrati qualunque, quelli che ogni giorno sgobbano lontano dai riflettori, si domandano come sia possibile che si sia arrivati a questo punto. In questi giorni Ilda Boccassini sta facendo sentire tutta la sua potenza - di immagine, di esperienza, di carattere - per portare il Csm a archiviare il caso e a lasciare Bruti al suo posto. Ha rivelato, quando il Csm l'ha interrogata, dettagli inediti: come quando ha raccontato di avere ricevuto una busta con dei proiettili dopo che Silvio Berlusconi è finito in affidamento ai servizi sociali, o di essersi dimessa da capo dell'Antimafia quando venne messa in discussione la sua puntualità nel rispetto delle regole dell'ufficio (poi ci ripensò, su richiesta del suo pool). E ha minacciato di querelare, quando questa storia sarà finita, «chi ha detto il falso». Robledo, ovviamente, che l'accusa di avergli scippato l'inchiesta Expo con la complicità di Bruti. Ma bugiardo è, per la Boccassini, anche un altro collega, il pm nazionale antimafia Filippo Spiezia, che al Csm ha ribadito che la Boccassini non rispetta le regole, non fa circolare le notizie, e che tra i suoi pm c'è malumore. «Assolutamente falso», dice Ilda. Certo, se finirà a querele e a processi, anche questo sarà una novità impensabile. La Boccassini difende Bruti anche per difendere se stessa: se il capo dovesse saltare, e al suo posto arrivare un nuovo procuratore, magari non milanese, la scelta di azzerare tutti i dipartimenti per fare piazza pulita di ruggini e rivalità sarebbe quasi inevitabile. Oltretutto, agli atti del Csm c'è un documento a sua firma, che sembra smentire quanto la dottoressa ha sempre sostenuto, cioè di avere tenuto in mano a tutti i costi l'indagine Expo perché contigua a indagini sulla 'ndrangheta. Invece il 16 aprile 2012 la Boccassini scrive a Bruti dicendo, parlando dell'inchiesta Expo che «allo stato non risultano contatti con esponenti della criminalità organizzata». Eppure non si spoglia dell'inchiesta, si limita a proporre un coordinamento con il pool di Robledo, che di fatto verrà poi estromesso dall'indagine. La Boccassini adesso rivolge un «accorato appello» contro «le delegittimazioni della Procura di Milano che non le merita». E invita il Csm a fare in fretta. Ma non tutti, nel Csm, pensano che la fretta sia il modo migliore per capire che diavolo stia accadendo.

I MAGISTRATI FANNO IMPUNEMENTE QUEL CHE CAZZO VOGLIONO!

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: i verbali dello scontro tra Bruti e Robledo sono la prova, un pm fa quel che vuole. Chiamateci ingenui: ma per noi resta impressionante la deposizione fatta al Csm dal procuratore Alfredo Robledo il 15 aprile scorso, di cui pubblichiamo ampi stralci. Il procuratore Capo Edmondo Bruti Liberati avrà modo di difendersi e in parte l’ha già fatto: resta che nelle parole di Robledo diviene un manovratore di indagini anche laddove da manovrare non dovrebbe esserci nulla, perché tutte le strade parrebbero obbligate dall’obbligatorietà dell’azione penale: e invece no, a quanto pare tutto si può fare, o così sembra. Si può iscrivere un tizio nel registro degli indagati oppure non farlo, farlo un giorno oppure l’altro, farlo col suo nome o con uno di fantasia, dimenticarsi in fascicolo per un mese o addirittura per un anno intero, chiuso in cassaforte; si può mandare un fascicolo a un dipartimento oppure a un altro, farlo rimpallare in eterno, rubricarlo a modello 45 o 44 o altri binari morti, regolarsi diversamente a seconda che ci siano delle elezioni o delle trattative d’affari, chiedere che un tizio non finisca in carcere e tutti gli altri sì, riesumare un fascicolo dormiente solo perché è uscito un articolo di giornale, occuparsi di un’indagine solo perché interessa anche se la competenza è altrui, insomma, altro che obbligatorietà dell’azione penale: il quadro delineato dal procuratore Robledo - e in parte contestato dal medesimo magistrato - lascia intravedere una discrezionalità quantomeno allegra, diciamo così. E il timore, nostro, non è che queste pratiche possano essere irregolari: il timore è che purtroppo possano risultare regolarissime. A giudicare sarà il Csm: capirai. In fondo sarebbe solo la conferma che i magistrati italiani fanno un po’ quello che vogliono: e già lo sapevamo, ma vederlo nero su bianco restituisce la facoltà di stupirsene. Il procuratore Robledo a un certo parla di una «grande tensione» in procura, addirittura parla di «paura» e di colleghi che in segreto solidarizzano. Il nostro timore è che abbia torto, che tutto infine possa essere liquidato come tremendamente normale. Come si dice: beghe tra magistrati.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Quel pm intralcia le indagini". L’inchiesta Expo è una faida. Ora c'è anche una nota di Edmondo Bruti Liberati, inviata al Csm, secondo la quale il procuratore Alfredo Robledo avrebbe «determinato un reiterato intralcio alle indagini» su Expo; l'invio di atti al Csm fatto da Robledo, inoltre, avrebbe «posto a grave rischio il segreto delle stesse». In altre parole, la miglior difesa è l’attacco: Bruti Liberati contrattacca alle accuse di Robledo d’aver fatto assegnazioni anomale o sospette e aggiunge peraltro un carico da novanta: perché intralciare un’indagine sarebbe anche un reato. È difficile credere che Bruti Liberati voglia incolpare penalmente il suo sostituto, ma quel che è certo è che a Milano gli stracci volano sul serio: ed è tutta colpa del caso Expo. Il fascicolo è seguito dai pm anticorruzione Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio, ed è noto che Bruti Liberati, durante la conferenza stampa sugli arresti per Expo, aveva già precisato che Robledo non ne aveva condiviso le conclusioni: ora aggiunge che avrebbe addirittura intralciato l’inchiesta. Bruti Liberati, nella sua nota al Csm, cita anche l’episodio di un doppio pedinamento: «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza», ha scritto il procuratore capo, spiegando poi che «solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini». Nei fatti, il low profile della procura di Milano è definitivamente turbato. Lo scontro oltretutto divide i magistrati. Da una parte il procuratore aggiunto anticorruzione Alfredo Robledo, l’anarchico, dall’altra il procuratore capo di quel granducato giudiziario che negli anni ha scosso il Paese con sue inchieste, Edmondo Bruti Liberati, personaggio più - diciamo così - militante. Intanto il Csm sta continuando con le audizioni dei magistrati chiamati in causa: si discute di presunte anomalie nelle assegnazioni, ritardi di iscrizioni nel registro degli indagati, soprattutto tensioni che covavano da almeno tre anni. Robledo sostiene che è stata ritardata l’iscrizione di politici come Roberto Formigoni e Guido Podestà, che l’azione penale è stata gravemente ritardata nel caso Sea-Gamberale (il fascicolo era stato dimenticato in cassaforte, ha ammesso Bruti Liberati) e questo senza parlare del chiassoso caso Ruby, laddove il fascicolo era curiosamente finito al dipartimento antimafia guidato da Ilda Boccassini. Su quest’episodio c’era stata anche l’ammissione, resa nota nei giorni scorsi, di Ferdinando Pomarici, ex responsabile della Dda di Milano: quell’assegnazione fu «anomala», ha detto. Il magistrato ha pure spiegato che scrisse a Bruti Liberati tutte le sue perplessità a proposito, poi ribadite durante una riunione. Pomarici ha anche segnalato un’anomalia legata al caso di Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale già condannato al carcere per diffamazione: secondo Pomarici, Edmondo Bruti Liberati voleva che si facesse una deroga personalizzata per il direttore. La circostanza peraltro era già stata ammessa dal procuratore aggiunto Nunzia Gatto, responsabile dell’Ufficio esecuzione della Procura. Insomma, tutto rispecchia le storiche divisioni della procura, sinora sottaciute: gli uomini del procuratore capo - storicamente più legati a Magistratura democratica - contro gli altri. Va da sé che secondo Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari e legato a Bruti, nell’iscrizione di Formigoni non ci fu «nessun ritardo». Nessuna irregolarità neanche nel caso Ruby, ha spiegato anche Ilda Boccassini (vedi Libero di ieri). Più in generale, lo scontro tra il procuratore capo e il suo aggiunto è molto più interessante dei resoconti che i giornali si sforzano di darne; sull’esito dell’esposto di Robledo contro Bruti Liberati non c’è da attendersi chissà che cosa: stiamo pur sempre parlando di un magistrato contro un altro magistrato, giudicato da altri magistrati. Pare più interessante, leggendo gli atti del Csm, il differenziato profilo che si intravede. Bruti Liberati uomo d’apparato, di corrente, politicizzato, sensibile agli scenari politici e ai suoi cambiamenti, alle conseguenze delle inchieste che nascono dai suoi uffici: dunque un abile amministratore. Robledo, invece, più compiaciuto della propria indipendenza sancita dalla Costituzione, più immediato, automatico, quasi precipitoso, convinto che una certa ruvidità faccia parte dei suoi doveri e ufficialmente indifferente alle conseguenze delle sue indagini. È difficile essere più diretti senza prendere la solita querela: ma piacerebbe dire che entrambi i profili, se portati all’eccesso, descrivono alla perfezione il periglioso archetipo del magistrato all’italiana. Sin troppo responsabile e «politico» il primo, sin troppo anarchico il secondo. Quello che rimane identico, sempre leggendo gli atti del Csm, è lo scenario enormemente discrezionale nel quale i due paiono muoversi all’interno della procura: non quel tappeto di regole inflessibili e rigide che il cittadino magari s’aspetta (perché il magistrato è soggetto soltanto alla legge, si dice) bensì un groviglio gommoso di dipartimenti, mezzi dipartimenti, non-dipartimenti, assegnazioni, coassegnazioni, non assegnazioni, iscrizioni, non iscrizioni, in generale una discrezionalità dell’azione penale ben travestita. Un potere smisurato, in altre parole, che si può esercitare in un modo o nell’altro: e capita che non sempre i magistrati si trovino d’accordo.

L'Antimafia contro Ilda Boccassini e le toghe di Milano: fanno quello che vogliono, scrive Brunella Bolloli su “Libero Quotidiano”. Di fronte alla Settima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, lo scorso 6 maggio, è andato in scena un nuovo capitolo della saga di guerra sui pm della procura di Milano. Nel mirino Ilda Boccassini, a capo della Dda milanese, riconosciuta una fuoriclasse dei processi ma con scarsa propensione alla collaborazione con i colleghi, soprattutto quelli della Dna, Direzione nazionale antimafia, con i quali invece lo scambio di informazioni investigative dovrebbe essere chiaro per una corretta gestione delle inchieste. A puntare il dito contro di lei, ancora una volta, è il sostituto procuratore nazionale Antimafia Filippo Spiezia, che conferma parola per parola tutte le criticità già messe nero su bianco nella Relazione annuale che tanto aveva fatto arrabbiare Ilda la rossa e che gli sono valse la sostituzione (nell’ottobre 2013), con la collega Anna Canepa, che già lo aveva preceduto in quel ruolo di collegamento tra Dna e Dda. «Da quando è tornata lei come magistrato di coordinamento niente più tensioni tra di noi», ha assicurato il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, pure lui audito il 6 maggio dal Csm. Ma la versione di Spiezia conferma un quadro poco sereno tra le toghe in questione. Con la procura di Milano gelosa custode delle inchieste più delicate e scottanti.

Un poliziotto: "Le liti tra toghe ci danneggiano", scrive Salvatore Garzillo su “Libero Quotidiano”. Alessandro Giuliano siede dietro la sua scrivania al primo piano della questura di Milano. Alle spalle ci sono tanti crest, gli emblemi in legno regalati da altri colleghi nel corso degli anni, una sorta di gagliardetti delle forze dell’ordine a volte donati in ricordo di un’operazione conclusa. Su un lato della stanza c’è il ritratto di suo padre Boris, capo della Mobile di Palermo ucciso nel 1979 da Leoluca Bagarella. Dall’altra, come se si guardassero, c’è una foto di Beppe Montana, commissario di quello stesso ufficio palermitano, ammazzato dalla mafia nel 1985. In mezzo c’è Giuliano, imperturbabile. Le parole del capo della Squadra mobile di Milano, lì dal 2009, sono misurate con cura, nulla sfugge per disattenzione. Se concede qualche spazio non è mai un caso. Resta calmo anche nel giorno in cui i giornali riportano la notizia di contrasti con il procuratore Alfredo Robledo, che secondo il capo della Procura milanese Edmondo Bruti Liberati, «è entrato più volte in contrasto con la Squadra mobile» da lui diretta. Tensione confermata da un “appunto” redatto da Giuliano in cui segnalava al procuratore Bruti una doppia assegnazione a polizia e carabinieri dello stesso pedinamento. «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria – ha spiegato Bruti Liberati - ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Gdf». Sulla questione è scoppiato un caso che potrebbe essere risolto da un documento in possesso di Robledo. «Ma tanto lo sanno tutti che preferisce gli altri (i carabinieri, ndr) a noi della Mobile... non si fida», raccontano dagli uffici di via Fatebenefratelli. Anzi fuori, a debita distanza, «perché non sia mai mi vedono parlare con un giornalista...». Robledo non si fiderebbe perché «negli ultimi anni la Mobile è cambiata, si è indebolita. Ci sono troppe tensioni che rendono l’ambiente avvelenato e fanno scappare la gente». Cioè? «Una volta la Mobile era un posto ambito, a Milano dicono “figo”. Mentre prima c’era la frenesia per arrivare, ora c’è la stessa per chiedere il trasferimento. Questo è un lavoro complesso, bisogna essere uniti, non a caso si chiama squadra. Altrimenti sarebbe semplicemente ufficio». I motivi di questa situazione sono diversi, alcuni riassunti in un volantino che nel settembre 2012 apparve nei corridoi della questura solo per alcune ore, e che denunciava come «un glorioso ufficio» sarebbe stato trasformato «in un ritrovo di bambole». Colpa delle “barbie” e delle “barbie con i pantaloni”, dirigenti femmine e maschi che avrebbero distrutto la credibilità della Mobile a causa della loro incompetenza, presunzione, arroganza. «Quel volantino era un po’ troppo sessista, si faceva riferimento al fatto che ormai negli uffici per metà sono donne e molte sedute ai posti di comando (come le ultime due vice di Giuliano), ma nella descrizione di alcune di loro era condivisibile. Per di più non è cambiato molto». Di una dirigente si diceva che fosse «isterica, presuntuosa, arrogante, assolutamente incapace di fare questo mestiere, dannosa per il solo fatto di far parte della polizia. Ha denigrato validi investigatori che hanno sparato domande di trasferimento a raffica». E altri sono stati trasferito de imperio. «Secondo te, in un clima del genere come si può lavorare serenamente? Mica facciamo mozzarelle, noi arrestiamo la gente. Capisci perché Robledo, e non solo lui, preferisce assegnare i casi a “quegli altri”?». Quindi il motivo è solo professionale? «Beh, forse dipende anche dal fatto che il capo (Giuliano, ndr) è molto legato alla Boccassini e a Bruti». La parte “vincente” del tribunale. «Per certi versi sì. I magistrati sono persone, hanno simpatie come tutti, vale anche nel lavoro. Se Robledo non sopporta i colleghi che invece lavorano bene con la Mobile, probabilmente eviterà di coinvolgerci quando potrà, soprattutto se si tratta di grosse inchieste. In questo modo la nostra immagine viene svilita, perde di forza. In pratica restiamo schiacciati tra le due forze. E possiamo solo restare a guardare. Ma io non ti ho detto niente».

LATINA OGGI, UCCISO DALLA MALAGIUSTIZIA.

Latina Oggi, il quotidiano antimafia ucciso dal copia-incolla. Un esposto del senatore Fazzone contro Ciarrapico provoca il fallimento del giornale che denunciava i clan di Fondi e del Lazio. Ma la sentenza è copiata: riguarda un cantiere navale. E in tribunale scoppia il giallo di un maxi-sequestro di quote poi annullato, scrive di Andrea Palladino su “L’Espresso”. La redazione di Latina Oggi Hanno fatto un salto sulla sedia i giornalisti del quotidiano Latina oggi quando, un paio di mesi fa, hanno letto la sentenza di fallimento del loro editore: «Non sapevamo di far parte di un consorzio di Gaeta - raccontano con una certa ironia - né di occuparci di costruzione di barche». Circostanze che hanno scoperto, con non poca sorpresa, tra le 70 pagine del decreto firmato dal Tribunale di Latina lo scorso 26 febbraio. Un provvedimento che rischia di condannare a morte la testata in prima fila nel raccontare le mafie del sud pontino, con decine di giornalisti e poligrafici a rischio disoccupazione. In realtà la società editrice “Nuova editoriale oggi srl” con le barche non ha mai avuto nulla a che fare. Quelle frasi riportate nella sentenza sono solo un piccolo pezzo di uno sconcertante caso di copia e incolla giudiziario: almeno una ventina di pagine praticamente identiche al decreto di fallimento della società Italcraft - che per l’appunto costruiva natanti - datata 2012. Un mero errore materiale, sostiene la sezione di Latina dell’Anm, in un comunicato stampa scritto a difesa della sezione fallimentare del tribunale. Il fallimento copy&paste è solo l’atto finale di una vicenda giudiziaria complessa, partita anni fa con un esposto del senatore Pdl di Fondi Claudio Fazzone. L’editore di Latina Oggi all’epoca era Giuseppe Ciarrapico, il re delle cliniche ciociaro, anche lui senatore del Pdl fino all’anno scorso, politico che riuniva la fede democristiana - strettamente andreottiana - con un credo fascista mai rinnegato. Dopo l’esposto di Fazzone, la procura di Roma accusa Ciarrapico di aver truffato per anni il dipartimento dell’editoria, incassando diversi milioni di euro di contributi in realtà non dovuti. L’inchiesta rischia di far saltare il suo impero editoriale. La direzione del principale giornale di Latina e la redazione iniziano una battaglia difficile, alla ricerca di un nuovo - e più presentabile - editore, in grado di salvare il giornale. Nell’ottobre del 2012 l’intero pacchetto posseduto da Ciarrapico passa nelle mani del costruttore pontino Armando Palombo, che riesce a garantire l’uscita del quotidiano. Tutto bene, dunque, almeno apparentemente. Quando il nuovo editore entra in possesso della contabilità - che era stata sequestrata dalla Procura di Roma - si rende conto che molte cose non corrispondevano a quanto descritto nei bilanci. L’amministrazione scopre, ad esempio, l’esistenza di conti esteri in Lussemburgo mai dichiarati. Vengono poi alla luce incroci societari tra fornitori e il gruppo Ciarrapico che pesavano come macigni sui conti dei giornali. Il 12 dicembre del 2012 l’allora amministratore della nuova società presenta un esposto dettagliato alla Guardia di finanza di Colleferro che dà vita ad un nuovo filone d’inchiesta, affidato al pubblico ministero romano Michele Nardi. Nel contempo la società si prepara ad affrontare il concordato preventivo, l’unico strumento che avrebbe potuto salvare i conti, i giornali del gruppo e il posto dei dipendenti. La procura di Roma lo scorso marzo decide di agire, chiedendo il sequestro d’urgenza - quindi senza attendere il pronunciamento di un giudice - delle quote del colosso della sanità romana riconducibile alla famiglia di Giuseppe Ciarrapico, il gruppo Eurosanità, proprietaria di quattro strutture ospedaliere ben note. Ma qualcosa non funziona: dopo poco più di una settimana il Gip dissequestra il tutto (come risulta dalle visure in Camera di commercio), ritenendo insussistenti gli elementi in mano al pm N.. Nel frattempo Latina oggi si trova sulla testa la spada di Damocle del fallimento, con la possibilità di perdere per sempre l’uso della testata. La scorsa settimana l’editore Armando Palombo ha deciso di abbandonare la società, cedendo le quote all’attuale direttore di Latina oggi Alessandro Panigutti e a un imprenditore pontino. Per ora il giornale continua ad uscire con la testata “Oggi Latina” in attesa delle decisioni del curatore fallimentare, puntando a riacquistare il nome storico della testata. I cronisti hanno deciso di non mollare, continuando a raccontare le infiltrazioni delle mafie nel sud del Lazio, i traffici di rifiuti, la devastazione del territorio attraverso un’espansione edilizia alimentata da fondi spesso sospetti. Da soli hanno affrontato per anni il caso Fondi, l’amministrazione comunale che nel 2009 l’ex ministro degli Interni Roberto Maroni voleva sciogliere per mafia, poi salvata in extremis dal consiglio dei ministri presieduto da Silvio Berlusconi. Per primi hanno raccontato delle lettere di raccomandazione inviate su carta intestata della Regione Lazio proprio da Fazzone, allora presidente del consiglio regionale, vero dominus del centrodestra nel sud pontino, recordman delle preferenze fin dal 2000. Un patrimonio di conoscenza del territorio che oggi rischia di svanire, grazie a una sentenza fallimentare forse un po’ frettolosa.

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.

Camera dei Deputati. 15 maggio 2014. Alessio Villarosa (Movimento 5 Stelle) accusa la maggioranza di non rispettare (nei fatti) gli insegnamenti di Falcone e Borsellino. "Noi siamo il partito di Pio La Torre e non accettiamo lezioni da nessuno in materia di legalità. Soprattutto da chi è guidato da chi sostiene che la mafia non esiste". Lo ha urlato nell'aula della Camera Anna Rossomando del Pd replicando al M5s in dichiarazione di voto sulla richiesta di arresto per Francantonio Genovese. Tutti i suoi colleghi di gruppo si sono levati in piedi per applaudirla mentre il M5s urlava: "Vergognatevi". Scontro Boldrini-M5S in aula: il deputato Alessio Villarosa, nel suo intervento nel dibattito sulla richiesta di arresto a carico del deputato Pd Francantonio Genovese, si è rivolto alla presidenza ed alla maggioranza, accusandoli di strumentalizzare i nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: "Vergognatevi", è stata l'intimazione del deputato M5S. "La smetta", lo ha richiamato la presidente della Camera Laura Boldrini, prima di lasciargli concludere l'intervento tra le urla provenienti soprattutto dai banchi del Pd “Ho paura che ci sia una collusione tra la presidenza Camera e il Pd per spostare il voto su Genovese”. E’ quanto sottolinea ai cronisti a Montecitorio Alessio Villarosa (M5S) dopo la sospensione dei lavori dell’Aula, ricordando che, “sei mesi fa”, quando i Cinque Stelle chiesero su un altro tema di convocare una capigruppo, la presidente Laura Boldrini, “ci disse di no”. “Perché Boldrini si comporta in un modo col M5S e in un modo col Pd?”, chiede Villarosa evidenziando che sul deputato Francantonio Genovese pendono “54 capi d’accusa, la possibilità di fuga è reale”. Invece la deputata Pd Rossomando ha anche detto che il partito “con questo voto intende difendere il Parlamento da chi lo vuole destituire”. A Villarosa ha replicato Anna Rossomando del Partito democratico: "Noi siamo i fondatori della democrazia", ha rivendicato l'esponente democratica citando Pio La Torre, il segretario del Partito comunista siciliano ucciso dalla mafia il 30 aprile del 1982. Il Pd, ha detto Rossomando rivolta al gruppo M5S, "non accetta lezioni da nessuno, soprattutto da chi è andato in Sicilia dicendo che la mafia non esiste, facendo le buffonate attraversando lo Stretto". La presidente della commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi (Pd) ha preso la parola in aula, al termine del dibattito sulla richiesta di arresto a carico del deputato democratico Francantonio Genovese, per replicare al polemico intervento di Alessio Villarosa del Movimento 5 stelle. "Vorrei restasse agli atti di questa Camera, nel rispetto del sacrificio della loro vita e dei loro familiari - ha detto Bindi - che nessuno può appropriarsi di Falcone e di Borsellino". Secondo la presidente dell'antimafia, i due magistrati uccisi dalla mafia "sono di tutta la nazione, di tutta l'Italia e da quando abbiamo messo le loro immagini nel parlamento europeo sono di tutta l'Europa".

Via libera, da parte della Camera, all’arresto di Francantonio Genovese, scrive Fabio Bonasera su “Qui Messina”. L’aula si è espressa favorevolmente alla richiesta della magistratura messinese con 371 voti favorevoli, 39 contrari. In un primo momento, sembrava fosse volontà di Montecitorio far slittare la decisione dopo le elezioni europee del prossimo 25 maggio. Poi, il colpo di scena: conferenza dei capigruppo richiesta dal Pd e decisione unanime per il voto palese a partire dalle 16,30. Da ricordare che a esprimere parere favorevole all’arresto era già stata la giunta per le autorizzazioni a procedere, lo scorso 7 maggio, presieduta da Ignazio La Russa. Decisivi i 12 voti di Pd, Sel e Movimento 5 stelle. La seduta si apre con la relazione introduttiva Franco Vazio, nominato da La Russa al termine dei lavori della giunta per le autorizzazioni a procedere. Vazio, come sostenuto proprio in giunta, afferma la sussistenza del rischio di reiterazione “più che per l’attività relativa agli enti di formazione”, per via degli “elementi caratterizzanti l’organizzazione criminale asseritamente gestita dal deputato”. Non rinviene, inoltre, alcun fumus persecutionis ed esclude a monte che l’organismo parlamentare possa sostituirsi alla magistratura, “nel solco dell’articolo 68 della Costituzione”. Così come nessuna azione parallela alla magistratura possa essere esercitata dalla Camera. Giulia Grillo, anche lei componente della giunta per le autorizzazioni e in quota al M5s, sottolinea il tempo decorso dalla ricezione degli atti da parte della giunta, la cui prima seduta risale allo scorso 10 aprile, e la decisione alla quale è stata chiamata la Camera. Grillo, oltre a demolire in toto il sistema della formazione professionale in Sicilia, ricorda il lignaggio di Genovese, figlio dell’ex senatore Dc, Luigi, e nipote di Nino Gullotti, anch’egli autorevole esponente democristiano del passato. Inoltre rammenta i legami economici stretti dalla Tourist Ferry Boat con la società Caronte della famiglia Matacena, a sua volta coinvolta in questi giorni in uno scandalo giudiziario. Persecuzione in atto e assenza del rischio di reiterazione per Franco Bruno. Per l’esponente dell’Api, il carcere a Genovese è solo un “tributo a forcaioli e manettari professionisti”. Dura anche Pia Elda Locatelli (Psi) che vede “la libertà del deputato barattata per qualche voto in più”. Parla di vicenda strumentalizzata in vista della scadenza elettorale, ricorda che il Parlamento non può sostituirsi ai tribunali e manifesta la volontà dei socialisti di non partecipare a un voto il cui esito “è già annunciato”. Sulla stessa falsariga Pino Pisicchio, di Centro Democratico, che parla di “vessillo elettorale da issare nelle piazze”. Contro l’arresto il gruppo Per l’Italia. Gea Schirò (cognome evocativo), come i suoi predecessori, non può fare a meno di intravedere risvolti elettorali in questa vicenda. Favorevoli all’arresto, in linea con le risultanze dei lavori della giunta, i deputati di Scelta Civica, secondo le dichiarazioni di voto di Paolo Vitelli. Raffaele Calabrò rifiuta che il Parlamento costituisca “un quarto grado di giudizio” e annuncia il voto contrario del Nuovo centrodestra. Favorevole Sel, come preannuncia Daniele Farina che parla di “fenomeni di corruttela nella vita politica e pubblica mai sradicati” e critica “i colleghi del Pd” che avrebbero dovuto “intravedere al momento della composizione delle liste” elettorali alle ultime politiche le ragioni per escludere Genovese. Contraria Forza Italia, come dichiara Maurizio Bianconi per il quale “un altro presidio sacro va a farsi friggere”, invocando lo scrutinio segreto: “Ma siccome il sangue deve schizzare nella vena abbiamo dovuto rinunciare, segnando un altro scalino di degrado in questa istituzione”. “Chi porta la ghigliottina in piazza prima o poi la testa sotto ce la mette”, avverte rivolgendosi ai pentastellati. “Il clan Gullotti non è una novità, Messina non è New York, il processo è iniziato nel 2011 ma Genovese lo avete candidato lo stesso”, dice poi agli esponenti del Partito democratico. Voto a favore del Movimento 5 stelle. Lo riferisce il messinese Francesco D’Uva che ricorda pure “l’indagine dell’Antitrust aperta sulla Caronte & Tourist per una possibile intesa restrittiva della concorrenza nelle tratte dello Stretto, dopo aver rilevato nell’ultimo triennio un aumento delle tariffe fino al 150 per cento” e accusa il Pd di sapere già tutto da tempo: “C’è un Pd da rifare a Messina ma lo rifaranno gli stessi legati da sempre a Genovese. La verità è che c’è un Pd da rifare in tutta Italia”. Gli fa eco Alessio Villarosa, di Barcellona Pozzo di Gotto, che attacca lo stesso Parlamento, citando i suoi eroi “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” e andando incontro a una reprimenda di Laura Boldrini e alle urla di protesta di molti deputati. Vergognosa replica a Villarosa da parte di Anna Rossomando, del Pd, anche lei presente in giunta per le autorizzazioni che, rivendicando di perseguire i valori di Pio La Torre, attacca coloro che “sono nati in Sicilia”, millantando che “negano l’esistenza della mafia”. Chiaramente, senza essere richiamata dalla presidente della Camera. Retorica Rosy Bindi (Pd) per la quale “nessuno può appropriarsi di Falcone e Borsellino”.

Come spiegato da Antonio Leone (Ncd) nella prima relazione in giunta per le autorizzazioni, lo scorso 10 aprile, l’ex sindaco di Messina è indagato per “associazione a delinquere e per concorso in riciclaggio, peculato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, dichiarazioni fraudolente ed emissione di fatture per operazioni inesistenti”.L’hanno posta in molti la domanda, questo pomeriggio, ai tantissimi esponenti del Pd presenti nell’aula di Montecitorio: “Ma perché avete candidato Francantonio Genovese alle ultime politiche?”, scrive ancora Fabio Bonasera su “Qui Messina”. L’azzurro Maurizio Bianconi, sebbene parli di processo, ricorda che l’inchiesta che lo riguarda è partita nel 2011. Daniele Farina, di Sel, afferma che questa situazione si sarebbe evitata se il partito avesse intravisto le ragioni per escluderlo già al momento della composizione delle liste elettorali. Per non parlare del Movimento 5 stelle. Francesco D’Uva parla di un intero Pd da cambiare. Giulia Grillo scomoda perfino il papà e lo zio democristiani dell’ex sindaco di Messina, Luigi Genovese e Nino Gullotti. Questa domanda, in effetti, vorremmo farla tutti al Partito democratico. E, in realtà, è stata fatta. Ma le risposte non arrivano mai. Perché è impossibile che un partito tanto rinchiuso in se stesso possa mai ammettere anche un solo, unico errore. Da quando la famiglia Genovese, con tutto il suo seguito a carico, è finita nella voragine giudiziaria dell’inchiesta Corsi d’oro, sembra che l’intera nomenklatura, non solo messinese, si sia improvvisamente svegliata, prendendo le distanze. Ma le distanze da chi? Da se stessa, evidentemente. Ma come si fa a mandare avanti colui che è pur sempre un uomo, con i suoi affetti, la sua dignità, candidarlo, candidare anche il cognato, Franco Rinaldi, alle regionali, per poi sottoporlo a una tanto umiliante gogna, come quella odierna? Fingendo che non c’entri nulla con il partito, quasi si fosse insinuato all’insaputa di tutti. Nemmeno se lo spirito di Claudio Scajola si fosse impossessato di ognuno. Il Pd non è mai stato, al pari dei suoi antesignani, il partito onesto, democratico, pluralista che per due decenni ha tentato di fare credere. I tanti scandali che hanno colpito anche i suoi componente – Genovese non è il primo e non sarà l’ultimo – ne sono solo una piccola prova. Ma oggi è emersa un’altra verità: è certamente un partito crudele e spietato. Che manda avanti i suoi uomini migliori – Genovese è quello con più elettori in assoluto – per poi abbandonarli al proprio destino, arrivando addirittura a lapidarli prima e con più violenza di chiunque altro. Una violenza inaudita, sconvolgente, come quella espressa dalle grida isteriche di Anna Rossomando. La deputata torinese, per replicare agli attacchi dei pentastellati messinesi D’Uva e Alessio Villarosa rivolti al suo partito e a buona parte del Parlamento, si è prima appropriata dell’eredità per nulla da poco di Pio La Torre e ha poi inveito contro coloro che “sono nati in Sicilia”, accusandoli di “negare l’esistenza della mafia”. Quando, semmai, l’avevano appena affermata. E tutto ciò sotto gli occhi addomesticati di un’intera Camera, con la sua presidente brava a richiamare Villarosa e pessima nel consentire quello scempio a Rossomando. Già, la presidente della Camera. Laura Boldrini. Quella che si porta il compagno in Sudafrica, ai funerali di Nelson Mandela, a spese dei contribuenti. Quella che si meraviglia se nella sua terra, le Marche, gli imprenditori si suicidano per la disperazione. Quella che è diventata deputato nelle file di Sel, sacrificando sull’altare della propria ambizione Sofia Martino. Messinese anche lei come Genovese, D’Uva e Villarosa. Messinese come tutti coloro che ancora una volta sono stati beffati da un sistema che non si crea problemi nell’usare le persone come cavie. Nel nome di una democrazia che esiste solo nelle parole e che salva solo chi è appiattito e allineato. Lo sanno bene i D’Uva, che da sempre fanno i conti con il degrado di una Sicilia che da due legislature, va ricordato, è governata proprio dal Pd. Lo sanno i Villarosa, costretti a scappare dalla Sicilia per poter studiare. Lo sanno le Martino, cui è stato interdetto il Parlamento per fare posto a una donna dell’apparato. E, da oggi, lo sanno i Genovese. Che probabilmente non verranno nemmeno condannati ma ai quali tanta crudeltà dovrà pur essere pesata in qualche momento. Se son rose… avvizziranno.

L'Antimafia ed u suoi presunti paladini. Intervista di Pino Arlacchi rilasciata a Giuseppe Corsentino e pubblicata su Affari Italiani. I 50 secondi del video del CorriereTv sono implacabili e dicono molto della “leggerezza”, a voler essere gentili, con cui la politica italiana affronta un tema drammatico com’è quello della mafia e dell’antimafia. Nel video c’è il neopresidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che farfuglia: “Bisogna stare uniti per combattere insieme la lotta alla mafia” (sic) “e bisogna stare vicini a tutti coloro che lavorano per la lotta alla mafia”. In 50 secondi una gaffe (ma la coriacea Bindi è una che si emoziona?) e una sciocchezza istituzionale. Perché la Commissione antimafia è nata, mezzo secolo fa, nel lontano 1962, non per “stare vicino” alla magistratura e agli organi di polizia, ma per fare altro – scoprire i collegamenti tra politica e sistemi criminali, per esempio – solo che oggi, Bindi o non Bindi, nessuno ne ha più consapevolezza e la commissione con i suoi 25 membri è diventata solo uno “spazio politico”, l’ennesimo luogo della spartizione come fa capire un illuminante twitter del senatore Gasparri del PdL che accusa il Pd di aver voluto fornire alla Bindi una “poltrona” (prestigiosa, si capisce). “Il fatto è che da almeno un decennio l’Antimafia non è altro che un rito, una delle tante liturgie parlamentari: credo che nessuno degli ultimi commissari, presidenti e vicepresidenti della Commissione, abbia solo un’idea di che cosa sia la mafia (o che cosa siano le mafie) oggi, di come si possa investigare o semplicemente comprendere il fenomeno… il livello culturale dei parlamentari non va oltre la lettura dei libri di Saviano”. Chi parla così ad Affari Italiani è uno che se ne intende di Antimafia perché, negli anni 80 è stato superconsulente della Commissione e poi per due anni, dal 94 al 96, vicepresidente con la rossa (di capelli) Tiziana Parenti alla presidenza: Pino Arlacchi, calabrese di Gioia Tauro, sociologo, consulente dell’Onu sui temi, appunto, dei network criminali, ora parlamentare europeo del Pd, impegnato, si capisce, sugli stessi temi (con un occhio particolare sui traffici mondiali di droga) e con una intensa attività pubblicistica.

Se l’Antimafia è un rito parlamentare, allora tanto meglio sopprimerla.

«Non mi prenda alla lettera. Io sto dicendo che questo modello di Commissione non serve più a nulla, non che non ci sia bisogno di uno strumento di investigazione politica che vada al di là dell’attività investigativa delle Procure».

Ma c’è già la Superprocura antimafia..

«Ed è proprio qui il punto. Uno dice: ci sono le Procure, la Superprocura e altre agenzie investigative. E allora a che serve la Commissione parlamentare?»

Proprio così, Arlacchi. A che serve?

«Serve a capire il contesto – mi consenta il lessico di Leonardo Sciascia – a gettare un fascio di luce su territori d’indagine su cui la magistratura non può spingersi se non quando ha precise e circostanziate “notitiae criminis” (e da questi territori è assai difficile che ne arrivino).»

Non parli da sociologo, professor Arlacchi, ma da uomo politico, impegnato sul tema prima a New York e ora a Bruxelles.

«Sto parlando, per esempio, delle relazioni tra network criminali, tra mafie, ed economia legale (relazioni spesso favorite dalla intermediazione politica). Con ciò voglio dire che il compito dell’Antimafia non è replicare l’attività dei magistrati, sentire e risentire le stesse fonti, come faceva un pur bravissimo presidente come Luciano Violante con i pentiti, ma andare oltre, scoprire i nuovi trend criminali (uso questo termine per farmi capire, non certo per sottovalutare la crudeltà delle organizzazioni), individuare quegli spazi pubblici e privati (della politica e dell’economia, per restare in tema) in cui le nuove mafie globali si sviluppano con nuove logiche multinazionali.»

E tutto questo la Commissione parlamentare non lo fa più.

«Non lo fa più da decenni. Le ho ricordato il lavoro di Violante, l’ultimo presidente dell’Antimafia degno di questo nome. Anche Violante, a mio parere, ha subordinato l’attività dell’Antimafia alle inchieste della magistratura, ha lavorato sulle “retrovie” del fenomeno mafioso, invece che guardare avanti.»

Però ha gettato le basi, come dire, culturali del processo Andreotti.

«Sì, ma la relazione mafia-politica-affari oggi si configura in altro modo e il focus di una nuova Antimafia dovrebbe andare al di là del provincialismo mediatico che caratterizza il dibattito pubblico sul fenomeno.»

Che è globale e quindi inafferrabile con un vecchio arnese parlamentare come una commissione. E’ così?

«Gli anni ‘80 sono stati la grande stagione della commissione perché grazie al suo lavoro l’endiadi mafia-politica è entrata con forza nel dibattito pubblico e, per conseguenza, il lavoro dei magistrati ne è stato avvantaggiato. Poi è finita. Che cosa hanno fatto le Commissioni guidate da personaggi come Tiziana Parenti, come Beppe Pisanu? Niente.»

E’ vero, la preoccupazione della Parenti, presidente berlusconiana, era la gestione del pentitismo…

«E questo le dice tutto del progressivo degrado di un’attività di indagine politica che dagli anni ’90 in poi non è interessata più a nessuno. E la prova sta proprio nella scelta dei presidenti. La politica ha scelto come presidenti o personaggi di secondo piano o personaggi prudentissimi, fedeli alle indicazioni dei loro sponsor politici. Se si continua così, l’Antimafia è solo un modo per distribuire 25 poltrone parlamentari.»

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica, scrive Antonio Amorosi su “Affari Italiani”. Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza?

«Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”.»

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine…

«No. E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico.  A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana.  Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che da a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”.»

Non sono solo casi isolati!? Libera è un associazione grandissima per dimensioni…

«Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!»

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta. E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia?

«Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce.»

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia.

«A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va.»

Ai nostri microfoni anche  Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo.

«Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti.»

La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica  quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E ”Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

Intervista a Maritati di Carmela Formicola su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un'intervista senza vergogna nonostante tutto. Sono passati 19 anni dal ciclone giudiziario che travolse e sconvolse Bari, la Puglia, la società, la politica e l’economia di questa terra. Dai cassetti della memoria fuoriescono le immagini di un mondo che non c’è più (o forse esiste ancora, ma ha cambiato pelle), il teorema di un uomo potente che ha sul libro paga politici, criminali e uomini delle istituzioni in egual misura. Arrestato e indagato confessa, patteggia la pena ed esce di scena. Ma a distanza di anni ci ripensa: se non sono mafiosi tutti gli altri indagati, perché dovrei esserlo io soltanto? Chiede la revisione di quel patteggiamento. E la Cassazione gli dà ragione. Quell’uomo potente si chiama Francesco Cavallari. Il magistrato che lo incastrò si chiama Alberto Maritati.

Dottor Maritati, dunque è tutto da rimettere in discussione.

«Premetto di avere fatto parte di un filone culturale della Magistratura associata (Magistratura Democratica) di cui mi onoro avere condiviso fortemente i principi ispiratori che sono scritti a caratteri cubitali nella nostra Costituzione. Uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, indipendenza ed autonomia della Magistratura e sua responsabilità per il principio di essere tenuta al rispetto rigoroso delle leggi. È nel rispetto di queste regole fondamentali che unitamente ai colleghi Corrado Lembo, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi conducemmo la più delicata e difficile indagine dei miei trentacinque anni di magistrato. L’indagine fu portata a termine grazie all’apporto di un gruppo di carabinieri guidati da un ufficiale tra i migliori che il nostro Paese vanti (l’attuale generale Mario Parente oggi capo dei Ros). L’utilizzo del reparto speciale dei carabinieri proveniente interamente dagli uffici romani, fu reso necessario dalla obiettiva impossibilità di riporre fiducia anche nei corpi di polizia locale, in virtù della indiscussa abilità di Francesco Cavallari che aveva per anni conquistato “benevolenza e amicizia” non solo tra le forze di polizia, ma anche in tutti i gangli del potere, economico, politico e istituzionale, magistratura compresa».

Ma a distanza di anni i giudici ipotizzano che Cavallari non sia mai stato un mafioso.

«La mia cultura di democratico mi permetterebbe di criticare anche duramente una decisione della Cassazione che ovviamente, nel risultato non posso condividere. In uno Stato libero e democratico nulla e nessuno infatti può ritenersi immune da critiche. Non critico però questa ultima sentenza per due ragioni: non l’ho letta e soprattutto perché i magistrati di quel collegio si saranno trovati a giudicare i risultati di giudizi, procedure e decisioni talmente complicate e spesso assai discutibili che, dopo la nostra indagine, si sono susseguiti modificando radicalmente la linea investigativa e il filone delle nostre indagini che comunque - questo lo rivendico con forza - furono fondate su fatti indiscutibili».

Anche se la verità processuale è stata un’altra.

«Mi limito a sottolineare solo un aspetto certo non marginale. Dopo che Corrado Lembo e io - entrambi distaccati dalla Procura nazionale antimafia alla Procura di Bari, per conferire alle indagini impulso e sostegno, sempre a cagione di quella “speciale abilità” del Cavallari - il processo subì un singolare spezzettamento nel senso che fu suddiviso e trattato in differenti momenti! Chi si intende di procedura penale e di processi di tale tipo potrà bene intendere gli effetti».

Quindi difende quelle indagini.

«I risultati della indagine sono tuttora impressi e non certo modificabili, negli atti giudiziari: furono ritenuti sacrosanti da un ottimo giudice delle indagini preliminari (Concetta Russi) che accogliendo le richieste dei quattro pubblici ministeri, emise importanti e motivatissime ordinanze di custodia cautelare. Quei provvedimenti ressero poi al vaglio di vari collegi del Tribunale in sede di riesame e poi di appello e soprattutto ressero al vaglio di più collegi della Suprema Corte di Cassazione, che certo valutava sulla base di atti e accertamenti che avevano il pregio della chiarezza nella visione e impostazione complessiva dei fatti».

Cosa ricorda di Cavallari: l’umanità o la spregiudicatezza, le verità o le menzogne?

«Non si può parlare di verità e/o menzogna: vennero alla luce fatti eclatanti e di gravità inimmaginabile per un Paese civile. In città Cavallari era “di casa” e aveva un potere senza eguali in tutti i “palazzi” e in ogni settore di rilievo. Aveva persino tra i suoi numerosi dipendenti un gruppo di criminali e corrispondeva il salario mensile ad alcuni di loro che pure erano ospiti delle patrie galere».

Si è detto che l’inchiesta sulla sanità privata si sia poi del tutto svuotata.

«Non v’è dubbio che anche simili fatti nel corso di processi, con una pletora di grandi avvocati e con pubblici ministeri diversi da quelli che avevano condotto l’indagine (rimase solo Pino Scelsi a seguire i non facili dibattimenti che ne seguirono), possano subire svolte e interpretazioni assai differenti. È sotto certi aspetti la fisiologia dei processi. Una indagine è il presupposto dei processi che verranno. Se il risultato dei giudizi non è conforme agli accertamenti delle indagini, credo che sia fisiologico, altrimenti perché mai si dovrebbero sprecare tempo ed energie per procedere alle fasi successive alle indagini?! Puntare però a delegittimare o denigrare il lavoro di chi condusse le indagini solo sulla base di un risultato dei giudizi non conforme a quello delle indagini è cosa errata quanto sgradevolmente lontana dalla realtà».

Crede che l’opinione pubblica la pensi come lei?

«Sono certo che tutti i cittadini di Bari onesti che ebbero modo di osservare e vivere quegli anni che precedettero quelle indagini, che i validissimi Carabinieri del Ros di Roma battezzarono acutamente (o ingenuamente) "Speranza", in cuor loro attendevano che dal nostro lavoro (obbligatorio come prescrive la nostra Costituzione all’art 112) ne sarebbe scaturita una salutare e corretta via di uscita dalla gravissima e pericolosa situazione in cui era stata ridotta la città di Bari. Se e in che misura, al di là delle sentenza, riuscimmo, sia pure in parte, a fare trionfare temporaneamente la "Giustizia", questo è un giudizio che non può certo competere a me. Il magistrato inquirente svolge fino in fondo il suo lavoro ma dopo esce di scena, prendendo atto con serenità e rispetto istituzionale degli sviluppi che altri magistrati imprimano al processo».

E ritiene che Cavallari abbia per lei buoni sentimenti, per così dire?

«Sono certo che Francesco Cavallari non abbia conservato nei miei confronti il benché minimo astio o rancore perché lui sa bene che i magistrati che lo inquisirono furono certo rigorosi ma, con altrettanta certezza, obbiettivi e sereni. Egli dopo la fase iniziale delle indagini in cui ricorse ad ogni tentativo per fermarci (nacquero perfino altri processi penali a suo carico), decise spontaneamente e con il sostegno dei suoi legali, di collaborare e furono le sue confessioni e accuse che consentirono lo sviluppo delle successive e fondamentali indagini. Sulla base di quella collaborazione-confessione si pervenne quindi alla irrogazione a suo carico della pena "concordata" ( il cosiddetto "Patteggiamento")».

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associaizone mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’ac - cusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.
Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

Quando il Potere giudiziario si nutre di pregiudizi e genera ingiustizia. Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

Parliamo di menzogne nelle aule di giustizia. I magistrati di Taranto del processo sul delitto di Sarah Scazzi, requirenti con a capo il Pubblico Ministero Pietro Argentino e giudicanti con a capo Rina Trunfio, hanno fondato le richieste e le condanne sull’assunto che il delitto di Avetrana è una storia di bugie, pettegolezzi, chiacchiere, depistaggi. Menzogne e reticenze dei protagonisti e dei testimoni e se non questo non bastasse anche di tutta Avetrana.

Ed ecco il paradosso che non ti aspetti. È proprio l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato per concussione e corruzione semplice.

Eppure Pietro Argentino è anche il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Ciò nonostante a me tocca difendere proprio i magistrati Tarantini che di me hanno fatto carne da macello, facendomi passare senza successo autore della loro stessa infamia, ossia di essere mitomane, bugiardo e calunniatore.

Come dire: son tutti bugiardi chi sta oltre lo scranno del giudizio. Ma è proprio così?

Silenzio in aula, prego. Articolo 497 comma 2 del Codice Penale, il testimone legga ad alta voce: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Il microfono fischia, la voce si impaccia, qualcuno tentenna sul significato della parola «consapevole». Poi iniziano a piovere menzogne. Il giudice di Aosta Eugenio Gramola - sì, quello del caso Cogne - ha lanciato l’allarme a Niccolò Canzan sul suo articolo su “La Stampa” : «Ci prendono per imbecilli. È incredibile come mentano con facilità davanti al giudice. Sfrontati, fantasiosi. Senza la minima cura per la plausibilità del racconto. Orari impossibili, contraddizioni lampanti, pasticci. L’incidenza dei falsi testimoni è molto superiore a una media fisiologica, si attesta tra il 70 e l’80 per cento». Sette su dieci mentono, in Valle d’Aosta. Sembra uno di quei casi in cui la geografia potrebbe significare qualcosa. L’Italia un Paese di bugiardi, quasi una tara nel codice genetico: «Chi mente al giudice è furbo - dice Gramola -. Essere bugiardo fa ridere, piace, non comporta disvalore sociale. Mentre indicare la menzogna come un grave atto contro la Giustizia è da biechi moralisti e puritani».  Totò e Peppino erano all’avanguardia, è risaputo. «Caffè, panini, false testimonianze!», urlavano nel 1959 nel film «La Cambiale». Dall’alto della civilissima Valle d’Aosta, al cospetto di storie magari più piccole eppure significative, il giudice Gramola ha un guizzo d’orgoglio: «Certe volte, più che a testimoni ci troviamo di fronte ad amici delle parti in conflitto. E questi bugiardi sono poi magari gli stessi che si scagliano contro una giustizia che non funziona».

D’altro canto la procura di Milano ha rinviato a giudizio tutti i testimoni della difesa nel cosiddetto “processo Rubi”, che sono 42, più i due avvocati della difesa: in tutto 44. Ora, pensare che 42 testimoni fra i quali deputati, senatori, giornalisti, funzionari di polizia abbiano, tutti, giurato il falso, è una cosa a dir poco stravagante, scrive Luigi Barozzi. Il capo d’accusa non è ancora definito, ma andrà probabilmente dalla falsa testimonianza alla corruzione in atti giudiziari. In soprannumero, anche i legali verranno rinviati a giudizio, e al normale cittadino sorgono alcuni dubbi.

- E’ mai possibile che 42 persone, di varia provenienza sociale e professionale, siano tutti bugiardi-spergiuri o peggio?

- E’ mai possibile che lo siano pure i legali della difesa i quali, in un società civile, incarnano un principio quasi sacro: il diritto dell’imputato, anche se si tratta della persona peggiore del mondo, di essere difeso in giudizio?

- Non sarà, per caso, che la sentenza fosse già scritta e che il disturbo arrecato dai testi della difesa alla suddetta sentenza abbia irritato la Procura di Milano tanto da farle perdere la trebisonda? 

Trattando il tema della menzogna ci si imbatte frequentemente in definizioni che fanno uso di molti sinonimi quali inganno, errore, finzione, burla, ecc…, le quali, anziché restringere i confini semantici del concetto di menzogna, tendono ad allargarli creando spesso confusione, scrive Il valore positivo della bugia - Dott.ssa Maria Concetta Cirrincione - psicologa. Un primo tentativo per circoscrivere tale area semantica consiste nel definire la differenza tra menzogna e inganno. La menzogna e il suo sinonimo bugia, usato prevalentemente in relazione all’infanzia, và considerata una modalità tra le altre di ingannare, perciò possiamo definirla come una sorta di “sottoclasse “ dell’inganno. La sua caratteristica distintiva consiste nel fatto di essere essenzialmente un atto comunicativo di tipo linguistico, ossia la rivelazione di un contenuto falso attraverso la comunicazione verbale o scritta. Questo impone la presenza di almeno un comunicatore, di un ricevente e di un messaggio verbale che non corrisponde a verità. L’inganno si esplica invece, non solo attraverso l’atto comunicativo della menzogna, ma anche attraverso comportamenti tesi ad incidere sulle conoscenze, motivazioni, aspettative dell’interlocutore. (De Cataldo Neuburgher L. , Gullotta G., 1996). Secondo questa prospettiva, l’omissione di informazioni non è tanto una menzogna, quanto un inganno. La comunicazione è una condizione sufficiente ma non necessaria perché si possa ingannare. A volte si inganna facendo in modo che:

- l’altro sappia qualcosa di non vero (es: A va sul tetto e fa cadere acqua dalla grondaia, B vede l’acqua e viene ad assumere che piove);

- l’altro creda qualcosa di non vero (es: B guardando l’acqua fuori dalla finestra, commenta: “piove”, e A non lo smentisce);

- l’altro non venga a conoscenza della verità (A chiude l’altra finestra dalla quale non si vede l’acqua cadere, in modo che B continui a credere il falso);

L’inganno, quindi, si esplica attraverso qualsiasi canale verbale e non verbale (mimica facciale, gestualità, tono di voce), mentre la menzogna utilizza specificatamente il canale verbale. Mentire è un comportamento diffuso, tipicamente umano, non è tipico dell’adolescenza, né necessariamente un indice di psicopatologia; di solito viene valutato infatti da un punto di vista etico più che psicopatologico. Non appena i bambini sono in grado di utilizzare il linguaggio con sufficiente competenza sperimentano la possibilità di affermare a parole una verità del desiderio e del sentimento diversa da quella oggettiva.

E’ noto che i bambini non hanno la stessa proprietà di linguaggio degli adulti, per cui spesso gli adulti chiamano bugia ciò che per il bambino è espressione di paure, di bisogno di rassicurazione o di percezione inesatta della realtà. Si può parlare di bugia quando si nota l’intenzione di “barare”, e comporta un certo livello di sviluppo. Nei bambini avviene come messa alla prova per misurare poi la reazione degli adulti al suo comportamento. Nel crescere assume anche altri significati poiché dipende da diverse variabili; può dipendere dalla situazione che si sta vivendo, dalla persona alla quale è rivolta o dallo scopo che si vuole raggiungere. E’ utile pertanto una classificazione che ci permetta di orientarci meglio al suo interno, sebbene tale classificazione può risultare artificiosa dal momento che i vari tipi di menzogna tendono spesso a sovrapporsi e a confondersi tra loro. Si possono distinguere (Lewis M., Saarni C. , 1993):

bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);

bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);

bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);

bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un vantaggio);

bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);

autoinganno.

BUGIE DI TIMIDEZZA: una motivazione che può spingere a raccontare bugie è la timidezza. Alla sua radice c’è una concezione negativa di se stessi; i timidi affrontano la vita con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggioranza degli altri esseri umani e questo modo di pensare condiziona le loro relazioni in molteplici modi. Uno di questi è la tendenza a raccontare menzogne per apparire migliori agli occhi degli altri, per nascondersi, per evitare situazioni sociali nelle quali si sentirebbero inadeguati e imbarazzati.

BUGIE DI DISCOLPA: ci sono menzogne che derivano dalla necessità di discolparsi da accuse più o meno fondate. E’ un atteggiamento diffuso nei bambini che può permanere in soggetti adulti insicuri nei quali spesso si riscontra un sentimento d’inferiorità e l’incapacità di affrontare le proprie responsabilità.

BUGIE GRATUITE: generalmente dietro alla maggior parte delle bugie si nasconde un bisogno, un desiderio, uno scopo che il soggetto vuole raggiungere. Spesso invece ci troviamo di fronte a menzogne che non lasciano intuire che cosa vuole raggiungere il soggetto, sono le bugie che vengono raccontare per puro divertimento, per allegria, per dare sfogo alla fantasia.

BUGIE PER EVITARE LA PUNIZIONE: evitare la punizione è un motivo molto comune delle bugie degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Questi ultimi imparano a mentire ben presto quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione, già a 2-3 anni essi sono in grado di attuare degli inganni in contesti naturali come la famiglia.

BUGIE PER DIFENDERE LA PRIVACY: la salvaguardia della privacy è un motivo che spinge spesso i ragazzi adolescenti, ma anche gli adulti, a raccontare bugie. Nell’adolescenza emerge nei ragazzi il bisogno di crearsi uno spazio proprio, di decidere se raccontare o meno le loro esperienze e le loro emozioni. Se da un lato ciò deve essere rispettato dai genitori, dall’altro costituisce un problema a causa del loro bisogno di protezione nei confronti del figlio.

BUGIE PER PROTEGGERE SE STESSI O GLI ALTRI: nella vita di ogni giorno ci sono svariate situazioni che portano una persona a mentire per proteggere se stessa o i sentimenti di persone care. Se alla nostra festa di compleanno riceviamo un regalo che non ci piace o quanto meno lo consideriamo inutile, è molto improbabile che lo diremo chi ce l’ha donato; è probabile invece che, dissimulando la delusione, ci mostreremo entusiasti. Gli adulti mentono per cortesia e questa regola sociale viene ben presto assimilata anche dai bambini. Essi imparano a proteggere i sentimenti degli altri attraverso un’istruzione diretta data dai genitori, ma anche indirettamente osservandone il comportamento.

BUGIE PER ACQUISTARE PRESTIGIO: sono delle bugie compensatorie che traducono non tanto la ricerca di un beneficio concreto, ma la ricerca di un’immagine che il soggetto ritiene perduta o inaccessibile: si inventa una famigli più ricca, più nobile o più sapiente, si attribuisce dei successi scolastici o lavorativi. In realtà questa bugia è da considerarsi normale nell’infanzia e finchè occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale condotta viene considerata banale fino ai 6 anni, la sua persistenza oltre tale età segnala invece spesso delle alterazioni psicopatologiche.

PSEUDOLOGIE: sono delle bugie alle quali lo stesso autore crede. Più specificatamente viene definita “pseudologia fantastica” una situazione intenzionale e dimostrativa di esperienze impossibili e facilmente confutabili (Colombo, 1997). E’ un puro frutto di immaginazione presente in bugiardi patologici ed è una caratteristica tipica della Sindrome di Mùnchausen.

AUTOINGANNO: il mentire a se stessi è un particolare tipo di menzogna che ci lascia interdetti e confusi dal momento che il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. L’autoinganno è l’inganno dell’Io operato dall’Io, a vantaggio o in rapporto all’Io (Rotry, 1991). In esso vengono messi in atto meccanismi di difesa come la razionalizzazione e la denegazione. Attraverso la razionalizzazione il soggetto inventa spiegazioni circa il comportamento proprio o altrui che sono rassicuranti o funzionali a se stesso, ma non corrette. Il soggetto da un lato può celare a se stesso la reale motivazione di alcuni comportamenti ed emozioni, e dall’altro riesce a nascondere ciò che sa inconsciamente e non vuole conoscere. Attraverso la denegazione, invece, il soggetto rifiuta di riconoscere qualche aspetto della realtà interna o esterna evidente per gli altri. Potremo fare l’esempio dell’alcolista che mente a se stesso dicendosi che non ha nessun problema o delle famiglie in cui si fa “finta di niente, finta di non capire”.

Intanto per i magistrati coloro che si presentano al loro cospetto son tutti bugiardi. Persino i loro colleghi che usano lo stesso sistema di giudizio per l’altrui valutazione.

Eppure Pietro Argentino è il numero 2 della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. È l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato tre giorni fa per concussione e corruzione semplice. Al termine del processo, ecco abbattersi sulla procura di Taranto la pensate tegola della trasmissione degli atti per indagare proprio su chi ricopre un ruolo di vertice nella procura pugliese. Argentino è a capo del pool che ha chiesto il rinvio a giudizio, tra l’altro, del presidente della Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito delle indagini sulle emissioni inquinanti dello stabilimento Ilva. Vendola è accusato di concussione in concorso con i vertici dell’Ilva, per presunte pressioni sull’Arpa Puglia affinché «ammorbidisse» la pretesa di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico. Attraverso quel - le presunte pressioni, Vendola - secondo la procura - avrebbe minacciato il direttore Arpa Giorgio Assennato, «inducendolo a più miti consigli», approfittando del fatto che Assennato fosse in scadenza di mandato e che rischiasse di non essere riconfermato. Accusa sempre respinta da Vendola.

Quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. È un terremoto che si abbatte sul palazzo di giustizia di Taranto la sentenza che il Tribunale di Potenza ha pronunciato nei confronti dell’ex pubblico ministero della procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un terremoto anche perché i giudici potentini - competenti per i procedimenti che vedono coinvolti magistrati tarantini - hanno disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa testimonianza a carico del procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, e l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci, di Gallipoli.

Il Tribunale di Potenza ha condannato a 15 anni di reclusione l’ex pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Come pena accessoria è stata disposta anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna alla pena di 12 anni e mezzo. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, attuale comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi a un imputato accusato di diffamazione. L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il magistrato secondo l'accusa, ha anche minacciato di un “male ingiusto” un consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e assumere una funzione di guida politica di uno schieramento. L'ex sindaco di Castellaneta ed ex parlamentare dei Ds Rocco Loreto, che presentò un dossier a Potenza contro il magistrato, e un imprenditore, si sono costituiti parte civile ed erano assistiti dall’avv. Fausto Soggia. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono cui l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Le indagini dei militari del nucleo operativo e della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza coordinati dal pm Laura Triassi erano partite nel 2007, scrive “Il Quotidiano Web”. Lo spunto era arrivato dall'esposto di un ex assessore di Castellaneta, Vito Pontassuglia, che ha raccontato di aver spinto alle dimissioni un consigliere comunale, nel 2001, paventandogli un possibile arresto del figlio e del fratello per droga da parte del pm Di Giorgio. Quelle dimissioni che avrebbero causato le elezioni anticipate spianando la strada agli amici del pm, e a lui per l’incarico di assessore della giunta comunale. Gli interessi del magistrato nelle vicende politiche del paese avrebbero incrociato, sempre nel 2007, le ambizioni dell'ex senatore Rocco Loreto, un tempo amico di Di Giorgio, ma in seguito arrestato per calunnia nei suoi confronti, che si era candidato come primo cittadino. Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento dei danni subiti da Loreto, da suo figlio e da Pontassuglia. Per lui la richiesta dell'accusa si era fermata a 12 anni e mezzo di reclusione. Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni, ma non mi sorprende il fatto che esse conterranno il riferimento alla dubbia credibilità di imputati e testimoni. 

DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.

Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.

Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un "martire della battaglia", in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto,  “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere,  rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza:  l’inchiesta giornalistica,  quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco,  da omissioni complicità..  Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni  inadempienti  nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è  quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante  un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime,  costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa  ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime,  sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare  ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento  fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “colluttazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.  

Carceri, anatomia di un disastro. Novantanove morti dietro le sbarre negli ultimi mesi, metà dei quali per suicidio. Abusi di potere. Sovraffollamento record. Tagli lineari all'amministrazione penitenziaria. Scarsa applicazione delle misure che permetterebbero ai detenuti di lavorare. La situazione delle prigioni nel nostro Paese non fa che peggiorare. Eppure, qualcosa si potrebbe fare, e non si fa, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. Andrea, 44 anni, per un’intera settimana non riesce a camminare, a parlare né a mangiare. Vomita di continuo ed è in preda al delirio. I suoi compagni di cella chiedono aiuto - inutilmente - per 24 ore. Gli infermieri si limitano a misurargli la pressione. Dopo quattro giorni, Andrea è ricoverato al reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove gli viene diagnosticato un “ictus ischemico esteso in sede cerebrale”. Da allora è in coma irreversibile. C.G., 28 anni, italiano di origini brasiliane, detenuto nel carcere di Asti, viene accompagnato in infermeria per una visita di controllo. Un agente della penitenziaria lo deride per essersi recentemente convertito alla religione islamica. C.G., offeso, dà un calcio alla scrivania. Seguono dieci minuti di inferno: il detenuto viene preso a calci e pugni alla trachea e al torace, un uomo con il volto coperto da un passamontagna lo immobilizza, gli avvolge la testa con un sacchetto di plastica, gli tappa la bocca con il nastro da pacchi e poi lo appende alle grate dell’infermeria con i polsi legati dicendogli: “Dovreste fare tutti la fine di Stefano Cucchi”. E’ la radiografia di un disastro quella fotografata dall’Osservatorio Antigone nell’ultimo rapporto nazionale 2013 sulla situazione carceraria italiana. Dai diritti violati alla mancanza di piani per il reinserimento sociale, i legali della più attiva associazione a tutela dei detenuti riportano dati e numeri ma anche alcuni degli episodi più gravi avvenuti nell’anno appena trascorso all’interno delle mura carcerarie italiane. Come i 99 morti in dodici mesi, i suicidi, gli abusi di potere, le inchieste giudiziarie, detenuti malati richiusi in cella anche ben oltre il compimento del settantesimo anno di età. E poi, ancora, un sovraffollamento da record che sfiora il 173% e che fa schizzare l’Italia fra i primi posti della classifica nera europea. Le migliaia di detenuti condannati a meno di un anno di carcere per reati di scarsa rilevanza penale ai quali non vengono applicate le misure alternative al carcere, percentuali sempre più basse di carcerati che riescono a lavorare negli istituti di pena. Infine, tagli poco lineari al bilancio dell’Amministrazione Penitenziaria, che riducono del 47% i costi di mantenimento, assistenza e rieducazione dei detenuti ma che invece fanno aumentare del 12,1% quelli destinati ai costi per il personale. COME BESTIE IN GABBIA. Sono la Liguria (169,9%), la Puglia (158,1%), l’Emilia Romagna (155,9%) e il Veneto (153,4%) le regioni italiane dove si registrano le vette più alte di sovraffollamento. In totale, per 64.047 detenuti stimati dall’ultimo censimento a fine novembre, sono disponibili - secondo Antigone - solo 37mila posti letto. Una carenza ormai cronica che è stata recentemente confermata anche dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Il sovraffollamento dipende soprattutto dallo scarso uso delle misure alternative al carcere. “Tanto per fare un esempio, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe”, spiegano da Antigone, “è fallita nel suo tentativo di pensare a ingressi nelle comunità terapeutiche”. E così ben il 37,4% della popolazione detenuta si trova in stato di custodia cautelare. Un numero senza confronti in Europa. Mentre secondo gli ultimi dati disponibili resi noti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, la percentuale di tossicodipendenti in Italia ha raggiunto il 23,8% con punte più alte in Sardegna (34,1%), Puglia (32,3%) e Lombardia (30,4%). Ancora più alto il numero di persone detenute per violazione della legge sugli stupefacenti, che arrivano ormai al 38,4% dell’intera popolazione carceraria. NIENTE LAVORO. E così i detenuti si ritrovano a trascorrere 24 ore al giorno in celle fatiscenti di pochi metri quadrati senza ricambio d’aria né luce. Una condizione di “cattività” che accentua istinti violenti o stati depressivi, che aggrava le malattie e che toglie ai carcerati ogni possibilità di riscatto e recupero sociale. Anche perché le speranze di riuscire a lavorare durante la detenzione, sia per tenere la mente occupata che per costruirsi un futuro una volta liberi, continuano ad affievolirsi. Solo 11.579 detenuti (il 17,5% dei presenti) lavorano attualmente negli istituti per l’Amministrazione penitenziaria. E sono ancora di meno nelle carceri dove non si ricorre al “frazionamento”. Ovvero, dove un tempo lavorava un solo detenuto, riuscendo a ricevere un discreto compenso, oggi sono impiegati in due, spesso per periodi di tempo molto brevi per poter consentire anche agli altri, a rotazione, di lavorare. A questi detenuti, poi, si aggiungono i 2.266 che lavorano per altri datori. Fra di loro, 882 lavorano in carcere, mentre 1.266 fuori dalle strutture. Numeri che però sono distribuiti in maniera molto eterogenea in tutto il Paese: il 39% in Lombardia, il 24,8% in Veneto e il 10% in Lazio. Nel resto d’Italia, invece, le aziende in carcere sono praticamente assenti. MORTI IN CELLA. E così, in cella, si muore. Nel corso dell’anno 2013 – si legge nel rapporto di Antigone – i detenuti deceduti in carcere sono stati novantanove. Tra le cause, 24 decessi per malattia, 47 per suicidio e 28 per motivi che devono ancora essere accertati. Il primato della morti spetta a Roma Rebibbia (11 decessi in totale di cui 2 per suicidio, 3 per malattia e 6 per cause non accertate). Il detenuto più giovane aveva 21 anni, era marocchino e si è impiccato il giorno dopo Ferragosto nella casa circondariale di Padova. Il detenuto più anziano, invece, aveva 82 anni ed è morto per un malore a Rebibbia. Nonostante fosse affetto da gravi patologie e fosse stato recentemente colpito da un ictus, il Tribunale di sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di scarcerazione. Era molto anziano (81 anni) anche Egidio Corso, detenuto nel carcere di Ferrara, morto durante uno sciopero della fame mentre stava protestando perché non gli avevano concesso una misura alternativa al carcere. In completa solitudine, invece, si è tolto la vita Pasquale Maccarrone, 27 anni, impiccandosi con il lenzuolo del letto nel carcere di Crotone, il giorno dopo il suo arresto. In carcere si muore anche per malattie non curate. E’ successo ad Alfredo Liotta, trovato cadavere nella sua cella di Siracusa nel luglio del 2012. C’è voluto un anno perché, dopo un esposto all’associazione Antigone, fosse aperta un’inchiesta, ancora in corso. Liotta, malato di anoressia, nei suoi ultimi tre mesi di vita era dimagrito 40 chili e riusciva a muoversi soltanto su sedia a rotelle. Eppure non solo dal suo diario clinico risulta che né la perdita di peso né i parametri vitali siano stati monitorati, ma anzi quando il difensore del detenuto ne ha chiesto la scarcerazione si è sentito rispondere che “Liotta assumeva atteggiamenti artefatti, teatrali, volti alla strumentalizzazione”. Ora ad accertare la verità sarà la Procura di Siracusa, che lo scorso 29 novembre ha iscritto nel registro degli indagati dieci persone (dal direttore del carcere al personale medico competente) disponendo una nuova perizia. Senza cure è stato lasciato anche Andrea Angelini, 44 anni, attualmente ricoverato all’Unità Operativa Gravi Cerebrolesioni di Imola in stato di coma irreversibile. La notte del 3 marzo 2013, mentre si trovava detenuto al reparto G12 della casa circondariale di Rebibbia, ha un gravissimo malore. I suoi compagni di cella, spaventati, chiedono aiuto. Nessuno li ascolta per 24 ore. Altri quattro giorni devono trascorrere perché possa essere ricoverato in ospedale, dopo che gli infermieri del carcere si erano limitati a misurargli la pressione. La mattina del 13 marzo Angelini viene ricoverato al Sandro Pertini di Roma, dove gli viene diagnosticato un ictus ischemico. Le sue condizioni peggiorano ancora e viene trasferito al centro rianimazione del San Filippo Neri di Roma e poi, ancora, a Imola. Un pellegrinaggio inutile, visto che da allora il 44enne non ha più ripreso conoscenza. Anche in questo caso la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un fascicolo, contro ignoti. Sono in corso due inchieste (una amministrativa portata avanti dal Dap e una giudiziaria per omicidio colposo aperta dalla Procura di Napoli) per il caso di Federico Perna, un detenuto affetto da una grave patologia epatica e da disagi psichici morto lo scorso 8 novembre a Poggioreale. Perna era entrato in carcere il 20 settembre al Regina Coeli di Roma, poi era stato spostato a Velletri, quindi a Cassino, poi a Viterbo, ancora a Napoli Secondigliano e infine a Poggioreale. Secondo alcune testimonianze, “il detenuto sputava sangue da una settimana”. ABU GHRAIB AD ASTI. L’ultimo rapporto di Antigone fa luce, anche, su un mondo sottaciuto di violenze fisiche e psicologiche all’interno delle carceri italiane. Un caso di razzismo, violenza e sopraffazione si sarebbe verificato per esempio nel penitenziario piemontese di Asti, già scosso da un’inchiesta giudiziaria che due anni fa si è conclusa con la prescrizione di quattro agenti di polizia penitenziaria accusati di aver sottoposto a feroci pestaggi notturni quattro detenuti. Stavolta i fatti risalgono al 2010 e ad accusare due appartenenti alla polizia penitenziaria è C.G., italiano di origini brasiliane di 28 anni. L’uomo, durante una visita di controllo in infermeria, viene deriso per la sua fede islamica. “Mi hanno detto che Maometto puzzava”, racconterà poi. Il detenuto, molto religioso, reagisce dando un calcio alla scrivania. In tutta risposta viene preso a calci e pugni, imbavagliato e legato alle grate dell’infermeria, il tutto accompagnato da macabri avvertimenti come “farai la fine dei tuoi fratelli ad Abu Ghraib” e “dovreste morire tutti come Stefano Cucchi”. L’uomo molto tempo dopo riesce ad aggirare il muro di omertà inviando una lettera al suo avvocato a nome del suo compagno di cella e solo in seguito a una lunghissima indagine i due agenti sono stati portati a giudizio. Il processo inizierà il prossimo aprile davanti al Tribunale di Asti. BABY CRIMINALI. Migliora leggermente, invece, secondo l’osservatorio di Antigone, la situazione dei minorenni in carcere. Negli istituti di pena minorili, infatti, ben l’85,6% dei ragazzi uscirà in seguito all’applicazione di una misura cautelare alternativa. Significativo anche l’andamento dei minorenni che saranno collocati presso le comunità sia ministeriali che private, tra il 2001 e il 2012 (ultimi dati disponibili) che sono passati da 1.339 casi nel 2001 a 2.037 nel 2012. Un tendenza che in questi anni ha contribuito a contenere le presenze in carcere. Un discorso molto simile quello della messa in prova ai servizi sociali. Si è passati da 788 provvedimenti nel 1992 a 3.216 nel 2011 con un incremento cresciuto di quasi quattro volte. COSA FARE? Da parte degli esperti di Antigone, nel rapporto 2013 arrivano anche suggerimenti concreti rivolti al ministero della Giustizia, che ha promesso una riforma carceraria in tempi brevissimi. I punti fondamentali sono dieci, tutti finalizzati a favorire la reintegrazione dei detenuti. Fra questi compaiono l’apertura delle celle e delle sezioni per almeno dieci ore al giorno, creare all’interno del carcere laboratori e aree verdi, introdurre il web nelle carceri per informarsi e partecipare alla vita pubblica e consentire – ovviamente a chi non è considerato socialmente pericoloso – di comunicare con i parenti attraverso posta elettronica. Per quanto riguarda la salute, una risposta efficace alla malasanità fra le mura carcerarie sarebbe quella di creare una figura che sia intesa come un medico di fiducia. Suggerimenti arrivano anche per quanto riguarda la vita quotidiana dei detenuti, che spesso si ritrovano a dovere fare i conti con i prezzi “gonfiati” del sopravvitto degli spacci interni alle carceri, più volte segnalati dalla Corte dei Conti. Importantissimo, poi, il fronte istruzione. Sono ancora troppo pochi – solo 316 – i detenuti che si sono iscritti nell’ultimo anno a corsi universitari. Mentre nel 2012 si sono contati solamente 18 laureati. “E’ importante incentivare ulteriormente gli studi superiori come tassello fondamentale anti recidiva per il percorso individuale”, spiegano da Antigone, “il detenuto deve essere messo in condizione di sostenere un calendario di esami paragonabile a quello ordinario”.

Toghe sporche. Corte dei Conti, assenteismo da record. L'organo che giudica gli sprechi degli enti pubblici ha un problema con la gestione di ferie e malattie. Con un dipendente su tre che, in media, non si reca sul posto di lavoro, scrive “L’Espresso”. Il presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri durante la cerimonia di insediamento. Giudica gli sprechi pubblici e il corretto impiego delle risorse, ma la Corte dei conti non riesce a frenare l’assenteismo al suo interno. I dati su ferie e malattie certificano infatti che un terzo degli uffici (in media d’anno 20 su 64) supera la soglia del 30 per cento di assenze mensili. A gennaio (ultimi dati resi pubblici), l’hanno oltrepassata 24 uffici: due addirittura toccando quota 41 per cento di mancate presenze. Se, poi, si torna indietro, a dicembre si scopre che gli impiegati dell’ufficio che fa formazione al personale hanno lavorato in media solo 4 giorni su 10. E una sbirciata ai dati dell’estate scorsa consente di appurare che 34 uffici hanno avuto un tasso di assenteismo oltre il 30 per cento, con le due segreterie delle sezioni giurisdizionali d’appello (motori della Corte) che hanno totalizzato, rispettivamente, il 46 e il 41,4 per cento di assenze.

Toghe sporche. Pd e M5S bocciano la responsabilità delle toghe. In commissione Giustizia si forma una nuova maggioranza. Il Pd vota un emendamento del M5S che boccia la responsabilità civile dei magistrati, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Guai a toccare la magistratura. La sinistra si schiera compatta e boccia il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati fortemente voluto dal centrodestra. Democratici, grillini ed ex Cinque Stelle hanno approvato in commissione Giustizia del Senato l’emendamento degli stellati che cancella l’articolo 1, cuore del testo del ddl. "Per i seguaci di Renzi e Grillo - tuona il senatore di Forza Italia, Lucio Malan - i magistrati devono continuare ad essere gli unici cittadini che non subiscono alcuna conseguenza per i danni provocati dai loro errori, anche se clamorosi". "Siamo al paradosso. Ma qual è la maggioranza di questo governo?". A chiederlo è la senatrice di Forza Italia Elisabetta Alberti Casellati. Perchè sistematicamente in commissione Giustizia il Partito democratico vota insieme al Movimento 5 stelle, mentre Ncd, Udc e Scelta civica vengono a trovarsi all'opposizione. Lo stesso schema si è verificato oggi. Con un colpo di mano in commissione Giustizia a Palazzo Madama, piddini e grillini hanno affossato il ddl sulla responsabilità civile dei magistrati votando un emendamento del gruppo Cinque Stelle che sopprime il cuore del provvedimento. "A parole i grillini dicono che la responsabilità dei magistrati va affermata - continua la Casellati - non si può continuare così. Quando le promesse prendono il posto dei programmi vuol dire che andiamo verso la decadenza".

Toghe sporche. Anm, taglio agli stipendi: "Non toccate quelli dei magistrati", scrive “Libero Quotidiano”. Al tempo del governo Renzi, impegnato a trovare i soldi per "offrire" gli ormai famigerati 80 euro in busta paga, si vocifera di tagli un po' per tutti: manager pubblici (questi ci saranno), manager privati, docenti e professori, gerarchie militari e anche pensionati. In mattinata Repubblica ha diffuso un'indiscrezione, non smentita, ossia che la scure dell'uomo da Pontassieve possa abbattersi anche sui magistrati, allineando il loro compenso massimo lordo a 260mila euro, quanto percepito dal presidente della Repubblica. Una cifra comprensiva di Irpef e contributi previdenziali. La rivolta togata - Apriti cielo. Basta una voce a innescare la rivolta togata. A prendere carta e penna è l'Associazione nazionale magistrati, che scrive della "gravità di una eventuale iniziativa unilaterale del governo che, senza alcun confronto con le categorie interessate e in via d'urgenza", potrebbe procedere "a una riduzione strutturale delle retribuzioni". La magistratura, aggiunge il sindacato delle toghe, "consapevole delle forti difficoltà che investono vasti strati della popolazione, non vuole sottrarsi all'impegno di solidarietà", ma "la redistribuzione delle risorse deve avvenire in modo equo". Che tradotto dal linguaggio dei magistrati - "in modo equo" - significa: tagli a tutti, ma non a loro. "Patrimoniale" - Per le toghe l'eventuale taglio dovrebbe avvenire "a parità di capacità contributiva, e dunque con strumenti di natura fiscale, e non con soluzioni inaccettabili, che incidono unicamente su una parte del pubblico impiego senza colpire gli evasori, le grandi rendite e le retribuzioni del settore privato". I magistrati, dunque, oltre a respingere sdegnati l'ipotesi di un taglio che li riguardi, suggeriscono la strada al governo: tassare le "grandi rendite" (magari con una patrimoniale?) e le retribuzioni del settore privato. Gli "intoccabili" - Ma tant'è. Ora, nel mirino del governo Renzi, ci sono pure i magistrati. Gli "intoccabili" sono almeno trenta, e sono quelli il cui stipendio supera di gran lunga il tetto fissato per i manager pubblici. Il più pagato di tutti è Gaetano Silvestri, primo magistrato di Cassazione che si mette in tasca qualcosa come 1.490 euro al giorno che in un anno fanno 545.900 euro che arriveranno a 560 mila quest'anno. A ruota lo segue il segretario generale della Camera Ugo Zampetti che con i suoi 1309 euro al giorno prende l'esatto doppio di quanto Renzi avrebbe fissato come soglia. Al terzo posto, ex equo con altri 14 giudici della Corte Costituzionale che guadagnano 454 mila euro l'anno, ovvero 1243 euro al giorno. A seguire c'è Elisabetta Serafin, segretaria generale del Senato, che viaggia sui 427mila euro, ci sono i vice di Zampetti, Aurelio Speziale e Guido Letta (entrambi a quota 358mila euro), ci sono otto funzionari di Montecitorio a 300 mila euro, altri sette a 375 mila e no oltre i 400 mila.

Toghe sporche. Mazzette, favori, regali: la corruzione nei tribunali, scrive “Libero Quotidiano”. "Se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro". La confessione sul mondo delle toghe arriva da Napoli dove è in corso, come racconta l'Espresso, un'inchiesta sulla corruzione dei magistrati. Fiumi di intercettazioni che alzano un velo sulla mala giustizia che si nasconde tra i corridoi e le aule e dei tribunali. “Mercato delle prescrizioni” così si chiama l'indagine su cui ha lavorato la procura di Napoli. Secondo i racconti dei testimoni il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti su sentenze e rinvii come in un supermarket. Dall'altro lato a raccogliere le offerte ci sono alcuni magistrati. L'Espresso però va oltre e racconta il mercato delle sentenze anche in altre procure d'Italia. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Insomma a quanto pare una parte della magistratura e di professionisti giudiziari specula sulle grane di alcuni imprenditori ed è anche permeabile a favori per chi magari punta d una prescrizione. I casi - Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, afferma: "La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge". I casi di corruzione citati da L'Espresso e dalle carte delle inchieste sono tanti. Se a Imperia un magistrato avrebbe aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Le cause - Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge ha radici "nell’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo. Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati. Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere". Le inchieste - Secondo Cantone "nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico". Una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma: "Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente", ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Insomma tante storie e tanti casi che di certo turbano la fiducia degli italiani nella giustizia. Tantissimi magistrati svolgono il loro valore con professionalità ed etica, ma le mele marce vanno eliminate. 

Toghe sporche. La corruzione dilaga nei tribunali. Ecco il tariffario delle toghe. Quando i magistrati finiscono nei guai: mazzette per rinviare le udienze, passare dati segreti e aggiustare le sentenze, scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Ricostruzioni inquietanti, quelle che emergono dall'inchiesta sulla corruzione nei tribunali pubblicata da L'Espresso. Mazzette per influenzare le sentenze, rinviare le udienze, diffondere dati e informazioni che dovrebbero rimanere segrete. Diverse le città tirate in ballo, da Napoli a Bari alla Fallimentare di Roma. Diverse le modalità di pagamento, dalla classica "stecca" ("1500 euro per rinviare l'udienza", scrive il settimanale riportando le presunte irregolarità al tribunale di Napoli) alle aragoste e champagne che sarebbero state inviate a un giudice da un sorvegliato speciale di Bari interessato ad avere indietro la patente. Coinvolti magistrati e cancellieri, ma anche avvocati e commercialisti, complici nell'orientare sentenze e rinvii secondo le esigenze - e i pagamenti - dei vari imputati. A Taranto un giudice e un avvocato sono finiti agli arresti per aver chiesto una tangente di 8mila euro a un benzinaio in causa con una compagnia petrolifera; a Udine un giudice di pace è stato messo agli arresti domiciliari per aver firmato falsi decreti di dissequestro, con la complicità di un avvocato e di un ex sottufficiale della Guardia di Finanza. Nonostante negli ultimi dieci anni il numero di procedimenti per illeciti disciplinari aperti dal Csm sia aumentato rispetto al decennio precedente, L'Espresso scrive di aule di giustizia "che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali". "La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi - chiosa Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma - Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge. Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati - aggiunge Rossi - Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che, sulla corruzione come sull’evasione fiscale, sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere". Il nuovo presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone prova a spiegare il fenomeno tirando in ballo "l’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo. Nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico."

Toghe sporche. La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. BUSINESS GIUDIZIARIO «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. GIUDICI CRIMINALI. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». QUANTE TENTAZIONI. Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. COME IN UN NIDO DI VESPE. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

Toghe sporche. Quelle accuse a luci rosse. Gli strani casi dei due magistrati a Napoil e a Roma indagati per violenze sessuali il primo e sesso con transessuali in cambio di permessi di soggiorno il secondo...scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Tra le tante inchieste in cui sono finiti i magistrati, le accuse più sbalorditive sono state rivolte a due pm di punta dei tribunali di Napoli e Roma, Donato Ceglie e Roberto Staffa. Ceglie, per anni in servizio nella procura di Santa Maria Capua Vetere, famoso per le istruttorie contro le ecomafie casertane, un mese fa è stato mandato alla sbarra per costrizione, calunnia e violenza sessuale. Secondo i colleghi che l’hanno indagato, il magistrato avrebbe convinto la moglie di un imprenditore da lui arrestato ad avere rapporti sessuali. Ceglie - che a sua volta ha denunciato Rosaria Granata per calunnia, ma l’accusa è stata per ora archiviata - ha ammesso di aver avuto una storia d’amore, ma consenziente, negando qualsiasi ricatto o violenza. Anzi, ha descritto l’ex amante come una sorta di stalker: come ha scritto il “Corriere del Mezzogiorno” la Granata in un anno avrebbe telefonato a Ceglie 3500 volte, mentre il pm “solo” 800. Anche il pm in forza alla procura romana Roberto Staffa va verso un processo (a Perugia) assai delicato. L’ex magistrato della Direzione antimafia della Capitale, nel 1997 presidente della Corte d’assise veneziana che condannò a 19 anni di galera il boss del Brenta Felice Maniero, oggi è indagato per corruzione, concussione e rivelazione del segreto d’ufficio: «Schiavo delle proprie pulsioni», ha scritto il gip nell’ordinanza di arresto del gennaio 2013, avrebbe fatto sesso in ufficio con alcuni transessuali; in cambio delle prestazioni, Staffa avrebbe promesso protezione e permessi di soggiorno. Un filmato dimostrerebbe che il giudice avrebbe consumato un rapporto sessuale anche con una donna in cambio di favori per un detenuto. «Faremo il rito ordinario, ma sono convinto che le accuse si riveleranno fragili, come l’incidente probatorio ha già in parte dimostrato», ha detto qualche giorno fa il legale del pm. Che, intanto, ha deciso di andare in pensione. 

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI E DEI PAVIDI.

Per molti è un bene santificare le toghe, i magistrati per intenderci. Così come per molti è doveroso nascondere le malefatte dei magistrati. Ma tutta questa ipocrisia cosa genera? Corte Strasburgo, a Italia record negativo indennizzi. Violazioni diritti: nel 2013 Italia condannata a pagare 71 milioni, scrive “L’Ansa”. L'Italia nel 2013, a causa delle violazioni dei diritti dei propri cittadini riscontrate dalla Corte di Strasburgo, è stata condannata a versare indennizzi per più di 71 milioni di euro, la cifra più alta tra tutti i 47 Paesi aderenti al Consiglio d'Europa. Lo si legge nel rapporto sulle esecuzioni delle sentenze della Corte. E' il secondo anno consecutivo, in base a quanto emerge dal rapporto reso noto oggi dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che il dato italiano sull'ammontare degli indennizzi spicca per il primato negativo stabilito. Pur avendo infatti quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012, quando si raggiunse la cifra record di 120 milioni di euro, l'Italia nel 2013 è stata condannata a pagare una cifra pari a quella di tutti gli altri 46 Stati membri del Consiglio d'Europa messi assieme. Il secondo Paese per ammontare d'indennizzi da pagare per il 2013 è l'Ucraina, con quasi 33 milioni di euro, la metà di quanto accumulato dall'Italia. Dal rapporto approvato oggi dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa si rileva che il record italiano deriva dalla continua violazione del diritto di proprietà dei propri cittadini, in particolare è dovuta agli espropri condotti da diversi comuni italiani negli anni '80. L'altro dato che emerge dal rapporto è l'alto numero di sentenze per cui il governo italiano non è in grado di fornire informazioni sui pagamenti delle cifre fissate dalla Corte di Strasburgo a titolo di indennizzo. Per l'Italia non risultano pagati gli indennizzi relativi a 94 sentenze, tra cui la Torreggiani, la decisione con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato l'Italia per il sovraffollamento delle carceri. L'Italia è anche uno degli Stati membri del Consiglio d'Europa con il più alto numero di sentenze la cui esecuzione è sottoposta a "procedura potenziata" di monitoraggio dal comitato dei ministri dell'organizzazione. Il nostro Paese è settimo per numero di sentenze sottoposte a questa procedura, dopo Turchia, Russia, Ucraina, Bulgaria, Romania e Moldova. Oltre alla questione del sovraffollamento delle carceri, che il governo a tempo fino alla fine di maggio per risolvere, e quella connessa sull'inadeguatezza delle cure mediche per alcuni detenuti, la quasi totalità delle sentenze sotto sorveglianza riguardano la durata dei processi (civili, amministrativi e penali) e problemi legati ai pagamenti dovuti in base alla legge Pinto. Ma il comitato dei ministri sorveglia in modo particolare anche l'esecuzione di altre quattro sentenze: quella relativa alla condanna dell'Italia per l'impossibilità di Centro Europa 7 di trasmettere la sentenza Costa Pavan che ha stabilito inadeguatezza della legge che regola la procreazione medicalmente assistita, la sentenza Di Sarno e altri con cui la Corte ha condannato l'Italia per l'incapacità nel gestire adeguatamente la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in Campania, e infine la sentenza M. C. ed altri con cui la Corte ha stabilito che l'Italia deve pagare a tutti gli infettati da trasfusioni di sangue o prodotti derivati l'indennità integrativa speciale prevista dalla legge 210/1992. 

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.

AVVOCATI MAFIOSI O AVVOCATI DELLA MAFIA?

Gli affari oscuri degli avvocati troppo amici dei boss. Continuano nel Reggino e non solo i casi di toghe troppo vicine ai clan. Ora addirittura uno studio è stato messo sotto sequesto. Ma i professionisti condannati per il legami con la 'ndrangheta non sempre vengono radiati dall'albo, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Le inchieste antimafia hanno più volte messo in evidenza i collegamenti e le collusioni fra gli uomini dei clan e i professionisti dai “colletti bianchi”. In particolare con gli avvocati. In Calabria, nell'ultimo anno di avvocati ne sono stati arrestati diversi, tutti accusati di collegamenti con la 'ndrangheta. È il lato grigio delle mafie che sta venendo fuori, poco alla volta, dalle inchieste giudiziarie. Adesso la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria, diretta da Federico Cafiero De Raho, ha posto sotto sequestro per la prima volta in Italia uno studio legale. Richiesta accolta dai giudici del tribunale misure di prevenzione di Reggio Calabria. Si tratta dello studio professionale dell'avvocato Vittorio Pisani, arrestato lo scorso febbraio perché coinvolto nell'indagine sull'uccisione della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola avvenuta il 20 agosto 2011. I pm antimafia Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò, impegnati in queste delicate inchieste sui colletti bianchi e sugli uomini dei clan della 'ndrangheta, hanno ritenuto necessario mettere sotto sequestro anche l'attività dell'avvocato. Dalle indagini emerge infatti che il padre di Vittorio Pisani, Sante Pisani, originario di Rosarno ma trasferitosi dagli anni Novanta in provincia di Prato, è ritornato un paio di anni fa nel comune di nascita dove si sarebbe affermato come referente economico-finanziario di due tra le più pericolose famiglie di 'ndrangheta del reggino, i Pesce e i Bellocco di Rosarno. Insieme all'avvocato Vittorio Pisani a febbraio era stato arrestato dai carabinieri anche un altro legale, l'avvocato Gregorio Cacciola, anche lui accusato di collusioni con i clan in merito all'uccisione della testimone di giustizia. L'inchiesta svolta dai carabinieri del nucleo investigativo del Reparto investigativo di Reggio Calabria, hanno fatto emergere che Sante Pisani nei mesi scorsi si era recato a parlare con l'avvocato Cacciola perché quest'ultimo si era lamentato del comportamento tenuto dal suo collega su questa vicenda della morte della Cacciola. Sante Pisani si era scusato con Cacciola, come se fosse davanti ad un mammasantissima, ed aveva definito ingiustificabile il modo di fare del figlio, al punto che la famiglia Pisani, per recuperare l'onore perduto, aveva una sola scelta: ucciderlo. Ma a impedire l'omicidio era stato proprio lo stesso avvocato Cacciola, il quale avrebbe detto che sarebbe stato meglio non ammazzare Vittorio Pisani, in quanto "non ne vale nemmeno la pena". Nei mesi scorsi altri avvocati sono finiti in carcere in Calabria. A febbraio è stato arrestato un famoso penalista di Vibo Valentia, Antonio Galati, ritenuto dall'accusa molto vicino al clan dei Mancuso di Linbadi e collegato con ambienti della massoneria deviata e con uomini delle istituzioni accusati di collusioni. Su di lui i carabinieri del Ros di Catanzaro avevano riempito migliaia di pagine di trascrizione di intercettazioni, dalle quali emerge il forte legame con i boss. L'ordine degli avvocati di Vibo in questo caso lo ha sospeso, mentre la Camera penale ha diffuso un comunicato in cui esprimeva «affetto all'avvocato Galati», lanciando però un messaggio. Infatti si legge che: «nell'augurarsi che l'avvocato Galati possa chiarire al più presto la sua posizione, così come anche gli altri soggetti coinvolti», auspicava che «in tale delicato momento il lavoro degli addetti, sia per quanto attiene l'accusa che la difesa, possa proseguire nella maggiore serenità possibile. Nella speranza che si evitino interventi ad effetto che nulla possono apportare sotto il profilo dell'accertamento dei fatti, ma che appaiono come sterili commenti mossi da opinioni personali e dalla volontà di intervenire e sindacare comportamenti umani che fin tanto che riguardano gli altri sono oggetto di giudizi gratuiti». Un altro avvocato, Mario Nocito, anche lui arrestato nei mesi scorsi, viene indicato dall'accusa come un personaggio centrale negli intrecci tra mafia e politica registrati a Scalea, comune in provincia di Cosenza sciolto per infiltrazioni mafiose. Ipotesi di accuse che i giudici del tribunale del riesame hanno confermato. Fra le tante storie processuali non si può non sottolineare quella di un altro avvocato penalista di Reggio Calabria, Mario Giglio, arrestato perché accusato di essere un consolidato punto di riferimento per Giuseppe Liuzzo, affiliato alla 'ndrangheta, e non solo per questioni legali. L'avvocato Giglio è il fratello di Enzo Giglio, medico e cugino del magistrato Vincenzo Giglio, entrambi processati e condannati a Milano nell'ambito dell'inchiesta sugli affari della cosca Lampada-Condello. L'avvocato Giglio per gli inquirenti avrebbe svolto in favore di Liuzzo un ruolo di consigliere e avrebbe fatto da canale di collegamento per apprendere di eventuali indagini a suo carico. Tanti sono gli avvocati che in questi anni sono stati anche condannati in Calabria per reati collegati alla 'ndrangheta. Quasi nessuno di loro pero è stato radiato dall'albo e continuano ad indossare la toga. Chi è stato invece radiato, è invece Domenico “Memi“ Salvo, penalista di Palermo, condannato definitivamente per mafia perché favoriva gli affari dei boss stragisti Graviano. Dopo aver scontato la pena ed essere stato cancellato dal consiglio di Palermo, è stato accettato ed iscritto in quello di Locri.

SPRECHI: NON SOLO PARLAMENTARI. IL POZZO SENZA FONDO DELLO STATO.

I dipendenti pubblici costano 163 miliardi. I magistrati i più pagati, i dipendenti comunali in coda. I dati della Ragioneria. La fotografia, come ogni anno, l'ha scattata la Ragioneria generale dello Stato. Ma mai come quest'anno la descrizione di chi siano e quanto costino i dipendenti pubblici è stata così dettagliata. Per il suo personale, sia quello "dipendente" che gli "esterni", lo Stato spende 163 miliardi di euro. Centosessantuno miliardi se ne vanno per gli stipendi dei dipendenti, altri 2,5 miliardi per il personale estraneo alla Pubblica amministrazione. I costi maggiori sono per la scuola (41 miliardi) e per la sanità (circa 40 miliardi). Poi via via gli altri settori. Ventuno miliardi gli enti locali, 17 miliardi le forze dell'ordine. Una curiosità. Ogni anno per il "benessere del personale dipendente", secondo i dati della Ragioneria, lo Stato spende circa 123 milioni di euro. Ma quanto guadagna mediamente un dipendente pubblico? 34 mila euro, secondo i dati della Ragioneria. Le medie, ovviamente, dicono poco. Conviene dividere le categorie per capire le differenze. I magistrati sono i più pagati, guadagnano mediamente 131 mila euro l'anno. Più di ambasciatori e ministri plenipotenziari. I diplomatici incassano circa 93 mila euro l'anno. I meno pagati sono i ministeriali. Devono accontentarsi di 29.420 euro annui, poco meno dei 29.700 euro dei dipendenti di Regioni e Comuni.

Consiglio superiore degli sprechi. Si taglia su tutto meno che su poltrone e stipendi del Csm. Il Csm costa oltre 35 milioni di euro all'anno, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. C’è un settore in cui, anche in tempi di spending review, i tagli diventano taglietti, se non operazioni di vero e proprio maquillage. È la giustizia, dove capitoli di spesa ed enti paiono intoccabili. Il più intoccabile è il Consiglio superiore della magistratura, principale tra gli organi di autogoverno del terzo potere. Accanto al Csm infatti esiste un omologo per la giustizia tributaria, il Consiglio di presidenza, c’è poi quello della giustizia amministrativa, un altro ancora per quella contabile, nonché un Consiglio della magistratura militare. Andiamo per ordine. È un dato ormai incontestato che il Csm, organo costituzionale deputato a garantire l’indipendenza della magistratura, sia diventato un surrogato sindacale legato a doppio filo all’Associazione nazionale magistrati. Il meccanismo è semplice: le correnti politicizzate chiedono voti ai magistrati e in cambio offrono favori da parte dei rispettivi consiglieri in seno al Csm. Il sindacato delle toghe, diviso in correnti, è l’azionista di maggioranza assoluta e decide su trasferimenti, promozioni, procedimenti disciplinari, incarichi extragiudiziari. I consiglieri, insomma, sono chiamati a regolare le carriere di coloro ai quali devono nomina e prebende. Ma quanto costa il Csm? Scovare bilanci e cifre attuali non è facile, perché nei suoi corridoi il termine trasparenza è sconosciuto. Gli ultimi dati ufficiali sono contenuti in una Gazzetta ufficiale del 2011: due anni fa il budget del Csm ammontava a 35 milioni 374 mila euro, per una pianta organica di 243 addetti. Lo stipendio del suo vicepresidente Michele Vietti, per legge equiparato a quello del primo presidente della Corte di cassazione, è di 140.904 euro netti. Lo stipendio degli otto consiglieri eletti dal Parlamento ammonta a circa 111 mila euro, sempre al netto, cui vanno sommate le indennità di presenza. Queste vanno anche ai 16 componenti togati, che invece continuano a percepire la retribuzione da magistrato. Fino al 2011 i compensi dei consiglieri potevano gonfiarsi a dismisura grazie al meccanismo perverso dei gettoni di presenza, che consentiva di ottenere 306 euro per la partecipazione a un plenum, 144 euro per una seduta di commissione o del comitato di presidenza, 351 euro per le sezioni disciplinari. In questo modo un consigliere che sostava anche per poco in una commissione diversa dalla propria accumulava gettoni. Gli abusi hanno poi indotto il Csm a porre qualche freno. Le nuove regole vietano di partecipare a commissioni diverse da quella di appartenenza e fissano un tetto alle indennità: si può arrivare a 2.760 euro netti mensili per i membri laici, a circa 4 mila netti per i togati. Ma ci sono altri mille rivoli di spesa, basta analizzare il bilancio. Si scopre che poco meno di 4,9 milioni sono stati destinati alla voce «oneri dei componenti del Csm»: i 24 eletti più i due di diritto, cioè il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione. Costoro si riuniscono soltanto 12 volte al mese, ovverosia quattro volte a settimana per tre settimane, fatta eccezione per i membri della sezione disciplinare che si trattengono a Roma anche il venerdì (per un totale di 15 giorni al mese). E la quarta settimana? Vietti chiarisce che questa «settimana bianca» con cadenza mensile «non è una vacanza: consente ai consiglieri di studiare e approfondire le pratiche da trattare». Nel 2011 sono stati pagati 630 mila euro di straordinari ai dipendenti del Csm, tra i quali spiccano 30 addetti ai «servizi ausiliari e di anticamera», otto dattilografi, una ventina di uscieri e 20 autisti. Le 23 auto blu, che prima del 2011 erano 31, due anni fa sono costate 300 mila euro, mentre 433 mila euro sono serviti a coprire le spese per pulizia, traslochi, facchinaggio, smacchiatura di tappeti e tendaggi. Altri 17 mila euro sono stati impiegati nella «fornitura di capi di abbigliamento al personale autista e ausiliario di servizio»; 703 mila euro sono andati per incarichi professionali, traduttori e interpreti, di cui nulla è dato sapere. Per fare un confronto: il Csm francese funziona con 11 dipendenti e tre chauffeur. Non è da meno, va detto, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, i cui membri (eletti lo scorso 5 agosto) si riuniscono appena una volta alla settimana, fatta eccezione per la «settimana bianca»: quella, come al Csm, è sempre destinata a studi e approfondimenti lontano da Roma. Di solito i 15 componenti del Consiglio tributario si riuniscono il martedì, ma se c’è qualche commissione che va per le lunghe possono trattenersi anche il mercoledì mattina. Le spese di viaggio e alloggio dei consiglieri sono rimborsate e soltanto da qualche anno è previsto l’obbligo di presentare la fattura, di utilizzare soltanto alberghi 4 stelle convenzionati e di spendere per il vitto non più di 61 euro al dì (se sfori, paghi di tasca tua). Nel 2012 il governo Monti ha imposto un taglio del 10 per cento alle indennità dei consiglieri tributari, la cui retribuzione non può superare i 64.800 euro lordi l’anno. Si tratta all’incirca di 3 mila euro netti al mese, che si sommano alla retribuzione originaria di ogni membro. All’interno del Consiglio, che si riunisce quindi tre o quattro volte al mese, esiste dal 2008 un «Comitato unico di garanzia per le pari opportunità» cui è affidata la nobile missione della «rimozione degli ostacoli che impediscono la piena realizzazione di pari opportunità tra uomini e donne nel lavoro dei giudici tributari». Dato che fino al 2012 il comitato non si è mai riunito, lo scorso giugno il Consiglio di presidenza si è premurato di rafforzarne l’organico estendendo la membership a 15 componenti, cui vengono rimborsate anche le spese per i, finora assai rari, pellegrinaggi romani. Se le pari opportunità rappresentano un’incontestabile urgenza, si osa invece sollevare qualche dubbio sulla necessità di tenere in piedi la macchina della magistratura militare, dotata anch’essa del suo organo di autogoverno. Mentre si passano al setaccio le spese dei parlamentari, nessuno batte ciglio sul fatto che lo Stato stipendi 48 magistrati che ogni anno trattano in media 60 procedimenti in tutto. Sono per lo più reati da poco, dall’insubordinazione all’assenza dal servizio. Anche tra i magistrati si fa largo l’idea che forse non sia conveniente foraggiare per 365 giorni un organo cui manca l’oggetto del contendere, tanto più dopo l’eliminazione della leva obbligatoria e l’esaurimento delle cause per i crimini di guerra. I magistrati militari, comunque, hanno gli stessi stipendi e la medesima automatica progressione di carriera dei colleghi ordinari. Anche per loro cancellieri, segretari, assistenti, guardie, autisti e auto blu. In tempi di crisi, dove viene presentata come grande «vittoria democratica» l’aumento dei prezzi alla buvette della Camera, non si capisce perché nessuno metta mano a una situazione tanto inefficiente. Se poco hanno da fare i magistrati militari, figuratevi il loro consiglio di autogoverno, un organo di sette membri istituito nel 1988 con gli stessi compiti del Csm, ma limitatamente ai 48 magistrati militari superstiti. Sempre in tempi di spending review, si potrebbe discutere del privilegio dei magistrati amministrativi (in particolare, a quelli del Tar del Lazio e del Consiglio di Stato) i quali, oltre a percepire le generose retribuzioni, possono ricoprire un incarico espressamente inibito agli ordinari, ovvero quello di presiedere le commissioni arbitrali grazie alle quali incamerano compensi a percentuale su somme milionarie. «Ritengo sia una situazione da far cessare» commenta Vittorio Borraccetti, membro togato del Csm. «Sarebbe meglio evitare perché simili compensi possono comportare un elemento di disturbo». Ma i magistrati amministrativi non ci pensano nemmeno, e anche loro per autogovernarsi hanno un Consiglio di presidenza: 19 membri con rimborsi e indennità di missione al seguito. In ultimo, si stagliano solitari e laboriosi i Consigli giudiziari, ovvero gli organi territoriali di autogoverno costituiti presso ogni corte d’appello. Qui si lavora per davvero. Spetta infatti a questi piccoli «Csm distrettuali» l’attività consultiva svolta in materia di carriera dei magistrati e di cambio di funzioni, nonché l’attività istruttoria nei procedimenti per la magistratura onoraria. Bene, i membri di questi organi decentrati (sei componenti nei distretti con meno di 350 magistrati) non percepiscono alcuna indennità, ma hanno diritto a una riduzione del carico di lavoro dei due terzi rispetto ai colleghi. La ragione è che macinano lavoro per davvero, quindi vengono sgravati di ulteriori compiti. Forse, in tempi di crisi e tagli, la logica dello sgravio dovrebbe prevalere. Ma per ora, a quanto pare, prevalgono soltanto i rimborsi.

Tante lacune nel rendiconto annuale. Per i membri del Csm settimana corta da 4 giorni, indennità varie e auto blu. Al vice presidente Vietti quasi 300mila euro lordi all'anno e una Maserati, scrive Alberto Crepaldi su Il Fatto Quotidiano. Per l’autogoverno dei magistrati, esercitato dal Consiglio Superiore della Magistratura, lo Stato mette a disposizione del Csm ben 35 milioni di euro. Amministrati sotto il controllo della Corte dei conti e di tre revisori esterni, i conti del Csm sono quasi introvabili. Giusto qualche indizio nella Gazzetta Ufficiale, dove è pubblicato il rendiconto di ogni anno. Un documento di poche paginette, lontano parente di un bilancio vero e proprio. Il sito web del Csm non offre alcun dettaglio su come vengono amministrati i 35 milioni di euro. Manca anche la lista dei 7 incarichi esterni conferiti ad altrettanti addetti, nonché quella relativa alle imprese a cui vengono affidati una serie di servizi. Solo attraverso la consultazione di una serie di leggi che regolano il funzionamento del Csm, è possibile scoprire che la pianta organica prevede 243 unità: tra queste spiccano i 53 funzionari amministrativi, i 30 addetti a “servizi ausiliari e di anticamera”, gli otto dattilografi dell’ufficio studi, la ventina di uscieri e 20 autisti. Il numero di questi ultimi, diminuito negli anni, nell’originaria organizzazione fissata da una legge del 1958, era pari addirittura a 40 unità. Il conto finale dei costi sostenuti nel 2011 per tutto il personale in servizio al Csm è salato, seppur in lieve calo: 19 milioni di euro. Gli oneri relativi ai componenti del Csm (24 eletti e 3 di diritto) nel 2011 poco meno di 4,9 milioni di euro. “Lavoriamo moltissimo – ci ha detto un consigliere – per la mole di atti che dobbiamo studiare e le delibere da redarre”. Infatti nel 2011 è stata pagata la bellezza di 630 mila euro di straordinari ai dipendenti del Csm. Senza sindacare sulla intensità del lavoro intellettivo profuso dai consiglieri, resta il fatto che le settimane di lavoro istituzionale, presso il Palazzo dei Marescialli, sono tre. Anche se i mesi di settimane ne contano almeno quattro. E i giorni lavorativi sono al massimo 15 al mese. Le commissioni si riuniscono dal lunedì al giovedì, quattro volte alla settimana. E solo chi fa parte di quella disciplinare rimane a Roma fino a venerdì. I 4,9 milioni di euro di compensi comprendono il cospicuo assegno del vicepresidente (Michele Vietti), pari a poco meno di 300 mila euro lordi all’anno. Così come l’appannaggio annuale degli altri 7 consiglieri eletti dal Parlamento, circa 115 mila euro: quasi 8 mila euro al mese per 14 mensilità. Tutti i consiglieri percepiscono inoltre 75 mila euro all’anno come indennità di presenza. A quelli che non risiedono a Roma viene poi riconosciuta una indennità di missione giornaliera di 220 euro per ogni giorno di presenza effettiva, oltre al rimborso delle spese di viaggio. Tra rimborsi e indennità varie, la spesa annua vale 2,2 milioni di euro. Tra i benefit ci sono le auto blu, per tutti i consiglieri: 300 mila euro nel 2011. Sono 23 le auto a disposizione e prima della lieve cura dimagrante del 2011 erano 31. Vietti viaggia su una Maserati Quattroporte. “Per gli altri consiglieri – racconta un altro componente del Csm – dal primo aprile l’auto blu sarà una semplice Fiat Punto”. Il Csm investe molto in formazione: 6,5 i milioni di euro per “spese per incontri di studio, formazione, convegni e conferenze”. Risorse che dovrebbero diminuire dopo l’avvio della Scuola Superiore della Magistratura. Ma sono ben altri i capitoli di spesa che incuriosiscono. Il CSM ha pagato, sempre nel 2011, quasi 250 mila euro per stampare pubblicazioni, acquistare carta e materiale di cancelleria, riviste, giornali e altre pubblicazioni. Sono ammontati invece a 433 mila euro i costi per pulizia, traslochi e facchinaggio e per la smacchiatura di tappeti e tendaggi. Degni di menzione sono i 17 mila euro di “spese per la fornitura di capi d’abbigliamento al personale autista ed ausiliario in servizio”. Ma soprattutto i 703 mila euro sborsati per incarichi professionali, traduttori e interpreti, sui cui nomi e profili nulla è dato sapere.

Gli avvocati contro i magistrati: sono loro a sfasciare la giustizia. Oggi in mille si ritrovano a Napoli per denunciare il collasso del settore. E puntano il dito contro i costi record e i danni fatti dalle ultime riforme. Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Oggi saranno in mille a Napoli, alla convocazione straordinaria degli Stati generali dell'avvocatura, per decidere eventuali proteste. E puntare il dito contro i magistrati, che ritengono più responsabili di loro delle lunghezza dei processi, degli sprechi, della «malagiustizia» in una parola sola. Gli avvocati venuti da tutte le regioni d'Italia per l'VIII Conferenza nazionale dell'Organismo unitario dell'Avvocatura non ci stanno più a venire presentati come i colpevoli principali dello sfascio. E si preparano a dimostrare, carte e dati alla mano, che la bilancia delle colpe pende dal lato delle toghe e dello stesso ministero della giustizia, guidato dalla Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, che ha disertato l'importante appuntamento. Finora avevamo assistito soprattutto a battaglie dei penalisti su questa linea, ma adesso è la rappresentanza politica forense dell'Oua a scendere in campo pesantemente. Il presidente Nicola Marino prepara un duro attacco alle toghe e noi anticipiamo i dati sui quali poggia. Si parte dal primo paradosso. Secondo il Cepej (Commissione Ue per l'efficienza della giustizia) la media in Europa per finanziare il sistema giudiziario è di 57,4 euro pro capite, mentre in Italia è 73 euro, con alti costi per l'erario e servizi giudiziari insoddisfacenti per i cittadini. «Ma il nodo - attacca Marino - è anche legato ai 2,3 miliardi di euro che servono per pagare gli stipendi di magistrati, cancellieri e addetti agli uffici giudiziari. Solo la Germania spende di più, quasi 5 miliardi di euro ma con risultati di efficienza di gran lunga superiori. Le toghe italiane guadagnano più di tutti i loro colleghi europei: all'apice della carriera percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello medio di un dipendente. Certo non seguendo criteri di merito e risultato, visto lo stato della giurisdizione. Quindi non è solo un problema di risorse umane, ma di cultura, di meritocrazia e di organizzazione». Poi, il numero uno dell'Oua passa al capitolo carenze d'organico: «Se è vero che mancano circa 1.200 magistrati e funzionari, bloccati dal turn over del pubblico impiego, è anche vero che abbiamo molti togati distaccati nei ministeri (oltre 200), che potrebbero rientrare nei ranghi a dar man forte sul territorio». Una doppia responsabilità l'avrebbero i magistrati al ministero di Giustizia, che per l'Oua «sono diventati il motore di tutte le controriforme del settore: mediazione obbligatoria, chiusura di mille uffici giudiziari (che invece di risparmi ha prodotto ulteriori confusione, ritardi e sprechi), filtro in appello, aumenti del contributo unificato e delle marche, abbreviazione dei tempi a scapito del difensore, attacchi al gratuito patrocinio, norme sulle cosiddette liti temerarie. Novità che per gli avvocati peggiorano e non migliorano il sistema. E che si sommano al deficit tecnologico degli uffici, all'uso e al costo eccessivo delle intercettazioni, a un organizzazione del lavoro delle toghe «attenta ai privilegi». Sulla lentezza dei processi, l'Oua rispedisce al mittente le accuse. «È falso - dice Marino - il luogo comune che gli avvocati guadagnino di più con processi lunghi. È l'esatto contrario ed è incomprensibile come nessuno si soffermi sui tempi dei rinvii dei giudici, spesso arbitrari e quasi sempre eccessivi». La domanda di giustizia è troppo elevata e le regole procedurali sono a volte kafkiane, ammettono gli avvocati, ma «le continue micro-riforme hanno reso più contorto il processo». E la macchina antiquata della giustizia è vicina al collasso.

Venieri: "In tema di amministrazione della giustizia in Italia gli italiani debbono sapere che..."Una serie di informative che fa capire il motivo per cui l'avvocatura italiana, in adesione all'iniziativa di protesta indetta dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura, si asterrà dalle udienze il 18, 19 e 20 febbraio prossimi, scrive l’avv. Silvio Venieri su “Il Quotidiano”.

Gli italiani debbono sapere che i governi che si sono succeduti in questi ultimi decenni alla guida del nostro Paese hanno varato misure normative tese esclusivamente a "deflazionare" il carico giudiziario attraverso l'attuazione di un disegno sistematico di mortificazione del diritto alla tutela giurisdizionale.

Gli italiani debbono sapere che nel corso degli ultimi anni i costi relativi ad un procedimento giudiziale (marche da bolle, contributi unificati, registrazioni degli atti giudiziari) sono costantemente aumentati in maniera tale da pregiudicare, di fatto, la possibilità da parte dei meno abbienti di accedere al servizio giustizia.

Gli italiani debbono sapere che si è voluto introdurre l'obbligatorietà - rispetto alla facoltà, riconosciuta e garantita dalla Costituzione, di far ricorso per la tutela dei propri diritti alla magistratura statuale - di adire preventivamente gli organismi di mediazione-conciliazione, composti da soggetti, anche privi di conoscenze tecnico-giuridiche, non in grado di garantire adeguate competenze per la risoluzione delle controversie loro devolute.

Gli italiani debbono sapere che sono stati cancellati circa mille uffici giudiziari nel nostro Paese senza che si siano realizzati i paventati riverberi positivi in termini di risparmio per il bilancio statale e di efficienza del funzionamento della macchina giudiziaria, mentre, al contrario, sono aumentati i costi per tutti coloro che sono stati allontanati dai presidi di giustizia.

Gli italiani debbono sapere che gli introiti che lo Stato italiano incassa a titolo di spese di giustizia non vengono totalmente reimpiegati nel comparto ma dirottati verso altri capitoli di bilancio dell'amministrazione centrale.

Gli italiani debbono sapere che da diversi anni lo Stato italiano non ha più inteso investire risorse per migliorare il funzionamento del sistema dell'amministrazione della giustizia, per cui è progressivamente diminuito il personale delle cancellerie, non sono stati adeguatamente coperti gli organici della magistratura, non si è puntato con convinzione sulla informatizzazione.

Gli italiani debbono sapere che le funzioni giurisdizionali e di rappresentanza dell'ufficio del P.M. vengono svolte in misura preponderante da magistrati onorari, cioè non da magistrati di carriera ma da laureati in giurisprudenza che non hanno passato il vaglio di un esame di stato (Giudici di Pace, Giudici Onorari di Tribunale, Vice Procuratori onorari), i cui criteri di nomina non garantiscono affatto una effettiva competenza e professionalità.

Gli italiani debbono sapere che le carceri italiane scoppiano per l'eccessivo numero di detenuti ivi ristretti, che sono sottoposti a condizioni di vita disumane, come hanno statuito organismi giurisdizionali sovranazionali, con l'irrogazione di sanzioni in capo allo Stato italiano che stanno per essere applicate.

Gli italiani debbono sapere che l'esigenza di sicurezza, sempre più avvertita dalla popolazione, la si garantisce ampliando l'area di applicabilità delle misure alternative alla detenzione, perché coloro che vengono confinati in carcere hanno un tasso di recidivanza estremamente superiore rispetto a coloro che sono stati sottoposti ad altri mezzi afflittivi.

Gli italiani debbono sapere che determinate forze politiche, nonostante abbiano approvato leggi estremamente lassiste rispetto a determinate tipologie di reati (i reati dei cosiddetti "colletti bianchi"), si oppongono ad ipotesi di indulto e di amnistia per mere speculazioni elettoralistiche.

Gli italiani debbono sapere che sul territorio nazionale sono presenti i CIE (centri di identificazione ed espulsione) ove possono essere trattenuti fino a 18 mesi i migranti, così limitando la libertà personale di tutti coloro che vi sono ristretti senza alcun rispetto della dignità umana.

Gli italiani debbono sapere che il Ministro della Giustizia, ora dimissionario, quando si è trattato di elaborare proposte normative in tema di giustizia, ha eluso del tutto un confronto preventivo con gli organismi di rappresentanza degli avvocati e, addirittura, si è abbandonato ad espressioni e considerazioni offensive nei confronti della avvocatura, parte essenziale dell'amministrazione della giustizia.

Gli italiani debbono sapere che per questi motivi, e per tanti altri, l'avvocatura italiana, in adesione all'iniziativa di protesta indetta dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura, si asterrà dalle udienze il 18, 19 e 20 febbraio prossimi.

Magistrati, tanti scatti niente meritocrazia Ecco come lievita lo stipendio, scrive “Libero Quotidiano”. Lavorano sei ore al giorno per 260 giorni l'anno (l'ha deciso la sezione disciplinare del Csm) e guadagnano cifre che noi poveri mortali ci sogniamo. Stiamo parlando dell'ultracasta dei magistrati (un esercito di 8.909 giudici in servizio) che, mentre i politici annunciavano i tagli di stipendio e nonostante il blocco agli aumenti che la finanziaria 2010 aveva previsto per le buste paga si sono visti aumentare del 5% la retribuzione. Aumento con effetto retroattivo dal 2012, dato che la Corte costituzionale (fatta da magistrati) aveva dichiarato illegittimo il blocco degli stipendi. Così, secondo uno studio del Sole 24 Ore, un magistrato della Corte dei Conti che - poniamo - nel 2011 guadagnava 174 mila euro all’anno, ora ne prenderà 182 mila. La tabella riportata sull'edizione cartacea del quotidiano Libero, basata in gran parte sul rapporto 2012 della Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa, parla chiaro: si va dai circa 2040 euro al mese (che diventano 3.500 con le indennità) degli ex "uditori" di prima nomina, ovvero il magistrato ordinario in tirocinio, ai 16.700 al mese (che diventano 18.900 con le indennità) di un Presidente di Cassazione. Con scatti automatici di carriera che variano da una media di 500- 1700 euro al mese. Più o meno un magistrato a carriera piena percepisce 5 milioni di euro. Entrando nel dettaglio un magistrato ordinario prende appena assunto 2.858 euro al mese. Dopo tre anni con la prima valutazione di professionalità passa a 3.966 euro al mese che aumentano in media ogni anno e mezzo con uno scatto di anzianità che fa arrivare lo stipendio a 4.680 euro al mese (che diventano 6.720 con le indennità). Parte invece da 5.877 euro al mese un giudice della Corte di Appello: anche lui ogni anno e mezzo si vede aumentare la busta paga fino ad arrivare a 6.690 euro al mese (8.764 con le indennità). Un magistrato di Cassazione invece dopo la prima valutazione di professionalità prende 8.074 euro al mese che con gli scatti diventano 10.744. Se poi il giudice della suprema corte viene valutato di nuovo positivamente (cosa che succede praticamente sempre: di regola il Csm promuove tutti i magistrati al maturare del livello minumo di anzianità a meno che non si siano verificate gravi sanzioni disciplinari) lo stipendio di un FDS, ovvero idoneo alle funzioni direttive superiori, schizza a 10.343 euro al mese che con gli scatti che si maturano ogni anno e mezzo arrivano a 12.104 euro (14.264 euro con le indennità). Tutto ciò si traduce in una spesa di 73 euro al mese per ogni italiano, mentre la media europea è di 57.

Privilegi e costi della casta delle toghe nel periodo di crisi, scrive “Agora Vox”. Con l’acuirsi della crisi economica iniziata nel 2007, non si fa altro che parlare, a ragione, dei privilegi della politica. Tutto iniziò con il libro "La casta" di Stella, e provocò l’indignazione degli italiani che a stento arrivano a fine mese, oppure non ci arrivano per niente a causa del lavoro precario e della prepotente disoccupazione giovanile. Qui parleremo invece degli scandalosi privilegi e favoritismi degli appartenenti della Magistratura. Una lotta di "caste" che non risparmia nemmeno l'attuale Governo Monti. Il mio articolo non è volto assolutamente alla delegittimazione della Magistratura. Siamo tutti ben consci che nel passato, come nel presente, esistono dei valorosi Magistrati che per vocazione combattono il malaffare e i connubi del Potere. Rischiano la vita e alcuni - come Falcone e Borsellino, il “giudice ragazzino” Livatino o Scopelliti - sono stati uccisi per le loro coraggiose inchieste. Ma, come in politica, non ci si può far scudo di questi eroi per difendere dei privilegi che non esistono in nessun altro stato europeo. Privilegi che provocano uno sperpero pubblico che toglie denaro soprattutto alla macchina sempre inceppata della Giustizia stessa, la quale ogni anno riceve condanne dall’Unione europea. Inoltre non fa “Giustizia” nemmeno per quegli eroi stessi che molto spesso vengono citati strumentalmente. Perché per fare carriera non esiste la cosiddetta meritocrazia. Tutti i magistrati, indipendentemente da quello che fanno, hanno gli scatti automatici. In soldoni: chi vuole lavora, chi no si astiene. Ed in entrambi i casi hanno la garanzia di una continua e regolare crescita in termini di “status” e di busta paga. Come se un giornalista iniziasse a scrivere gli stessi articoli al Corriere della Sera, sapendo che dopo alcuni anni, comunque vada, diventerà direttore. Così come tutti gli altri suoi colleghi. Lo stipendio e la pensione del Magistrato sono i più alti d’Europa. Appena si diventa Magistrato attraverso un concorso (poi spiegherò che una volta ammesso all’esame, tutto diventa più facile rispetto al resto dei cittadini italiani) si viene nominato uditore giudiziario (in pratica una carica che non fa nulla: ascolta per imparare) e percepisce per i primi sei mesi al netto di tutte le ritenute ben € 1.680,50. E dopo sei mesi, sempre che non si abbia ancora alcuna funzione, cioè si ascolti e basta, il nuovo stipendio è al netto di tutte le ritenute di ben € 1.820,77. E poi inizia lo scatto automatico senza alcuna distinzione: da chi scalda semplicemente la scrivania a chi conduce pericolose inchieste! Così il giovane magistrato risulta essere il laureato di primo impiego a più alto reddito. Non c’è paragone con l’industria privata o, per restare nel pubblico, con i medici o i professori universitari. Ma c’è qualcosa di più scandaloso e molti dei lavoratori italiani ne sono all’oscuro, perfino i politici non posseggono questo privilegio: la scala mobile. La scala mobile, o più specificatamente “l’identità di contingenza” fu istituita nel lontano 1975 e serviva ad adeguare gli stipendi al costo della vita. Fu abolita nel 1992 dal Governo Amato, tranne per i magistrati. Per capire meglio, vi riporto le tabelle tratte da una fonte insospettabile che sarebbe il sito della Associazione Nazionale Magistrati: potrebbe dare molto fastidio a chi deve scioperare per poter aggiornare il suo stipendio, oppure per non farselo ulteriormente diminuire. E dall’introduzione della moneta unica e la crisi che stiamo vivendo, i salari sono dimezzati. Al contrario dei magistrati che se lo vedono quintuplicare. Lo dicono gli stessi dell’ANM: “Se, infatti, si mettono a confronto gli stipendi dei magistrati prima dell’ingresso nella moneta unica e quelli degli anni successivi è agevole riscontrare che gli stipendi sono cresciuti circa del 30% in 5 anni e circa del 60% in 10 anni”. Ma non è finita, lo scandalo maggiore riguarda la Magistratura Amministrativa. “L'Espresso" (di questa settimana, ndr) ha letto i resoconti ufficiali di alcune riunioni, e ha scoperto che la mattina del 15 aprile 2011, mentre la Banca d’Italia diffondeva nuovi drammatici dati nazionali su occupazione e recessione economica, i rappresentanti dei magistrati del Tar e del Consiglio di Stato si sono approvati nuove e ricche indennità. Esattamente come la casta dei politici: si auto approvano leggi che aumentano lo stipendio. Per le nuove indennità del solo Consiglio di Stato si spenderanno 960 mila euro l’anno. Quella della Magistratura Amministrativa poi è una casta di tutto rispetto. Come sappiamo l’Italia a causa dei processi in ritardo, subisce danni di milioni di euro l’anno. Danni economici che il resto dei cittadini italiani pagano, e perfino il Fondo Monetario Internazionale da qualche tempo ha deciso di monitorare la questione sulla lentezza dei processi. Perché tutto questo? I magistrati amministrativi percepiscono un totale di tre mesi di ferie. Come se non bastasse, nel periodo lavorativo, per mancanza di personale (e forse leggendo i numeri, con qualche privilegio in meno, si potrebbero assumere più persone) o per sostituzioni, intraprendono le cosiddette “missioni”: ovvero fanno udienza in un'altra città in albergo a 4 stelle per quindici giorni, rimborso dei pranzi e delle cene o un compenso alternativo in denaro. I magistrati civilisti o penalisti invece hanno diritto a 45 giorni di ferie, In aggiunta ai 45 giorni di cui sopra, vanno calcolati altri 2 giorni di congedo ordinario e 4 giorni di festività soppresse. Anche il concorso per diventare Magistrato ha un privilegio in più rispetto agli altri concorsi pubblici. Nel concorso “ordinario”, una volta che non si supera, si è esclusi definitivamente o per lo meno bisogna aspettare le prossime uscite sulla Gazzetta Ufficiale. Invece chi si presenta davanti alla commissione di esami per diventare Magistrato, nominata naturalmente dal CSM e composta in grandissima parte da magistrati, sa che se verrà bocciato non dovrà dire addio per sempre al sogno di indossare una toga: c’è una seconda possibilità e come se non bastasse, perfino la terza. Ma una casta non è tale se non si hanno ulteriori privilegi. Un qualsiasi giudice è esente dalle multe per sosta vietata, perfino se parcheggia per andare a casa. Ha uno sconto del tutto particolare per acquistare la macchina FIAT (vedi tabella sopra), possono svolgere attività extragiudiziarie in barba all'indipendenza della Magistratura come il senatore ed ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo che usufruisce stipendi e privilegi da entrambi le caste, o come Di Pietro che da deputato percepisce anche la pensione d’oro da magistrato e di fatto risulta la persona più ricca del parlamento dopo Berlusconi. Ma anche il nuovo Governo Monti non scherza e con la nomina dei sottosegretari i conflitti di interessi si intersecano con quelli della Magistratura:Paolo Peluffo, componente del Consiglio di Stato (quello che auto aumenta lo stipendio dei magistrati amministrativi) e Giovanni Ferrara, procuratore della Repubblica di Roma, procura meglio conosciuta come "il porto delle nebbie" perché in quel luogo molte inchieste si archiviano. Inoltre i magistrati non hanno nessuna responsabilità civile e penale, e se sbagliano con dolo o meno è lo Stato (quindi noi cittadini) a pagare. E come se non bastasse i familiari dei magistrati hanno vie preferenziali per quanto riguarda appetitose convenzioni con la sanità e la scuola; ma anche percorsi facili in politica come Michel Martone, figlio del magistrato Martone (nome tra l'altro comparso nell'inchiesta P3), che è stato appena nominato sottosegretario al Lavoro. E non parliamo del CSM che quasi mai condanna un magistrato (basti ricordare il magistrato beccato in fragranza di reato mentre cercava di approcciarsi con un ragazzino) oppure condanna magistrati scomodi come la Forleo (famosa per l'inchiesta sul caso Antonveneta) che contesta la Casta togata stessa. Sono dati oggettivi che meriterebbero una riflessione e poi anche una domanda: ma questo scontro tra il Potere Politico e quello Giudiziario, è alimentato da nobili idee, oppure semplicemente è puro scontro per il mantenimento di privilegi da una parte e dall’altra? Ai lettori l’ardua sentenza.

La vera casta che nessuno tocca. Si chiama magistratura italiana, scrive Incarcerato su “Gli altri On line”. Siamo in un periodo di forte crisi economica, la rabbia cittadina si indirizza verso i privilegi della casta politica. Fiumi di articoli indignati, inchieste sullo sperpero pubblico da parte dei deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali. Il movimento di Grillo, tra l’altro, è nato soprattutto grazie a questa onda indignata. Ma tutti, o quasi, attaccano il potere politico, ma in maniera ossessiva difendono il potere della magistratura. Un potere abnorme e superiore a qualsiasi altro. La Costituzione italiana assegna alla magistratura il privilegio dell’autogoverno in maniera tale che si autogestisca senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio superiore della magistratura e fuori dal controllo dei cittadini. Una vera e propria corporazione , la quale ha l’unico sindacato che riesce, a differenza di tutti gli altri, ha difendere gli interessi dei lavoratori. Ogni qual volta un qualsiasi governo tenta di mettere mano ai conti della magistratura, subito si attiva l’Anm (Associazione nazionale magistrati) e lo blocca. Un potere abnorme che riesce a modificare la vita politica del Paese. Non si vuole assolutamente delegittimare la magistratura. Siamo tutti ben consci che nel passato, come nel presente, esistono dei valorosi magistrati che per vocazione combattono il malaffare e i connubi del Potere. Rischiano la vita e alcuni – come Falcone e Borsellino, il “giudice ragazzino” Livatino o Scopelliti – sono stati uccisi per le loro coraggiose inchieste. Ma, come in politica, non ci si può far scudo di questi eroi per difendere dei privilegi che non esistono in nessun altro Stato europeo. Privilegi che provocano uno sperpero pubblico togliendo denaro soprattutto alla macchina sempre inceppata della giustizia stessa, la quale ogni anno riceve condanne dall’Unione europea. Inoltre non fa “giustizia” nemmeno per quegli eroi stessi che molto spesso vengono citati strumentalmente. Per fare carriera non esiste la cosiddetta meritocrazia. Tutti i magistrati, indipendentemente da quello che fanno, hanno gli scatti automatici. In soldoni: chi vuole lavora, chi no si astiene. Ed in entrambi i casi hanno la garanzia di una continua e regolare crescita in termini di “status” e di busta paga. Come se un giornalista iniziasse a scrivere gli stessi articoli al Corriere della Sera, sapendo che dopo alcuni anni, comunque vada, diventerà direttore. Così come tutti gli altri suoi colleghi. Lo stipendio e la pensione del magistrato sono i più alti d’Europa. Appena si diventa magistrato attraverso un concorso si viene nominato uditore giudiziario (in pratica una carica che non fa nulla: ascolta per imparare) e percepisce per i primi sei mesi al netto di tutte le ritenute ben € 1.680,50. E dopo sei mesi, sempre che non si abbia ancora alcuna funzione, cioè si ascolti e basta, il nuovo stipendio è al netto di tutte le ritenute di ben € 1.820,77. E poi inizia lo scatto automatico senza alcuna distinzione: da chi scalda semplicemente la scrivania a chi conduce pericolose inchieste! Così il giovane magistrato risulta essere il laureato di primo impiego a più alto reddito. Non c’è paragone con l’industria privata o, per restare nel pubblico, con i medici o i professori universitari. Ma c’è qualcosa di più scandaloso e molti dei lavoratori italiani ne sono all’oscuro, perfino i politici non posseggono questo privilegio: la scala mobile. La scala mobile, o più specificatamente “l’identità di contingenza” fu istituita nel lontano 1975 e serviva ad adeguare gli stipendi al costo della vita. Fu abolita nel 1992 dal governo Amato, tranne per i politici e per i magistrati. Mentre i salari sono dimezzati, al contrario, i magistrati se lo vedono quintuplicare. Lo dicono gli stessi dell’Anm: “Se, infatti, si mettono a confronto gli stipendi dei magistrati prima dell’ingresso nella moneta unica e quelli degli anni successivi è agevole riscontrare che gli stipendi sono cresciuti circa del 30% in 5 anni e circa del 60% in 10 anni”. Ma una casta non è tale se non si hanno ulteriori privilegi: un qualsiasi giudice è esente dalle multe per sosta vietata, perfino se parcheggia per andare a casa; ha uno sconto del tutto particolare per acquistare la macchina Fiat e possono svolgere attività extragiudiziarie (ad esempio i magistrati fuori ruolo) in barba all’indipendenza stessa della magistratura. Inoltre i magistrati non hanno nessuna responsabilità civile e penale e se sbagliano, con dolo o meno, è lo Stato (quindi noi cittadini) a pagare. E come se non bastasse i familiari dei magistrati hanno vie preferenziali per quanto riguarda appetitose convenzioni con la sanità e la scuola; ma anche percorsi facili in politica e altri campi influenti. Sono dati oggettivi che meriterebbero una riflessione e poi anche una domanda: ma questo scontro tra il potere politico e quello giudiziario, è alimentato da “nobili idee”, oppure semplicemente è puro scontro tra poteri? I poteri buoni, non esistono.

Le dieci piaghe della giustizia che l'Italia ora deve debellare. Dalla lunghezza dei processi ai privilegi dei magistrati, il Paese ha bisogno di una riforma radicale per rendere il sistema finalmente equo ed efficiente, scrive Renato Brunetta su “Il Giornale”. La giustizia in Italia non funziona. È un dato di fatto, inutile girarci attorno. Inutile nascondersi dietro i processi di Berlusconi: è solo una scusa per non fare una riforma fondamentale per il nostro Paese e che tutto il mondo ci chiede. Il programma iniziale di questa maggioranza prevedeva una riforma delle istituzioni che rafforzasse il potere politico, per poi procedere, con una rinnovata autorevolezza, alla riforma della giustizia. La strada ce l'ha indicata il capo dello Stato che, con le dichiarazioni a seguito della sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi, ha evocato il lavoro dei saggi da lui incaricati nell'aprile scorso per studiare i termini di una riforma della giustizia. Ma si può fare ancora di più: parallelamente alla riforma della giustizia, promuovere la raccolta firme per i referendum radicali, almeno un milione entro la fine di settembre 2013. La giustizia italiana va riformata da cima a fondo. L'Italia è il Paese con maggior necessità di interventi migliorativi nel settore della giustizia.

1. Il numero di casi pendenti.

Secondo il rapporto della Commissione, l'Italia è tra i Paesi con più alto numero di casi penali non risolti (5,4 milioni di casi irrisolti: 9 ogni 100 abitanti), di cui se ne prescrivono mediamente 356 al giorno. L'Italia è addirittura al primo posto se si osserva il numero di casi non risolti in ambito civile e societario (4,2 milioni di casi irrisolti: 7 ogni 100 abitanti). Conclusioni di quella stessa Commissione europea che se ci impone rigore di bilancio è rispettata e riverita, mentre se ci chiede un sistema giudiziario più efficiente e di maggior qualità rimane del tutto inascoltata.

2. Processi troppo lunghi.

Secondo il rapporto Judicial Performance and its Determinants: A Cross-country Perspective, pubblicato a giugno 2013 dall'Ocse, l'Italia è il Paese in cui i processi sono più lunghi. La durata media dei 3 gradi di giudizio civile nei paesi dell'area Ocse è di 788 giorni: da 395 giorni in Svizzera a ben 8 anni (2.920 giorni) in Italia. Quanto alla durata media del solo primo grado del processo civile, il Rapporto 2012 del Cepej non lascia spazio a dubbi: l'Italia ha il primato con 492 giorni contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. E tempi così dilatati comportano spese elevate per lo Stato. Secondo Confindustria «l'abbattimento del 10% dei tempi della giustizia civile potrebbe determinare un incremento dello 0,8% del Pil».

3. Un costo esagerato.

Quanto al costo dei processi, calcolato dall'Ocse al netto delle spese legali sostenute dai cittadini e in percentuale del valore della causa (ipotizzata pari al 200% del reddito pro-capite), l'Italia si colloca al terzo posto, la Francia all'undicesimo, la Germania oltre il sedicesimo. Ne deriva che, combinando le 2 variabili, lunghezza e costo del processo, l'Italia è, insieme alla Repubblica slovacca e al Giappone, la peggiore in termini di efficienza del sistema giudiziario.

4. Un budget troppo alto.

Al contrario di quanto dichiarato da taluni magistrati che addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia, dal Rapporto 2012 del Cepej emerge che la macchina della giustizia costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro a persona all'anno, contro una media europea di 57,4 euro. In Italia, infatti, ci sono 2,3 tribunali ogni 100.000 abitanti (in Francia solo 1) e ogni magistrato italiano dispone di 3,7 addetti non togati (cancellieri e dattilografi), contro i 2,7 della Germania. Non male!

5. Salari e stipendi.

Come in tutti i bilanci societari, anche per lo Stato, tra i costi, alla macro-classe «magistratura» troviamo una voce «salari e stipendi». Commentando i dati del Rapporto 2012 del Cepej, Stefano Livadiotti ci fa notare che i giudici italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi europei. E all'apice della carriera, cui, come vedremo, giungono rapidamente, percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello medio dei lavoratori dipendenti italiani. Privilegiati? No, per carità!

6. Una scarsa «accountability».

Secondo la professoressa Daniela Piana, che ha curato un intero capitolo dedicato alla magistratura nell'ambito di un saggio pubblicato a maggio 2013 dalla casa editrice Il Mulino: La democrazia in Italia, i primati negativi dell'Italia sul funzionamento della giustizia non sono dovuti al sistema politico, bensì «all'atteggiamento dei giudici, caratterizzato da un mix di impunità, mediazione estrema e politicizzazione senza simili nel mondo occidentale». Essendo le risorse allocate nel settore in linea con gli altri Stati europei, ne consegue un problema di efficienza: «Il sistema di governo della magistratura non alloca incentivi e sanzioni, vincoli ed opportunità». Ne deriva che una scarsa «accountability» del personale rispetto al proprio operato genera comportamenti opportunistici.

7. Meritocrazia zero.

I dati ce li fornisce ancora una volta lo studio sull'Italia del Cepej: l'attuale normativa prevede che, dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati raggiungano, indipendentemente dagli incarichi svolti e dai ruoli ricoperti, la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei magistrati ordinari in servizio era, appunto, all'apice dell'inquadramento.

8. Avanzamenti di carriera.

Ai fini degli avanzamenti di carriera, l'organo competente è il Csm. Tra il 1° luglio 2008 e il 31 luglio 2012, su circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, sono state effettuate solo 2.409 valutazioni, di cui negative... 3! Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di sanzioni disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è previsto un filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione. Tra il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498 (il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle denunce è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano...

9. E la responsabilità civile?

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte, pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.

10. Da zero a uno: meno di 0,5.

Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

Magistratura italiana: verità e omissioni. L'Associaizone Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno, cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini. La Magistratura italiana è stata messa sotto accusa per molti motivi: gli stipendi e l'orario di lavoro dei magistrati, i costi, la lunghezza dei processi, la politicizzazione. A fronte delle critiche ricevute l'ANM, Associazione Nazionale dei Magistrati, ha pubblicato un documento (in allegato) “La verità dell' Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla Comunità Europea e ove vengono confrontati i sistemi giudiziari dei paesi membri della U (rapporto CEPEJ 2008). È un documento dettagliato ma è talmente lacunoso da essere sospetto, perché le verità citate sono solo alcune delle verità dell' Europa. Il fatto che i magistrati non hanno un orario di lavoro viene così motivato «essi sono equiparati a dirigenti che non hanno orario di lavoro». Succede però che i dirigenti, almeno quelli delle aziende private, avendo dipendenti lavorano in ufficio ben oltre l'orario di lavoro, invece i magistrati non hanno dipendenti e di fatto sono sul luogo di lavoro per poche ore alla settimana! Il rapporto ANM è interessante più per ciò che trascura che per ciò che esamina. Si parla del carico di lavoro dei magistrati e del loro stipendio per mostrare che la magistratura italiana non è sovrapagata e non è vero che produce poco. È una difesa corporativa con gravi omissioni perchè non si parla dell'argomento più importante: cioè del servizio reso ai cittadini. Ai cittadini interessa il costo che debbono subire per ottenere giustizia e il tempi di attesa per ottenere tale giustizia. Ho avuto esperienza di dovermi difendere da una pretesa di usucapione avanzata da un erede contro gli altri. L'usucapione richiede 20 anni di possesso incontestato per essere praticabile. Orbene le proprietà in oggetto provenivano da una altra successione di meno di 20 anni prima: una causa, inconsistente di partenza, durata 8 anni e per la quale mi è stato presentato una parcella di oltre 12mila Euro, quasi equivalente al valore del contendere! Come potere chiamare giustizia civile un processo che costa come il valore del contendere e che richiede anni prima di arrivare ad una risoluzione! Alla omissione del confronto tra la durata dei processi in Italia rispetto alla durata media negli altri paesi europei provvede peraltro un altro rapporto della UE del marzo 2013 (in allegato) da cui risulta che il tempo medio di durata dei processi in Italia è il più lungo tra i 27 paesi della UE, eccetto Cipro e Malta. Questo report documenta anche come processi lunghi significhino alti costi per il cittadino. Il documento ANM cita perciò solo alcune delle verità dell'Europa. Colpisce il numero dei processi attivati in Italia: una quantità impressionante! Sembrerebbe perciò che gli Italiani siano il popolo più litigioso del mondo, ma pensando all' esempio che segue appare che la moltiplicazione dei processi non è tanto colpa del cittadino ma della Amministrazione della Giustizia. Ho avuto esperienze personali istruttive al proposito. Per un inquilino che non pagava, ho dovuto fare tre procedimenti distinti. La prima per lo sfratto, la seconda per liberare l' appartamento, la terza per ottenere un decreto ingiuntivo di pagamento che ha portato a risultato zero. Ogni volta pagando spese di tribunale, ufficiale giudiziario ed avvocati! Una giustizia che ha richiesto 3 cause, oltre 3 anni ed un costo assurdo. Interessante è l'analisi della produttività dei magistrati italiani espressa come rapporto tra il numero di nuove cause aperte ogni anno ed il numero dei magistrati in organico. Risulta che i magistrati italiani sono tra i più produttivi in Europa. Può trattarsi di un dato falso perché in Italia a lato dei magistrati ordinari esiste una magistratura Onoraria con 1981 Giudici Onorari e 2092 giudici di pace che sono fuori organico ma smaltiscono cause. ANM dichiara che i magistrati italiani non hanno né benefit né altri emolumenti, dimentica però di precisare che i magistrati italiani possano ricoprire altri incarichi retribuiti. Nella classifica mondiale stilata dal World Economic Forum la giustizia italiana è valutata al 68esimo posto nel mondo! Ai cittadini italiani è reso un servizio di Giustizia peggiore di quello di molti paesi del terzo mondo: peggiore per esempio di Egitto, Cile, Costa Rica, Gambia, Pakistan, Slovenia e perfino dell'Iran. Il CSM ha un bilancio quasi impossibile da reperire e talmente lacunoso da non potere essere neppure chiamato "bilancio". Cosicché i giudici così solerti nelle indagini alle imprese dovrebbero anzitutto auto-indagarsi. Il CSM ha 27 consiglieri e 20 autisti e auto blu ed i Consiglieri ricevono, oltre lo stipendio, 75mila Euro l'anno di indennità di carica oltre i rimborsi spese e gettoni di presenza. Sono talmente oberati di lavoro che sono presenti 4 giorni alla settimana per sole 3 settimane al mese. Il CSM ha un regolamento di Amministrazione e Contabilità del 15 dicembre 2005 che all'articolo 25, comma 1, definisce le indennità riconosciute ai propri membri per la partecipazione ai diversi Comitati di Gestione. Come se partecipare ai Comitati di Gestione non faccia parte del lavoro dei membri del CSM ma sia un lavoro extra. Vi è scritto che "l'indennità spetta per non più di 3 sedute giornaliere". Dal momento che non è scritto se tale limite è al mese, se ne potrebbe dedurre che un membro del CSM può ogni giorno chiedere tre indennità! Magari per sedute che durano 30 minuti! Sul sito web del CSM è introvabile il resoconto dettagliato delle spese. Se la Magistratura vuole davvero evitare di essere messa sotto accusa dalla opinione pubblica perché non comincia con il rispettare gli obblighi di trasparenza di bilancio? Il secondo passo sarebbe motivare perché nelle classifiche internazionali sulla Giustizia l'Italia risulta al 68mo posto ma soprattutto agire per cancellare questa ingiustizia ai cittadini italiani. Dare risposta ai cittadini italiani è opportuno e doveroso perché le classifiche internazionali mica le ha fatte Berlusconi!

I costi della Pubblica Amministrazione. Nomi e stipendi dei Paperoni di Stato. Nei ministeri, nei Comuni, nelle Regioni e nella Sanità dilaga un esercito di alti dirigenti che guadagnano in media molto più dei loro colleghi europei. Per loro, nessuna spending review, scrive Corrado Giustiniani “L’Espresso”. L’unica certezza è che sono una vera armata, che avanza nella nebbia sopravvivendo a qualunque istanza di riforma o modernizzazione. I ranghi dei dirigenti della pubblica amministrazione italiana sono colossali. Sfuggono ai censimenti: le ultime stime mostrano una vera moltitudine, con poco meno di 200 mila tra superburocrati e quadri di seconda fila mantenuti dai contribuenti. Una coda sterminata di poltrone e talvolta poltronissime, che si stende lungo l’intera penisola. Impossibile capire quanto guadagnino, perché resistono anche alle richieste ufficiali. Di sicuro, le figure al vertice hanno paghe di gran lunga superiori ai loro parigrado europei. Uno studio internazionale li ha indicati come i meglio retribuiti al mondo, spiazzando la competizione dei colleghi di qualunque nazione. Il costo totale è stratosferico: va da un minimo di 15 miliardi di euro l’anno fino a una stima di ben venti. E inutile cercare parametri di merito e di produttività: ogni anno dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Sì, l’Italia è piena di dirigenti, uno status che quasi sempre dura tutta la vita, mentre l’efficienza dell’amministrazione di Stato, Regioni, Province e Comuni resta sotto gli occhi di tutti e ci allontana sempre più dall’Europa. Un’elaborazione della Cisl-Fp, basata sul dossier della Corte dei Conti del 2013 sul costo del lavoro pubblico, arriva a contare 168 mila dirigenti e una spesa lorda per le loro retribuzioni di quasi 15 miliardi l’anno. Ma il confronto con un altro rapporto – realizzato dal professore Roberto Perotti per Lavoce.info   – evidenzia una serie di lacune: dai 16 mila ufficiali delle forze armate ai 3987 dirigenti dei corpi di polizia, fino ai 9754 magistrati. Figure che, per ruolo e reddito, sicuramente vanno considerate nel novero della dirigenza. Integrando i rilevamenti, si arriva a quasi 200 mila. La spending review finora li ha solo sfiorati, incidendo più sui benefit - dalle auto blu alle missioni senza controllo - che sulla busta paga. Mentre la crisi falcia i compensi e spesso il posto di lavoro dei manager privati, loro non corrono rischi. La tutela della poltrona è totale: se anche le province venissero finalmente abolite, i 1406 burocrati di livello sarebbero subito riciclati. Quelli al vertice, ben 131, potranno ancora contare su 145 mila euro; gli altri ne riceveranno sempre 100 mila. L’ultimo tentativo di fare chiarezza su numeri e stipendi è stato lanciato dall’Anac, l’Autorità anti corruzione e per la trasparenza. Entro il 31 gennaio tutti i siti web della pubblica amministrazione avrebbero dovuto mettere in Rete nomi e retribuzioni dei loro dirigenti. “L’Espresso” presenta in esclusiva i risultati di questa operazione, che ha lasciato ampie zone di opacità, ma permette di stilare una classifica dei “Paperoni di Stato” con i redditi più alti. Abbiamo analizzato la trasparenza dei siti ministeriali, dove operano 3.168 dirigenti, per una spesa annuale di 325 milioni, secondo i dati 2013 della Corte dei conti. E poi quelli di due enti pubblici non economici, delle Authority e altre istituzioni. Il risultato non è incoraggiante. Molte amministrazioni non rispettano la legge, soprattutto per i vertici e gli organi di indirizzo politico, che dovrebbero rendere note non solo le retribuzioni, ma persino gli importi di missioni e viaggi. A sorpresa la Camera dei deputati - che come organo costituzionale era esentata da quest’obbligo - ha fornito una tabella con i guadagni (imponibile fiscale più contributi) dei suoi funzionari. Il segretario generale Ugo Zampetti, ad esempio, ha un lordo complessivo di 478 mila 149 euro, ed è il secondo nella hit parade degli stipendiati pubblici. I suoi due vice sono Aurelio Speziale e Guido Letta, cugino di Enrico e nipote di Gianni: prendono 359 mila euro a testa. Ma ci sono altre otto retribuzioni da 300 mila euro in su. Quelle dei consiglieri parlamentari che sono a Montecitorio da più di trent’anni: sette di questi alti funzionari hanno un lordo di 375 mila euro e uno, che si sta avvicinando a 40 anni di servizio, è già a quota 402 mila. Se poi pensiamo che 82 consiglieri della Camera su 176, dunque quasi la metà, hanno un’anzianità compresa tra i 21 e i 30 anni (guadagnando per ora 269 mila euro), risulta chiaro che molti altri “trecentisti” crescono. Il Senato, invece, non ha pubblicato nessuna griglia: ma certo dà il suo pesante contributo a rinforzare il lotto dei super-ricchi. Un caso che fa discutere è quello della Corte Costituzionale. Lo sollevò “L’Espresso” già nel 2008, con un’inchiesta di Primo Di Nicola , lo ha ripreso di recente il professore Perotti, sottolineando come il presidente della Corte guadagni il triplo del suo corrispondente statunitense e il doppio del suo pari grado canadese. Il sito della Consulta non pubblica stipendi. Ma quelli dei giudici possono essere facilmente ricostruiti, perché definiti per legge. Anzitutto, la legge costituzionale numero 1 del 1953, che stabiliva “una retribuzione mensile che non può essere inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria”. Prendendo la norma alla lettera, si passò con un’altra legge dello stesso anno dal “non può essere inferiore” alla precisa equiparazione economica con il Primo presidente della Cassazione, attribuendo però in più al vertice “un’indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione”. Così hanno funzionato le cose, per cinquant’anni. Se quelle norme fossero ancora in vigore, lo stipendio dei giudici costituzionali sarebbe di 303 mila e il loro presidente veleggerebbe sui 454 mila. Ma, evidentemente, non bastavano. E così ecco che il secondo governo Berlusconi infila nella legge finanziaria 2003 la norma scandalo: prevede infatti che, ferma restando la maggiorazione per il Presidente, l’importo della retribuzione vada “aumentato della metà” rispetto a quello del più alto magistrato ordinario. Il risultato? Gaetano Silvestri è oggi a 545 mila euro lordi e i suoi 14 colleghi a 454 mila, per i nove anni del mandato. L’età media dei giudici (76 anni e solo perché l’unica donna del gruppo, Marta Cartabia, con i suoi 51 anni la abbassa di un biennio) suggerirebbe un atto di saggezza e di coraggio: che siano loro a proporre un ritorno alle norme del primo Dopoguerra, che certo non li metterebbero sul lastrico. Sarebbe questo un bel segnale, per un Paese che vive un momento drammatico. E una concreta lezione di diritto. Il ministero dell’Interno si è messo in regola con il censimento nel giorno della scadenza, il 31 gennaio. Ma è necessario uno slalom online: dal sito si arriva agli stipendi in quattro mosse. Prima un clic in home page su “trasparenza amministrativa”, poi su ”personale”, quindi “dirigenti” e infine “compensi”. Ma c’è una curiosa particolarità: vengono pubblicate le singole voci retributive (stipendio tabellare, retribuzione di posizione, di risultato ecc.), ma poi è l’utente che deve fare la somma per arrivare al totale lordo. Scopriamo così - tra retribuzioni top e quelle dei dirigenti di prima fascia - che la polizia vale quasi il doppio dei vigili del fuoco. Alessandro Pansa, capo del Dipartimento di pubblica sicurezza, prende infatti 301 mila 344 euro mentre Alberto Di Pace, al vertice dei pompieri, ne guadagna 174 mila. Lo stesso principio - se vuoi sapere quanto guadagniamo, fatti da te le somme - è adottato dal ministero dell’Economia, che pubblica nomi e voci stipendiali. Il Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, sfonda il tetto, con 303 mila e 300 euro. Fabrizio Barca è a 178 mila euro, centomila abbondanti in meno di Giuseppina Baffi, presidente della Consip, figlia dell’ex governatore della Banca d’Italia. Va bocciato il sito dell’Agenzia delle Entrate che non pubblica le tabelle nominative dei compensi, ma solo una schedina sommaria. Unica eccezione, il direttore Attilio Befera. Alla fine del suo curriculum vitae si chiarisce che guadagna quanto il primo presidente di Cassazione. Largamente incompleto il sito del ministero del Lavoro. Il clic sui nominativi della direzione generale Ammortizzatori sociali, ad esempio, ti rinvia a una pagina bianca. Al contrario, le Politiche agricole offrono un servizio chiavi in mano a chi lo consulta, perché calcolano addirittura il netto dei dirigenti. Lo stipendio più elevato, per la cronaca, è di Giuseppe Serino, 293 mila euro lordi, circa 150 mila netti: che sono 11 mila 500 euro per tredici mensilità. La palma del sito peggiore va al ministero della Difesa, seguito a ruota da quello degli Esteri. Nel primo se si va alla voce “incarichi amministrativi di vertice” si scopre che “la presente sezione è in corso di aggiornamento”, così come quella chiamata “accessibilità e dati aperti”. Si scrive poi che i curriculum sono aggiornati al 31 dicembre scorso, e invece alcuni risalgono al 2010. Non ci sono nomi e stipendi dei generali, ma una semplice schedina in cui si spiega che variano da 124 mila a 79 mila euro, ma poi si dice che andrebbero aggiunti straordinario e indennità accessorie, che però non è scritto a quanto ammontino. In definitiva vengono pubblicati solo gli stipendi dei dirigenti civili di seconda fascia. Solo i generali sono 445 e in più si contano 2300 colonnelli. Che godono di un privilegio in più: a 60 anni i graduati delle forze armate lasciano il servizio attivo ed entrano nell’ausiliaria, restando a disposizione delle pubbliche amministrazioni. Una voce che nel 2013 è costata 431 milioni di euro. La Farnesina se la cava con un anonimo schedone riassuntivo di funzioni, gradi e totale lordo. Come mai? «Non figurano i nomi dei singoli percettori a causa dell’alta mobilità tra Roma ed estero del personale del ministero degli Esteri», è la cortese risposta ufficiale che abbiamo ricevuto. Mobilità che però non impedisce a questi dirigenti di avere un Cud. Dalla griglia si capisce subito, tuttavia, che sono qui le posizioni più forti. Dietro al Segretario generale, fotografato a 301 mila 320 euro, ci sono posizioni da 273-263- 246 mila euro. Non sono pubblicati, in particolare, dati sugli ambasciatori, ma la fonte ci chiarisce quanto percepiscono quelli di rango (sono in 24, nel massimo grado della carriera): 5 mila euro netti circa di stipendio, più un’indennità di servizio all’estero che varia a seconda della sede (in base a costo della vita, fattori di rischio ecc.): a Budapest è di 12.175 euro netti al mese, a Parigi di 15.610, a Washington di 19.220, somme aumentate del 20 per cento per la moglie a carico e del 5 per cento per ogni figlio. Gli ambasciatori più importanti, con moglie e un figlio, possono dunque arrivare a 15 mila, 20 mila, persino 29 mila euro netti (attenzione: netti) al mese, e per le spese di rappresentanza sono coperti da un apposito assegno. Sfogliando le pagine dei vari siti pubblici, balza poi all’occhio che, senza arrivare agli incarichi apicali, svariate decine di dirigenti di prima fascia hanno una retribuzione superiore ai 200 mila euro lordi: più di venti soltanto alla Presidenza del Consiglio dove Franco Gabrielli, il capo della Protezione civile, arriva a sfiorare i 300 mila. Quanto alla seconda fascia, la media retributiva è attorno agli 85 mila euro, con alcune vigorose eccezioni. Come l’Agcom, l’Autorità di garanzia delle comunicazioni, dove nessuno dei ben 121 dirigenti ha un lordo inferiore ai 120 mila euro, comprensivi di compenso variabile. Marcello Cardani, presidente dell’Authority, si attesta sul tetto dei 302 mila euro. Ma anche all’Inail i dirigenti di seconda fascia stanno bene, perché sui 153 di cui il sito fornisce i dati, con chiarezza, soltanto due sono le retribuzioni sotto i 100 mila euro. Se è promosso il sito dell’Inail, è bocciato quello dell’Inps. Invece del tabellone con nominativi e compensi, presenta uno schema riassuntivo delle paghe dei 612 dirigenti e una torta multicolore che dà notizie sulla retribuzione di risultato. Dati fermi, per giunta, al 2011. Si arriva comunque allo stipendio del direttore generale, Mauro Nori: 302.937 euro l’anno, quasi 30 mila in più del direttore Inail, Giuseppe Lucibello. La Corte dei conti non dice quanto guadagni il suo presidente, Raffaele Squitieri. Certo di più del presidente aggiunto, Giorgio Clemente, che ne percepisce 301 mila 320. La stragrande maggioranza dei consiglieri prende oltre i 240 mila euro. Un sito totalmente opaco è quello dell’Avvocatura dello Stato: se si clicca su “dirigenti” ci si trova davanti a una pagina bianca. Ma tutte le amministrazioni, nessuna esclusa, sono trasparenti al massimo quando si tratta di indicare nomi ed emolumenti dei collaboratori esterni. Eppure sarebbe facile avere tutte le retribuzioni dei dirigenti in Rete e senza ritardi. «Basterebbe che le cifre fossero fornite dalle direzioni del personale che predispongono i Cud», spiega Costanza Pera, direttore generale delle Politiche abitative al ministero delle Infrastrutture: «I dirigenti dovrebbero solo dichiarare nella stessa pagina gli eventuali proventi degli incarichi aggiuntivi». Ci vorrebbe l’obbligo di aggiornamento alla data della denuncia dei redditi, e tutto diventerebbe miracolosamente trasparente. Quel mare di regole, invece, sembra favorire l’opacità. Che confonde persino gli analisti economici internazionali. Nello scorso novembre un dossier dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, ha presentato una tabella sconvolgente. I nostri superburocrati sono di gran lunga i meglio pagati del pianeta: svettano clamorosamente in tutte le comparazioni. Considerando contributi e straordinari, si superano i 600 mila dollari l’anno contro una media delle nazioni più evolute attestata sotto la metà. Gli italiani sono al top pure nel confronto con il reddito medio nazionale e persino nel paragone con gli stipendi dei laureati. Il ministero della Funzione pubblica ha subito rettificato: la rilevazione dell’Ocse riguarda solo sei ministeri e si basa sui dati 2011, prima che venisse introdotto il tetto dei 302 mila euro l’anno. Inoltre da noi i contributi pesano molto più che altrove. Certo, ma anche considerando queste correzioni l’asticella resta altissima. Non è altrettanto elevata la considerazione per l’efficienza dei nostri amministratori pubblici. Che però intascano sempre la “retribuzione di risultato”. A tutti i dirigenti viene pagata questa voce economica, nessuno escluso. L’importo varia da un minimo di 7mila a un massimo di 60 mila l’anno. Dipende dalle diverse amministrazioni, dagli obiettivi fissati all’inizio dell’anno, dal grado di raggiungimento degli stessi, e dalle diverse posizioni. E chi garantisce che gli obiettivi siano sempre sensati, e non talvolta indicati solo strumentalmente? L’impressione è che vi sia molto da fare, nella valutazione delle performance. Ma intanto teniamoci questa convinzione: tutti i dirigenti hanno un rendimento positivo. E questo per il cittadino è consolante. Anche se non sempre palpabile, a giudicare dal funzionamento di Stato, Regioni, Comuni e Province. Che tutti vorrebbero riformare, partendo da quelle più meridionali. Sarà mai fatto?

AVVOCATI: CHI E’ CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO. RIFORMA FORENSE E DEONTOLOGICA.

Prima chi percepiva un reddito inferiore ai 10.300 euro non era costretto a registrarsi all'ente previdenziale. I nuovi iscritti a basso reddito avranno diritto a un regime agevolato, che però consentirà loro di vedersi riconosciuti solo sei mesi di anzianità contributiva per ogni anno. Per i primi cinque anni, anche in caso di reddito prossimo allo zero, il minimo da versare sarà di 800-850 euro l'anno pena la cancellazione dall'albo, scrive Luigi Franco su Il Fatto Quotidiano”. I contributi per la pensione mettono a rischio la loro attività. E i giovani avvocati non ci stanno. Il nuovo regolamento della Cassa forense, il loro ente di previdenza, è una mazzata. Perché d’ora in poi, questa è la questione, anche chi ha un reddito basso sarà costretto a versare un minimo contributivo, pena la cancellazione dall’albo. I responsabili del gruppo Facebook ‘No Alla Cassa Forense Obbligatoria’ nei giorni scorsi hanno indirizzato una lettera all’ormai ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, che insieme al titolare dell’Economia deve dare l’ok definitivo, per chiedergli di non approvare il testo. La novità è conseguenza della riforma della legge professionale portata a termine dal governo Monti, che ha reso obbligatoria per tutti gli avvocati l’iscrizione alla Cassa forense. Prima chi percepiva un reddito inferiore ai 10.300 euro, corrispondenti a circa 15mila euro di fatturato, non era costretto a farlo. I nuovi iscritti a basso reddito avranno comunque diritto per otto anni a un regime agevolato, che però consentirà loro di vedersi riconosciuti solo sei mesi di anzianità contributiva per ogni anno di contributi versati. Per i primi cinque anni, anche in caso di reddito prossimo allo zero, il minimo da versare sarà di 800-850 euro all’anno, tra contributo soggettivo di base e contributo di maternità. Nei successivi anni, fino all’ottavo, il versamento minimo, che includerà una quota del contributo integrativo, sarà di quasi 1.200 euro. Una volta terminato il periodo agevolato, saranno dovuti alla cassa almeno 3.700 euro all’anno. Per gli avvocati che hanno scritto al ministro del Lavoro, le agevolazioni non sono sufficienti: “Costringere chi ha un reddito basso a farsi carico di un contributo fisso, seppur edulcorato al minimo, rappresenta un’evidente violazione del principio di proporzionalità e progressività contributiva previsto dalla Costituzione”, si legge nella missiva. Una soluzione più equa sarebbe stata “mantenere una soglia di esenzione per i redditi bassi e un’imposizione contributiva fondata sul criterio della proporzionalità al reddito prodotto”. Per protestare contro “l’imposizione di versamenti obbligatori d’importi iniqui e vessatori in un momento economico drammatico” su Facebook è nato anche il gruppo ‘No alla Bozza di Regolamento Cassa Forense contributo minimo’. Ora il rischio è che molti dei 50mila avvocati che dovranno iscriversi all’ente previdenziale non avranno i soldi per farlo. E saranno quindi costretti a cancellare il proprio nome dall’albo professionale. Secondo Marco Pellegrino, uno dei responsabili del gruppo ‘No Alla Cassa Forense Obbligatoria’, non è insolito che un avvocato all’inizio della propria attività incassi pochissimo: “Le nostre parcelle – spiega – vengono spesso pagate solo dopo la chiusura della pratica. E anche nel caso in cui si incassi un acconto, questo basta a malapena a coprire le spese. L’avviamento di un avvocato che non sia figlio di avvocati dura sette-otto anni”. I minimi da versare per la pensione rischiano così di tagliare le gambe a molti giovani. E si aggiungono agli altri costi introdotti dalla riforma della legge professionale, come l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile e quella contro gli infortuni.

Riceviamo e pubblichiamo la risposta del presidente della Cassa forense, avvocato Nunzio Luciano: Quando con la nuova legge professionale è stata introdotta l’obbligatorietà dell’iscrizione alla Cassa forense per tutti gli avvocati iscritti agli Albi sapevamo che, nonostante la grande importanza di una norma che finalmente riconosce una stessa cittadinanza previdenziale a tutti gli avvocati (prima dell’entrata in vigore della nuova legge forense, i legali che dichiaravano redditi professionali al di sotto dei 10.300 euro dovevano comunque versare all’Inps oltre il 27% di contribuzione), il compito di varare un nuovo regolamento dei contributi sarebbe stato complesso. Ma ci siamo impegnati affinché le nuove norme di contribuzione fossero le più giuste ed eque possibili, dando a tutti la possibilità di continuare a esercitare la professione. Così, essendo consapevoli della forte crisi che sta colpendo l’Avvocatura e non volendo che le nuove norme fossero una tagliola per migliaia di professionisti, abbiamo ideato un regolamento flessibile che prevede per chi ha redditi bassi la possibilità di pagare per i primi otto anni di iscrizione alla Cassa una contribuzione minima di gran lunga inferiore a quella ordinaria. Ciò è stato fatto per permettere ai giovani di entrare in un sistema che ha una forte connotazione solidaristica, dove il più forte aiuta il più debole (circa il 10% della pensione di chi guadagna e versa meno è coperto da chi ha redditi molto elevati), e che garantisce nell’immediato assistenza a tutti. Nessun istituto previdenziale, pubblico o privato, eroga pensioni senza il pagamento dei contributi e a chi chiede l’esenzione da una contribuzione minima dobbiamo ricordare che il pagamento dei minimi è necessario non solo per salvaguardare il sistema nel suo insieme ma soprattutto per garantire in futuro pensioni dignitose. D’altra parte, non siamo i soli a richiedere una contribuzione minima. Tutte le casse professionali più importanti lo prevedono e i loro minimi sono di gran lunga superiori a quelli richiesti dal nuovo regolamento. Infine, le agevolazioni per i professionisti più deboli sono previste per ben otto anni, oltre i quali è dato pensare che i colleghi possano pagare la contribuzione minima intera. Bisognerebbe sottolineare che il vero problema non è quello della contribuzione minima, ma l’elevato numero degli avvocati iscritti agli Albi che non riesce più a trovare uno spazio in un mercato ormai saturo. Le università, nel frattempo, continuano a sfornare migliaia e migliaia di laureati che non trovano sbocco nel mercato del lavoro. 

Gli Avvocati contro la Riforma Forense. Riforma Forense: obbligo di iscrizione alla Cassa Forense e controproposte degli Avvocati. A soli pochi giorni dalla scadenza del termine previsto per l'emanazione del regolamento che stabilirà le soglie minime di contribuzione previdenziale si continua a navigare nell'incertezza, scrive “Studio Castaldi”. "Detta situazione è sintomatica di un caos decisionale ed è frutto di un modus procedendi privo di confronto. Da tempo il dibattito sull'obbligatorietà dell'iscrizione alla Cassa Forense è diventato tabù: non è permesso discutere pubblicamente, né ascoltare quella parte della avvocatura, giovane e meno giovane, che sarà coinvolta pesantemente dal regolamento. Un regolamento che potrebbe devastare carriere professionali, spezzare sogni e aumentare il disprezzo verso la classe forense. Cari delegati, fermatevi! Discutiamone tutti insieme e troviamo una soluzione, o la soluzione la troveranno i tribunali invasi di ricorsi. Abbiate il coraggio, la correttezza e l'umiltà di guardare in faccia alla realtà: la professione è profondamente mutata e la crisi attuale non permette di pensare ad un sistema previdenziale che garantisca un futuro in assenza del presente. La previdenza è assistenza per il futuro, ma in Italia oggi manca il presente e noi abbiamo il diritto di viverlo dignitosamente". 

Avv. Gabriella Filippone - E' debuttato il 15 giugno 2013 il regolamento tramite il quale Cassa forense ha attuato l'art. 21 commi 8-9 della legge 247/2012 che modifica l'ordinamento professionale degli avvocati ed impone la contestuale iscrizione agli albi e all'istituto. E' debuttato il 15 giugno 2013 il regolamento tramite il quale Cassa forense ha attuato l'art. 21 commi 8-9 della legge 247/2012 che modifica l'ordinamento professionale degli avvocati ed impone la contestuale iscrizione agli albi e all'istituto. L'obbligo di iscrizione alla previdenza forense ai sensi dell'art.21 commi 8-9-10 della legge n.247/2012: il 2 febbraio 2013 è entrata in vigore la legge  n. 247/2012 (Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense) che modifica  il regime dell'iscrizione alla Cassa di Previdenza Forense. In particolare, con  l'art. 21 comma 8  "l'iscrizione agli Albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa Forense e quindi l'iscrizione alla Cassa Forense, già obbligatoria per tutti gli iscritti agli Albi che esercitino la professione con carattere di continuità -cioè raggiungano prefissati limiti minimi di reddito o di volume d'affari professionali-, si vuole ora fare coincidere con il momento dell'iscrizione agli Albi, a prescindere da tali parametri reddituali." Il comma 9 dell'art. 21 ha affidato alla Cassa Forense di emanare, entro un anno dall' entrata in vigore della legge, un proprio regolamento che determini - per tutti gli iscritti, attuali e nuovi, con reddito inferiore a parametri reddituali da stabilirsi - i minimi contributivi dovuti, nonché eventuali condizioni temporanee di esenzione o diminuzione dei contributi per soggetti in particolari condizioni e l'eventuale applicazione del regime contributivo. Si propone dunque una breve analisi del Regolamento approvando dell'art. 21 Legge di Ordinamento Forense. Riassumendo, con la riforma l'iscrizione alla Cassa Nazionale di previdenza e assistenza Forense" si vuole far coincidere l'iscrizione alla Cassa Forense con il momento dell'iscrizione agli Albi, a prescindere da  parametri reddituali. A mio modesto giudizio la Cassa non potrà prescindere dai parametri reddituali nell'attribuzione dei contributi da versare, per non essere tacciata di illegittimità. E' buona norma sociale europea che le imposte vadano pagate in base al reddito, chicchesia non può vietare l'iscrizione ad altra forma alternativa di previdenza obbligatoria e, quindi, alla gestione separata INPS e nel contempo pretendere la potenziale costrizione all'indebitamento di alcuno per pagare contributi minimi predefiniti e svincolati dal reddito, seppure ridotti del 50%. Prendiamo appunto il caso limite però possibile, in cui il legale, in base al dettato della Cassa Forense, abbia da sostenere un'imposta superiore addirittura al reddito ottenuto nell'anno solare. Potrei ad ogni modo indicare tanti altri casi poco meno drammatici di quello avanzato, che Vi lascio comunque immaginare, in tempi di crisi della professione come quella che siamo un pò tutti costretti  ad affrontare. In un articolo di Isidoro Trovato pubblicato dal Corriere della Sera sull'impoverimento dei giovani professionisti, viene "fotografata" la crisi. I giovani professionisti non sono più parte di categorie privilegiate e non conoscono caste di potenti. Tra i professionisti i più anziani vivono situazioni economiche migliori. I giovani annaspano anche per la crisi economica italiana in corso. "L'Adepp ha fornito dati inequivocabili: il reddito medio dei professionisti under 40 è inferiore del 48,4% rispetto al reddito degli over 40. Tra le donne la differenza percentuale tra le diverse generazioni sale al 55,8%. Molti giovani professionisti faticano ad arrivare a fine mese. Avvocati e architetti in primis. Le cose vanno meglio per psicologi, biologi e geometri. I giovani professionisti non riescono più a far fronte alle spese previdenziali. Tra gli avvocati, ora che la riforma ha previsto l'iscrizione obbligatoria alla cassa di categoria, si parla di almeno 10mila avvocati che usciranno dagli ordini. E se le condizioni non saranno più morbide a rischiare sono 20mila." Va cambiata l'opinione pubblica prevalente, la cultura e la mentalità vecchia e stravecchia di "avvocato uguale a miliardario". Le difficoltà di una categoria che conta oltre 220 mila iscritti sono sotto gli occhi di tutti; decine di migliaia di giovani avvocati annaspano in proprio o presso studi di cui, di fatto, sono dipendenti (...), ma senza ricevere alcuna delle tutele previste per qualsiasi lavoratore subordinato. Costoro, invero, dal punto di vista lavorativo sono dei veri e propri "soggetti deboli" che rischiano di essere vessati e incalzati da questa norma sulla continuità professionale a scapito della loro dignità e tranquillità personale. Quando si vuol giustificare la previsione del criterio della continuità dell'esercizio professionale come garanzia dell'affidabilità della prestazione legale, più che ad un argomento serio viene da pensare ad una strumentale forzatura. Tale è infatti l'assunto che ad un più alto fatturato corrisponde una maggiore affidabilità della prestazione legale come se, fra l'altro, la difficoltà di fatturare dipendesse dalla negligenza o impreparazione del professionista e fosse a quest'ultimo colpevolmente imputabile fino al punto di cancellarlo dall'Albo e privarlo, comunque, del proprio lavoro con cui egli si mantiene. L'art. 35, primo comma, della Costituzione tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (senza distinzioni fra lavoro manuale e intellettuale), ergo, fino a prova contraria, in una Repubblica che si fonda ancora su di esso anche il lavoro di un Avvocato è ampiamente tutelato, a maggior ragione ove prevale sul capitale. Se la Corte di giustizia europea con un orientamento ben consolidato si è espressa sempre contro norme che individuano nella continuità di un'attività professionale il requisito cui venga condizionato il riconoscimento di un qualsiasi beneficio, la possibilità di accesso a uno status determinato, una qualifica o un trattamento, lo ha fatto a tutela della dignità del professionista poiché intravedeva in tali norme possibilità di discriminazione anche indiretta a scapito delle donne e dei soggetti deboli in genere. Immaginate, poi, (...) la situazione verosimile di quegli Avvocati che, loro malgrado, non riuscendo a mantenere il passo con i criteri della continuità professionale si vedranno costretti ad addurre giustificazioni varie innanzi a loro colleghi e concorrenti sul perché in quel triennio non hanno raggiunto determinati parametri reddituali con grave e inaccettabile lesione e mortificazione della loro dignità personale; tralasciando poi i probabili risvolti clientelari per cercare in qualche modo di sfuggire alla mannaia che li estrometterebbe definitivamente dal giro, anche modesto, di clientela e di guadagno. (...) Che sorte toccherebbe a quei 50-60 mila professionisti che già attualmente non sono in linea con i criteri di continuità previsti per la previdenza forense (...)? E tutti gli altri avvocati si sentirebbero tranquilli a lasciare al Ministro di Grazia e Giustizia e al Consiglio Nazionale Forense una delega in bianco volta a individuare periodicamente e a propria discrezionalità i criteri a cui bisognerà attenersi per conservare l'iscrizione all'Albo e per poter continuare a lavorare? In definitiva, anche volendo dare un minimo di credito alle istanze del CNF e dell' OUA che con tanta enfasi perorano l'approvazione di questo articolo, va affermato con forza che prima della dignità e del decoro della professione di Avvocato viene la tutela della dignità e del decoro della persona umana e di chi lavora." L'obbligo di doppia iscrizione (all'Albo ed alla Cassa Forense) ha creato non poche perplessità tra gli avvocati, già impoveriti dai nuovi parametri forensi e dal pagamento di un'assicurazione diventata obbligatoria. Anche l'Avv. De Tilla, ex presidente dell'Associazione Nazionale Giovani Avvocati ha espresso le sue perplessità definendo la la riforma come  "un pasticcio legislativo". Ha dichiarato l'Avv. De Tilla: "Da un lato fissare contributi molto contenuti per chi ha redditi bassi rischierebbe di creare squilibrio negli assetti economici dell'Ente, dall'altro fissarli ridotti ma non troppo significherebbe vessare colleghi fino ad oggi non iscritti che guadagnano poco o niente anche per effetto della crisi e a farne le spese sarebbero prevalentemente i giovani''. L'obbligatorietà della doppia iscrizione è una certezza, mentre allo stato ancora nebuloso appare la definizione dei parametri per i versamenti, su cui si dibatte largamente in questi giorni. Il lavoro é diminuito in maniera consistente, grazie proprio all'alto tasso di concorrenzialità unito alla crisi economica, crisi che spesso porta i cittadini a rinunciare all'assistenza di un professionistaNel mentre  migliaia di neo-avvocati, ma non solo loro, attendono una riqualificazione del loro ruolo professionale, dopo le numerose penalizzazioni subite. Sull' elevato numero di avvocati va rilevato che sono tanti perchè i nostri governanti hanno chiuso ogni sbocco alternativo, tra cui  in primis l'apertura al notariato o nella pubblica amministrazione. Il vero problema, dunque,  non è l' elevato numero di avvocati, che comunque garantisce una certa concorrenza, ma l' assenza di sbocchi dopo la laurea in giurisprudenza. Occorre forse una riforma universitaria in primis. Non tutti vogliono fare l'avvocato. Partendo magari dalla considerazione che molteplici potrebbero essere  le opportunità: carriera internazionale, magistratura, consulenze esterne ai tribunali etc. etc., quindi perché studiare cinque anni tutto il diritto possibile e immaginabile senza specializzarsi già dal terzo anno in poi su quello che si desidera fare? "La differenza con l'Italia non è tanto di mercato, quanto piuttosto culturale" afferma l'Avv. Castaldi (con studi in Francia ed in Italia) che sul problema ha così esposto criticamente in un'intervista: "Tanti risponderebbero: di mercato! E darebbero le solite cifre sul sovraffollamento della professione e l'inefficienza della macchina giudiziaria. Io penso invece che se siamo arrivati a questo punto il problema è innanzitutto culturale.  Si è voluto perpetuare uno schema professionale, culturale e direi antropologico che valeva, forse, negli anni Sessanta."

Dai social network, cosa ne pensiamo noi "comuni" avvocati  delle riforme che ci toccheranno.

FEDERICO B: "... non vogliono in verità i nostri soldi...vogliono che ci cancelliamo...per loro il fatto che ci siano avvocati senza reddito è qualcosa che non concepiscono....sono entrati negli anni grassi ed oggi hanno studi avviati...e ci vedono come i negozianti vedono i vu cumprà...solo che noi non siamo vù cumprà (con tutto il rispetto)...noi non siamo abusivi siamo avvocati in forza di un esame difficilissimo passato qui in Italia...non in Spagna o Romania....come fanno molti praticanti di Studi Altisonanti...."

STEFANIA A. (mail inviata a Nunzio Luciano,  presidente di Cassa Forense) :"Questa l'email a Nunzio Luciano (non ho reperito altri contatti della CF) "caro Presidente, La prego di tenere conto delle considerazioni giuridiche che le allego e che dimostrano come l'emanando regolamento sia anticostituzionale poichè esso collide con i Principi Costituzionali, Europei nonchè con le norme di diritto tributario e previdenziale. Quale Presidente della Cassa Forense, La prego di volere sollecitare i vertici su tali questioni e procedere alla sospensione dell'emanando regolamento, in vista di una modifica dell'art. 21 della legge n. 247/2012. Qualora, nonostante tutte le doglianze dei 56.000 iscritti che rischiano la cancellazione, e di cui mi faccio portavoce, la Cassa procederà sorda come il Governo ad emanare il regolamento, essa andrà incontro ad un contenzioso di portata vastissima. Certa che prevarrà il buonsenso, Le invio cordiali saluti. Avv. Stefania Arduini". "A mio avviso, nelle future opposizioni, ricorsi ecc che faremo, si dovrà sempre e preliminarmente chiedere AL GIUDICE NAZIONALE L'IMMEDIATA DISAPPLICAZIONE DELLA LEGGE INTERNA IN FAVORE DI QUELLA COMUNITARIA POICHE' IN CONTRASTO CON ESSA... e questa è la prima arma in via d'urgenza!" "...espongo il mio pensiero sulla gestione separata INPS: non è una valida controproposta poiché è più onerosa e non garantisce l'assistenza sanitaria come cassa previdenza!! Ne sanno qualcosa i fiscalisti con cui ho parlato e che loro stessi sono costretti a pagare. Invece ritengo 1) che se si ha un reddito zero o inferiore al l'importo dei contributi previdenziali di cassa forense o non congruo rispetto ad essi nulla vada versato ...ciò è un principio di diritto tributario e previdenziale generale  2) se ho reddito inferiore ai limiti di legge non devo e non posso essere costretto ad aprire partita IVA che è (presumo ) condizione per il versamento dei contributi (e anticostituzionale) 3) deve essere garantita l'assistenza gratuita fiscale agli avvocati per ammortizzare le spese che la tenuta contabilità comporta (es commercialisti) ... "

Maria Grazia M.: "ritengo che la pregiatissima collega Arduini, che più volte è intervenuta sulla questione, abbia svelato, attraverso la sua chiave di lettura, i punti nevralgici della c.d. "controriforma", mostrandone non solo le criticità ma proponendo le uniche alternative realmente praticabili. Perciò, in considerazione della massima competenza e professionalità con cui la tematica è stata analizzata, gli ulteriori contributi 'ad adiuvandum', potrebbero risultare opportuni, solo se orientati nella medesima direzione!"

(Nome omesso): "L'INCIDENZA SUL FATTURATO. (...) È evidente che il sistema non funziona; vi sono enormi iniquità generazionali. SULLE AGEVOLAZIONI NON DICONO che i colleghi più anziani non hanno corso alcun rischio di diventare c.d. Contribuenti Silenti per via dell'istituto della restituzione di cui all'art. 21, comma 1, della legge n. 576 del 1980, in vigore fino al 2003, che prevedeva: "coloro che cessano dalla iscrizione alla cassa senza aver maturato i requisiti assicurativi per il diritto alla pensione hanno diritto di ottenere il rimborso dei contributi di cui all'articolo 10, nonché degli eventuali contributi minimi e percentuali previsti dalla precedente legislazione...". Non possono pensare di accendere e spegnere l'interruttore delle agevolazioni a loro piacimento. A questo punto occorre chiarezza: il compito di stabilire chi sono gli avvocati agli effetti dell'esercizio della professione compete al cnf e al ministero di giustizia ai sensi dell'art. 21 legge 31 dicembre 2012, n 247 - Nuova disciplina del'ordinamento della professione forense - che al comma 1 precisa CON ESCLUSIONE DI OGNI RIFERIMENTO AL REDDITO PROFESSIONALE e Non certo a cassa forense che è una fondazione al servizio della avvocatura con il compito istituzionale di fornire previdenza e assistenza agli avvocati a prescindere dal reddito. Ne consegue che cassa forense deve attrezzarsi con i propri regolamenti nei confronti di tutta l'avvocatura e quindi anche nei confronti dei circa 100 mila colleghi (56 mila nuovi iscritti e 40 mila già iscritti, morosi, al collasso economico) tutti quindi riconducibili all'area sofferenza dell'avvocatura. Sullo stato della riforma tutta il prof. Berlinguer in trincea con la base degli avvocati. In un suo recente articolo sullo stato della riforma afferma : "...Non il numero degli avvocati che, nonostante le crescenti defezioni dei più giovani, continua a crescere. E non valga la lettura, ambigua e sibillina, dell'articolo 21 della Riforma a sostenere che difetta dei requisiti di effettività, continuatività, abitualità e prevalenza chi non è iscritto alla Cassa forense. Si tratterebbe infatti di un malcelato espediente per ridurre il numero degli iscritti su base censuaria e non meritocratica. Espediente che, nuovamente, andrebbe a danno dei più deboli, molto spesso donne e giovani."

SUL SISTEMA PREVIDENZIALE. Una voce autorevole ha raccolto le istanze della base più genuina dell'avvocatura, e lasciatemelo dire, il collante sano dell'avvocatura con la società civile, quella di Aurelio "Elio" Di Rella (Dal 1974 al 1992 e dal 2000 al 2006 è stato membro del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Genova di cui è stato anche presidente dal 1986 al 1988 e dal 2000 al 2006, Delegato alla cassa forense dal 1994 al 2009) che nel post di ieri a nome dell'associazione liberi professionisti - dipartimento nazionale avvocati, sulla questione previdenziale, tra l'altro, propone : di creare una "gestione separata" della cassa forense sul modello di quello dell'INPS prevedendo un sistema di contribuzione e di erogazioni assistenziali e previdenziali simile a quello dell'INPS, previa la verifica attuariale necessaria per rispettare i parametri normativi consentendo agli iscritti di optare in un momento successivo per il regime ordinario con i versamenti necessari a garantire la riserva matematica. Si è quindi finalmente aperto un dibattito leale che spero possa coinvolgere sempre più colleghi ed in particolare chi occupa posizioni dirigenziali che andrebbero interpellati in ogni occasione ed in particolare nel corso degli eventi formativi. Il tempo sta per scadere.

Emanuele Spata, membro commissione OUA riforma forense in un confronto di ieri afferma; " Per la proposta gli darò un'occhiata e Ti saprò dire, Ti ricordo però che la gestione separata INPS a cui i professionisti senza Cassa sono obbligati ad iscriversi ai sensi dell'art. 2 c. 2632 della L. 3351995 sono dovuti contributi in misura pari al 27% (2013) e 28% 2014, potendo addebitare ai clienti il 4% (art. 1 comma 212 L. 66296) nel mentre alla Cassa sono dovuti contributi nella misura del 14%. Certo nella gestione separata non ci sono i minimi, ma attenzione il 28% di 10.000,00 fa 2.800,00 e nel 2018 i contributi alla gestione separata arriveranno al tetto del 33%. Meglio pensare di chiedere alla Cassa ai sensi dell'art. 21 della L. 2472012 di fissare un minimo per la assistenza a poche centinaia di euro, e far pagare i contributi nella misura solita sul reddito effettivo.".

"SULLE ALIQUOTE E SUL CONTRIBUTO MINIMO non mancano sistemi collaudati che rappresentano un'eccellenza. Ne è prova la fondazione Enpaia ovvero l'ente previdenziale degli agronomi dipendenti e liberi professionisti, che da sempre adotta il contributivo puro e quindi non ha generato debito previdenziale. Per quanto sia probabilmente la più piccola fra le Casse di previdenza dei professionisti (125mila iscritti), realizza più di una eccellenza. Ad esempio la tematica della sostenibilità a 50 anni per gli Agrotecnici è irrilevante; il problema, sulla pelle della loro previdenza, scivola via come acqua sui sassi, posto che la Cassa già ora garantisce una sostenibilità "all'infinito", come certificato dal Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale del Ministero del Welfar, nella sua relazione datata 28 ottobre 2009. In Enpaia il contributo soggettivo è' stabilito in misura pari al 10% del reddito professionale netto prodotto nell'anno, quale risulta dalla relativa dichiarazione ai fini dell'Irpef, entro un determinato massimale, rivalutato annualmente in relazione alle variazioni Istat dell'indice generale dei prezzi al consumo (pari per l'anno 2013 a 99.034 euro). E' comunque dovuto un importo minimo di 310,00euro. Oltre al contributo soggettivo obbligatorio del 10%, è concessa la facoltà di avvalersi di una maggiore aliquota-contributiva-variabile (...)."

Da più parti si auspica di non dover assistere a ciò che già sta accadendo in altri settori, con chiusure continue di attività individuali e strapotere di poche realtà; nel settore legale si chiamano "law firms", super-studi a cui associarsi nella speranza di vedere il lavoro in crescita e le spese in crollo verticale. Nell'attesa di arrivare ai fatidici 70 anni (in salute, ovviamente) per poter finalmente riavere parte degli oboli versati in Cassa e godersi un meritato riposo". Tornando al regolamento forense, in vari punti trattati, sul piano interpretativo giuridico-legislativo, il regolamento appare non tenere conto del dettato normativo in materia, esaminiamo alcuni punti. Stabilisce il Regolamento: "La Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con proprio regolamento, determina, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, i minimi contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali". Ciò dovrebbe significare che più bassi sono i parametri reddituali, propozionalmente più bassi dovrebbero essere i contributi da versare.  Unico riferimento legittimo possibile è pertanto la condizione della redditualità -  Il regolamento approvando fa invece riferimento all'età più o meno avanzata, al numero di anni di iscrizione all'albo ed in base a questi parametri diminuisce in proporzione i contributi da versare. Ciò appare in evidente contrasto con la norma che invece radica la diminuzione dei contributi alla sola consistenza dei parametri reddituali. In base alla legge - e non al regolamento, che è fonte normativa di rango inferiore-, due soggetti lavoratori di diversa età anagrafica devono pagare lo stesso se hanno il medesimo parametro reddituale. Così come un soggetto di 30 anni (o con 5 anni di iscrizione all'albo) con un parametro reddituale più alto di uno di 50 anni (e/o che ha 20 anni di iscrizione all'albo) dovrebbe pagare di più secondo la legge. Il Regolamento in esame non tiene conto dei parametri imposti dalla legge e fa l'opposto dando priorità all'età o agli anni di iscrizione all'albo. Per questi motivi la questione  rischia di andare al vaglio dei Ministeri Vigilanti, i quali potranno disporre rinvio al punto di partenza; rischia altresì la cassazione di qualunque autorità giudiziaria.

LE PROPOSTE DEGLI AVVOCATI:

L'associazione liberi professionisti - dipartimento nazionale avvocati, sulla questione previdenziale,  propone: di creare una "gestione separata" della cassa forense sul modello di quello dell'INPS, prevedendo un sistema di contribuzione e di erogazioni assistenziali e previdenziali simile a quello dell'INPS, previa la verifica attuariale necessaria per rispettare i parametri normativi consentendo agli iscritti di optare in un momento successivo per il regime ordinario con i versamenti necessari a garantire la riserva matematica. Il regolamento che stabilirà il minimo contributivo dovrà essere adottato entro il 4 febbraio 2014. Parte degli avvocati contrari alla riforma spinge quindi per fare adottare dalla Cassa il sistema della gestione separata INPS, più agevole per i giovani e i colleghi tutti in difficoltà (circa 100mila dai dati resi noti da CF).

L'AIGA associazione nazionale giovani avvocati, lo scorso ottobre 2013, in occasione del XXII congresso nazionale tenutosi a Palermo, si è dichiarata contraria alla riforma, contro chi ritiene che per risolvere il problema del grande numero di avvocati sia sufficiente far leva su queste norme che penalizzano i professionisti più "deboli": Dario Greco ha definito  "pessima" la riforma dell'ordinamento che mette all'angolo le giovani generazioni di oggi e di domani "Una legge dove la parola giovani è contenuta una sola volta per una petizione di principio - ha constatato Greco - mentre anziano, anziani e anzianità si ripetono per bene 18 volte". L'ex presidente dell'AIGA ha proseguito bollando come ingiusto e immorale espellere dalla categoria decine di migliaia di ragazzi che, con il loro lavoro, consentono agli studi legali di stare aperti, spesso, senza percepire un centesimo di compenso. Per evitare l'"epurazione" AIGA ha chiesto l'intervento della Cassa forense, volto ad eliminare le iniquità del sistema previdenziale. Il riferimento è anche ai  pensionati che contribuiscono nella misura del 7% rispetto al 14% degli attivi pur essendo "usciti" con un sistema retributivo. 

Da Palermo, Ester Perifano ha chiesto pesanti cambiamenti alla legge professionale. "È ora di spingere - dice - per la modifica della legge professionale". Ester Perifano, segretario nazionale ANF,  ha attaccato Cnf e Cassa Forense. "L'avvocatura così come siamo stati abituati a pensarla negli anni - ha affermato - oggi non esiste più: "la professione si è andata consistentemente modificando negli anni, perché altre professioni, più giovani e meno ingessate, hanno progressivamente sottratto quote rilevanti di attività, perché l'organizzazione del lavoro è rimasta ancorata a schemi obsoleti, inadatti a rispondere alle mutate esigenze della società". Un Consiglio Nazionale Forense, ha incalzato Perifano, "incapace di fronteggiare efficacemente l'azione governativa"  costretto quindi a "ripiegare su battaglie di retroguardia, pur nella consapevolezza di andare incontro ad una sconfitta sicura, prigioniero del suo ruolo di strenuo difensori di uno status quo che non esiste più da tempo". 

Il presidente di Cassa Forense Nunzio Luciano si è così espresso: . "Sono pronto a dare battaglia - afferma - a chi pensa di tagliare fuori sacche di avvocati in base al reddito. La bozza di regolamento, che abbiamo messo a punto e che dovrà essere pronta entro il 4 febbraio, a mio avviso va ancora modificata cambiando l'articolo che taglia fuori dal beneficio di un minor versamento chi ha superato i 35 anni".

Riporto di seguito le importanti considerazioni dell'avvocato Stefania Arduini:

BREVI CENNI SULLA  ILLEGITTIMITA' DELL'ART. 21, COMMA 8, Legge n. 247/2012

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L'articolo in discorso prevede l'obbligatorietà e l'automatica iscrizione alla Cassa previdenza forense (...), come conseguenza della sola iscrizione all'Albo degli Avvocati. Ovviamente, si tratta di una iscrizione non gratuita ma onerosa. Orbene: numerosi sono i profili di illegittimità che colpiscono tale articolo (e molti altri ancora) della Legge n. 247/2012, poiché in contrasto evidente sia con la Costituzione, sia con il dettato normativo europeo. Prima di entrare nel merito della vicenda, occorrerà ricordare che la Costituzione è "Fonte del diritto", dunque, "Legge delle Leggi", di fronte alla quale tutte le altre leggi hanno l'obbligo di osservanza. Per converso, la con la Legge  247/2012 si assiste alla violazione dei seguenti principi fondamentali:

1) Violazione dei principi di equità contributiva: Il sistema contributivo dell'ente privato Cassa Forense, che gestisce interessi eminentemente pubblici,contrasta con il principio dell'equità fiscale e contributiva. Infatti, tale principio, immanente all'Ordinamento Giuridico, strutturato sul combinato disposto degli articoli 2, 3 e 53 della Costituzione Italiana, delinea le caratteristiche generali  del sistema contributivo che devono essere rispettate sia dagli Enti previdenziali pubblici, sia dagli Enti previdenziali privati. Questi, dunque, al pari degli altri soggetti che operano nel territorio, sono tenuti al rispetto delle leggi dello Stato ed, a fortiori, della Costituzione Italiana in forza della quale, il sistema previdenziale, anche di Enti Privati così come strutturato, deve essere tale da realizzare una giustizia fiscale (art. 3 Cost.)solidale (art. 2 Cost.), basata sul criterio della progressività (art. 53 Cost.) dell'imposizione contributiva. A fronte delle Norme su richiamate, costituenti non solo Principi Fondamentali del Diritto ma Fonti di esso, v'è l'attuazione di un sistema contributivo per mezzo dell'emanando Regolamento (di rango quindi inferiore rispetto alle Norme Costituzionali !!) della Cassa Forense che astrae da ogni considerazione sulla capacità contributiva dei singoli, laddove obbliga al pagamento di contributi (c.d. minimi) fissi ed indipendenti da situazioni reddituali (dovuti, infatti, anche in caso di reddito zero), il tutto  non a fronte di future erogazioni previdenziali. Ciò collide anche con il dettato Costituzionale dell'art. 3 secondo cui tutti cittadini sono uguali davanti alla Legge. Se così è, come in effetti è, gli Avvocati con reddito inferiore ad €. 4.800,00 conservano lo status di disoccupati e, come tali, dovrebbero ricevere il trattamento di tutti i disoccupati in Italia (ed in Europa) che non sono obbligati al versamento dei contributi previdenziali. Inoltre, stabilire il versamento dei contributi minimi a fronte del reddito zero impone l'apertura di una partita IVA e la tenuta contabilità (sic!) laddove le norme tributarie escludono l'apertura della stessa se non si ha adeguato reddito.

2) Lesione di interesse legittimo. La nuova legge sull'Ordinamento Forense affida ai Consigli dell'Ordine il compito di  operare il c.d. sfoltimento degli albi (cancellazione), che sostanzialmente si risolverà in una  presumibile discriminazione quantitativa dei redditi, anche se formalmente esclusa dalla lettera della legge. Tali azioni collidono con i principi di libertà del lavoro, di cui agli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione Italiana, e dell'iniziativa economica e non discriminazione, di cui agli articoli 41 e 3 della Costituzione[1]oltre che con il principio di libera concorrenza previsto dall'Ordinamento europeo. In riferimento al Diritto Comunitario, va detto che la Legge n. 247/2012, partorita dallo scellerato ed incompetente Legislatore italiano, non può che chinare il capo innanzi al principio di preferenza imposto dal diritto dell'Unione europea secondo cui, questo, prevale sul diritto interno dei suoi Stati membri. La preminenza del diritto dell'Unione è sancita dall'articolo 10 della Convenzione Europea: "La Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell'Unione nell'esercizio delle competenze a questa attribuite hanno prevalenza sul diritto degli Stati membri".(Convenzione di Bruxelles, art. 10-Diritto dell'Unione Europea, comma 1). In presenza di una legge nazionale che contrasti con una norma comunitaria, pertanto, il giudice ordinario deve disapplicare la legge nazionale nel caso specifico e applicare il diritto dell'Unione, senza porre quesiti di incostituzionalità o attendere che il legislatore nazionale risolva il conflitto di giurisprudenza adeguandolo al diritto dell'Unione. Il principio di libera concorrenza in ambito comunitario è poi richiamato dall'art. 33 comma V della Cost. che prevede l'accesso agli ordini professionali subordinato al solo previo superamento dell'esame di stato.

Ebbene la Legge n. 247/2012 vìola anche detto quadro normativo nazionale-europeo. La cancellazione dall'albo, poi, imposta dalla Legge de qua, vìola l'interesse legittimo dell'avvocato che, dopo aver superato il concorso pubblico per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato, non può vedersi negare il diritto di iscrizione all'Albo solo in forza di un "Regolamento in materia previdenziale" (sic!) che non ha la stessa cogenza della legge, dei principi Costituzionali, dei principi comunitari. Infine, la riforma forense vìola la Legge Professionale (R.D. n. 1578/1933) che dispone il diritto di iscrizione all'Albo degli Avvocati in caso di superamento dell'esame di Stato, nonché la facoltà dell'Avvocato di svolgere la sua professione "gratuitamente". Il Legislatore, infatti, troppo preoccupato di fare "Cassa" ha dimenticato che l'Avvocato svolge un ruolo istituzionale: egli garantisce l'osservanza della Costituzione e l'applicazione dell'art. 24 di essa. Da questi principi fondamentali la Legge n. 247/2012 non può in alcun modo prescindere." Si ringraziano i Colleghi ed in particolare l'Avv. Stefania Arduini per i contributi all'articolo.

AVVOCATI DELLE CAUSE PERSE. Avvocati delle proprie cause perse. Il nuovo codice deontologico della categoria introduce norme assurde. Come quella che vieta di rendere noti i nomi dei clienti o offrire prestazioni a domicilio. Di fatto si limita la possibilità di concorrenza, scrive Alessandro De Nicola su “L’Espresso”. I lettori mi perdoneranno se questa volta non utilizzerò il consueto tono un po’ leggero. Infatti, volendo commentare il nuovo codice deontologico degli avvocati e sapendo quanto la dignità e il decoro nelle espressioni e nelle critiche siano importanti per la categoria, cercherò di attenermi a tali canoni. L’argomento è importante: gli avvocati sono ormai circa 240 mila, costituiscono la maggioranza relativa dei nostri parlamentari e milioni di clienti sono interessati al comportamento dei loro professionisti. Inoltre, la corporazione si è distinta per battaglie molto tenaci relative a quelli che per alcuni sono privilegi o inefficienti restrizioni alla concorrenza, per altri la difesa di un ruolo costituzionalmente garantito. Insomma, una sorta di specchio delle dinamiche sociali italiane in tema di regolamentazione economica. Il nuovo codice sarà a breve pubblicato in Gazzetta Ufficiale e, in generale, illustra bene perché gli Ordini professionali hanno una loro funzione nell’assicurare la correttezza dei propri componenti. Le norme sui conflitti di interesse, l’accettazione degli incarichi, i rapporti tra colleghi, coi testimoni, i clienti o i minori, in parte sono contenute o potrebbero essere inserite in leggi ordinarie, ma formano un corpus tutto sommato utile. Quando invece si esaminano le disposizioni relative agli aspetti economici della professione la situazione cambia un po’. In positivo si può dire che non si cerca di reintrodurre surrettiziamente l’antico divieto del patto di quota lite, secondo cui l’avvocato può essere compensato con una percentuale del valore dell’affare o di quanto riesce a recuperare nel contenzioso. È una misura che facilita sia l’accesso alla giustizia di chi non ha mezzi sia la concorrenza dei giovani avvocati che possono offrire la formula “no win-no pay” (senza vittoria, niente parcella). Molto restrittive le norme sull’accaparramento di clientela: l’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o a terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali. E perché mai? È una pratica normale in ogni attività economica che anzi incoraggia la circolazione di clienti verso chi è più competente, invece che cedere alla tentazione di proporsi anche quando non si è troppo forti in materia. Se il tutto è fatto in modo trasparente e per iscritto sfuggono le differenze rispetto ad avere costosi dipartimenti interni di marketing, o come si dice ora, di business development. Passando all’informativa al pubblico, il livello di dettaglio è elevato. Ad esempio, l’avvocato non può nel presentarsi far riferimento a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale. E perché mai? Se uno é stato presidente dell’Inter, oltre a sapere come far soffrire i tifosi, magari ne capisce qualcosa in tema di norme relative a gestione di squadre di calcio, acquisti di cartellino di giocatori (a volte brocchi) e così via. Sembra che la conoscenza del settore economico dove opera il cliente sia ininfluente per il legale il quale, seduto alla scrivania, dovrebbe limitarsi a dichiarare: “narra mihi factum dabo tibi ius”. Secondo il codice, poi, non si può nemmeno render noto chi sono i propri clienti, persino col loro consenso, sebbene la prima cosa che un’impresa voglia sapere è se si sia maturata un’esperienza nel suo business e con chi, anche per evitare di affidarsi a qualcuno che assiste la concorrenza (Coca-Cola e Pepsi sono notoriamente incompatibili). Si tratta, come per altri casi, di proibizione solo italiana, assente negli altri ordinamenti, dove gli studi legali inseriscono le informazioni nei siti web accessibili...anche agli italiani. Si potrebbe continuare (curioso è il divieto per il professionista di offrire le proprie prestazioni al domicilio degli utenti. Letteralmente, se Apple chiama per fare una presentazione, il buon avvocato italiano dovrebbe dire “no, thank you”), ma può bastare. La consapevolezza che più concorrenza fa bene non solo ai clienti ma anche agli avvocati, specialmente quelli esposti al vento della globalizzazione, non sembra ancora essere maturata all’interno degli organi rappresentativi della categoria. È veramente un peccato.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.

«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».  

"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".

Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

FALLIMENTI TRUCCATI E TOGHE CORROTTE.

GIUSTIZIA FALLITA, ANZI FALLIMENTARE - A ROMA C’È UN POSTO DOVE TUTTO HA UN PREZZO. SI CHIAMA TRIBUNALE FALLIMENTARE.

Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon  su “Vicenza Piu”. Su L'Espresso in edicola si legge: "cause truccate, tangenti, favori. In un tourbillon di magistrati venduti, politici, top model che esportano milioni. Un pentito racconta". I fatti si riferiscono a Roma, ma potrebbero riferirsi con altri nomi dei protagonisti ma con ruoli simili ad altri tribunali. Anche a Vicenza? Rumors intorno al palazzo ci sono, su qualche fatto avremmo anche domande dirette da fare, ma ci vorrebbe un po' di coraggio in più ...Soprattutto da parte di quegli avvocati, commercialisti, imprenditori, fornitori che si ritengono vittime del presunto sistema ma che non osano denunciarlo visti i nomi altisonanti di chi lo gestirebbe, sia come registi che come "utilizzatori finali", studi (mega studi?) di consulenza e professionisti (molto noti?) con pochi scrupoli e molti agganci in primis. Ci vuole coraggio da parte delle presunte vittime nel non limitarsi a ipocriti silenzi, che saprebbero altrimenti di gravi corresponsabilità se i fatti da loro lamentati fossero veri o di subdolo insulto all'onestà di chi loro accusano solo nelle segrete stanze delle lagnanze se i loro j'accuse" fossero falsi. Non sarà certo il silenzio a sconfiggere quel sistema, se c'è, e i danni enormi, economici e sociali, che procurerebbe, ma servono fatti, testimonianze e documenti. Sperando che i rumors siano falsi ma sollecitando prove del contrario, se esistessero, per valutarle ed eventualmente pubblicarle, noi, intanto, pubblichiamo l'inchiesta de L'Espresso: potrebbe servire da stimolo a fare chiarezza e, quindi, a  qualcosa di più che non solo a informare su una Roma malsana che condanniamo ma che corriamo il rischio di scoprire anche qui, a Vicenza. Magari con colpevole ritardo.

Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. L'intrallazzo romano è sempre una miniera di cronache incredibili, ma il racconto del tribunale fallimentare capitolino fatto da uno dei suoi stessi magistrati supera ogni fantasia: è un circo, dove vanno in scena politici e mannequin, boss e cantanti. L'ex ministro Franco Frattini telefonava al giudice per "raccomandare" un suo amico architetto che doveva far fallire "dolcemente" una società che gestiva miniere di oro e diamanti in Africa. La cantante e presentatrice tv Stefania La Fauci apriva la strada a suoi conoscenti per acquistare aziende e alberghi. L'attrice e modella cinese Dong Mei sarebbe stata utilizzata dal marito, Federico Di Lauro, commercialista attivo nei fallimenti, per dirottare in Asia grosse somme di denaro che provenivano illegalmente dalle procedure giudiziarie. E poi magistrati corrotti che aggiustavano sentenze, curatori infedeli, avvocati che falsificavano carte e testimoni. Alcuni erano già stati arrestati quasi vent'anni fa nell'inchiesta Toghe Sporche su Cesare Previti e poi prosciolti, altri sono figli di magistrati citati in quell'istruttoria. Un bazar dove tutto era possibile, descritto nei lunghi verbali di Chiara Schettini, fino al 2009 giudice della stessa Fallimentare. Una dama ben introdotta nei salotti romani, che ha vissuto tra l'attico capitolino, l'appartamento di Madonna di Campiglio, quello di Parigi e l'altro di Miami, proprietà che sostiene di avere ereditato dalla madre. Poi nello scorso giugno è stata arrestata, con l'accusa di corruzione e peculato, e dopo mesi di cella ha deciso di confessare davanti al procuratore aggiunto Nello Rossi e al sostituto Stefano Fava. Ha chiamato in causa giudici, legali, commercialisti e pure il padre di suo figlio, l'avvocato Piercarlo Rossi. «Mi rendo conto di aver sbagliato e l'esperienza del carcere che ho vissuto, ingiustamente, mi ha fatto crescere molto, mi ha migliorata, ho preso coscienza di gravi mie leggerezze, perché mi sono fidata di Piercarlo Rossi di cui ero innamorata». Anche lui è finito agli arresti. E anche lui ha riconosciuto parzialmente le sue responsabilità, completando questo affresco di malaffare su cui ora indagano le procure di Roma e Perugia. Ora su molti punti Chiara e Piercarlo si accusano reciprocamente, ma l'intreccio delle loro rivelazioni offre una ricostruzione grottesca della sezione fallimentare: gli amici più spregiudicati vengono protetti o fatti arricchire, gli imprenditori senza coperture e i loro dipendenti finiscono invece in rovina. La Schettini non ha dubbi nell'indicare il responsabile di questo sistema: Tommaso Marvasi, da settembre 2012 presidente del tribunale delle imprese di Roma, arbitro di tutte le controversie in materia di proprietà industriale, diritti d'autore, diritto della concorrenza e societario e dei grandi contratti pubblici. Adesso Marvasi deve decidere se obbligare Google a versare al gruppo Fininvest un risarcimento di circa 500 milioni di euro per la violazione dei diritti sui video messi in Rete. Una singolare coincidenza generazionale. Marvasi, insieme al defunto padre Mario, anche lui magistrato romano, è citato negli atti del processo sul Lodo Mondadori come amico di famiglia di Cesare Previti. E oggi il figlio di Previti, Stefano, difende Mediaset in questa causa contro la multinazionale. I verbali della Schettini sono spietati: «L'ambiente alla Fallimentare mi è sempre stato molto ostile perché è durissimo, è atavico. Non ci sono soltanto spartizioni di denaro ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, e nessuno fa niente. Mi sono scontrata in modo violento con Tommaso Marvasi che era il dominus, era di fatto il capo della Fallimentare; l'ha sempre governata, c'è stato dieci anni ma è come se ci fosse stato venti. Un giorno piangendo per quello che mi faceva ho telefonato a Luigi Scotti (ex presidente del tribunale di Roma, ndr.) e mi ha detto: "Marvasi è il capo della cupola"». E prosegue: «Entravo in camera di consiglio e mi diceva "questo si fa fallire e questo non si fa fallire". Venivo messa in minoranza dai colleghi che si erano già accordati su cosa fare. Cercavo di puntare i piedi ma era inutile... C'erano curatori come Federico Di Lauro a cui sono stati liquidati in un procedimento 850 mila euro di compensi, perché era protetto da Marvasi che veniva in udienza a imporre le somme per i suoi amici. Mi opponevo ma ero sempre messa in minoranza». Il pm chiede chi erano gli altri due componenti del collegio: «Pannullo e Deodato o Pannullo e Severini, erano sempre loro. Poi arrivava Marvasi e diceva: "Si deve fare così", e la sua decisione veniva approvata a maggioranza». Ci sono luoghi che ritornano, come i bar di via Ferrari a pochi passi da piazza Mazzini: lì avvenne l'intercettazione del giudice Renato Squillante che nel 1996 fece nascere l'inchiesta Toghe Sporche. E lì continuano a girare le mazzette. «Si sapeva che Deodato per una nomina a commissario giudiziale andava con la valigetta e prendeva 150 mila euro da Staffa (commercialista con studio nella stessa via, ndr.). Il presidente Deodato per ogni nomina si faceva pagare e siccome lui ha dato tre quarti delle nomine allo studio Staffa, lo scambio avveniva nel bar di via Ferrari. Lo sapevano tutti. Lo dicevano chiaramente. La persona che veniva nominata consegnava la valigetta con i soldi al giudice».

Per amor di verità e per correttezza nei confronti di chi oggi è vittima ci preme approfondire alcuni aspetti della vicenda, senza, però, censurare tutto o parte dell’inchiesta di Lirio Abbate, già di per sé di dominio pubblico. A tal proposito con email del 22 gennaio 2014 i legali di Deodato hanno tenuto a precisare quanto segue: «All’att.ne del Dott. Antonio Giangrande. Il Dott. Giovanni Deodato mi ha incaricato di tutelare la sua onorabilità con riferimento alle dichiarazioni rese dalla Dott.ssa Schettini alla Procura della Repubblica di Roma e riportate dal numero 3 del settimanale L'Espresso, uscito  il 17.01.2014,  alle pagine 42-43, nell'articolo intitolato “Voi fallite, noi rubiamo" (sottotitolo "Cause truccate, tangenti, favori. In un tourbillon di magistrati venduti, politici, top model che esportano milioni. Un pentito racconta”) di Lirio Abbate. Al riguardo, rappresento che il Dott. Deodato, per l'intera durata della sua Presidenza della Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma (gennaio 2005 - dicembre 2009), non ha mai conferito alcun incarico né di Commissario Giudiziale, né di altro tipo al Prof. Antonio Staffa o a professionisti del suo studio. A conferma di quanto esposto, e quindi del carattere calunnioso delle dichiarazioni della Dott.ssa Schettini, il mio assistito ha già provveduto a richiedere apposita certificazione alla Cancelleria della Sezione Fallimentare. La invito perciò a soprassedere dall'inserire nella Sua rivista "l'Italia dell'impunità", i fatti asseriti dalla Dott.ssa Schettini riguardanti la persona del Dott. Deodato, in attesa  del rilascio della menzionata certificazione della Cancelleria della Sezione Fallimentare, che sarà mia cura inviarLe sollecitamente. Gradirei Suo riscontro in proposito. Distinti saluti. avv. Maria Cristina Pieretti.».

Antonio Staffa fu arrestato nel 1996 dal pool milanese assieme ad alcuni professionisti vicini a Cesare Previti con l'accusa di avere falsificato una perizia: l'inchiesta fu poi trasferita dalla Cassazione a Perugia e il commercialista prosciolto. Come spesso accade a Roma, ogni storia porta alla luce ragnatele di interessi e relazioni. «Un giorno mi telefona Franco Frattini dicendomi che un suo amico, Maurizio Bonifati, aveva bisogno di consigli perché aveva la società Mining che stava per fallire. Lo feci venire a casa mia e gli dissi di fare un concordato. Dopo alcuni giorni ero in montagna a sciare e mi chiama il collega Fausto Severini: mi comunica che ero stata sorteggiata come giudice delegato del fallimento della Mining e mi era stato assegnato come curatore l'avvocato Andrea Trecapelli che fa affari con Piercarlo. Sono rimasta impietrita, non so come hanno fatto a fare questo sorteggio... Hanno organizzato il fallimento della Mining a tavolino con creditori fittizi e prestazioni gonfiate. E secondo me mi hanno fatto dare il fallimento perché ero la più cogliona». Diversa la ricostruzione di Piercarlo Rossi davanti ai pm di Perugia: «Nei primi mesi del 2007, la Schettini mi presentò a casa sua l'architetto Maurizio Bonifati, fratello del noto costruttore romano, Enzo Bonifati, che gli era stato presentato da una sua cara amica Stefania La Fauci. Maurizio Bonifati si trovava in una situazione di forte indebitamento dovuta alla crisi intervenuta nel suo gruppo che fa capo alla Mining Italiana, caduta in "pre-fallimentare". L'accordo che raggiunse Bonifati con la Schettini fu quello di impegnarsi a corrispondere una somma di 800 mila euro, attraverso l'insinuazione al passivo di poste creditorie inesistenti, create ad hoc, da iscrivere con un grado privilegiato di primo ordine (ex lavoratori dipendenti), in modo da precedere tutti gli altri creditori. Il mio ruolo sarebbe stato quello di aiutare Schettini e Bonifati proprio nel creare queste pratiche. La società, nel mese di maggio del 2007 fu dichiarata fallita con la nomina di Chiara Schettini a giudice delegato». In pratica, la coppia inventa una serie di ex dipendenti in attesa di stipendio in modo da permettere all'imprenditore di portare via 800 mila euro. E questo in un fallimento - come spiega Rossi - che «riguardava una società che aveva goduto per molti anni di finanziamenti pubblici (ministero dello Sviluppo economico) di quasi 50 milioni, per la ricerca e l'estrazione di oro in diverse miniere all'estero (Africa, Canada, Cuba)». Ogni favore ha un prezzo, in un do ut des che sembra unire tutti i potentati capitolini. Pure Stefania La Fauci, esordio da cantante a Castrocaro, per tre volte a Sanremo senza sfondare, poi conduttrice della "Banda dello Zecchino" su RaiUno e a lungo inviata di "UnoMattina", sarebbe stata premiata per la sua mediazione. Secondo Schettini la cantante è amica di Frattini. Dichiara Rossi: «La Fauci ottenne come sua ricompensa, almeno per quanto mi è noto, l'assunzione quale dipendente di "Risorse per Roma" (società del Comune di Roma, dove Maurizio Bonifati era stato nominato dal sindaco Alemanno amministratore delegato, ndr.): questione poi divenuta di pubblico dominio con lo scandalo delle "50 nuove assunzioni" eseguite dai vertici nominati da Alemanno, tra cui Bonifati». E la Schettini? Nel 2009 è stata accusata di falso e sospesa dal Csm. Ma non avrebbe rinunciato al suo tornaconto, di grande pregio. «Non essendo più giudice delegato in quanto sospesa, chiese a Bonifati un favore. Bonifati doveva dare un benestare, nella sua qualità di amministratore delegato di "Risorse per Roma", a cedere a un prezzo agevolato un appartamento di proprietà del Comune». Una casa da sogno in piazza Margana, uno degli angoli più suggestivi di Roma a pochi passi dal Campidoglio: 160 metri quadrati all'ultimo piano, con una terrazza a 360 gradi che domina tutto il centro storico «di un valore molto superiore a quello pagato». Riesce infatti a comprarla per 600 mila euro: un affare unico, che gli ha garantito una vista eccezionale per le sue cene mondane. Pure sulla Mining sono state avviate indagini: Maurizio Bonifati è finito sotto processo per truffa aggravata e bancarotta fraudolenta. Ma dallo scorso aprile l'architetto amico di Frattini e Alemanno si è trasferito in Calabria: l'hanno nominato assessore comunale ai Lavori pubblici a Cirò Marina, il cui sindaco è stato eletto con il sostegno del centrosinistra. La vera miniera d'oro però sembrano essere gli uffici del tribunale. La Schettini ricostruisce i flussi di denaro esportati dal suo ex compagno: «Ha un'enorme ricchezza all'estero non soltanto in Svizzera, perché usava Lussemburgo, Cipro, Montecarlo e pure la Cina dove Piercarlo Rossi mi disse che anche Tommaso Marvasi aveva mandato un sacco di soldi». Il canale asiatico sarebbe stato aperto da Di Lauro grazie alla moglie, l'ex modella cinese Dong Mei, condannata lo scorso anno per riciclaggio. Nei verbali non poteva mancare l'ombra della criminalità organizzata. L'ex giudice dichiara che Piercarlo Rossi e i suoi complici «avevano un'associazione con Federico Di Lauro che lavorava anche con la Banda della Magliana», mentre Rossi era «molto agganciato a bande di romeni di Ostia». «Volevo denunciare Di Lauro ma Tommaso Marvasi mi ha bloccata dicendo: "Vuoi che tuo figlio venga gambizzato?", e poi ha aggiunto: "Il padre ha lavorato per Nicoletti. Ma stai scherzando?"». La donna è terrorizzata: «Mi hanno messa alle strette con questa storia della Banda della Magliana, piangevo ogni giorno, avevo paura per mio figlio. Quando sapranno di questo interrogatorio mi metteranno una bomba». Paure che rievocano un terrore antico: nel 1979 le Brigate Rosse uccisero davanti ai suoi occhi il padre, consigliere provinciale Dc molto discusso per l'attività di avvocato fallimentare ed esecutore di sfratti. La commistione tra piani alti e bassifondi, tra professionisti e banditi è surreale. La Schettini accusa Rossi di avere partecipato persino a una rapina, messa a segno dal muratore Augusto Alfieri, un pregiudicato di Ostia che sarebbe stato inserito come falso consulente in molte liquidazioni, incassando migliaia di euro. «Piercarlo con Augusto era amico e si vantava ogni tanto di fare qualche rapina insieme. Mi disse:"Sì, una volta ho fatto il palo mentre lui rapinava"». Millanterie da Romanzo Criminale? Rossi non sembrava temere le procure. Secondo l'ex compagna, agli inizi dello scandalo fallimenti «quando gli ho detto di andare a confessare tutto al pm, lui mi ha risposto ridendo: "Ma figurati, mentre i magistrati stanno fino a tarda notte a cercare indizi su di me, io me la spasso a champagne e caviale a Montecarlo"». Ora però il vento potrebbe cambiare. Da Roma a Perugia l'indagine sulle toghe sporche può portare molto in alto.

Quale mafia?

Filippo Facci: così la Boccassini smaschera 20 anni di balle dell'antimafia. La Boccassini e l'antimafia: "Già nel '94 scrissi che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm non mi hanno voluto ascoltare..." E' vero, Ilda Boccassini l’aveva detto che il pentito Vincenzo Scarantino era un falso pentito che mentiva e depistava: lo scrisse in una relazione del 12 ottobre 1994, come Libero ha ricordato più volte. Ma altri segnali certo non erano mancati, anche se i campioni dell’antimafia - ora santificatori del pm Nino Di Matteo - hanno fatto finta di niente per quasi vent’anni. L’altro giorno, in ogni caso, il procuratore Boccassini ha testimoniato al millesimo processo per la strage di via D’Amelio e ha puntualizzato per bene: «Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, forse non saremmo a questo punto. Perplessità sulla caratura del personaggio ne avemmo da subito... stava raccontando un sacco di fregnacce, ed era pericoloso». (...) Su Libero di giovedì 23 gennaio, Filippo Facci ci spiega che anche Ilda Boccassini smaschera vent'anni di balle dell'antimafia. Ilda la rossa, parlando del processo sulla strage di via D'Amelio, ribadisce che già nel 1994 aveva scritto che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm, a partire da Di Matteo, fecero finta di nulla. E condannarono degli innocenti.

La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.

Va bene così, continua Filippo Facci. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso. 

Filippo Facci: i magistrati lavorano poco. In ferie, imboscati o fuori stanza: trovare i magistrati è un’impresa. E poi protestano per la mancanza di risorse. La Guardasigilli non ha voglia di litigare coi magistrati - non è proprio il momento - e questa è la spiegazione più seria che meriti la sua uscita di ieri, quella secondo la quale ci sono 9 milioni di fascicoli pendenti e però «l’Unione europea colloca la magistratura italiana ai primi posti in termini di produttività». Un’asserzione che non sta in piedi comunque la si metta, e che lascia intatta la nostra curiosità professionale di apprendere quali dati abbia consultato il Ministro: anche girovagando per i rapporti del Consiglio d’Europa (segnatamente del Cepej, Commission européenne pour l’efficacité de la justice) non abbiamo trovato alcun dato che giustifichi uscite del genere, anzi, risulta che l’Italia sia agli ultimi posti in tutto. Ma probabilmente ci sbagliamo noi.  Ecco perché lo confessiamo: siamo fermi al luogo comune, e questo pur frequentando i palazzi di giustizia spesso e malvolentieri. Il luogo comune resta questo: i magistrati lavorano mediamente poco, non di rado il dottore «oggi non c’è» mentre caio «oggi lavora a casa», con sempronio che «oggi non è venuto». Siamo fermi ai pochi che si sobbarcano il lavoro di molti, e ai molti che spesso sono imboscati o fuori stanza: che è ciò che capita ai funzionari e ai dipendenti statali come lo sono i magistrati, con la sola differenza che i togati non timbrano il cartellino. Ecco perché, a parlar con loro, sembra quasi di parlare col corpo docente della scuola italiana: le lamentele sono identiche e tra queste c’è «la mancanza di risorse», un classico. Se di pomeriggio i tribunali sono deserti (come nel periodo estivo: una cosa che non esiste in nessun altro paese serio) la colpa invece è della «cattiva organizzazione». Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, però disse un’altra cosa: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza». Ma guai a dirlo. Vanno in prescrizione 450 processi al giorno, ma siamo «ai primi posti in termini di produttività», l’ha detto il Ministro. Lentezza equivale a ingiustizia, ma i 51 giorni di ferie l’anno dei magistrati - record italiano - con questo non c’entrano niente. E chissà come mai, quando l’ex ministro Renato Brunetta propose i tornelli a palazzo di Giustizia, un sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera (ottobre 2008) vide favorevole l’80 per cento dei votanti: forse tutti malinformati, vittime di percussive campagne berlusconiane. Anche Giuliano Pisapia, sindaco di Milano ma soprattutto avvocato, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Pisapia suggerì addirittura che si facesse come quel procuratore capo che, ogni mattina, bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno: una sorta di appello. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono anche gli stakanovisti, quelli per fortuna ci sono sempre. A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni, feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione fu velocizzato. Il primo grado aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando - sacrilegio - anche sino al tardo pomeriggio, talvolta nei weekend. Ma lasciamo perdere questo, non facciamoci fuorviare. Restiamo ai sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale. E perché? Perché mancano le risorse, certo, cattiva organizzazione, come no, e poi manca la carta per le fotocopie, del resto Tizio è in malattia, la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio, anche perché - l’ha detto il ministro - la nostra magistratura è la più efficiente d’Europa. Forse è per questo che la paghiamo così bene: gli stipendi dei nostri togati sono tra i più alti d’Europa: se si mettono a confronto prima e dopo l’ingresso nella moneta unica, ci si accorge che sono cresciuti circa del 30 per cento in 5 anni, e circa del 60 per cento in 10 anni. È giusto, tanta efficienza va premiata. I ritardi nelle condanne comportano una rifusione danni di 387 milioni di euro a cura del contribuente (rileggere la cifra, grazie) ma abbiamo i magistrati più efficienti d’Europa, l’ha detto il ministro e quindi sarà vero.

TOGHE ZOZZE, STRADE SPORCHE E TERRA DEI FUOCHI.

Toghe zozze e strade sporche. Trentatre inchieste. Ventidue pentiti. Centinaia di vittime e 2 mila siti inquinati. I protagonisti, dai pm a don Patriciello. Viaggio nell'avvelenamento del Casertano. Che preoccupa Napolitano e i vescovi, scrive Lettera 43 su “L’Infiltrato”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 3 gennaio 2014 ha scritto una lettera a don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che guida la lotta contro i rifiuti tossici delle popolazioni che abitano tra Napoli e Caserta (la cosiddetta Terra dei fuochi). Il capo dello Stato ha promesso attenzione e impegno per la bonifica delle aree avvelenate. Anche il cardinale di Napoli, Cresenzio Sepe, ha affrontato in una lettera - controfirmata dai vescovi delle diocesi interessate - la tragedia dei territori devastati dai roghi killer e dagli sversamenti fuorilegge. Sepe ha parlato di «dramma umanitario». Di fronte a tali eventi, ha aggiunto, «non è possibile restare immobili». Le autorevoli prese di posizione si aggiungono al coro di adesioni che da più parti si leva a favore della battaglia che le popolazioni che vivono tra Napoli e Caserta stanno conducendo contro i rifiuti tossici sepolti a pagamento dalla camorra (su richiesta di una parte dell’imprenditoria del Nord). Ma, al di là delle adesioni (e del rischio-unanimismo che qua e là affiora) che cosa è davvero la Terra dei fuochi? Come è iniziato, 25 anni fa, l’avvelenamento dei territori? Chi sono i protagonisti? Quante sono state le vittime? E soprattutto: che cosa bisogna fare, per uscirne davvero?

1. Nel 1991 la prima indagine. Era la notte del 4 febbraio 1991 quando un camionista italo-argentino, Mario Tamburrino, si presentò ai medici dell’ospedale di Pozzuoli. «Aiutatemi», sussurrò trafelato, «qualcosa mi è entrato negli occhi: non vedo quasi più». Negli occhi, erano penetrate alcune gocce della sostanza corrosiva fuoriuscita dai fusti (571, pieni di rifiuti tossici, caricati sul camion a Cuneo e diretti a sant’Anastasia, a nord di Napoli) che Tamburrino avrebbe dovuto abbandonare sul terreno affinché fossero sepolti in loco dai guaglioni locali. All'indagine giudiziaria che ne scaturì, i magistrati e l’opinione pubblica vennero per la prima volta a conoscenza del vocabolo Ecomafia e del colossale business che già dalla metà degli Anni 80 era in atto tra la camorra, l’imprenditoria del Nord e la classe politica napoletana e campana. Del camionista Tamburrino si è persa ogni traccia.

2. Casertano, terra di roghi. Il primo a definire Terra dei fuochi l’area interessata al fenomeno dei rifiuti tossici sepolti illegalmente fu Giuseppe Ruggiero, dirigente campano di Legambiente, che nel 2003 usò tale etichetta in riferimento ai roghi di pneumatici e di materiali tossici che ogni pomeriggio (tra le ore 18 e le 23) ignoti appiccavano (e ancora appiccano: tra il 2012 e l’agosto 2013 i vigili del fuoco ne hanno contati 6.034) lungo l’Asse mediano, che collega Napoli ai paesi del Casertano. In realtà, la Terra dei fuochi per antonomasia, in Campania, è sempre stata la zona flegrea, ricca di vulcani e di crateri ribollenti di magma e lapilli.

3. La mappa dei veleni: 2 mila siti inquinati. I territori colpiti dai veleni di camorra sono quelli tra le province di Napoli e Caserta. L’area è compresa tra i comuni di Qualiano, Giugliano in Campania, Orta di Atella, Caivano, Acerra, Nola, Marcianise, Succivo, Frattaminore, Frattamaggiore, Aversa, Mondragone, Castevolturno, Villa Literno, Pozzuoli, Bacoli, Marano, Cicciano, Palma Campania, Melito di Napoli. A Napoli, il quartiere Pianura. A firmare il Patto per la Terra dei fuochi, l’11 luglio 2013, sono stati ben 57 comuni tra Napoli e Caserta. Ma la verità è che nessuno sa quanti e dove siano i rifiuti tossici sepolti nel corso degli anni nell’area. L’Arpac, l’agenzia campana per l’ambiente, ha contato più di 2 mila siti inquinati.

4. Gli industriali: «Inutili allarmismi». L'uscita di Lorenzin. Risalgono al 2013 le dichiarazioni del presidente degli industriali di Napoli, Paolo Graziano, che ha definito «inutili allarmismi» le denunce targate Terra dei Fuochi. A identica data risalgono le esternazioni del ministro per la Sanità, Beatrice Lorenzin, che ha sostenuto che la causa dei tumori andrebbe cercata «negli stili di vita sbagliati, nel fumo delle sigarette, nella poca frutta e verdura consumata a tavola» dalle famiglie meridionali. Alla sortita del ministro, in tanti hanno fatto eco definendo per mesi «allarmisti» e «fanatici» i comitati degli abitanti delle aree colpite dall’inquinamento. O, addirittura, ipotizzando che dietro le loro proteste si nascondessero «oscure forze criminali o affaristiche».

5. Il business dei rifiuti degli Anni 80. Per capire come e perché la camorra si buttò fin dagli Anni 80 a capofitto sul traffico dei rifiuti, bisogna sapere che smaltire in maniera lecita rifiuti urbani costava, in quegli anni, 300 lire al chilo. Se si trattava di fanghi di conceria (o peggio), il prezzo saliva fino a 1.200 lire. Le ditte dei clan si facevano pagare tre le 120 e le 130 lire al chilo. Anche se si trattava di fanghi (o peggio).

6. Le 33 inchieste e i pentiti. Le dichiarazioni di Schiavone. Dal 2000 a oggi, le inchieste giudiziarie sui rifiuti tossici sono state 33 a Napoli ad opera di 4 procure (Napoli, Nola, Torre Annunziata, santa Maria Capua Vetere) e 73 in Campania. Adelphi, Cassiopea, Madre terra, Carosello, Nerone, Cernobyl: nomi suggestivi, per etichettare le orrende trame del malaffare. Ben 311 sono le ordinanze di custodia cautelare; 448 le persone denunciate; 116 le aziende coinvolte. Il primo boss di Ecomafia pentito risale al 1988. Si chiamava Nunzio Perrella, all’attuale procuratore nazionale antimafia Franco Roberti raccontò: «Altro che droga, per noi il vero affare è l’immondizia: dotto’, ‘a munnezza è oro». Specie se fatta di rifiuti speciali, il cui smaltimento costa 600 euro a tonnellata. Finora sono stati 22 i pentiti di Ecomafia. Da Dario De Simone («Se in una discarica ogni giorno arrivano 100 camion carichi di rifiuti, l’ultimo è pieno di soldi», ha spiegato) a Domenico Bidognetti (che raccontò il ruolo dei colletti bianchi Gaetano Vassallo, a sua volta pentito, e Cipriano Chianese, avvocato e manager), da Oreste Spagnuolo (ex killer del gruppo di fuoco del Casalese Giuseppe Setola) a Tammaro Diana, Pasquale Di Fiore, fino a Carmine Schiavone, oggi il pentito più famoso per le rivelazioni del 2013 in tivù che peraltro aveva già reso nel lontano 1996 (ministro dell’interno era proprio Giorgio Napolitano).

7. Il giallo dei 30 siti di stoccaggio. È l’altra faccia del disastro, quello determinato addirittura dalle istituzioni che ora non sanno più come smaltirle. Si tratta di 30 siti di stoccaggio, che avrebbero dovuto temporaneamente ospitare balle di rifiuti trattati e resi innocui in attesa di essere distrutti. Il risultato? Sei milioni di tonnellate, cioè 4 milioni e 274.616 pacchi di maleodorante immondizia mai trattata giacciono ammassati nelle campagne del Giuglianese, una volta fertili e ora ridotte a paesaggio lunare aggredito da stormi di gabbiani impazziti. È stato calcolato che per bruciare le balle (ma dove? E come?) ci vorrebbero almeno 50 anni.

8. La strage: il 35% dei morti di cancro viene dalla Terra dei fuochi. Su 500 pazienti operati per neoplasia al polmone nel 2013 all’istituto per i tumori Pascale di Napoli, il 35% proviene dalla Terra dei fuochi. Don Patriciello, il parroco di Caivano, sconvolto dai troppi funerali, ha affisso intorno all’altare maggiore i pomodori avvelenati e le fotografie delle decine di bambini deceduti per leucemia. L’incremento dei casi di cancro in Campania negli ultimi 10 anni è del 13%, eppure resta inattuato il Registro regionale dei tumori. Inesistente resta anche un credibile piano di smaltimento rifiuti. Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Resarch in Usa e figlio di Giovan Giacomo (che nel 1977 fu il primo scienziato a scrivere che «la Campania è travolta da un’epidemia silente e causata dall’uomo»), ha detto: «Il 60% dei residenti in Terra dei fuochi svilupperà tumori o altre gravi patologie. Urgono bonifiche e prevenzione sanitaria».

9. La battaglia di don Patriciello e dei pm. Don Maurizio Patriciello parroco di san Paolo Apostolo a Caivano, fino al 18 ottobre 2012 era un anonimo sacerdote alle prese con una terra difficile che gli chiedeva aiuto. Poi, partecipò a una riunione in prefettura sul tema rifiuti e definì il prefetto di Caserta «signora» invece che «eccellenza», scatenando le ire del prefetto di Napoli che lo rimproverò davanti a tutti. La boutade anti-parroco suscitò scandalo in tutta Italia. Ma si trattò di una gaffe provvidenziale, perché da quel giorno don Patriciello diventò famoso e del dramma Terra dei fuochi si iniziò miracolosamente a discutere. I protagonisti veri, però, sono forse altri: si chiamavano Dalia, 12 anni, Luca, 19 anni, Luciano, 16 anni, Tina, 28, Marta, 4. Martiri per forza, bare bianche in processione. Ha detto don Patriciello: «A novembre ho celebrato i funerali di Agostino, 28 anni. A gennaio, il battesimo di suo figlio nato un mese dopo». Tra i protagonisti, vanno citati almeno due magistrati: Maria Cristina Ribera, della direzione antimafia di Napoli, la prima a coniare il termine di «imprenditore camorrista», riferito a coloro che fino ad allora erano ritenuti camorristi e imprenditori. E Donato Ceglie, della procura di santa Maria Capua Vetere, che ha dedicato la propria vita a combattere Ecomafia in tribunale.

10. Bonifiche, unica soluzione rimasta sulla carta. L’unica, vera soluzione per normalizzare nel tempo la vita di chi abita in Terra dei fuochi è la bonifica del territorio. Se ne parla da decenni, ma finora sono stati sperperati milioni di euro con risultati pari a zero. L’impresa, sprechi e imbrogli a parte, appare utopistica. Già nel 2001, cioè prima della grande crisi, la Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti ammise sconsolata di essere a conoscenza degli sversamenti illegali in Campania ma di non poter intervenire perché «la montagna di soldi necessaria per le costosissime bonifiche non ci sono e non ci saranno mai». In alcune aree, del resto, è già troppo tardi. Per esempio, secondo il commissariato di governo, nei 20 chilometri quadrati (pari a 2.600 campi di calcio) dell’area intorno alla ex discarica Resit nel Giuglianese: «Quella terra è morta, risanarla sarebbe un’impresa proibitiva». Inoltre poco o nulla si sta facendo per individuare e punire il traffico illecito dei camion che ogni giorno scaricano i veleni fra Napoli e Caserta. Anzi, il cosiddetto progetto Stir, che avrebbe dovuto consentire il monitoraggio satellitare dei camion, è svanito nel nulla dopo il mezzo scandalo dei fondi volatilizzati. Dalle indagini dei magistrati, intanto, traspare che sul business bonifiche, sui monitoraggi e il resto i più attenti, aggiornati (e dotati dei capitali necessari) appaiono ancora una volta i boss di camorra.

Ma proprio a proposito di Donato Ceglie e l'enunciazione che ha dedicato la propria vita a combattere Ecomafia in tribunale c'è una notizia censurata ai più. Il Mattino è uscito con una notizia a tutta pagina; titolo: “Rifiuti, sotto inchiesta il magistrato Ceglie”, catenaccio: “Avviso di garanzia per abuso d’ufficio nel filone d’indagine sul consorzio Ce4. Gli atti alla procura di Roma”, sommario: “Il sostituto casertano si sarebbe interessato per un porto d’armi / A breve l’interrogatorio”. , scrive Iustitia. Si tratta di una notizia policentrica: nasce a Caserta, viene lavorata a Napoli ed è firmata Roma. In calce all’articolo c’è infatti la sigla ‘re. ro.’, che sta per redazione romana. La notizia è stata pubblicata con grandissimo rilievo sia nelle pagine di Napoli-Campania, settore guidato da Claudio Scamardella, che nell’edizione di Caserta, affidata a Nando Santonastaso. Ma veniamo alla vicenda che vede protagonista il sostituto procuratore della procura di Santa Maria Capua Vetere Donato Ceglie, napoletano, quarantasei anni, da diciotto in magistratura, noto per le sue inchieste sull’ambiente e sulle ecomafie. Il quotidiano di Caltagirone scrive che “nei confronti del magistrato viene ipotizzato il reato di concorso in abuso d’atti d’ufficio. L’accusa si riferirebbe a un presunto interessamento che avrebbe esercitato il pm sammaritano nei confronti di un funzionario di prefettura per il rilascio di un porto d’armi a favore di un imprenditore del settore dei rifiuti”. Una notizia importante, ma piccola, impaginata con un titolo fortissimo e inserita all’interno di un articolo dalla chiusa durissima. “Un’inchiesta – quella sui rifiuti in provincia di Caserta - che si è andata sviluppando – scrive l’estensore anonimo del Mattino – negli ultimi mesi. Al di là delle accuse ai singoli indagati, gli inquirenti hanno disegnato uno scenario complessivo inquietante: un giro di mazzette, regali e favori collegato all’individuazione della discarica – e della ditta a cui demandare lo smaltimento – nella zona compresa tra Falciano del Massico, Mondragone, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno e Sessa Aurunca, nella parte alta della provincia di Caserta.  Un giro che vede coinvolti funzionari dello Stato, imprenditori e, in ultimo, anche un magistrato”. L’articolo non è piaciuto al pm Ceglie e il 10 giugno il suo legale, l’avvocato Giuseppe Fusco del foro di Napoli, ha presentato alla procura di Roma una querela nei confronti dell’autore dell’articolo e del direttore del Mattino Mario Orfeo. Nella querela il pm di Santa Maria precisa che l’indagine a suo carico riguarda un fatto che non ha nulla a che vedere con l’inchiesta sui rifiuti e sulle discariche condotta dai magistrati dell’antimafia di Napoli Raffaele Cantone e Alessandro Milita, così come non ha nulla a che vedere con presunte tangenti e attività di corruzione di pubblici funzionari in quanto scaturisce dai suoi “presunti rapporti con il vice prefetto Ernesto Raio”, cui si sarebbe rivolto per sollecitare il rinnovo di un porto d’armi a favore di un imprenditore. E aggiunge che questo è l’unico fatto per il quale è indagato dalla procura di Roma. Inoltre Ceglie ricorda la sua intensa attività di pubblico ministero: ”Sono stato e sono titolare di inchieste proprio nel settore dei rifiuti e delle discariche; sono stato e sono titolare di inchieste anche in materia di cave con sequestri recenti di cave e cementifici (decreti firmati in tandem con il procuratore aggiunto della procura di Santa Maria Paolo Albano, ndr) anche di proprietà della Cementir Cementerie del Tirreno spa; sono conosciuto, non solo nell’ambito locale, ma a livello nazionale, come uno dei magistrati di maggior impegno nel perseguire (con iniziative di grosso spessore) fatti illeciti riguardanti tutta la problematica della tutela del territorio”. Probabilmente non è casuale nella querela il riferimento al sequestro delle cave della Cementir, una spa, che come l’Edime-Il Mattino, fa parte della galassia del gruppo Caltagirone. E proprio sul collegamento tra le due società ha battuto il direttore della Gazzetta di Caserta Pasquale Clemente nel fondo che il 22 maggio ha dedicato alla vicenda Ceglie, fondo esplicito e duro fin dal titolo: “Il magistrato ha fatto chiudere la Cementir illegale / Mattino, vergogna per un porto d’armi”.

Ma di Ceglie si è occupato anche un altro giornale, proprio vicino ai Pubblici Ministeri.

Davanti alla commissione parlamentare ecomafie tre magistrati svelano i rapporti oscuri di Claudio De Biasio, vicino alla famiglia Orsi e numero due della struttura per l'emergenza monnezza, scrivono Tommaso Sodano e Nello Trocchia su  Il Fatto Quotidiano. Il 24 aprile 2007 presso la commissione parlamentare ecomafie presieduta da Roberto Barbieri, sfilano tre, tra i migliori magistrati anticamorra, Franco Roberti ( allora coordinatore della Dda), Maria Cristina Ribera e Raffaele Cantone. Fanno luce sulle responsabilità della politica nell’eterna emergenza e chiariscono il ruolo, anche di un magistrato, nella nomina di Claudio De Biasio al commissariato di governo per l’emergenza rifiuti. Un’audizione che ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere e che contiene molte risposte a punti oscuri dell’eterna emergenza rifiuti in Campania. L’uomo buono per tutte le stagioni. Claudio De Biasio è stato arrestato pochi giorni fa per lo scandalo depuratori. Nell’ordinanza si legge: ” Negli anni ha dimostrato una personalità criminale allarmante (…)Sconcerta che un personaggio così colpito da iniziative giudiziarie riesca ancora a trovare credito nella pubblica amministrazione con la copertura di incarichi fiduciari, e non certo per concorso pubblico”. De Biasio, infatti, continuava a lavorare al Consorzio Unico ed era commissario liquidatore al commissariato acque della regione Campania, nonostante le ripetute indagini che lo hanno coinvolto. Nel 2005 Claudio De Biasio entra al commissariato di governo per l’emergenza rifiuti, nel 2007 nonostante l’indagine a suo carico, diventa numero due della struttura, nominato da Guido Bertolaso. De Biasio, forte della sua esperienza nel consorzio Ce4, quello che incrocia gli affari della camorra con il malaffare politico. Pochi giorni dopo la nomina al vertice del commissariato viene arrestato proprio per la gestione del consorzio Ce4 (poi assolto e per un reato prescritto) insieme con i fratelli Orsi (Michele verrà ucciso dalla camorra, Sergio condannato per collusioni)”. A questo punto, i parlamentari convocano i magistrati per capire i retroscena dietro quella nomina. Raffaele Cantone, allora pm presso la distrettuale antimafia napoletana, racconta: “ Le indagini si fermano al 2004, quindi, alla struttura commissariale che passa dalla gestione Facchi alla gestione Catenacci (indagato nel nuovo scandalo depuratori, ndr). E’ sicuramente provata tutta una serie di rapporti fra gli imprenditori Orsi e la gestione Facchi, ma è purtroppo provata anche una serie di rapporti fra gli Orsi e la gestione Catenacci”. Gli Orsi hanno l’obiettivo di entrare nella struttura commissariale con un fidato sodale, e indicano il nome di De Biasio, tutto deciso in una cena, a riprova una telefonata tra Orsi ed il viceprefetto Ernesto Raio ( allora capo di gabinetto di Catenacci), nella quale l’imprenditore indica la necessità di inserire “uno dei nostri” al commissariato. I controllati che si scelgono il controllore. Il magistrato Donato Ceglie, pm a Santa Maria Capua Vetere, ha contatti con gli Orsi, si spende presso Raio (prima alla prefettura poi al commissariato) per il rilascio di un porto d’armi a Michele Orsi, per questa vicenda la toga sammaritana sarà indagato e archiviato su richiesta del pm di Roma Giuseppe Amato. Ceglie venne già indicato dall’allora ministro Pecoraro Scanio come sponsor per la nomina di De Biasio al commissariato di governo. Su richiesta dei parlamentari, a precisa domanda, i magistrati auditi fanno il nome di Ceglie chiarendo l’esito dell’indagine: archiviazione. Nel provvedimento di archiviazione, citato in audizione, si legge: “ Di rilievo ancora agli esiti delle s.i.t. rese dal prefetto Catenacci, il quale, in termini compatibili con quanto già desumibile dall’attività intercettativa, fa riferimento ad un’inusitata attività di consulenza svolta dal Ceglie nei confronti dello stesso prefetto e del commissariato, in ragione della sua precipua competenza professionale, nonché a un parimenti inusitato interessamento del Ceglie per risolvere un ostacolo formale che si pensava sussistesse per l’assunzione presso il commissariato di un professionista, l’architetto De Biasio”. Nel verbale dell’audizione si leggono le parole di stima nei confronti di Ceglie di molti parlamentari per la sua opera contro i traffici illeciti di rifiuti. L’eterna emergenza e il Nord protagonista. Gli Orsi mani e piedi nell’emergenza, rapporti con una toga di primo piano, capaci di indicare un proprio uomo presso il commissariato, quel De Biasio che solo l’arresto nel 2007 eviterà alla commissione ecomafie di sceglierlo come consulente. Ma gli Orsi non si fermano. E nel 2005, dopo l’uscita dal consorzio Ce4, sono pronti con un’altra impresa la Gmc; un’attività imprenditoriale frenata dagli arresti. Sullo sfondo il ruolo di Impregeco, il superconsorzio raggiunto da interdittiva antimafia, che teneva insieme i consorzi casertani e quelli napoletani, la cui vicenda entra a pieno titolo nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di Nicola Cosentino (il processo con rito immediato inizierà a marzo). Impregeco vedeva la presenza degli uomini di Cosentino, dominus politico dell’area casertana, e dei fedelissimi di Bassolino, egemone e controllore dei consorzi napoletani. Una vicenda quella della nomina e del consociativismo dietro la finta emergenza che resta coperta dal silenzio, di cui al momento hanno parlato solo Terra e il Mattino. Torniamo all’audizione, da cui emerge un sistema simile a quello del dopo terremoto del 1980, dove la politica e l’imprenditoria camorrista vanno a braccetto e lucrano dietro il paravento dei rifiuti in strada. Ecomafie diffuse anche al nord, come conferma la pm Maria Cristina Ribera in un passaggio dell’audizione: “Nella mia esperienza, ho potuto constatare che la gestione illegale dei rifiuti, in maniera organizzata e sistematica, ha coinvolto il consorzio Milano Pulita Ambiente, la società Nuova Esa di Marcon veneto, il consorzio Tev di Massarosa Toscana, l’ecoindustria che gestiva rifiuti pericolosissimi in un territorio con vincoli paesaggistici e non aveva neanche il piano di sicurezza in Toscana, Agroter di Pesaro (…) il fenomeno è talmente diffuso che credo sia esteso a livello nazionale”.

Ma non finisce qui. Ceglie è ancora chiacchierato. 

Il magistrato nei guai: "Aveva rapporti con la moglie di un carcerato", scrive “Libero Quotidiano”. "Rapporti frettolosi, nascosti e spesso consumati a volte nel suo ufficio della procura di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta, a volte nelle stanze della procura generale di Napoli". Stando a quanto riportato dal quotidiano La Repubblica venerdì 24 gennaio, il magistrato Donato Ceglie, impegnato da anni nella lotta contro le ecomafie in Campania, è accusato di concussione e violenza sessuale. Avrebbe infatti preteso e ottenuto rapporti sessuali dalla moglie di un uomo, Gaetano Ferrettino, che lui stesso aveva fatto arrestare. Sulla carriera del magistrato, 56 anni, pende infatti dal dicembre scorso, una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm di Roma Barbara Sergenti che sosteiene che "Ceglie induceva Maria Rosaria Granata, 46 anni, moglie di Gaetano Ferrentino, a instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali”. Tutto inizia  nel 2007. "In quel periodo Ceglie - come riporta La Repubblica - si occupa dell’inchiesta Chernobyl, scopre tonnellate di rifiuti interrati tra Caserta, Napoli e Vallo della Lucania e sequestra un impianto di compostaggio di cui Ferrentino è amministratore unico, spedendo quest’ultimo agli arresti domiciliari". Nel 2009, secondo la Procura di Roma, sarebbero iniziati i rapporti con la moglie di Ferrentino. Maria Rosaria Granata accetta nella speranza di indurre il pm  ad abbandonare il procedimento contro il marito. Ma la speranza della donna non si realizza. "Quello che il pm fa, invece - continua Repubblica - è ordinare il dissequestro dell’impianto di compostaggio, affidarne la gestione alla Compost Campania e – come scrive il pm Sargenti – "rilasciare indebitamente il nulla osta per riassumere Maria Rosaria Granata". La donna, infatti, era stata licenziata dal curatore fallimentare perché la Compost non poteva per contratto impiegare persone collegabili alla So.Rie.Co di Ferrettino. Ma Ceglie per la sua fiamma riesce ad ottenere una deroga". Il giallo però scoppia nel 2012 quando delle email anonime arrivano in procura e alla redazione del Mattino, quotidiano campano. "I messaggi di posta elettronica - riporta sempre il quotidiano romano -  riportano informazioni scioccanti: "Il dott. Ceglie non è altro che un pagliaccio con la toga", "Dottore Ceglie, rientra nelle sue inchieste portarsi a letto le mogli degli indagati? E poi sparire distruggendo i numeri di telefonici? Aspetto una sua risposta" e "Da tre anni chiama ripetutamente e si porta a letto con ricatto la moglie di Gaetano Ferrentino". Ceglie non nega gli incontri, ma sarebbero avvenuti per motivi legati alla giustizia.  Secondo la difesa, infatti, "gli incontri innanzitutto sono stati limitati nel tempo" e, in secondo luogo, risulterebbero "al solo scopo istituzionale".

"Pretendeva sesso dalla moglie di un arrestato". Finisce nei guai il pm della lotta all'ecomafia. Napoli, il magistrato Donato Ceglie accusato di concussione e calunnia. La difesa: "Incontri con lei limitati nel tempo", scrivono Fabio Tonacci e Francesco Viviano su “La Repubblica”. Chiedeva sesso, il magistrato Donato Ceglie. Lo pretendeva, e lo otteneva, dalla moglie di uno che aveva fatto arrestare. Rapporti frettolosi e nascosti, consumati a volte nel suo ufficio della procura di Santa Maria Capua Vetere, a volte nelle stanze della procura generale a Napoli. Proprio lui, il pm simbolo della lotta all’ecomafia del casertano, proprio lui che indaga da anni sui veleni nascosti sotto terra. Ora se la deve vedere con altri veleni. Sulla carriera di Donato Ceglie, 56 anni, pende infatti dal dicembre 2013 scorso, una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero Barbara Sargenti di Roma. Le accuse sono di concussione e violenza sessuale, perché «induceva — si legge nell’atto — Maria Rosaria Granata, 46 anni, moglie di Gaetano Ferrentino, a instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali». Abuso che sarebbe iniziato a Santa Maria Capua Vetere e proseguito anche dopo che Donato Ceglie, era il 2011, viene trasferito alla procura generale di Napoli. Una storiaccia ancora poco chiara, con un esito giudiziario ancora tutto da definire (la richiesta è ferma davanti al gip) e che però ha un prologo certo nel 2007. In quel periodo il pm napoletano sta seguendo personalmente l’inchiesta “Chernobyl”: scopre tonnellate di rifiuti interrati tra Napoli, Caserta e Vallo della Lucania, sequestra l’impianto di compostaggio nel salernitano gestito dalla So.Rie.Co., dove venivano smaltiti illegalmente quelli di quattro depuratori, e di cui Ferrentino è amministratore unico. Ceglie lo spedisce agli arresti domiciliari. Seguono un paio di anni di indagini, altri sequestri, il fallimento della So.Rie.Co. nel 2009. Poi, sempre secondo la procura romana, cominciano i «rapporti sentimentali e sessuali» tra Ceglie e la Granata. Una relazione che, a prescindere dalla sua natura, forse consenziente forse no, avrebbe dovuto indurre il pm napoletano a abbandonare per ragioni di opportunità il procedimento contro Ferrentino, nel frattempo rinviato a giudizio. Cosa che non accade. Accade invece che Ceglie si adoperi per trovare un lavoro alla Granata. Prima ordina il dissequestro dell’impianto di smaltimento, poi lo affida in gestione alla Compost Campania a cui nel 2011 rilascia «indebitamente — scrive la Sargenti — il nulla osta per riassumere Maria Rosaria Granata». La donna, infatti, era stata licenziata dal curatore fallimentare perché la Compost non poteva per contratto impiegare persone collegabili alla So.Rie.Co. di Ferrentino. Ma Ceglie, per la sua “fiamma”, riesce a ottenere una deroga. E continua a interessarsi del rinnovo del contratto di gestione anche dopo essere stato trasferito a Napoli. Nel 2012 però qualcosa si rompe. Nelle caselle di posta elettronica di alcuni magistrati della Procura generale e alla redazione del Mattino iniziano ad arrivare decine di e-mail e fax del genere: «Il dott. Ceglie non è altro che un pagliaccio con la toga », «Dottore Ceglie, rientra nelle sue inchieste portarsi a letto le mogli degli indagati? E poi sparire distruggendo i numeri di telefonici? Aspetto una sua risposta», «da tre anni chiama ripetutamente e si porta a letto con ricatto la moglie di Gaetano Ferrentino». Ma a quali ricatti si riferisce l’autore delle missive? Che cosa sa veramente? Fatto è che Ceglie decide di denunciare la Granata, sostenendo sì di averla incontrata, ma solo «limitatamente» e «sempre per motivi istituzionali ». I pm romani non gli credono, e così hanno indagato il magistrato che lotta contro la mafia dei rifiuti anche per calunnia, per aver incolpato la donna «pur sapendola innocente».

COME I MAGISTRATI DI SINISTRA SON DIVENTATI PARTITO DI SINISTRA.

Io, ex toga Md vi racconto come i giudici di sinistra sono diventati un partito. Negli anni Settanta i movimenti eversivi rossi trovarono un appoggio nella magistratura. Così i pm avrebbero fatto la guerra alla borghesia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. La magistratura non è più un ordine costituzionalmente riconosciuto, bensì un disordine legato soltanto dalla velleitaria individuazione di quello che appare di volta in volta il nemico comune da combattere. Magistratura democratica nacque nel 1964, coagulando intorno a sé magistrati genericamente «di sinistra» o «progressisti»: i suoi aderenti erano particolarmente motivati dall'affermazione della piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico ed alla struttura gerarchica dei giudici. Il 30 novembre 1969, tuttavia, la formazione si spaccò: ne uscirono tutte le componenti moderate, accusando la frazione di sinistra di essere troppo sbilanciata a favore dei nuovi movimenti operai e studenteschi sorti nel '68. L'occasione della rottura fu rappresentata dal «caso Tolin». Francesco Tolin era direttore del periodico Potere Operaio, che il 30 ottobre 69 pubblicò un articolo dal titolo Sì alla violenza operaia, che portò successivamente alla condanna del direttore a 17 mesi di carcere senza condizionale. Una parte di Md si schierò in difesa dell'articolo contro i reati di opinione, e successivamente criticò con toni molto duri la sentenza di condanna: atteggiamenti che non furono tollerati dalla parte moderata di quel raggruppamento, che diede successivamente vita alla corrente «Impegno Costituzionale». Questi ultimi, dunque, rimasero fermamente ancorati alle regole dello Stato di diritto, pur rivendicando ai giudici il potere-dovere di applicare integralmente i dettami della Carta Costituzionale, e la piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico, senza mai uscire dai canoni tradizionali della legge: certezza del diritto, generalità ed astrattezza della norma da applicare al caso concreto. Solo in Italia i movimenti eversivi di estrema sinistra trovarono un appoggio nella più conservatrice delle corporazioni: la magistratura. Fu un caso? Certamente no, e in seguito se ne spiegheranno le ragioni. Alla neonata Md era necessario fornire un background politico che le garantisse una forte connotazione di sinistra (anzi, di estrema sinistra): per questo non c'erano eccessivi problemi, in quanto la maggior parte delle teste pensanti di quel gruppo si erano formate - negli anni '67/74 - nei grandi calderoni politico-ideologici che erano in quel periodo le Università, e trovavano un forte supporto nei movimenti antagonisti emergenti. Fu Luigi Ferrajoli, mente finissima e giurista eccellente, poi uscito dalla magistratura per abbracciare la carriera accademica) il cuore pulsante dell'elaborazione politica della nuova Md, che vedeva nei gruppuscoli extraparlamentari di sinistra i portatori del «sol dell'avvenire», i quali avrebbero inevitabilmente abbattuto lo Stato borghese e le sue disuguaglianze di classe. Con il documento Per una strategia politica di Magistratura Democratica Ferrajoli - insieme a Senese ed Accattatis - presentò una relazione al congresso della nuova Md tenutosi a Roma il 3 dicembre 1971, in cui la piattaforma politica del raggruppamento definiva la «giustizia borghese come giustizia di classe» e la stessa Md «come componente del movimento di classe», che avrebbe dovuto far ricorso alle «contraddizioni interne dell'ordinamento: la giurisprudenza alternativa consiste nell'applicare fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell'apparato normativo borghese». Il giurista Tarello, nella sua relazione, concludeva l'intervento in termini estremamente preoccupati, affermando che «...questo tipo di analisi politica porta a favorire non una vera indipendenza ma piuttosto una dipendenza e un controllo della magistratura». Nessuno, allora e per molti anni a venire, colse appieno il pericolo (e il segnale) che poteva derivare dalle teorizzazioni di Ferrajoli e del gruppo toscano, e dalla critica aspra di Tarello: nessuno, tranne i membri di Md più vicini al Pci e - molto tempo dopo - i massimi dirigenti di questo partito. Una risposta alla strategia politica messa in campo dai giudici di estrema sinistra fu data da Domenico Pulitanò - giudice di Milano notoriamente legato all'epoca al Pci: «La prassi dei magistrati democratici si pone e vuole porsi come alternativa non già ai valori democratico-borghesi (il che rischierebbe di portarci oltre la legalità) ma alle loro deformazioni autoritarie nella giurisprudenza corrente. Si può definire un uso alternativo del diritto? Il problema è solo terminologico... L'uso alternativo del diritto, là dove praticabile, è per noi un problema politico prima che teorico, e la discussione metodologica non deve far perdere di vista il fine politico». Non servono parole ulteriori per chiarire quale differenza abissale di prospettive vi fosse tra l'estrema sinistra e la sinistra moderata di Md: l'uso alternativo del diritto, infatti, non era per nulla un «problema terminologico». Intorno ad esso si giocava una scelta di campo di dimensioni storiche, perché, a memoria, per la prima volta una parte consistente (e soprattutto ben attrezzata culturalmente) della burocrazia statale si schierava nella lotta di classe, sentendosene pienamente partecipe. Dopo di allora, la frazione filo-Pci di Md praticò una sorta di entrismo: né aderire né sabotare, ma restare in attesa, secondo il vecchio principio leninista pas d'ennemi à gauche («Neanche un nemico a sinistra») nella sua accezione meno truculenta e stalinista. La magistratura milanese - dove pure la frazione di estrema sinistra di Md era la più forte d'Italia - si adeguò pienamente a questa tattica.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare:

Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro. “Non mi pento della scelta fatta, quella di denunciare i miei estorsori”. È la voce di Valeria Grasso, imprenditrice palermitana, donna coraggiosa. Oggi presidente di Legalità è Libertà, associazione antiracket, antiusura e mobbing. Si è ribellata alla mafia, al sistema mafioso, alla prepotenza di gente senza scrupoli. Ha denunciato, ha fatto arrestare i suoi estorsori. Gli appartenenti al clan mafioso dei Madonia. Cosa Nostra siciliana. “Ci sentiamo lasciati soli, il programma di protezione non funziona”. Un concetto espresso da molti testimoni di giustizia. “Più che un programma di protezione – si sfoga Valeria – sembra una punizione, una distruzione per la denuncia”. Valeria, per aver fatto il proprio dovere, continua a ricevere minacce, intimidazioni, avvertimenti. L’ultima ha coinvolto sua figlia, di 11 anni. Alle minacce degli uomini del disonore (o pezzi di merda, come li definisce il collega siciliano, il direttore di TeleJato Pino Maniaci), si aggiungono le strane e discutibili decisioni dello Stato. “Mi sento presa in giro, mi hanno sospeso il contributo di sopravvivenza, senza nessuna comunicazione. Avevano già tolto quello per mia figlia”.

Il presidente di Azione Civile, Antonio Ingroia ha affermato: “Quanto accaduto all’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, testimone di giustizia, inserita nel programma di protezione per aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori, non è degno di un Paese civile”. Cosa ti è accaduto?

«Sono nel programma di protezione e vivo in località protetta. Mia figlia, la maggiore, ha avuto gravi problemi di salute e si è dovuta staccare dalla località protetta ed è arrivata a Palermo nel mese di gennaio. Questa sua situazione di salute si è aggravata e a maggio, con regolare autorizzazione, sono dovuta tornare a Palermo, provvisoriamente, per assistere mia figlia. E’ stata ricoverata in ospedale dodici giorni, una depressione causata da tutta una serie di situazioni che abbiamo vissuto in località protetta, come la casa avuta dopo un anno e il vivere in alberghi.»

E cosa succede?

«Il 2 agosto mi accorgo che non mi è stato accreditato il contributo mensile. Il testimone di giustizia che vive in località protetta non potendo più lavorare ha un sussidio che serve alla sopravvivenza del nucleo familiare. Mi dicono, al telefono, che mi era stato sospeso.»

Una questione di soldi?

«Il problema è come viene trattata la gente. Questo programma di protezione sembra un programma di punizione. Tutto quello che deve essere garantito lo devi sudare, devi combattere. Come se la tua famiglia fosse un peso, da punire. Non esiste che al tuo nucleo familiare, improvvisamente e senza preavviso, viene sospeso il contributo di mantenimento. Ma se è previsto dalla legge, che la famiglia ha un sussidio per vivere, come fai il due agosto, senza una comunicazione… c’è malafede.»

Perché parli di malafede?

«La legge non prevede la sospensione del contributo, c’è qualcuno all’interno del Servizio che ha preso una decisione che non è legale. Come dice il dott. Ingroia, determinate decisioni vengono prese in Commissione, la revoca del contributo viene fatta se c’è un motivo gravissimo. Per esempio l’abbandono della località, la fuoriuscita dal programma. Ma non è possibile che a una madre, giù in Sicilia, per motivi gravi della famiglia venga sospeso il contributo. Ma di cosa stiamo parlando?»

Secondo te perché si comportano in questo modo con i testimoni di giustizia?

«Perché non c’è un controllo, nessuno controlla il sistema del servizio di protezione. Non c’è all’interno una volontà di incentivare la figura del testimone di giustizia, sempre costretta ad essere vista come una figura poveretta che deve stare lì ad elemosinare, piuttosto che una risorsa della società civile. In questo modo sei continuamente a gridare allo Stato tutto quello che ti spetterebbe di diritto. E’ una battaglia, mi trovo a lottare contro coloro che dovrebbero aiutarmi a ridare equilibrio a casa mia.»

Tu sei una testimone di giustizia perché hai fatto arrestare degli estorsori del clan Madonia…

«Gestivo una palestra, un bene confiscato di proprietà della famiglia Madonia. Per certi personaggi la parola ‘confisca’ non esiste. Alle prime richieste di estorsione mi ero opposta tassativamente, non volevo pagare, ero molto spaventata. Madre di tre figli e separata. Ci sono momenti molto difficili, soprattutto, sapendo chi sono i personaggi.»

Chi sono?

«Madonia è stato colui che ha ucciso Libero Grassi, ha fatto parte dei mandanti della strage di via D’Amelio. La moglie di Madonia, Maria Angela, è definita il boss in gonnella. Si può ben capire di chi stiamo parlando.»

Quindi cosa succede?

«Ho provato anche a vendere l’attività per cercare di tutelare la mia famiglia, ero riuscita a venderla a un ragazzo di vent’anni. Dei personaggi, mandati da loro e arrestati grazie alle mie denunce, pretendevano che io da vittima diventassi estorsore. Pretendevano che io andavo dalla persone che aveva comprato la mia palestra per ritirare 500euro al mese, diventando un loro esattore. A quel punto è stata inevitabile la scelta, sono andata a denunciare. Oggi ho ripreso la palestra, ho restituito i soldi a quel ragazzo che l’aveva presa e ho tentato di riattivarla. Gli atti di intimidazione sono stati talmente tanti che la Procura di Palermo ha predisposto l’inserimento urgente nel programma per un pericolo imminente di vita.»

Le minacce non sono terminate. Tua figlia di 11 anni, poco tempo fa, è stata "avvicinata".

«È stata minacciata al cellulare dalla voce di un tizio che, poi, si è  presentato come Pietro e che ha detto in siciliano: "So chi sei e so chi è tua madre". Più che un messaggio a lei è stato un messaggio a me.»

Ritorniamo al programma di protezione…

«Un business, un’invenzione. Non ha assolutamente la funzione che dovrebbe avere. Mi sento presa in giro da questo sistema. Smetterò di sentirmi presa in giro quando chi di dovere, dopo le mie continue denunce, si degni di ricevermi così come ha fatto il presidente Crocetta (Presidente della Regione Sicilia, ndr), che alla vigilia di ferragosto, appena ha letto quello che stava succedendo tramite il dott. Ingroia, che è stato il mio magistrato, ha voluto incontrarmi. Garantendo chiarezza su questa storia. Ho scritto alla presidente Boldrini, telefono continuamente alla segreteria del Ministro, ma di che cosa parlano? Come vogliono che l’Italia, la Sicilia cambi o si combatta la mafia quando quelle persone che dovrebbero essere il megafono della legalità diventano il megafono di uno Stato che non funziona.»

Una situazione difficile…

«Che mi stimola sempre di più ad andare avanti per combattere contro questo sistema. Non ci dobbiamo isolare, dobbiamo continuare a denunciare e a combattere questo sistema che non funziona. Mi aspetto che il Ministro intervenga e che qualcuno cominci a volerci vedere chiaro come funziona il sistema di protezione, chi lo gestisce, chi sono i direttori del Servizio e come mai prendono della decisioni che non vengono autorizzate, per esempio, dalla Commissione. È necessario che qualcuno faccia un immediato intervento, perché altrimenti ci si sta prendendo tutti quanti in giro.»

“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco su "Il Giornale". Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". “Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

VENDEVA PROCESSI PER UN POKER

Punta sul rosso, bluffa con una doppia coppia..., scrive Enzo D’Errico su “Il Corriere della Sera”.  C'è una serata che fila per il verso giusto e altre, tante altre, in cui va tutto storto: le carte non entrano, i numeri non escono... E alla fine, quando si tratta di tirare i conti, t'accorgi che in rosso ci sei finito tu. E' capitato così anche a Nicola Boccassini, procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, un paesino dell'entroterra salernitano. Aveva trovato il modo di turare le falle, il magistrato: quel che perdeva al gioco, lo riguadagnava vendendo processi, condoni edilizi e provvedimenti d'ogni tipo. Si faceva addirittura pagare soggiorno e scommesse a Saint Vincent, dove era cliente fisso del casinò. E, come se non bastasse, in cambio dei suoi servigi chiedeva favori: un posto di lavoro per una figlia, una perizia tecnica da assegnare al genero, un appalto per qualche parente. Però, gli agenti della Dia di Napoli l'hanno arrestato su mandato del Gip Luigi Esposito. Le accuse: corruzione, concussione, favoreggiamento e abuso d'ufficio. Con lui sono finite in galera altre 6 persone, coinvolte a vario titolo nel giro d'affari del procuratore. Sarebbero stati emessi anche 7 avvisi di garanzia, uno dei quali riguarderebbe Anacleto Dolce, procuratore aggiunto a Vallo della Lucania e fratello di un altro magistrato, Romano Dolce, arrestato a Como nelle scorse settimane. Il sospetto è che il numero due della procura abbia spalleggiato gli imbrogli di Boccassini. Nella rete degli investigatori, comunque, è caduto l'avvocato Mario Siniscalco, ex consigliere comunale socialista di Salerno: era lui, secondo gli inquirenti, a fare da mediatore fra il magistrato e i suoi "clienti". Avevano messo in piedi una piccola ma efficiente società del malaffare. Siniscalco, tra l'altro, è stato a lungo presidente della commissione edilizia di Salerno, organismo di cui ha fatto parte anche Boccassini. E lì dentro i due hanno concesso più di un condono sospetto. L'inchiesta prende il via dalle dichiarazioni di Mario Pepe, un pentito della camorra, e dell'imprenditore Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino, coinvolto tempo fa nello scandalo delle "lenzuola d'oro". L'industriale ha raccontato che, sborsando una trentina di milioni, ottenne dal procuratore il condono edilizio per la sua villa. E che Boccassini, all'epoca sostituto a Salerno, aggiustò un processo d'appello in cui Graziano era imputato di omicidio colposo per la morte in fabbrica di un operaio: condannato in primo grado, assolto in seconda istanza. L'imprenditore pagò l'intercessione assumendo una figlia del magistrato e scucendo altri milioni. "C'erano giorni in cui Siniscalco mi chiamava e mi diceva: "Prenotaci una stanza a Saint Vincent" ed io ero costretto a pagare albergo e casinò", ha detto in sostanza Graziano. Manette anche per i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia. Si vantavano di poter condizionare i processi e furono messi sott'inchiesta da Boccassini per millantato credito. Sembra, però, che quell' indagine servì solo ad accordarsi coi due e coinvolgerli nel giro d'affari. Arrestate, infine, Laura e Liliana Clarizia, titolari dell' agenzia pubblicitaria "First Agency", di cui era socia un' altra figlia del procuratore. L'azienda, grazie a Boccassini, ricevette dalla comunità montana Lambro Mingardo la fornitura di 20 mila depliant pubblicitari. Non a caso, in cella è finito pure il sindaco di Ascea, Angelo Criscuolo, ex presidente della comunità montana.

Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all'intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l'industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l'istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.

ATTACCO AI GIUDICI DI MILANO

Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell'accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.

BRESCIA, TORNA L' INCHIESTA 'AUTOPARCO'

Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l'autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov' era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.

TRATTATIVA E 41 BIS, UN PASSATO CHE NON VUOLE PASSARE.

Scritto da Fabio Repici e Marco Bertelli. Da qualunque parte si prenda, questa storia sembra il prodotto malato della mente di uno sceneggiatore horror. Una storia così inverosimile che risulterebbe irricevibile per qualunque produttore cinematografico che si rispetti. Una storia all’apparenza del tutto inventata, se solo non fosse fondata su fatti e documenti mai smentiti, anzi puntualmente riscontrati ogni volta che sono stati sottoposti a verifica. Allora è doveroso raccontarla, avvertendo i lettori che è una storia che non ha ancora trovato la sua conclusione, se mai la troverà, e che si intreccia con la stagione che cambiò per sempre la nostra vita, il biennio stragista 1992/93. E conviene raccontarla partendo dagli spunti di cronaca.

1993, l'anno delle bombe e delle prime revoche del 41-bis.

Da un paio d’anni – più o meno da quando il braccio destro dei fratelli Graviano, Gaspare Spatuzza, ha iniziato a collaborare con la giustizia – le Direzioni distrettuali antimafia di Caltanissetta e Palermo stanno cercando di capire quali apparati dello Stato abbiano condiviso con Cosa Nostra la strategia eversiva a suon di bombe che ha spalancato le porte alla cosiddetta Seconda Repubblica e quali siano stati i tempi e gli strumenti che hanno permesso l’insana interlocuzione, più correttamente chiamata ‘Trattativa’, fra Stato e antiStato. Con imperdonabile ritardo, sulla scia delle rivelazioni di Spatuzza e del figlio minore di don Vito Ciancimino, numerosi personaggi istituzionali hanno avuto riverberi di memoria su due snodi decisivi della Trattativa. Il primo: lo sciagurato dialogo a partire dal mese di giugno 1992 fra il Ros dei Carabinieri (nelle persone degli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, con la copertura del generale Antonio Subranni) e Vito Ciancimino, che ha visto dall’estate 2009 la resurrezione della memoria di Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro. Il secondo: i provvedimenti di revoca o mancata proroga susseguitisi nel 1993, in favore di uomini di Cosa Nostra, del regime detentivo speciale previsto dall’art 41-bis dell’ordinamento penitenziario, sui quali i ricordi a scoppio ritardato sono stati soprattutto quelli dell’allora ministro di grazia e giustizia Giovanni Conso, che il 12 febbraio 1993 sostituì il dimissionario Claudio Martelli nel primo governo di Giuliano Amato e che fu confermato il 28 aprile 1993 nel successivo governo di Carlo Azeglio Ciampi. Conso ha rivelato l’undici novembre 2010 agli attoniti membri della Commissione parlamentare antimafia di avere assunto il 5 novembre 1993 in completa solitudine la decisione di venire incontro alle esigenze di detenuti mafiosi, per fornire un segnale di pace all’ala provenzaniana di Cosa Nostra, che in quel momento aveva adottato una linea strategica contraria a quella stragista sostenuta da Leoluca Bagarella: “Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi... La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze, quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore, Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”. Come l’algido giurista sabaudo avesse avuto contezza dell’esistenza di due tendenze contrapposte all’interno di Cosa Nostra, circostanza che gli investigatori avrebbero scoperto molto tempo dopo l’intuizione di Conso, rimane tuttora un mistero. Gli inquirenti titolari dell’inchiesta palermitana sulla Trattativa tra 'pezzi' dello Stato e 'pezzi' dell'antiStato hanno accertato che in realtà Conso in quell’occasione non rinnovò altri 194 provvedimenti di regime carcerario 41-bis, per un totale di 334 detenuti ai quali non fu prorogato il carcere duro. Testimoniando il 15 febbraio davanti ai giudici della Corte d’assise di Firenze nel processo a carico del boss Francesco Tagliavia, Conso ha perfino peggiorato la sua indifendibile posizione: “A me di intese (tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia) non risulta assolutamente nulla, anche perché ero chiuso nel mio bunker. L’idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato… Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!”. Ha poi incredibilmente aggiunto con tono sibillino: “A me non risulta che ci fossero dei mediatori, ma certo non posso escludere che fra due funzionari, magari una sera a cena, si possa aver detto ‘facciamo un ponte’”. Parole dal sen fuggite, quelle sull’intesa “fra due funzionari una sera a cena” o un preciso messaggio? Se di messaggio si è trattato sembrerebbe il riferimento a uomini d’apparato piuttosto che a politici. Ma chi potevano essere i funzionari che si incontravano a cena per “fare un ponte”? Forse le parole di Conso sono più velenose di quanto possa sembrare a prima vista. Velenose come le parole di coda nella deposizione dell’ex ministro: “Al momento non siamo ancora in grado di dire nulla di sicuro, magari col tempo, piano piano, pezzo dopo pezzo arriveremo alla verità”. Come se ci fosse un informale segreto di Stato, per far cadere il quale occorre tempo. Peraltro, le affermazioni di Conso in merito alla mancata proroga dei provvedimenti di carcere duro ai primi di novembre del 1993, oltre a lasciare perplessi pressoché tutti gli osservatori, hanno trovato un’autorevole smentita nell’ex direttore del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) Nicolò Amato. Quest’ultimo era stato sostituito alla guida del Dap il 4 giugno 1993 dal magistrato Adalberto Capriotti, cui fu abbinato come vicedirettore Francesco Di Maggio, magistrato di punta alla Procura di Milano per quasi tutti gli anni Ottanta, poi passato all’Alto commissariato antimafia a coadiuvare Domenico Sica e infine, dietro segnalazione governativa, finito a Vienna a dirigere l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, incarico lasciato per insediarsi al Dap. In un’intervista rilasciata a Rainews24, Nicolò Amato ha rivelato il proprio fermo convincimento che la paternità del mancato rinnovo dei 41-bis del 5 novembre 1993 vada attribuita proprio a Francesco Di Maggio, che era il vero dominus del Dap, alle spalle del ruolo meramente formale assegnato a Capriotti. Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi. Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: in quell’occasione – scrive Amato - era stato il capo della Polizia Vincenzo Parisi, storico mentore di Bruno Contrada, a manifestare contrarietà al mantenimento del regime detentivo previsto dall’art. 41-bis. Nei verbali di quel comitato, però, che Parisi abbia manifestato questo atteggiamento non risulta; risulta invece che fu lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41-bis. È un fatto che il 15 maggio 1993, il giorno successivo al fallito attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro a Roma, il regime carcerario del 41-bis fu revocato per 140 detenuti. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori di giustizia, e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l'alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del governo. I provvedimenti di revoca del 41-bis furono firmati dal vice-direttore del Dap Edoardo Fazioli. Si diceva di Francesco Di Maggio. Si tratta del personaggio più controverso fra gli attori di quello squilibrato frangente istituzionale, nel quale il capo del governo Ciampi arrivò a temere un colpo di Stato di marca tardo-piduista. Personaggio controverso, Di Maggio, soprattutto per la statura indiscussa di molti suoi estimatori, fra i quali esponenti tra i migliori della storia giudiziaria milanese: da Piercamillo Davigo ad Armando Spataro a Ilda Boccassini. Senza dimenticare un dato di fatto da non trascurare: Francesco Di Maggio era stato uno dei magistrati antimafia più intimi con Giovanni Falcone.

Le indagini del pubblico ministero Gabriele Chelazzi sulle stragi del ‘93.

E allora quali sono le ragioni che impongono di riflettere sull’eventuale ruolo di Di Maggio nella Trattativa? La prima è insuperabile: poco prima di morire, fu proprio il compianto pubblico ministero Gabriele Chelazzi – indubbiamente il magistrato che con maggiore sagacia e con indiscussa rettitudine cercò di venire a capo dei misteri di Stato della Trattativa – a mettere nel fuoco della sua attenzione investigativa l’operato di Di Maggio quale vicecapo del DAP nel 1993. Quando Chelazzi virò le indagini su di lui, in realtà Di Maggio era già morto, stroncato il 7 ottobre 1996 a soli 48 anni per una grave forma di epatite degenerata in cirrosi epatica. Ma ad insospettire il Pm fiorentino, oltre al ruolo formale di Di Maggio al Dap, era stata un’inspiegabile annotazione trovata nell’agenda dell’allora colonnello Mario Mori, esattamente nella pagina dedicata al 27 luglio 1993. Si tratta di una data drammatica per l’Italia: nella notte successiva tre auto riempite di esplosivo (una a Milano nei pressi del padiglione di arte contemporanea, una a Roma a San Giovanni in Laterano e un’altra sempre a Roma davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro) avrebbero insanguinato il centro cittadino di Milano e provocato terrore nell’area di due famosi edifici religiosi della capitale, intestati, curiosamente, a santi omonimi dei Presidenti dei due rami del Parlamento, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano. Ecco, proprio in quella data, sull’agenda di Mario Mori risultò annotato un appuntamento dell’ufficiale del Ros con Francesco Di Maggio, con una causale davvero strana: “per prob. detenuti mafiosi”. Strana, anzi inspiegabile, perché non risulta che fra i campi d’intervento del Ros ci fosse il controllo del trattamento penitenziario dei mafiosi. Chelazzi dovette saltare sulla sedia dalla sorpresa, nel leggere quell’appunto sull’agenda di Mori. Si consideri che le bombe di Milano e Roma scoppiarono all’indomani del rinnovo, deliberato il 16 luglio, di 325 decreti che imponevano il 41-bis ad altrettanti mafiosi, quelli varati subito dopo la strage di via D’Amelio a Palermo. E un altro balzo Chelazzi dovette fare quando scoprì che il 22 ottobre 1993 Di Maggio e Mori si erano nuovamente incontrati, questa volta alla presenza anche dell’allora colonnello Giampaolo Ganzer, l’attuale comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione per gravissime imputazioni, a partire dal traffico di droga. Occhio alla data, 22 ottobre 1993: pochi giorni dopo, il 5 novembre 1993, 334 detenuti non si videro prorogato il regime restrittivo del 41-bis. Tra questi Conso decise di non rinnovare il carcere duro per 140 mafiosi rinchiusi all’Ucciardone nonostante Capriotti avesse chiesto un parere alla Procura di Palermo e quest’ultima avesse risposto che era inopportuno modificare il regime carcerario dei detenuti in questione, esprimendo parere favorevole alla proroga. Il parere della Procura di Palermo recava la firma degli allora procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Luigi Croce. Fu all’esito di queste scoperte che Gabriele Chelazzi si decise a sentire come testimone Mario Mori. L’incontro fra il magistrato fiorentino e colui che il primo ottobre 2001 era diventato, su designazione del secondo governo Berlusconi, direttore del Sisde avvenne nel pomeriggio dell’11 aprile 2003 e Chelazzi non ne rimase per nulla soddisfatto: secondo lui, Mori si era trincerato dietro troppi inescusabili “non ricordo”. E per questo, come ricorda il magistrato Alfonso Sabella, in quel momento collega di Chelazzi alla Procura di Firenze, il P.m. che indagava sulla Trattativa si era determinato a iscrivere l’ex generale del Ros sul registro degli indagati: “L’ipotesi di Gabriele in quel periodo è che ci fosse stato un tentativo da parte degli organi dello Stato di dare un segnale di ‘apertura’ a Cosa Nostra in maniera da impedire che altre stragi si portassero avanti. Questo segnale di ‘apertura’ era collegato all’alleggerimento del 41-bis o quantomeno al ridurre il numero dei detenuti al 41-bis. Perché Gabriele faceva questa ipotesi? Perché – non ricordo in quale agenda o da qualche parte – aveva saputo di un incontro tra il generale Mori e Francesco di Maggio, all’epoca vicecapo del Dap, che sembrava collegato da un appunto alla vicenda del 41-bis. Nello stesso periodo si era registrata anche la revoca di parecchi decreti 41-bis. Questa era l’ipotesi che aveva Gabriele.... Gabriele iscrisse Mori nel registro degli indagati per favoreggiamento in relazione alla vicenda della fase della trattativa che doveva portare alla revoca di alcuni 41-bis alla vigilia delle stragi in contemporanea con il fallito attentato all’Olimpico (stadio Olimpico di Roma – ottobre 1993/gennaio 1994). L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento verteva su una domanda specifica: l’avrebbe fatto per favorire la mafia o l’avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: ‘Mi venga a dire perché l’avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga un Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato’”. Sabella non si dovette sorprendere dei sospetti di Chelazzi, se sul Ros, da P.m. della D.d.a. di Palermo negli anni del Procuratore Giancarlo Caselli, si era fatta un’idea per nulla positiva proprio sulle ricerche dell’allora latitante Bernardo Provenzano, tema centrale del processo oggi pendente a Palermo a carico di Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu:A noi sembrava – così si è espresso Sabella a Palermo davanti ai giudici della quarta sezione penale del Tribunale – che il Ros agisse in un’altra direzione, per acquisire informazioni non come forza di polizia ma per altri motivi, a noi sconosciuti”. Se si legge il verbale delle dichiarazioni rese da Mori ai pubblici ministeri Chelazzi e Giuseppe Nicolosi si comprende appieno la sensazione che Sabella ebbe della delusione del collega. Se ne ricavano, fra l’altro, alcune impressioni nette: intanto, la metodicità e lo scrupolo minuzioso con cui Chelazzi – che durante quel verbale, nelle premesse alle domande poste a Mori, spiega in dettaglio l’obiettivo delle sue indagini – aveva ricostruito in punto di fatto il susseguirsi di ogni anche minuscolo evento susseguitosi nel biennio 1992-93; poi il “buon rapporto” che intercorreva fra Mario Mori e Nicolò Amato, il quale, cessata la sua permanenza al Dap e intrapresa l’attività di avvocato, secondo Massimo Ciancimino sarebbe stato nominato quale difensore da Vito Ciancimino su consiglio proprio di Mori; ancora, il sospetto che Mori in quell’incontro del 27 luglio 1993 avesse potuto riportare a Di Maggio le confidenze che il pentito Salvatore Cancemi, consegnatosi ai carabinieri il 22 luglio precedente con l’intenzione di iniziare da subito a collaborare con la giustizia, gli avesse potuto rivolgere circa il forte malumore serpeggiante in Cosa Nostra per le modalità applicative del 41-bis; i tentennamenti manifestati al riguardo da Mori, che ricordava come subito dopo la sua costituzione Cancemi fosse stato alloggiato a Verona sotto il controllo del maggiore Mauro Obinu e, del tutto inspiegabilmente, del maresciallo Giuseppe Scibilia, a quel tempo in servizio al Ros di Messina (e dalla domanda del P.m. Nicolosi, se si trattasse proprio di quel maresciallo Scibilia in servizio a Messina, emerge la sorpresa pure dei magistrati); il rapporto di grande solidarietà fra Mori e Di Maggio, che erano “veramente amici” e che, al di là delle due annotazioni risultanti sull’agenda del generale Mori, si incontravano spesso anche a cena (sic!); i buoni rapporti di frequentazione fra Mori e l’allora direttore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, che aveva ricevuto pubblico encomio niente di meno che da Totò Riina in un’esternazione dalla gabbia davanti alla Corte di assise di Roma il 29 aprile 1993: “Pepi è una persona seria che sa quello che scrive e quello che dice”; la prima visita che una giornalista, Liana Milella (allora a Panorama), riuscì a fare il 10 agosto 1993 al supercarcere di Pianosa per uno scoop che provocò le ire del Prefetto di Livorno, tenuto all’oscuro della sortita avvenuta con la copertura di Di Maggio, e avvenuta poco dopo un incontro che, il 30 luglio di quell’anno, la Milella aveva avuto con Mario Mori. Di tutti i temi e i nomi emersi da quel lungo verbale, è qui il caso di soffermarsi su quello meno conosciuto, il maresciallo Giuseppe Scibilia. Sì, perché non si riesce a capire a quale titolo a un sottufficiale del Ros di Messina fosse stata assegnata la responsabilità di gestire l’avvio della collaborazione con la giustizia di Salvatore Cancemi nel luglio 1993. Peraltro, ciò avveniva pochissimo tempo dopo un eclatante ed inescusabile passo falso che il Ros di Messina, guidato per l’appunto da Scibilia, aveva fatto con l’omessa cattura nel barcellonese del boss allora latitante Nitto Santapaola: il capomafia catanese frequentava stabilmente dei locali nei quali erano attive intercettazioni ambientali gestite dal Ros di Messina nell’ambito dell’indagine sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano; anziché andare con tutta calma ad ammanettare Santapaola, il Ros aveva fatto intervenire la squadra del capitano Ultimo, che anziché acciuffare il latitante si era data ad inseguire un diciannovenne della zona, che per un soffio non fu ucciso dalle pistolettate esplosegli dietro da Sergio De Caprio. Ne venne fuori perfino un procedimento penale a carico di Ultimo, archiviato con una motivazione abbastanza infamante per l’ufficiale. Se Scibilia aveva ricevuto quell’incarico delicato ed estraneo alle funzioni che ricopriva in quel momento, ciò era dovuto agli antichi rapporti di fiducia che legavano il sottufficiale al generale Antonio Subranni, che nella seconda metà degli anni Settanta era stato in servizio a Palermo e aveva avuto ai suoi ordini il giovane maresciallo Giuseppe Scibilia. Proprio in quegli anni Scibilia, insieme ad altri subordinati di Subranni, fu impegnato nelle indagini sull’uccisione di due carabinieri della stazione di Alcamo Marittima, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. In un processo di revisione attualmente in corso presso la Corte di appello di Reggio Calabria, è emerso il forte sospetto che Scibilia ed altri si sarebbero resi responsabili di torture per costringere alcuni giovani del trapanese a confessare di essere i responsabili dell’eccidio. Ne è scaturito un procedimento a carico di Scibilia e altri tre sottufficiali presso la Procura di Trapani, per calunnia e altro, archiviato per prescrizione dei reati. Sullo sfondo delle torture, i depistaggi nelle indagini sul duplice omicidio, dietro il quale si è sospettata la presenza di trame nere e di deviazioni istituzionali. Negli anni Novanta, però, Scibilia era in servizio a Messina. Eppure, veniva usato dai vertici del Ros come un fidato globe-trotter per casi di particolare delicatezza. Cosa che avvenne pure nelle vicende che avvolsero il suicidio del maresciallo (anch’egli del Ros) Antonino Lombardo. La sera del 23 febbraio 1995, nel corso della trasmissione “Tempo reale” condotta da Michele Santoro, Leoluca Orlando e Manlio Mele (allora sindaco di Terrasini) avevano rivolto al maresciallo Lombardo accuse di contiguità mafiosa. Lombardo in quel periodo era da tempo impegnato in trasferte per gli Stati Uniti, ove si recava con il maggiore Obinu per svolgere colloqui investigativi con il boss Gaetano Badalamenti. Si disse che Badalamenti stesse per essere convinto a tornare in Italia per rendere alla magistratura dichiarazioni con le quali avrebbe messo in crisi i processi fondati sulle rivelazioni di Tommaso Buscetta: stravagante progetto di collaborazione con la giustizia a beneficio di imputati eccellenti. La sopravvenuta esposizione mediatica di Lombardo determinò i vertici del Ros a revocargli l’incarico per una partenza già programmata per il 26 febbraio. Vistosi abbandonato e in pericolo, Lombardo si tolse la vita il 4 marzo 1995, lasciando ai suoi familiari una lettera nella quale spiegava che “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Il 16 marzo 1995 Mario Mori venne sentito dai pubblici ministeri di Palermo sul suicidio del maresciallo Lombardo e si espresse in questi termini circa la revoca dell’incarico a Lombardo per la nuova trasferta americana: “Il 24 avendo saputo che il sottufficiale avrebbe sporto querela contro le persone che lo avevano accusato, discussi della cosa con il maggiore Obinu. Questi segnalò l’inopportunità di esporre in quel momento il sottufficiale ad eventuali ulteriori polemiche, che potevano derivare dalla diffusione della notizia del suo incarico di portare Badalamenti in Italia e preso atto di tali osservazioni, parlai con il generale Nunzella (allora comandante del Ros, n.d.a.) ed insieme stabilimmo di mandare negli USA il maresciallo Scibilia, al posto di Lombardo”. Insomma, in quegli anni, ed anche in quelli a venire, il maresciallo Giuseppe Scibilia era uno dei più fidati ambasciatori degli uomini di vertice del Ros. Ufficiali del Ros, e Mario Mori per primo, come rappresentanti dello Stato che si muovevano per ragioni apparentemente estranee ai propri compiti d’ufficio: questo, quindi, fu il filone investigativo coltivato dal P.m. Chelazzi negli ultimi giorni di vita. Lo sfortunato magistrato fiorentino, però, nella mattina del 17 aprile 2003 fu colto da un improvviso malore che ne provocò la morte.

L’eredità scomoda di Gabriele Chelazzi.

A proseguire su quell’indirizzo d’indagine furono i suoi colleghi della D.d.a. di Firenze, che a poche settimane dalla morte di Chelazzi raccolsero imprevedibili riscontri sulle anomalie nei contatti fra Francesco Di Maggio e Mario Mori. Ne parlò nel giugno 2008 il battagliero mensile d’inchiesta La Voce delle Voci, in seno all’articolo a firma di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola dal titolo “L’infiltrato speciale”, dedicato a “Servizi segreti e inquinamento delle istituzioni”. I due autori riportarono stralci di un sofferto verbale di dichiarazioni rese il 13 maggio 2003 ai pubblici ministeri fiorentini Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi dall’ispettore del Dap Nicola Cristella, fedelissimo collaboratore di Di Maggio nei mesi caldi del 1993. Così aveva raccontato Cristella: “Quanto alle frequentazioni che il consigliere Di Maggio aveva in quel periodo anche in relazione al suo ruolo istituzionale, rammento che frequentava il maggiore Bonaventura del Sisde, l’attuale comandante del Ros generale Ganzer, il colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria con cui erano molto amici. La abituale frequentazione con Bonaventura era accompagnata anche dalla presenza di un’altra persona con cui si vedevano spesso a cena tutte e tre, quasi tutte le sere; questa persona veniva all’appuntamento in motorino e se non ricordo male si tratta di un civile all’epoca anch’egli nei servizi segreti … Un’altra persona con cui il consigliere aveva una qualche frequentazione era il giornalista di Famiglia Cristiana Sasinini”. Il verbale dell’ispettore Cristella si concludeva con una precisazione: “In sede di rilettura l’ispettore Cristella precisa che la persona indicata precedentemente come commensale abituale del consigliere Di Maggio e del maggiore Bonaventura era il colonnello Mori del Ros. L’ispettore precisa che a questo punto è un po’ più incerto sul fatto di chi dei due, se cioè Bonaventura o Mori, venisse all’appuntamento in motorino”. Dunque i rapporti fra Di Maggio e Mori erano ben più frequenti della singola annotazione dell’agenda del generale del Ros. Ma quel che più appare significativo è l’intero ventaglio delle relazioni personali praticate dal vicecapo del Dap: oltre agli ufficiali del Ros Mori e Ganzer, un altro ufficiale dell’Arma come Umberto Bonaventura che in quel momento era un dirigente del Sismi, il giornalista Guglielmo Sasinini oggi imputato nel processo per gli spionaggi Telecom che ha coinvolto anche Luciano Tavaroli e Marco Mancini (lo scandalo sullo spionaggio Telecom scoppiò nel settembre 2006), e infine l’ufficiale della Polizia penitenziaria e oggi dirigente del Dap Enrico Ragosa. Certo, persone molto diverse fra loro ma tutte a modo loro significative. Per Umberto Bonaventura si potrebbe ripetere quanto detto per Di Maggio: figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Bonaventura fu sicuramente, a partire dalla fine degli anni Settanta, uno dei giovani ufficiali più fedeli a Carlo Alberto Dalla Chiesa; fu il capo del Nucleo antiterrorismo e poi della Sezione anticrimine a Milano; passò dunque, al seguito di Di Maggio, all’Alto commissariato antimafia per poi, negli anni Novanta, entrare al Sismi, dove rimase fino alla sua morte improvvisa, avvenuta nel 2002. Fra i suoi subordinati a Milano ci furono due giovani sottufficiali destinati a diventare famosi: proprio Luciano Tavaroli e Marco Mancini, coinvolti nello scandalo Telecom insieme al giornalista Guglielmo Sasinini. Il quale Guglielmo Sasinini, oltre ad essere imputato a Milano nel processo per gli spionaggi Telecom, è stato un giornalista che spesso si è interessato di vicende di mafia. Ancora oggi Vincenzo Calcara, il pentito di Castelvetrano che iniziò a collaborare con Paolo Borsellino nel 1991, ricorda un po’ stranito l’intervista che Sasinini, dietro accreditamento dell’Alto commissariato antimafia, gli fece dopo la strage di via D’Amelio e che venne pubblicata da Famiglia Cristiana il 5 agosto 1992. Il pezzo giornalistico più sconvolgente su questioni di mafia, però, l’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana lo scrisse quando era più impegnato nelle traversie giudiziarie che non nel mestiere di cronista. Comparve sulle colonne di Libero il 3 aprile 2008 con il titolo “Lo Stato mortifica chi lotta sul serio contro la mafia” ed era un’accorata difesa del Ros di Mori. Ma soprattutto conteneva una rivelazione sconvolgente che non avrebbe mai trovato smentita. Sasinini, infatti, sostenne di aver condiviso con Mori e con l’allora capitano Sergio De Caprio (meglio noto con lo pseudonimo di Ultimo) i giorni che precedettero la cattura di Riina. Tutto scritto nero su bianco e occultato dalla più inspiegabile distrazione generalizzata (tranne i già citati Cinquegrani e Pennarola e lo scrittore Alfio Caruso, nel suo “Milano ordina uccidete Borsellino”, ed. Longanesi): “Dopo mesi di lavoro investigativo puro gli ‘indiani’ scovarono e catturarono il capo dei macellai corleonesi: Totò Riina. Io conoscevo bene quel gruppo di guerrieri e condivisi molte giornate con loro e soprattutto con Mario Mori, in particolare l’estenuante attesa della vigilia quando ‘il pacco’ stava per essere consegnato. Poi tutta l’Italia si emozionò per la più famosa delle catture”. Certo, la cattura di Riina raccontata come un “pacco” che viene consegnato sembra la ricopiatura della tesi, ritenuta infamante dal Ros ma ritenuta molto più che verosimile da molti osservatori e da molti investigatori, secondo cui Riina fu consegnato nelle mani del Ros, per iniziativa di Bernardo Provenzano. Solo che stavolta a sostenere questa teoria fu non un avversatore del Ros ma una persona strettamente legata agli esponenti di vertice dell’organismo d’investigazione d’eccellenza dell’Arma dei carabinieri. Senza trascurare la domanda più banale: ma che ci azzeccava il giornalista Guglielmo Sasinini con Mori e De Caprio in attesa della cattura di Riina? Dalle parole di Cristella emerge un altro nome della cerchia ristretta dei fedelissimi di Di Maggio, il “colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria”. Si tratta di Enrico Ragosa (ancora oggi dirigente del Dap), che nel 1986 era stato impegnato al carcere palermitano dell’Ucciardone, per il maxiprocesso celebratosi nell’aula bunker, e che nel 1997 per due anni sarebbe transitato al Sisde. Giusto il 6 luglio 1993 (sotto la gestione Capriotti-Di Maggio) Ragosa era stato nominato responsabile del Servizio di coordinamento operativo (dedito specificamente ai detenuti di mafia) del Dap. E certo non dovette essere un caso se il 4 dicembre 1996 su Famiglia Cristiana comparve un’intervista esclusiva del generale Ragosa al giornalista Guglielmo Sasinini. In premessa alle risposte di Ragosa, l’intervistatore segnalava, con invidiabile arguzia, che “le bombe di Roma, Firenze, Milano avevano lo scopo di indurre il potere politico a eliminare il regime 41-bis’”. Poi però tuonava convinto: “invece così non è stato”. E le 334 revoche del 5 novembre 1993? Distrazioni di un giornalista. Il quale proseguiva notando che “alle spalle della sua scrivania il generale Ragosa tiene in bella evidenza le fotografie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, di Francesco Di Maggio che diresse (sic!) il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.

Barcellona Pozzo di Gotto, uno snodo cruciale dei rapporti mafia-potere.

Si torna, dunque, a Di Maggio e a quei sospetti che Chelazzi stava cercando di verificare, di fare diventare ipotesi processuali. Non sappiamo se Chelazzi, in quei giorni, avesse letto (o riletto), una vecchia informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze, trasmessa il 3 aprile 1996 (Nr. 109/U.G. di prot.) ai pubblici ministeri di La Spezia che in quel periodo stavano indagando su traffici d’armi all’ombra di una possibile nuova P2, in un’inchiesta che avrebbe portato in carcere il 16 settembre 1996, tra gli altri, Pierfrancesco Pacini Battaglia e Lorenzo Necci. Quell’informativa del 3 aprile 1996, però, era dedicata a un altro personaggio, Rosario Pio Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 gennaio 1952. Si tratta della stessa persona che negli anni Novanta venne indagata (e poi archiviata) sia nella famosa inchiesta “Sistemi criminali” della D.d.a. di Palermo sia nell’inchiesta di Caltanissetta sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La cronaca giudiziaria messinese degli anni Settanta testimonia che Cattafi era stato compagno d’armi, all’università di Messina, niente di meno che di Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci. Cattafi successivamente era stato anche il mentore, oltre che il testimone di nozze, del boss barcellonese Giuseppe Gullotti. Quello stesso Gullotti che, secondo Giovanni Brusca, su richiesta di Rampulla, aveva personalmente recapitato agli stragisti di Capaci il telecomando utilizzato proprio da Brusca il 23 maggio 1992. Beh, se Chelazzi negli ultimi tempi lesse quell’informativa dovette strabuzzare gli occhi. Perché vi era riportata un’intercettazione in cui era proprio Cattafi a parlare dei propri rapporti con Di Maggio. A questo punto, però, è meglio fare un passo indietro. Cattafi, dopo i burrascosi anni di militanza neofascista all’università di Messina, che gli avevano fruttato due condanne definitive (una per una goliardica sventagliata con un mitra Sten all’interno della Casa dello studente; l’altra, insieme a Pietro Rampulla, per l’aggressione ad un gruppo di studenti sospetti di simpatie sinistrorse), si era trasferito dalla fine del 1973 a Milano dove aveva impiantato affari nel campo farmaceutico. Era però finito, anche all’ombra della Madonnina, in guai giudiziari. In un’occasione era stato pure arrestato, in un’indagine per il sequestro dell’industriale Giuseppe Agrati, che nel gennaio 1975 aveva fruttato ai rapitori il riscatto di addirittura due miliardi e mezzo di lire. Le prove sembravano solide, c’era perfino una testimone oculare che aveva visto Cattafi ed un complice, con le borse piene dei soldi del riscatto, partire per la Svizzera. Sennonché, su richiesta proprio del pubblico ministero Francesco Di Maggio, Cattafi era stato prosciolto in istruttoria con una sentenza emessa nel 1986 dal giudice istruttore milanese Paolo Arbasino. Cattafi, però, era rimasto coinvolto anche nelle rivelazioni che il pentito milanese (di origine catanese) Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”, aveva reso proprio al dr. Di Maggio, a partire dal novembre 1984. Epaminonda aveva accusato Cattafi di essere l’emissario del boss catanese Nitto Santapaola negli affari dei casinò e di essere uno degli uomini più importanti del sodalizio mafioso insediatosi nell’autoparco di via Salomone a Milano. Una storia da prendere con le pinze, quella dell’indagine sull’autoparco della mafia, perché era rimasta senza esito a Milano fin dal 1984 e quando era stata tirata fuori nel 1992 dalla Procura di Firenze ne era nata una violenta polemica, strumentalizzata da chi aveva tentato di brandirla, in difesa dei tangentisti di regime, come arma contro il pool Mani Pulite di Milano. Di quell’inchiesta, nel 1984 a Milano, era stato titolare per l’appunto Francesco Di Maggio, che da un lato aveva raccolto le dichiarazioni di Epaminonda sui mafiosi dell’autoparco e dall’altro aveva ricevuto le informative dei carabinieri sulla stessa vicenda. Ma nulla ne era sortito. Non solo: nel maxiprocesso derivato dalle confessioni di Epaminonda fra gli imputati non era comparso Rosario Cattafi (per lui le accuse di Epaminonda erano state stralciate e inserite nel fascicolo per il sequestro Agrati). Anzi, nel “processo Epaminonda” il P.m. Di Maggio aveva fatto svolgere a Cattafi il ruolo di testimone dell’accusa. Francesco Di Maggio – non lo avevamo ancora detto – era cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, figlio di un sottufficiale dell’Arma che prestava servizio lì. Solo dopo la licenza liceale si era trasferito in Brianza, a Desio, dove, prima di entrare in magistratura, aveva fatto in tempo a dedicarsi alla politica come consigliere comunale. Torniamo all’intercettazione di Cattafi riportata nell’informativa del Gico di Firenze. Nella notte del 16 settembre 1992 gli investigatori del Gico, con un’ambientale piazzata negli uffici dell’autoparco di via Salomone, avevano intercettato una lunghissima conversazione fra Rosario Cattafi, Ambrogio Crescente e Vincenzo Caccamo. Il discorso ad un certo punto era andato sul pentito Angelo Epaminonda, che aveva rivelato a Di Maggio un incontro che Cattafi gli aveva chiesto, per conto di Nitto Santapola, per entrare in società al casinò di Saint Vincent.

Eccone il testo: “CATTAFI: ‘Io non lo conoscevo (Angelo Epaminonda) … e maledetto il momento che l’ho conosciuto … perché io ero … sono stato arrestato in Svizzera … sono venuto in Italia, scendo per chiedere e chiarire … mandato di cattura in Italia … eh potevo uscire dopo altri tre mesi … ad un certo punto … neanche il tempo di fare accertamenti e interrogatori … si è pentito sto cazzo in brodo … eh … diciamo il dottor DI MAGGIO … il P.M. non lo sai ci sono andato a scuola…’. CRESCENTE: ‘… inc. … DI MAGGIO era un avvocato fallito a Monza … inc. … DI MAGGIO era un caruso … un … inc. … fallito…’. CATTAFI: ‘Questo era il figlio del maresciallo dei Carabinieri al mio paese (incomp.) … questo dice … ti manda come cassiere della mafia internazionale … questo … inc. … ehh … lui DI MAGGIO … inc. … dice non appartiene a … non è uno … eh dice però … DI MAGGIO si sente dire … ma c’ero pure io con – inc. – a questo punto … quello ci disse sappi che per me è uomo di SANTAPAOLA … eh … avvicinato…’”.

Chiunque può farsi un’idea: la più adesiva al tenore delle parole è che Cattafi ammettesse di aver effettivamente incontrato Epaminonda, il quale poi si era pentito con un P.m., Di Maggio, al quale Cattafi era legato da antichi rapporti risalenti ai tempi della scuola a Barcellona Pozzo di Gotto; e non sembra potersi mettere in dubbio che Cattafi riferisca la reazione di sorpresa che Di Maggio aveva avuto all’indirizzo di Epaminonda quando il pentito aveva legato il nome di Cattafi alla mafia e in particolare al boss Santapaola. Certo è che, fra le rivelazioni di Epaminonda e quell’intercettazione, Cattafi con Di Maggio per forza di cosa aveva avuto contatti, non foss’altro che per il fatto che il pubblico ministero aveva chiamato Cattafi come teste d’accusa per la posizione dell’imputato Salvatore Cuscunà nel processo nato dalla collaborazione di Epaminonda. È, quindi, abbastanza fondato il sospetto che Cattafi in quella conversazione intercettata ripetesse un discorso fattogli personalmente dal suo vecchio conoscente Francesco Di Maggio. Ecco, quindi, come in quell’incredibile gioco di specchi che sembra fare da scenario alla Trattativa si passa da Di Maggio ad un personaggio di alta valenza criminale come Cattafi, il quale nel decreto emesso dal Tribunale di Messina con il quale nel luglio 2000 gli venne irrogata la misure di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno venne sospettato di essere una sorta di trait d’union fra la mafia barcellonese, la mafia catanese e i servizi segreti. E così si entra nel gioco grande del progetto politico-eversivo che fece, almeno in parte, da propulsore alle stragi mafiose. In questo quadro, occorre ricordare, allora, che due collaboratori di giustizia siciliani (uno catanese, Maurizio Avola, e uno messinese, Luigi Sparacio) hanno reiteratamente dichiarato che Rosario Cattafi nei primi anni Novanta avrebbe partecipato ad alcuni summit, tenutisi in provincia di Messina, prodromici alle stragi del 1992, alla presenza, fra emissari della mafia e di apparati deviati, anche di Marcello Dell’Utri. Quelle dichiarazioni non trovarono seguito ma nemmeno smentita. Di quelle riunioni potrebbe tornare a parlarsi nel processo di revisione che si preannuncia per la strage di via D’Amelio. Infatti a breve la D.d.a. di Caltanissetta proporrà alla Procura generale di Caltanissetta le risultanze finali delle indagini avviate con la collaborazione di Gaspare Spatuzza, che hanno spazzato via i depistaggi di Stato che avevano accompagnato il “pentimento” di Vincenzo Scarantino ed una parte dei processi che si erano celebrati fra Caltanissetta, la Corte di cassazione e Catania. Secondo le regole sulla competenza per i processi di revisione, così, ad occuparsi della revisione sulla strage del 19 luglio 1992 sarà la Procura generale di Messina, guidata dal magistrato barcellonese Antonio Franco Cassata. Anche di lui e dei suoi legami con Cattafi si parla in quella informativa del Gico di Firenze. Al momento dell’arresto furono trovati nell’agenda di Cattafi tutti i recapiti telefonici del magistrato, compreso quello di casa. Chissà perché li teneva in agenda. Viene anche ricordata la militanza di Cattafi in un particolarissimo circolo culturale barcellonese il cui nome dice già abbastanza: Corda Fratres (cuori fratelli). Ne era socio, quando organizzava l’omicidio del giornalista Beppe Alfano o quando – secondo il racconto di Brusca – procurava il telecomando per la strage di Capaci, anche il boss Gullotti. Il dominus di quel circolo culturale era ed è proprio il magistrato, Antonio Franco Cassata, cui arriveranno gli atti per la revisione del processo su via D’Amelio. Sulle pareti della sede di Corda Fratres, che si trova nella piazza centrale di Barcellona P.G., campeggiano ancora le vecchie locandine attestanti la partecipazione di Di Maggio a conferenze indette dal circolo cui erano iscritti Rosario Cattafi e Giuseppe Gullotti.

La Trattativa e quel che ne è derivato come una persecuzione del destino: un passato oscuro che non vuole passare.

L'ASSASSINIO DI MORO (1978) - Il "mistero dei misteri", dopo le ultime dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta risvolti inquietanti. Dietro la morte del dirigente DC uno spietato gioco delle parti, scrive Giuseppe Dell’Acqua. Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9 Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in Via Caetani a Roma. Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una società; arrivino a mettere in dubbio se stessi. Il 16 marzo scorso è ricorso il 28° anniversario della strage di Via Fani (16 marzo 1978) ed è passato ancora una volta nel silenzio di tutti; quotidiani, riviste, TG, programmi TV, nessuno ha nemmeno accennato alla morte dei cinque agenti di scorta. A distanza di tempo è bene ricordare che il mistero del sequestro Moro non è ancora stato svelato e soprattutto che la dichiarazione rilasciata il 5 luglio 2005 dall'onorevole Galloni (vice segretario vicario della DC nel 1978) inerente la "certa" presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, ha alzato un grosso polverone che nel giro di pochi giorni, come per incanto, si è dissolto in un semplice ricordo. Le dichiarazioni di Galloni, Andreotti e addirittura della Santa Sede, i documenti del "Dossier e dell'Archivio Mitrokhin", devono obbligatoriamente portare la coscienza di "qualcuno" a pensare che forse sia giunto il momento di parlare per far conoscere all'Italia, la verità.

16 marzo 1978, Via Fani ore 9.05: " ...un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della DC. La sua scorta armata, composta da cinque agenti...è stata completamente annientata..."

Con questo comunicato le Brigate Rosse, il 17 marzo, rivendicano il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione del maresciallo dei carabinieri Oreste Leopardi, dell'appuntato Domenico Ricci, del brigadiere Francesco Izzi e degli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati è pronta a votare la fiducia al 4° governo Andreotti che nasce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi 8 settimane. A rendere particolare quest'evento è che, per la prima volta negli ultimi 30 anni, fanno parte del governo anche esponenti del Partito Comunista Italiano, avvicinati alla Maggioranza dal nuovo progetto politico, denominato "compromesso storico"; artefice della cosiddetta "svolta a sinistra" è proprio l'onorevole Aldo Moro. D'origini pugliesi Moro è stato capo del governo in cinque diverse occasioni dal 1963 (I governo) al 1976 (V governo) e ad oggi, è considerato come uno dei più grandi statisti italiani perché è riuscito a comprendere prima di tutti l'ondata di innovazione che stava colpendo la politica italiana. Moro dal 16 marzo al 9 maggio 1979 resterà per tutto il periodo chiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Chi erano le BR e soprattutto qual era il loro principale obiettivo? Le BR "nascono" in un convegno dei militanti del Comitato Politico Metropolitano (CPM) a Chiavari, in Liguria nell'autunno del 1970. Il CPM era una "Struttura Articolata di Lavoro in cui i militanti realizzano da una parte le condizioni per una riflessione politica.e dall'altra consentono una crescita politica omogenea della lotta."; erano gruppi di studenti ed operai che si riunivano in "assemblee" per discutere di politica e per cercare di "risolvere" i problemi della società attraverso "lotte e volantini". In questo convegno è sostenuta la necessità di intraprendere una lotta armata, della guerriglia e quindi, della clandestinità: "Non è con le armi della critica e della chiarificazione che s'intaccano la corazza del potere capitalistico e le croste della falsa coscienza delle masse. Che la lotta di classe nel suo procedere incontri la violenza del sistema, è inutile ripetercelo. Il problema della violenza non è separabile dall'illegalità. lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria nello scontro di classe.".  La parola d'ordine negli anni '70 è "lotta di classe", ed è proprio questo lo scopo principale delle "neonate" BR che, infatti, si autodefinirono "combattenti del proletariato". I loro punti di riferimento erano "il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani, non accettando gli schemi che hanno guidato i partiti comunisti europei nella fase rivoluzionaria della loro storia." Le BR avevano intenzione di realizzare quello che Lenin riuscì a fare in Russia nel 1917: una "rivoluzione comunista", ma allo stesso tempo rinnegavano il modo con il quale i partiti comunisti europei hanno affrontato la "politica rivoluzionaria" fino a quel momento. L'obiettivo principale quindi era la lotta di classe che doveva portare il "proletariato", il "solo, unico, autentico, comunismo rivoluzionario" al potere. Secondo il parere di molti storici, il vero obiettivo delle Brigate Rosse era quello di essere riconosciute politicamente ed il discorso fino a qui fatto rafforza l'idea di BR come partito politico, pronto a guidare la nazione. Un esponente di spicco del partito armato però, nega questa tesi: Mario Moretti. Capo indiscusso delle BR, ideatore del sequestro Moro e quindi punto massimo delle ideologie brigatiste, nel suo libro "Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana" alla domanda di Carla Mosca e Rossana Rossanda sulla trattativa che le BR stavano avendo con il Governo per la liberazione di Aldo Moro, risponde: ".Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. E' diventata sinonimo di "cedimento". Noi non volevamo ne trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo?" Le BR volevano solo l'"ammissione di uno stato di fatto" che valeva a dire " qualcuno dello Stato ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire". Non gli serviva essere riconosciute politicamente o istituzionalmente, a loro bastava solo essere "riconosciute" come avversario, come nemico da battere. Il linguaggio, leggermente "conflittuale", è appropriato nel descrivere "gli anni di piombo" ed in particolare il sequestro Moro che ha rappresentato, per la società italiana, una vera e propria "guerra civile" dove non ci sono due ideologie politico-sociale a lottare tra loro, ma tre istituzioni: lo "Stato" rappresentato dal Governo, l'"Anti-Stato" rappresentato dalle Brigate Rosse e la "Nazione" rappresentata dal popolo italiano. E' proprio questo terzo elemento che rende l'"Affaire Moro" un macigno, ancora oggi, che grava insopportabile sulla Repubblica Italiana; per la prima volta si è messa in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, "né con lo Stato né con le BR" è lo slogan del 1978 e questo significa che non solo, un popolo non riconosce più l'avversario nel "cattivo" ma addirittura, non riesce a capire chi è veramente il "nemico" da battere. Si colloca quindi in una posizione intermedia, al centro dei due "fuochi". Questo comporta la distruzione di un'identità che mai l'Italia Repubblicana proverà ancora.

Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano; ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi rispettivamente di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della stazione centrale di Bologna (2 agosto 1980). In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia intera fu colpita da gravi atti terroristici "neri" e "rossi". I colori purtroppo distinguono il terrorismo di stampo fascista o più semplicemente quello di "estrema Destra" (Nero) da quello di marchio comunista o di "estrema Sinistra"(Rosso). E' solo una coincidenza che i due attentati "spartiacque" si tingono di "nero" non solo per l'alone di mistero che tuttora li circonda, ma anche per le dirette responsabilità dell'azione. E' bene ricordare che dopo la strage alla stazione di Bologna, gli attentati continueranno, anche se, avranno volti nuovi e del tutto diversi quali la mafia, la camorra e la ndrangheta, per non parlare poi del terrorismo moderno; ma questo è un altro discorso. Come ogni "dopoguerra" che si rispetta, anche la "stagione di piombo" ha il suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda oggettività dei numeri.". 429 vittime, 2000 feriti, 199 morti e 782 feriti in 10 stragi, 144 vittime rivendicate dal terrorismo "rosso" 86 delle quali solo da parte delle Brigate Rosse e 36 vittime rivendicate dal terrorismo "nero", sono solo alcuni dei "numeri", tragici, che il terrorismo porta con se. È subito evidente che ben 86 delle 144 vittime rivendicate, appartengono alle BR, sintomo che sia stata la più grande "organizzazione terroristica italiana" della storia repubblicana. La domanda a cui sarà impossibile dare una risposta, è se le BR sono un "frutto" concimato, raccolto e mangiato esclusivamente da "contadini" italiani o se invece "qualcuno", di più grande, le ha "usate" per raggiungere i suoi obiettivi? E' questo il capitolo più difficile della storia del sequestro Moro e delle BR; la possibile influenza, nelle BR d'organizzazioni più grandi e più segrete, non appartenenti allo stato italiano, è da anni un punto cruciale su cui storiografi e critici s'interrogano.

Le ultime dichiarazioni dell'onorevole Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 alla rete televisiva "RAINews24", sembrano confermare l'ipotesi di una "collaborazione" tra le BR e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della DC all'epoca del sequestro Moro disse: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo". La possibile presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, apre nuovi ed inquietanti scenari sul caso Moro, chiudendo definitivamente le porte alla "pista russa" che fino ad oggi ha ipotizzato che a "decidere" la sorte dell'onorevole Aldo Moro sia stato il KGB russo. Nel raccontare la "Storia contemporanea" bisogna tener conto che esistono due "binari" che viaggiano nella stessa direzione e velocità e che però "trasportano" due "versioni dei fatti" distinte e separate. Il binario è quello del "conosciuto", della storia scritta sui libri, raccontata dai nonni o semplicemente vista in TV; il secondo invece porta con se una "storia" misteriosa, non conosciuta e che nessun libro di storia, nessun documentario TV e "forse" nessun nonno potrà mai raccontare: è la "Storia" scritta dai Servizi Segreti. I contatti tra le BR e i servizi segreti stranieri non sono molto documentati e quindi sono esclusivamente frutto d'ipotesi o d'invenzioni fantapolitiche che a volte hanno anche un fondamento. Nell'"Archivio Mitrokhin" - la raccolta di documenti segreti che Vasilij Mitrokhin, capoarchivista del KGB, consegnò agli inglesi del MI6 nel 1992 e che nel 1999 fu pubblicata con la partecipazione di Christopher Andrew, massimo esperto storico del KGB - ci sono due dichiarazioni molto importanti per la politica italiana: "nell'estate del 1967, Giorgio Amendola, a nome della Direzione del PCI, chiede formalmente l'assistenza sovietica per preparare il partito alla sopravvivenza come movimento illegale e clandestino nel caso di un colpo di Stato. Fino al 1976 i trasferimenti di fondi al Partito comunista sono stati molto più semplici a Roma che negli Stati Uniti, dal momento che i capi del PCI visitano regolarmente l'ambasciata sovietica, è possibile evitare la trafila di contatti clandestini e nascondigli segreti. Aiuti finanziari aggiuntivi arrivano da Mosca anche attraverso contratti lucrosi con società controllate dal PCI". La prima indiscrezione ci rivela che il PCI è finanziato direttamente dal KGB, mentre la seconda ci ricorda che: "Il PCI si preoccupava in particolar modo del sostegno che le Brigate Rosse ricevono dai servizi segreti cecoslovacchi, quando le BR assaltano nel centro di Roma l'automobile del presidente della DC, l'onorevole Aldo Moro, le preoccupazioni dei leader del PCI raggiungono l'apice, teme una fuoriuscita di notizie sul sostegno dato dai servizi segreti cecoslovacchi (StB) alle BR. Una delegazione del PCI a Praga è stata messa a tacere quando ha cercato di sollevare la questione dell'aiuto alle BR, alcuni esponenti delle quali sono stati invitati in Cecoslovacchia." Riassumendo, ci rendiamo conto che il PCI prelevava soldi dal KGB ed era a conoscenza che i servizi segreti cecoslovacchi "aiutavano" in qualche modo le BR, ma aveva paura che ciò si venisse a sapere. Perché? Forse perché in questo modo anche la collaborazione tra PCI e KGB sarebbe stata scoperta e soprattutto perché il PCI sarebbe stato accusato di aiutare indirettamente, attraverso gli amici cecoslovacchi (StB), le Brigate Rosse. In un momento caldo come quello dell'immediato "dopo-Moro", ciò avrebbe suscitato forti polemiche che avrebbero sancito il definitivo "crollo" del PCI proprio nel momento in cui si stava - per la prima volta nella sua storia - avvicinando al governo. Che il PCI ricevette finanziamenti dai servizi segreti Russi è accertato dall'Archivio Mitrokhin mentre la "collaborazione" tra BR e StB non è mai stata confermata. Nel "Dossier Mitrokhin" - la raccolta di documenti che gli Inglesi tra il 1995 ed il 1999 hanno inviato ai servizi segreti italiani - c'è il "Rapporto Impedian numero 143" che dice: ".Nel dicembre del '75 Yuriy Andropov notificò quanto segue al Comitato Centrale del PCUS. Il Ministro degli Affari Interni Cecoslovacco, OBZINA, aveva informato il rappresentante del KGB sovietico a Praga di un incontro avvenuto il 16 settembre 1975. L'incontro era stato tra Antonin VAVRUS, Capo del Dipartimento Internazionale del Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e Salvatore CACCIAPUOTI, vice presidente della Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Italiano (PCI). CACCIAPUOTI affermò di essere stato autorizzato dalla dirigenza del PCI a informare il Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco che le agenzie ufficiali italiane erano in possesso di alcuni documenti.che confermavano che una delle basi dell'organizzazione terroristica italiana "Brigate Rosse" era ubicata in Cecoslovacchia e che le agenzie di sicurezza cecoslovacche stavano cooperando con essa." Ancora più dirette sono le accuse che nel settembre del '74 il capitano dei carabinieri Gustavo Pignoro del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fa ad Alberto Franceschini - uno dei fondatori delle BR - affermando che al momento della sua cattura, era appena arrivato da Praga. Dopo soli 6 mesi (marzo 1975) a conferma di quanto detto, gli appunti dei servizi segreti italiani rivelano che Franceschini soggiornò in Cecoslovacchia dal giugno '73 al giugno '74 frequentando il campo di addestramento di Karlovy Vary. A distanza di 30 anni arriva l'inattesa quanto impensata smentita. Un articolo, scritto sull'"Espresso" del 27 maggio 2005, risolve tutti gli equivoci e spegne l'incendio fin qui alimentato. Nell'ottobre del '99 il SISMI - l'apparato dei servizi segreti italiani - ha chiesto ai servizi segreti dell'ex unione sovietica tutta la documentazione riguardante i possibili appoggi della StB alle BR. Da questi documenti è venuto fuori che Franceschini e Curcio - capo storico delle BR - sono veramente stati a Praga, ma non si trattava dei fondatori delle BR. Uno è l'avvocato Renato Curcio, nato a Catanzaro l'1/3/1931, presente in Cecoslovacchia il 7 ed 8 agosto 1972. L'altro è un commerciante di Foiano (Arezzo), Sergio Franceschini nato nel 1917, presente a Karlovy Vary agli inizi degli anni '70. Grazie a Nicola Biondo, consulente della Commissione Mitrokhin che per primo ha letto e studiato i documenti provenienti dall'Unione Sovietica, un primo gran mistero è stato svelato e soprattutto, ritornando alle dichiarazioni di Galloni sulla presunta collaborazione BR-USA, possiamo analizzare da un diverso punto di vista l'intero "Affaire Moro". Il rapporto USA - Moro è sempre stato in primo piano fin da quel drammatico 16 marzo del 1978. Aldo Moro era stato più volte minacciato di morte nel caso in cui non avrebbe abbandonato immediatamente la carriera politica. Di fronte alla Commissione Parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro - moglie dello statista ucciso - ricordando il viaggio negli USA che il marito fece nel 1974 come ministro degli Esteri insieme al Presidente della Repubblica Leone, dice: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere."." Secondo alcuni collaboratori dell'onorevole Moro "il presidente fu molto scosso dall'incontro avuto con il segretario di Stato, Henry Kissinger, tanto è vero che il giorno dopo nella Chiesa di S. Patrick si sentì male e disse di voler interrompere per molto tempo l'attività politica". Il segretario di Stato USA, Kissinger, era molto ostile a Moro tanto che arrivò ad affermare che non credendo nei dogmi, non potesse credere nella sua impostazione politica e per questo lo riteneva un elemento "fortemente negativo". Sulle minacce che il presidente della DC subì prima del sequestro, è importante ricordare che tanti avvenimenti fecero presagire ad un triste epilogo. In principio fu il caso della macchina blindata che doveva essere pronta per il dicembre del 1977 e che invece non arrivò mai. Andreotti che Cossiga hanno sempre smentito che Moro fece richiesta di un'auto blindata. Il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta, fece raddoppiare la dotazione abituale di proiettili della sua pistola e quella degli agenti di scorta. Altri eventi, fecero capire che nell'entourage di Moro c'era uno stato d'animo preoccupato. Solo negli ultimi anni è giunta la notizia che il 15 marzo 1978 - il giorno prima della strage - il capo della Polizia ha visitato Moro nel suo ufficio, tranquillizzandolo sull'eventualità d'attentati nei suoi confronti. A Moro fu assicurato che i servizi segreti avevano la situazione sotto controllo e che non correva nessun pericolo immediato. "Ironia della sorte", il giorno dopo Moro fu rapito. Nella prima metà degli anni '50 la CIA chiese la collaborazione del SIFAR, il Servizio Informazioni Forze Armate. A capo dei servizi segreti italiani nel 1962 era Giovanni De Lorenzo che sottoscrisse un patto con la CIA: "deve [De Lorenzo] impegnarsi a rispettare gli obiettivi di un piano permanente d'offensiva anti-comunista chiamato in codice << Demagnetize >>. Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, atte a ridurre la presenza, la forza, le risorse materiali e non ultimo l'influenza nel governo del Partito comunista in Italia.Del piano Demagnetize il governo italiano NON deve essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". Al primo arruolamento di Gladio partecipò un colonnello del SIFAR, Renzo Rocca che "per i primi sei mesi del '63, su preciso mandato del generale della CIA Walters, s'impegnò nella campagna volta a impedire la formazione del primo centro sinistro organico preseduto da Moro". Il 27 giugno 1968, Rocca fu trovato morto in un ufficio al sesto piano di un palazzo di via Barberini 86 a Roma. Rocca aveva il compito di commerciare armi con i paesi Africani e soprattutto, doveva instaurare rapporti con i servizi segreti israeliani e palestinesi. Altro "007" che ebbe il compito di allacciare rapporti con i palestinesi fu il colonnello Stefano Giovannone. Un comunicato Ansa del 10 maggio 2002 dice: "Il colonnello, nel 1984, nell'inchiesta a Venezia su un traffico d'armi BR-Olp, avrebbe parlato di un proprio interessamento presso i palestinesi, e in particolare, presso il leader Arafat, per cercare aiuti per ottenere la liberazione di Aldo Moro, dopo il suo sequestro. I contatti tra i palestinesi e le BR.sarebbero avvenuti, ma non ebbero esito positivo perché Arafat fece una dichiarazione pubblica, proprio contro le BR". Il nome di Giovandone lo fece anche Aldo Moro durante i giorni di prigionia, indicandolo come "personalità in grado di intervenire" per cercare di ottenere la sua liberazione. Lo stesso Mario Moretti, capo delle BR, prese contatti con la guerriglia palestinese che arrivò a fornirgli delle armi. Tutto ciò avvenne un anno prima del sequestro Moro. Da queste testimonianze, ci rendiamo conto che CIA, SISMI, MOSSAD, OLP e BR erano in contatto tra loro e che almeno tre di loro erano legati da un'alleanza forte e ben radicata. Probabilmente sarà proprio quest'alleanza a decidere le sorti del presidente della DC. Nella vicenda Moro sono implicate tutte le più importanti istituzioni militari, a porre l'accento ancora una volta sul fatto che il 9 Maggio 1978 - giorno del ritrovamento del cadavere di Moro - ha rappresentato la fine di una "guerra civile" e l'inizio di un costante declino di un partito che è stato alla guida del paese dal primo giorno della Repubblica. Politici, industriali, operai, studenti, casalinghe; tutto il Paese è stato, per cinquantacinque giorni, coinvolto in un drammatico evento che ha scosso l'immaginario collettivo, facendo venire meno quei punti di riferimento che la società si era data: Stato, Nazione, Chiesa. La certezza che Moro non si sarebbe salvato era molto alta, al punto di giungere ad affermare che Moro non è morto il 9 maggio 1978 ucciso dai colpi della pistola di Mario Moretti; Aldo Moro "è morto" il 22 aprile, quando il Santo Padre Paolo VI, decise di rivolgersi alle BR: "Ed in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni." La lettera che Paolo VI scrisse agli "uomini delle Brigate Rosse" fu pubblicata sull'Osservatore Romano e, stando alle testimonianze dei brigatisti, segnò fortemente l'animo del Presidente. Anna Laura Braghetti - l'unica donna del gruppo brigatista che ha vissuto nella stessa casa dove lo statista fu tenuto prigioniero - racconta che ".fu il papa a far precipitare ulteriormente la situazione. Moro gli aveva scritto tempo prima, supplicandolo di intervenire. Ma il papa non lo ascoltò.per Moro segnò il momento peggiore di quei 55 giorni, Fra tutte le cattive notizie che Mario [Moretti] gli portò, nessuna lo scosse come il documento del Papa. Capi che il cerchio si era saldato nel punto esatto in cui lui aveva confidato - e calcolato - che si spezzasse." Il messaggio era solo l'ultimo dei tanti appelli umanitari che le BR ricevettero durante i giorni di prigionia. Questa lettera però conteneva qualcosa di diverso; il Papa si era già rivolto ai sequestratori e non aveva mai chiuso la porta del dialogo. Quel giorno però, l'appello di Paolo VI, mise la parola "fine" alle trattative. Fu la presenza di due parole, "Senza Condizioni", che fece cadere nel vuoto le ultime speranze di liberazione. Su queste "quindici lettere" si potrebbero scrivere volumi interi; C'è chi in questa frase indica la presenza dei Servizi Segreti di mezzo mondo, chi invece è certo che fu aggiunta a posteriori sotto suggerimento di Giulio Andreotti, capo di quella DC, che aveva sul piatto della bilancia la legge sull'Aborto tanto cara alla Chiesa. Come giusto che sia è stupido, e poco professionale, cercare di seguire l'una o l'altra tesi. Sono i documenti che "parlano" e in questo caso sono tutti a favore della chiarezza del Pontefice. Da nessuna parte, su nessun foglio, in nessun interrogatorio, ci sono prove che confermano quanto ipotizzato; l'unica cosa certa è che Moro era un fedele credente e praticante assiduo. Ogni domenica, infatti, seguiva la Santa Messa nella chiesa di Santa Chiara tanto che i Brigatisti pensarono di sequestrarlo proprio durane la funzione religiosa, salvo poi rinunciare per le troppe difficoltà "militari". Per Moro la religione veniva subito dopo la famiglia, a cui tanto era legato e di cui tanto andava fiero.

Alla famiglia è rivolta l'ultima drammatica lettera che Moro scrisse prima di morire.

"Mia dolcissima Noretta [Eleonora Moro], dopo un momento di esilissimo ottimismo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC.Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi, bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo." Dopo aver attribuito le responsabilità della sua mancata liberazione alla DC, si rivolge alla famiglia in un tono affettuoso, ma allo stesso tempo autoritario di chi fondamentalmente è ancora "il capo di famiglia". Moro infine - e solo alla fine - si rivolge a quella Chiesa o meglio a quel Papa, che "ha fatto pochino" per salvarlo e per riportarlo tra le braccia dei propri cari. Il mistero è proprio qui. Moro sostenne che "tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta" ma perché? Era forse a conoscenza che la Chiesa ebbe qualche possibilità di salvarlo? Effettivamente la Santa Sede aveva pronto un "piano" per liberare lo statista attraverso il pagamento di un riscatto. Già durante i 55 giorni di prigionia si era a conoscenza dell'intenzione della Chiesa di aprire una trattativa con le BR; Andreotti ricorda: " Il Papa aveva fatto prendere delle iniziative, vi era stata la disponibilità a pagare anche una cifra molto forte, se fosse stato questo il mezzo per poter salvare Moro, avevano cercato in tutti i modi di avere contatti". A distanza di quasi 27 anni lo stesso Andreotti conferma quella voce, in un intervento al Senato del 9 Marzo 2005: ".E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore." A confermare ufficialmente le intenzioni della Santa Sede è mons. Fabio Fabbri, stretto collaboratore di mons. Cesare Curioni - ispettore centrale dei cappellani carcerari italiani - all'epoca del sequestro. La dichiarazione fatta a Vladimiro Satta - giornalista del periodico "Nuova Storia Contemporanea" - indica in dieci miliardi di lire la somma che il Vaticano era pronto a pagare per la liberazione d'Aldo Moro; una cifra elevatissima per il tempo e soprattutto per la causa. Liberare Moro sarebbe stato un colpo durissimo per la DC e soprattutto per la Santa Sede: "Moro vivo sarebbe molto più pericoloso di un Moro morto" è il pensiero che circolava, durante i cinquantacinque giorni di prigionia, nelle menti degli uomini politici più importanti per il paese. Moro libero poteva essere una mina vagante nella politica italiana, andando contro quei "compagni di partito" che avevano dimostrato d'essere tutto, tranne che amici. Era chi aveva rivelato alle BR le linee guida della politica democristiana e quindi, forse, aveva "detto" cose che era meglio non sapere. Proprio per questo il SISMI si era preparato un piano denominato "Victor", da mettere in atto nel caso in cui Moro fosse stato liberato. Il progetto era quello di trasferire Moro in un centro clinico, immediatamente e prima d'ogni incontro con familiari e colleghi di partito. L'azione era assegnata al reparto medico degli incursori di Marina, sede principale di Gladio. Sia per la DC sia per la Chiesa quindi, la liberazione di Moro doveva essere evitata assolutamente. Le trattative tra Chiesa e BR fallirono proprio la mattina del ritrovamento del cadavere di Moro. Molti storici indicano nel "contatto", un personaggio noto alla cronaca per un altro tragico evento di quei 55 giorni: il falso comunicato n°7, quello del Lago della Duchessa. L'autore di quel comunicato fu un falsario legato alla "Banda della Magliana" (gruppo criminale romano) ed ai Servizi Segreti Americani: un certo Tony Ciccarelli. Era lui, secondo le testimonianze, il tramite tra la Chiesa e le BR. Ancora una volta entrano in scena i Servizi Segreti e questa volta però lasciano indelebilmente le tracce del loro passaggio.

Il 16 marzo 1978 alle ore 9.00 i Servizi Segreti Italiani erano presenti in Via Fani.

Il colonnello del SISMI Camillo Gugliemi, specializzato in "addestramento a scopo di imboscata" delle unità di combattimento "stay behind" alla base Nato in Sardegna, quella mattina era in Via Stresa a soli 200 metri dall'incrocio con via Fani. Guglielmi la mattina del 16 marzo avrebbe ricevuto una telefonata dal generale Musameci (P2): "Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro". Il militare non ha mai smentito la sua presenza in Via Fani, giustificandola però in un modo un po' "particolare". Egli dichiarò che "doveva andare a pranzo da un amico". In tutte le famiglie "normali" di solito, l'ora di pranzo è intorno alle 13.00 - 13.30 e non alle nove di mattina quando invece si è appena finiti di fare colazione. Mettendo da parte l'ironia, è strano che ci si presenti così di buon'ora a casa di un amico solo per pranzare. Questo stesso amico ha confermato che quella mattina Guglielmi aveva bussato alla porta della sua casa, ma ha sempre riferito che non era mai stato programmato un pranzo insieme. Fatto più inquietante è però che a poco più di 200 metri da un colonnello del SISMI furono sparati più di 90 proiettili, ci fu un tamponamento e fu rapito un grande esponente della politica italiana. Come mai un agente dei Servizi Segreti non ha avuto nemmeno l'idea di intervenire per vedere semplicemente quello che stava accadendo? Guglielmi ha sempre nascosto la sua presenza sul luogo della strage fino al 1991, quando un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, lo confidò all'Onorevole Cipriani. Ravasio disse anche che nelle BR era infiltrato uno "007". La spia era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco". Egli avvertì con mezz'ora d'anticipo che Aldo Moro quella mattina sarebbe stato rapito. Se mezz'ora non bastò per evitare la strage, il 16 febbraio 1978 - un mese prima dell'attentato - dal carcere di Matera, Salvatore Senatore disse: "è possibile che Moro sia rapito a breve". Altro preavviso giunse quindici giorni prima del sequestro. Renzo Rossellini, animatore di radio Città Futura, informò i dirigenti del PSI che Moro sarebbe stato rapito. Bettino Craxi, però, lo convocò solo a sequestro compiuto. Lo stesso Rossellini alle otto del mattino - un'ora prima del sequestro - in una trasmissione radiofonica, aprì con la notizia dell'avvenuto sequestro d'Aldo Moro. Le notizie, secondo il generale Santovito (P2), giunsero al SISMI centrale solamente dopo il 16 marzo. Purtroppo la registrazione della trasmissione radiofonica, così come le famose foto scattate da Gherardo Nucci pochi minuti dopo l'attentato, è scomparsa nel nulla. Nessuna prova, però, è più schiacciante di quella fornita da Antonino Arconte, nome in codice G.71. Arconte faceva parte di una struttura militare riservatissima: la "Gladio delle centurie" che operava fuori la nazione Italia al fine di evitare possibili colpi di Stato. Gladio fu istituito negli anni '50 con lo scopo di controllare e neutralizzare la capacità offensiva dei comunisti in caso di guerra civile. Naturalmente da quel momento si è evoluta e specializzata diventando un organo militare fondamentale per i Servizi Segreti italiani. "Il gran segreto" intorno al quale ruotavano gli interrogatori delle BR a Moro era proprio Gladio. L'argomento principale era la struttura di guerriglia e controguerriglia usata dal corpo speciale dei servizi segreti. Questa "seconda faccia" di Gladio doveva assolutamente restare segreto perché coinvolgeva i rapporti con gli USA e in particolare perché infrangeva le leggi della legislazione italiana. La legge 801/77, all'articolo 10, sancisce: "Nessuna attività, comunque idonea per l'informazione e la sicurezza, può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge". La legge di riforma dei servizi segreti 801 del '77 impone, per quanto riguarda gli agenti dei servizi segreti, di svolgere solo operazioni di "intelligence" e non operazioni armate. Il compito degli 007 italiani era solo quello di raccogliere informazioni e non di attuare operazioni militari. Gladio invece era coinvolta in molte operazioni militari all'estero ed anche in Italia tanto che il Ministro Formica dichiarò che ".nell'Italia Repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento; uno stato democratico può certamente avere dei piani segreti.ma non può avere assolutamente una milizia clandestina.". Gladio agiva in modo clandestino e quindi andava contro la legge. Ecco perché rappresentò il "gran segreto" con il quale le BR volevano minacciare lo Stato. Ad un certo punto del sequestro, infatti, ci si rese conto che le trattative non erano volte alla liberazione di Moro bensì alla consegna dei documenti raccolti dai terroristi; ma questo è un argomento che tratteremo più avanti. Ritornando ad Arconte, "il gladiatore" attraverso un sito internet prima, ed un libro poi, parlò di una sua missione in Medio Oriente che ebbe sviluppi importanti nel sequestro Moro". Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". Il plico che contiene l'ordine di aprire un canale per la liberazione di Moro è autenticato dal notaio Pietro Ingozzi d'Oristano ed è firmato del Capitano di Vascello della Marina della X Divisione "Stay Behind". Il documento è datato 2 marzo 1978 e fu consegnato a Beirut il 13 marzo dello stesso anno. Moro sarà rapito il 16 di marzo, due settimane dopo la data d'emissione e ben diciotto giorni prima della "cartolina di mobilitazione" che giunse ad Arconte il 26 febbraio 1978. Arconte però non è l'unico testimone del viaggio. Un secondo "gladiatore" lo accompagnò in missione: Pierfrancesco Cangedda, nome in codice "Franz". Egli fu inviato tempo prima in Cecoslovacchia per raccogliere informazioni sull'addestramento delle BR; un tema di grande interesse per la Commissione Mitrokhin. "Franz" è a conoscenza dei legami tra il terrorismo tedesco dell'occidente e le BR. Cosa centra il terrorismo tedesco? Forse non tutti sanno che l'operazione di Via Fani è stata la perfetta copia dell'operazione della Baader-Meinhof - organizzazione terroristica nata nella Repubblica Federale Tedesca nel 1971 - del 5 settembre 1977, quando fu rapito l'industriale Hans Schleyer. La Procura di Roma tramite i NOS ha interrogato i due "gladiatori" nel novembre 2000, solo che, ad oggi, non si conoscono gli esiti. In tutta questa vicenda, l'unica certezza è che nei Servizi Segreti si sapeva con largo anticipo che Moro sarebbe stato sequestrato. Falco Accame, è stato presidente della Commissione difesa della Camera dal 1976; egli ha apertamente dichiarato che "nell'agguato di Via Fani Guglielmi incarnava la presenza di Gladio col compito di verificare che tutto andasse bene ". Falsa che sia questa ipotesi, Gladio era presente in Via Fani "sottoforma di proiettile"; è poco nota la vicenda che i bossoli rinvenuti sul luogo della strage - 92 sparati e ben 46 da una sola arma, una "mitraglietta Scorpion" di fabbricazione cecoslovacca - presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. Questa speciale vernice rende quasi certa la provenienza delle armi, poiché è la stessa usata da Gladio per preservare i proiettili nei depositi sotterranei. Perché pur sapendo in anticipo delle intenzioni dei brigatisti, non si è fatto niente di concreto per la liberazione di un uomo, prima che di un politico.

DIECI GIUDICI COLLUSI CON I CLAN.

"Mi risulta che mio figlio avrebbe fatto i nomi di una decina di giudici; siccome io ho in corso otto processi vorrei che voi chiedeste a mio figlio di dire i nomi di questi giudici", scrive “La Repubblica”. La bomba scoppia alle 10,30 nell' aula bunker di Rebibbia dove la Corte di Assise di Caltanissetta si è trasferita per ascoltare i pentiti nel processo per la strage di Capaci. A parlare è Raffaele Ganci, boss della Noce, prima ancora che il figlio pentito, Calogero cominci a rispondere alle domande delle accuse e della difesa. Le parole del boss spiazzano tutti. E subito si scatena la caccia ai "nomi" degli insospettabili giudici che avrebbero favorito la mafia. Il tam-tam da Roma a Palermo è intenso. Circolano nomi di sei o sette giudici, nomi in libertà che nessuno, né i magistrati di Palermo né quelli di Caltanissetta, titolari per competenza, confermano. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, che assieme al collega Luca Tescaroli rappresenta l' accusa nel processo di Capaci, viene "accerchiato" dai giornalisti che gli chiedono notizie: "E' vero, è falso? Chi sono questi magistrati chiamati in causa da Calogero Ganci?". E il procuratore aggiunto Giordano, come al solito, dice poco o niente, si limita a dichiarare che "nel momento in cui dovessero emergere nel corso delle indagini i nomi di alcuni giudici l' ufficio del pubblico ministero automaticamente trasmetterà gli atti al Consiglio superiore della magistratura che li esamina e può decidere se aprire o no un' inchiesta. E questo proprio a garanzia degli imputati". Si controlla anche al Csm e alcune fonti affermano che da Caltanissetta non è giunto alcun fascicolo relativo alle presunte accuse del pentito contro giudici palermitani. Il giallo, dunque, resta. Ma il boss Raffaele Ganci, per fare quella richiesta così specifica al figlio pentito, qualcosa deve pur aver saputo. Ma quando Calogero Ganci, in teleconferenza (si scoprirà poi che si trovava all' interno di una stanza dell' aula bunker di Rebibbia e non in una località segreta), viene interrogato da accusa e difesa, l' argomento, non viene neppure sfiorato. Qualcuno si aspettava che alcuni difensori degli imputati ribadissero la richiesta del boss, ma non è stato così. Calogero Ganci dunque ha risposto alle domande attinenti al processo nel quale è anche imputato assieme al padre, al fratello Domenico e ad altri 39 boss e uomini d' onore. E in relazione ai presunti rapporti tra Cosa nostra e uomini delle istituzioni, il pentito ha ribadito che era il fratello Domenico che "si incontrava con persone vicine alle istituzioni e questo su incarico di mio padre Raffaele". Il figlio pentito del boss parla anche di un altro boss della Cupola, adesso pentito, Salvatore Cangemi che nelle sue dichiarazioni avrebbe "dimenticato" di avere partecipato ad alcuni omicidi eccellenti. Omicidi (come quelli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la partecipazione alla strage di via D' Amelio) che Ganci nelle precedenti dichiarazioni gli ha "ricordato". "E mio padre - ha affermato Ganci - era sollevato dal fatto che Cancemi non aveva ancora parlato della strage di via D' Amelio". Il pentito rispondendo ad altre domande ha detto che il boss Totò Riina poteva essere arrestato prima: "Bastava seguire me, che ero il suo contatto con gli altri boss, per arrivare a lui". E aggiunge anche di ricordare, per averlo saputo dalla moglie, dei lamenti di Antonietta Bagarella, moglie di Totò Riina, durante uno dei suoi parti in una clinica privata di Palermo dove era ricoverata con un falso nome. Sul 41-bis, il regime carcerario duro imposto ai boss, Ganci rivela che nonostante tutto i mafiosi riuscivano a comunicare tra di loro: "Comunicavamo liberamente e ci scambiavamo informazioni attraverso il bagno o le finestre delle nostre celle". L' interrogatorio di Ganci jr si è concluso nel tardo pomeriggio. Ha fatto o non ha fatto i nomi di giudici "avvicinabili"? Il mistero resta.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.

«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico?  La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»;  e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva   comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...).  Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno  -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu,  nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois,  ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio  Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.

Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi resgistrati dal vocabolario Espositese-Italiano.

Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.

Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.

Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.

Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.

Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”

Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.

Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.

Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.

Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

LE TOGHE IGNORANTI.

Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

Processo Mediaset: depositate le motivazioni della sentenza di condanna per Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Berlusconi fu "ideatore del meccanismo del giro dei diritti che a distanza di anni continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende a lui facenti capo in vario modo". E' il passaggio cruciale delle 208 pagine di motivazioni della sentenza di condanna a 4 anni per frode fiscale per Silvio Berlusconi nel processo Mediaset confermata dalla Cassazione lo scorso 1 agosto. "Berlusconi - si legge nelle motivazioni depositate oggi -, conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizione strategiche i soggetti dal lui scelti e che continuavano a occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale".

Le motivazioni della Cassazione: 

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Le motivazioni (cosa che succede raramente) sono firmate da tutti i componenti del collegio giudicante e non solo dal Presidente Antonio Esposito, finito al centro delle polemiche dopo la sua intervista rilasciata al quotidiano Il Mattino (ascolta l'audio) Una telefonata in cui, secondo la difesa del Cav, Esposito "anticipava" le motivazioni della sentenza in quanto addentrandosi nell'analisi di questioni molto tecniche. Un'intervista che ha provocato l'apertura di un procedimento disciplinare da parte del Csm nei confronti della toga. Secondo i giudici della Cassazione è dunque verosimile che qualche dirigente di Fininvest Mediaset "abbia subito per vent'anni truffe per milioni di euro senza accorgersene". Inoltre per i giudici della Cassazione, "Berlusconi, pur non risultando che abbia intrattenuto rapporti diretti con i materiali esecutori della gestione finanziaria Mediaset, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti e che continuavano ad occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale". "I personaggi chiave - sottolineano i giudici - sono stati mantenuti sostanzialmente nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui, di modo che la mancanza in capo a Berlusconi di poteri gestori e di posizioni di garanzia nella società non è un dato ostativo al riconoscimento della sua responsabilità". I giudici spiegano poi il meccanismo della truffa addebitata al Cavaliere: "La definizione come sovraffatturazione appare quasi un sottodimensionamento del fenomeno descritto e anzi, inadeguata a definirlo". E' "pacifica e diretta riferibilità a Berlusconi della ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità del denaro separato da Fininvest e occulto". Un sistema che secondo la Suprema Corte "ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere presso conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate da fiduciarie di Berlusconi". "I giudici di merito - scrivono ancora i supremi giudici - e segnatamente la Corte territoriale, come si è ampiamente visto, hanno ritenuto correttamente e motivatamente provato un gioco di specchio sistematico che rifletteva una serie di passaggi privi di giustificazione commerciale e ad ogni passaggio la lievitazione dei costi era, a dir poco, imponente". Per i giudici della Cassazione è "inverosimile" l’ipotesi alternativa "che vorrebbe tratteggiare una sorta di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi (proprio in quello che è il suo campo d'azione e nel contesto di un complesso meccanismo da lui stesso strutturato e consolidato) da parte di personaggi da lui scelti e mantenuti, nel corso degli anni, in posizioni strategiche e nei cui confronti non risulta essere mai stata presentata alcuna denuncia".

Filippo Facci e le motivazioni: Cassazione a piedi uniti per punire Berlusconi. Un libero, sin troppo libero convincimento del giudice. Anzi dei giudici, visto che tutto il collegio della Cassazione figura come estensore della sentenza. Una sentenza pedissequa, quasi in sudditanza psicologica verso i giudici dei gradi precedenti, oppure ecco, mettiamola così: senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza della Cassazione contro Silvio Berlusconi per frode fiscale appalesano meramente un’opinione, una gigantesca e apparentemente motivata opinione. Dopodiché, spiace dirlo, nelle 208 pagine della sentenza i cosiddetti «teoremi» e le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» abbondano eccome. Si tratta di capire, stringi stringi, in che misura sia inevitabile oppure appaia come una stortura. La tesi confermata e non cassata, dunque, è quella che avrete letto e ascoltato a partire da ieri pomeriggio: fu lui, Berlusconi, a mettere a punto il «giro dei diritti» televisivi che aveva il fine di gonfiare i costi (suoi) attraverso vari passaggi tra diverse società fittizie; l’obiettivo era quello di esportare capitali, costituire fondi neri all’estero (specie nei paradisi fiscali) e naturalmente evadere il fisco; in pratica, gli uomini Fininvest trattavano con le major americane direttamente negli Usa ma poi, in un passaggio successivo, s’inseriva un’intermediazione che serviva solo a gonfiare le fatture (con soldi che in realtà rimanevano a Fininvest) e a inserire le cifre maggiorate nelle dichiarazioni italiane dei redditi. È stato ritenuto provato che una società d’intermediazione di Lugano, la Ims, fosse solo una società fittizia senza funzioni reali, solo la prosecuzione della vecchia «Fininvest service» svizzera. Di questo sistema, conferma la sentenza, Berlusconi fu l’ideatore e il beneficiario anche dopo la dismissione delle cariche sociali, tanto che, «conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti dal lui scelti». Ogni ipotesi alternativa, tipo che Berlusconi non sapesse e sia stato ingannato, denota «assoluta inverosimiglianza». Le domande - Ora: è attendibile che sia andata così? Fininvest adottò davvero questo sistema? Berlusconi ne era consapevole? Molto, sinceramente, porta a crederlo: perché appare estremamente logico, anzitutto, e secondariamente perché centinaia di indizi confortano questa tesi. Ma si tratta, appunto, di un’opinione: il che non significa che sia anche provabile in un tribunale, e soprattutto non significa che sia provabile  una diretta responsabilità del proprietario di Fininvest. La differenza tra un’opinione e un fatto provato non è solo rilevante in punto di diritto, ma lo diviene in modo particolare se l’imputato è a capo di una forza politica a cui fa riferimento mezzo Paese. Per capire di che ambiguità stiamo parlando, tuttavia, facciamo parlare la sentenza. Questo passaggio, per esempio: «Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo Fininvest, ma che erano vicine a Berlusconi, tanto da frequentarlo». Oppure: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in assenza di poteri gestori formali». Tutto stravero: e ciascuno, noi compresi, può farsi personali convinzioni in merito. Il che non toglie che queste, a esser pignoli, non sono prove: sono attribuzioni di una responsabilità oggettiva. Pagina 182: «Era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse di interesse della proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali». Forse era ovvio, ma compito di un tribunale non è stabilire che cosa è «ovvio» e che cosa «non è dunque verosimile» (ancora pagina 182). La Cassazione tuttavia si sofferma non poco sulla questione della «consapevolezza» di Berlusconi, benché mai provata: «La sentenza d’Appello», è scritto, «ha rilevato che rispondono del reato solo coloro che avevano consapevolmente partecipato al sistema in atto... Consapevolezza che poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema, e non in chi ne aveva una visione solo parziale, pur prendendo parte ad alcuni degli atti». Traduzione: Berlusconi e non i suoi sottoposti, pur non partecipando attivamente, aveva senz’altro «uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema», dunque sapeva. In questo, c’è da dire, la sentenza ricorda molto le motivazioni che il giudice Antonio Esposito aveva già anticipato nell’ormai nota intervista al Mattino, e sulla quale il Csm sta indagando. Ora prendiamo un altro condannato del processo, Frank Agrama, principale intermediario dei giri di denaro e ritenuto una sorta di dipendente occulto di Mediaset; secondo la Cassazione (pagina 136) si denota la «mancanza di qualsiasi logica negli ingenti importi pervenuti all’imputato», cioè Agrama. Ma, anche qui: la mancanza di logica non è una prova, meglio, è una «prova logica». Una prova che in qualche caso, peraltro, non è proprio suffragatissima: «È del tutto evidente che Agrama ha agito da intermediario di comodo e, seppure non vi sia sicura evidenza bancaria, non resta che ritenere del tutto logico che... ». È evidente. Non resta che ritenere logico che. Ma il capolavoro d’ambiguità è a pagina 184 della sentenza, e si riferisce alla «doglianza a lungo espressa dalla difesa sulla riduzione delle liste testimoniali: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l’assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Rileggere per credere. In altre parole non compaiono compiute risposte, in tutta la sentenza, alle principali opposizioni avanzate dalla difesa: che mai Berlusconi si occupò concretamente di diritti televisivi, che mai si occupò neppure degli organigrammi societari e tantomeno delle denuncie dei redditi e delle scelte finanziarie; che tutti i testimoni hanno confermato questo - ciò che conta in un’aula giudiziaria, al di là di ogni «verosimiglianza» - e soprattutto che i denari derivanti dalle plusvalenze sui diritti televisivi rimanevano in mano a questo Frank Agrama, non a Berlusconi. Erano soci occulti? Pare verosimile anche questo: ma prove (vere)  non ne sono spuntate. Una sentenza, dunque, buona per riaprire un vecchio dibattito: su che cosa sia effettivamente una «prova» e su quale sia, oggi, il ruolo di una Cassazione che appare ambiguamente divisa tra legittimità e merito. Tantopiù in questa sentenza nel complesso deludente, che non passerà certo alla storia della giurisprudenza: non solo perché è ricalcata sul giudizio d’Appello che a sua volta ricalcava quello di primo grado, ma perché lo fa anche piuttosto maldestramente. Il procuratore Antonio Esposito e i suoi colleghi, nelle loro 208 pagine, si atteggiano formalmente a controllori ma poi è come se sbracassero, come se cedessero a un tifo sfegatato per la sentenza che hanno confermato e di cui non fanno che riportare stralci. Pagina 136: «... non intacca in alcun modo la ricostruzione effettuata dai giudici di merito, e che questa Corte di legittimità condivide». Ancora: «Lo spazio e l’attenzione che i giudici di merito hanno dedicato alla figura di Frank Agrama, con argomentazioni logiche e convincenti, sono di tale ampiezza ed approfondimento da consentire a questa corte di legittimità di affermare che il complesso probatorio a lui ascritto è di particolare consistenza». Pagina 186: «Si è ritenuto di riportare integralmente le conclusioni formulate dai giudici di merito per poter affermare che sono del tutto conformi alle plurime risultanze probatorie». Insomma, la Suprema Corte dovrebbe limitarsi ad assicurare la corretta osservanza e interpretazione delle norme di diritto, tanto che le sue sentenze, poi, diventano un orientamento della giurisprudenza nazionale. Difficilmente accadrà in questo caso, visto che - con rispetto parlando - è palese un compiaciuto e mero copia & incolla della sentenza d’appello. La difesa, perlomeno, attendeva qualche risposta giuridica circa l’impossibilità, sostenuta dagli avvocati Coppi e Ghedini, di configurare in punto di diritto il reato contestato a Silvio Berlusconi. Non hanno ottenuto neanche questo. Sarà stata la fretta. È una delle sentenze di Cassazione più insignificanti che pare di ricordare.

Nell'agosto 2011, molto prima che gli venisse assegnato il verdetto della Corte dei Cassazione sul Cavaliere, il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Suprema Corte, durante una cena si è sfogato con i commensali: "Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così". A raccontare l'aneddoto è stato il Giornale raccogliendo la testimonianza di un imprenditore calabrese, Massimo Castiello, che aveva invitato nella sua villa a San Nicola Arcella, sul Tirreno, la toga. A tavola c'era anche l'attore Franco Nero che oggi conferma le parole del suo ospite. Chiamato al telefono Libero ha confermato che da parte di Esposito non c'era un atteggiamento sereno nei confronti di Berlusconi.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Nell'agosto 2011, molto prima che gli venisse assegnato il verdetto della Corte dei Cassazione sul Cavaliere, il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Suprema Corte, durante una cena si è sfogato con i commensali: "Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così". A raccontare l'aneddoto è stato il Giornale raccogliendo la testimonianza di un imprenditore calabrese, Massimo Castiello, che aveva invitato nella sua villa a San Nicola Arcella, sul Tirreno, la toga. A tavola c'era anche l'attore Franco Nero che oggi conferma le parole del suo ospite. Chiamato al telefono Libero ha confermato che da parte di Esposito non c'era un atteggiamento sereno nei confronti di Berlusconi.  

"Se becco Berlusconi gli faccio un mazzo...". Spunta un'altra imbarazzante cena (con testimoni) in cui il magistrato dichiarava il suo pregiudizio scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. «Berlusconi mi sta proprio sulle palle. Se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Parlava a ruota libera il giudice Antonio Esposito davanti ai commensali stupiti. Sono passati due anni da quella cena, ma il padrone di casa, Massimo Castiello, si ricorda ancora molto bene quelle parole. «Ce l'aveva col Cavaliere, i suoi non erano giudizi affrettati, si capisce che coltivava proprio un'antipatia profonda. Non lo sopportava. E non si faceva problema nel comunicarlo a chi gli stava intorno». È l'agosto del 2011. Castiello, piccolo imprenditore sessantottenne con interessi nel mondo immobiliare, organizza una serata fra amici nella sua villa con vista Tirreno di San Nicola Arcella, in Calabria. «Io e Esposito ci conosciamo da una vita. Esposito faceva il pretore a Scalea, in provincia di Cosenza, non lontano da San Nicola Arcella, il mio paese. Insomma, sia pure a salti, con le intermittenze della vita, ci siamo frequentati. Anche se poi ci siamo persi per un certo periodo. Comunque, per l'occasione allargo gli inviti, anzi nella mia testa quel piccolo evento serve per far incontrare Esposito e un altro mio amico, anzi l'unico mio vero amico, Franco Nero». Sì, il grande attore, l'interprete di tanti film indimenticabili. «Ho scoperto - riprende Castiello - che Esposito è un fan scatenatissimo di Nero, ha visto quasi tutti i suoi film, cita a memoria scene e battute, meglio di uno sceneggiatore, e insomma l'occasione è ghiotta. Nero in quell'agosto di due anni fa è ospite a casa Castiello ed Esposito, come d'abitudine, trascorre il periodo estivo a Sapri che non è molto lontana». Il menu d'ordinanza prevede pasta, patate e provola. «Un piatto delizioso, accompagnato da un buon vino locale». Il tutto nella cornice meravigliosa di una terrazza porticata a strapiombo sulle acque del Tirreno. Una cena da cartolina. «Dunque a tavola siamo in sette: io e mia moglie Sandra, Esposito e la sua signora, altre due persone e lui, il mito. Franco Nero». Si parla e si sorride, ma è chiaro che la star della serata è Nero. Esposito s'informa e a un certo punto il discorso cade su un film che gli spettatori italiani non hanno mai visto: L'escluso, in cui Franco Nero è diretto dal figlio Carlo e recita insieme alla moglie Vanessa Redgrave. «È la storia di un avvocato italoamericano che fa di tutto per far assolvere il proprio cliente. La trama è ambientata negli Stati Uniti e la pellicola è stata girata negli Usa, alle porte di New York. In Italia però non è mai arrivata». Pare che i diritti siano stati acquistati, combinazione, da Mediaset, comunque L'escluso qui da noi è un fantasma. «Ora non ricordo bene - prosegue Castiello - ma forse, proprio a partire dal film il discorso è scivolato su Berlusconi. Sento ancora le parole del magistrato che mi hanno ferito non una ma due volte. La prima perché io ho sempre avuto simpatie berlusconiane, la seconda, molto più importante, perché chi parlava era il presidente della seconda sezione della Cassazione». Un magistrato autorevolissimo, un giudice, che in teoria, avrebbe pure potuto trovarsi un giorno faccia a faccia con l'imputato Silvio Berlusconi». Come poi puntualmente è avvenuto tre settimane fa quando la Suprema corte, presieduta da Esposito, ha condannato il Cavaliere a 4 anni di carcere per frode fiscale, al termine del processo Mediaset. Due anni fa nessuno poteva prevedere che quello sarebbe stato il finale e però Esposito - se sono veritiere le affermazioni di chi lo invitò quella sera - avrebbe dovuto frenare. E invece il giudice, davanti a una tavolata composita, con persone che in parte conosceva e in parte no, e con un personaggio famosissimo seduto vicino a lui, si lascia andare a briglia sciolta: «Berlusconi mi sta proprio sulle palle». Niente male per chi dovrebbe essere un monumento all'imparzialità, alla terzietà, alla riservatezza e via elencando. Ma questo è solo l'antipasto, poi Esposito, almeno a sentire Castiello, ingrana la quinta: «Quello, Berlusconi, si salva sempre, grazie ai suoi avvocati... la prescrizione... ma se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Testuale. Alla faccia della serenità della giustizia. Gli esperti parlerebbero di pregiudizio, insomma se quella frase così ruvida, inammissibile per un magistrato, fosse stata recapitata a Berlusconi prima del verdetto fatale, sarebbe stata probabilmente motivo più che sufficiente di ricusazione. Esposito avrebbe dovuto passare la mano, la corte avrebbe avuto un altro presidente e la sentenza, chissà, forse avrebbe avuto un altro esito. Ma quella notte la frase, anzi le frasi riverniciate di antiberlusconismo militante, restano fra le mura di quel terrazzo porticato, affacciato sul Golfo di Policastro. Esposito parla sempre con Nero, ma già che c'è tira pure un pesantissima stoccata a Wanna Marchi, immancabile come un mantra nei suoi incontri conviviali. I lettori del Giornale avranno già capito: Stefano Lorenzetto ha raccontato su queste pagine una cena, con successiva premiazione, in cui incrociò lo scintillante giudice. Siamo nel marzo 2009 e ci troviamo a Verona, all'hotel Due Torri, a centinaia di chilometri di distanza da San Nicola Arcella, ma a quanto pare le ossessioni di Esposito sono sempre quelle. Il Cavaliere e Wanna Marchi. Esposito si dilunga sul Cavaliere, fa sfoggio delle sue presunte intercettazioni a luci rosse, si diffonde sui testi in cui il Cavaliere avrebbe dato i voti alle prestazioni erotiche di due deputate del Pdl. E la Marchi? Quel giorno manca poco, pochissimo alla sentenza e Esposito anticipa a Lorenzetto il verdetto che leggerà di lì a poche ore: la condanniamo. La teletruffatrice non sta simpatica al presidente di Cassazione e lui fa di tutto per trasmettere questi sentimenti all'ex vicedirettore del Giornale. Come si vede, il copione si ripete un paio d'anni dopo. In Calabria. La sentenza Marchi è ormai in archivio, ma Esposito la condensa, sempre secondo Castiello, in modo efficace: «C'era qualcosa prescritto, ma abbiamo fatto finta di niente». Il plurale rimanda alla corte, composta da cinque membri, e dunque va preso con le pinze perché sarebbe la firma su una scorrettezza gravissima. Forse il presidente ha sintetizzato in modo brutale quel che è avvenuto nel segreto della camera di consiglio e l'ha in qualche modo volgarizzato. Non è chiaro. Per la cronaca Wanna Marchi è stata sepolta sotto una pena di 9 anni e 6 mesi di carcere e sempre per la cronaca l'ex venditrice, dopo aver letto i documentatissimi articoli di Lorenzetto, ha annunciato, attraverso l'avvocato Liborio Cataliotti, che ricorrerà alla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. E che, se dovesse vincere devolverà i soldi dell'indennizzo alle sue vittime. Ma quella è un'altra storia. Sono i toni aspri dell'antiberlusconismo in salsa Esposito a rimanere impressi nella mente di Castiello. Il banchetto si chiude lì, anzi Esposito riceve pure un piccolo omaggio che lo riempie di gioia: la videocassetta dell'introvabile film di Nero, L'escluso. Poi, ed è cronaca recente, accade l'impensabile. Esposito, come presidente della sezione feriale, si trova a tiro il Cavaliere. E conferma la sentenza d'appello. Poi s'infila da solo nei guai, concedendo una spericolata intervista al Mattino in cui, fra una battuta in italiano e una in napoletano, anticipa le motivazioni che non sono ancora state depositate. È abituato a chiacchierare, Esposito. E non si tiene nemmeno in quella circostanza. Come aveva fatto a cena, a Verona, e a san Nicola Arcella. Il banchetto del 2009 è stato ricostruito da Stefano Lorenzetto, adesso sappiamo che davanti al Tirreno e alla pasta con la provola Esposito emise la sua sentenza definitiva. Irrevocabile: «Berlusconi mi sta sulle palle».

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

Tutto il potere a Toga Rossa. Magistratura democratica e Movimento per la giustizia da tempo condizionano tribunali e procure grazie a una collaudata organizzazione del consenso. E ora puntano all’unificazione scrive Maurizio Tortorella in collaborazione con  Annalisa Chirico su “Panorama”. Non mollano. Non demordono, nemmeno dopo la condanna definitiva dell’Avversario; non si rilassano nemmeno un po’. Era la sera del 1° agosto 2013, Silvio Berlusconi era appena stato giudicato colpevole dalla Cassazione. Avrebbero potuto festeggiare il risultato raggiunto. Invece è bastato che il presidente della Repubblica, appena mezz’ora dopo, dichiarasse: «Auspico che adesso possano aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame in Parlamento dei problemi relativi all’amministrazione della giustizia». E subito Magistratura democratica è saltata su, come un tappo: «La sentenza dimostra che i giudici sanno fare il loro mestiere, nonostante tutti i tentativi di condizionarli», mentre «parlare di riforme della giustizia è un segnale negativo». Così, ancora una volta, ha parlato la massima corrente della sinistra giudiziaria, attraverso il presidente di Md Luigi Marini (ex pm torinese, oggi in Cassazione) e il segretario generale Anna Canepa (pm genovese). Durissimi, contro Giorgio Napolitano e contro tutti. La loro dichiarazione è lunga, ma merita la citazione proprio per quanto è minacciosa: «I richiami alla necessità di riforme della giustizia suonano come risposte alla prova d’indipendenza che la magistratura ha saputo dare, a dimostrazione che una parte consistente (quanto consistente vedremo) della politica considera quell’indipendenza un pericolo e intende andare alla resa dei conti». A seguire, un corollario d’accuse: contro chi cerca di «addomesticare» i magistrati; contro i politici «in malafede»; contro i continui «tentativi di condizionamento»…

È l’unione delle toghe rosse. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. Da anni Berlusconi sostiene di esserne perseguitato: a giudicarlo, in effetti, spesso sono stati giudici dichiaratamente di sinistra. Tra i cinque giudici che il 1°agosto lo hanno condannato in Cassazione nel processo Mediaset, per esempio, il presidente Antonio Esposito, finito nei guai per l’intervista in cui ha anticipato le motivazioni del verdetto, passa per simpatizzante di Movimento per la giustizia, l’altra corrente di sinistra. Mentre Ercole Aprile nel 2007 si era candidato all’Anm proprio nelle liste di Mpg (incidentalmente in lista con Caterina Interlandi, il giudice milanese che lo scorso maggio ha condannato Giorgio Mulè, direttore di Panorama, a 8 mesi di reclusione senza condizionale per omesso controllo su un articolo ritenuto diffamatorio). L’unione delle toghe rosse si articola in queste due organizzazioni: Md, forte di 800-900 iscritti, e Mpg, con altri 400. Insieme, raccolgono appena un settimo dei 9 mila magistrati italiani. Però riescono a coagulare un terzo dei consensi di categoria e contano come fossero la maggioranza. Federati nel cartello elettorale Area, alle ultime elezioni del febbraio 2012 per l’Associazione nazionale magistrati, un po’ il sindacato di categoria, Md e Mpg hanno preso 2.271 preferenze su 7.200 voti validi. Rispetto alle precedenti elezioni del novembre 2007, dove si erano presentati divisi, hanno perso 300 consensi  e un seggio nel comitato centrale, da 13 a 12 su 36. Ma grazie a un’alleanza con la corrente «mode-rata» di Unicost hanno ottenuto il segretario dell’Anm: Maurizio Carbone (Mpg). Mentre al Consiglio superiore della magistratura, che regola le carriere e giudica sui procedimenti disciplinari della categoria, dal 2010 hanno 6 consiglieri togati su 16. E anche qui fanno il bello e il cattivo tempo.

Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino (e anche lui iscritto a Md negli anni Sessanta), dal suo ritiro in pensione è il grande critico delle correnti giudiziarie: «Sono solo centri di potere» dice «che cercano di ottenere posti rilevanti per gli iscritti. Md e Mpg giurano di essere diversi: sbandierano carte dei valori, pretendono purezza e integrità morale. Ma poi fanno esattamente come gli altri». Se lo dice Tinti, che è azionista e collaboratore del Fatto quotidiano, c’è da credergli. Del resto, alcuni mesi fa è arrivata una conferma dalla vicenda-simbolo svelata da un’email sfuggita a Francesco Vigorito (Md), giudice romano e consigliere del Csm: finita su una mailing list aperta, la lettera manifestava dubbi su una nomina al Tribunale di sorveglianza di Salerno, dove Area aveva sostenuto con forza una magistrata solo perché appartenente alla corrente, e preferendola ad altri colleghi «forse più meritevoli» soltanto per «le pressioni interne».

Il caso ha acceso grandi polemiche, presto tacitate in nome della disciplina di partito. Le rivelazioni via email sono state spesso una spina nel fianco della sinistra giudiziaria, tanto che si è fatto di tutto per renderle inaccessibili. In passato, infatti, alcune incursioni giornalistiche nel circuito degli iscritti hanno scoperchiato clamorose partigianerie e faziosità. Quando per esempio nel dicembre 2009 uno squilibrato ferì al volto Silvio Berlusconi lanciandogli contro una statuetta del Duomo di Milano, in Md si accese il dibattito. E prevalse chi giustificava: «Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce “eversivi” i magistrati?».

Due anni fa, quando il centrodestra cercò d’impostare l’ennesima riforma della giustizia, le email violate di Mpg segnarono nuove impennate di avversione: «Lo zietto Berlusconi deve togliere al più presto il disturbo» scrisse un pm. Altri suggerirono la chiamata a difesa di tutta la sinistra e del sindacato: «La nostra corporazione da sola non può reggere uno scontro politico, se non gioca politicamente». Certo, Md e Mpg hanno preso posizione su ogni sospiro della politica italiana e, soprattutto, sulle leggi approvate dal Parlamento.

Livio Pepino, uno dei maggiori esponenti di Md, postulò del resto la necessità che «il magistrato si ponesse come contropotere». Più forti di un partito politico, più dure di un sindacato, più potenti di un esercito, le toghe rosse hanno così sparato a zero sul potere legislativo: censurando tante norme, da quelle anticlandestini («Si introduce un reato inutile, profondamente iniquo e discriminatorio: non si può trasformare un fenomeno sociale in fenomeno criminale») fino alla legge Biagi («La celebrata riforma del mercato del lavoro, lungi dal provocare il benefico effetto di un’emersione del “nero”, accresce la precarizzazione dei rapporti e l’arretramento della sicurezza»). La verve censoria in luglio ha riguardato anche il governo Letta, contro la legge svuota-carceri: «Sconfortante il balletto di reati ora sottratti alla carcerazione preventiva, ora inclusi, ora oggetto di ripensamenti».

La capacità di condizionare la politica è elevata. In questo agosto, sul Fatto quotidiano, due alti esponenti di Md hanno massacrato le tesi appena un po’ garantiste del nuovo responsabile giustizia del Pd, Danilo Leva: prima Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, poi Gian Carlo Caselli, procuratore di Torino, hanno affossato le sue tesi come «inquietanti», «strampalate», «stravaganti»... Una cassazione preventiva: così, tanto per frenare un compagno che sbaglia. Mentre in maggio Beppe Fioroni, deputato del Pd in quel momento candidato alla presidenza della commissione Giustizia, aveva raccontato in un’intervista delle telefonate ricevute dall’Anm per garantire proprio quel posto a Donatella Ferranti, già magistrato di Md ed ex segretario del Csm. Fioroni aveva dichiarato alla Repubblica: «Io ovviamente ho obbedito ai magistrati, mica al Pd».

Poi aveva smentito, ma alla fine il risultato è stato quello: Ferranti for president. Va detto che, là dove Md ha nel Pd la sua evidente sponda partitica, l’altra corrente ha meno legami diretti: quelli di Mpg a tratti sembrano vicini al Movimento 5 stelle, a tratti a Sinistra ecologia e libertà, a volte a nessuno dei due. Questo, malgrado siano in minoranza nel cartello elettorale di Area, non impedisce che spesso prevalgano i loro candidati nelle primarie per il voto al Csm o all’Anm. È stato così, a sorpresa, nel 2010: nella circoscrizione della Cassazione, dove Aniello Nappi (Mpg) ha prevalso su Giovanni Diotallevi (Md). Due anni dopo, Nappi è uscito dal gruppo di Area (che al Csm ha altri due consiglieri: Paolo Carfì, il giudice del processo berlusconiano Imi-Sir oggi in Corte d’appello a Milano; e Roberto Rossi, il pm barese che ha indagato sul ministro del Pdl Raffaele Fitto) rivendicando maggiore indipendenza.

Ma sono screzi da poco, l’unità della sinistra giudiziaria non è mai posta in discussione: «Di recente» dice Nappi «ho chiesto l’iscrizione anche a Md». E uno dei leader storici di Mpg, il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, dichiara a Panorama: «Francamente, io proprio non capisco perché siamo ancora separati». Anche Antonella Magaraggia, giudice veneziano e dal gennaio 2011 presidente di Mpg, dice di guardare oltre il cartello elettorale: «Area» dichiara «è un progetto politico-culturale aperto anche ai non iscritti, verso il superamento delle correnti. A unirci con Md è molto, quasi tutto. Sì, forse Md in passato è stata più ideologica, ma noi oggi siamo debitori per tutte le sue conquiste. Noi di Mpg siamo più attenti all’organizzazione, all’efficienza del lavoro. Però l’ambito ideale è lo stesso, dividerci è impossibile».

Betta Cesqui, alta esponente di Md, è d’accordo: «Qui, semmai, dobbiamo allargare la nostra base». Da giugno Area tende dichiaratamente alla fusione, con un comitato di coordinamento fatto da 7 magistrati: 2 a testa sono di Md e di Mpg, e 3 indipendenti eletti in un’assemblea a Roma. Il giudice veneziano Lorenzo Miazzi (ex Md) è uno dei 7: «Vogliamo creare un’associazione liquida» spiega a Panorama «sul modello di Libera, l’organizzazione di don Ciotti contro le mafie. Anche perché vogliamo che idee, tesi e linea escano non più dai vertici, ma dalla base». Queste istanze orizzontali un po’ ricordano la «democrazia del web», tanto cara a Beppe Grillo. Con molta trasparenza in meno, però: sia Magaraggia sia Edmondo Bruti Liberati, procuratore di Milano e uno dei massimi leader di Md, confermano a Panorama che l’elenco dei circa 1.250 iscritti alle due correnti «non è pubblico», anche se entrambi «a titolo personale» si dicono favorevoli a rendere note le liste. Il risultato, comunque, è una grave anomalia: nessun cittadino può sapere se a inquisirlo o giudicarlo sia un magistrato schierato a sinistra, di Md o di Mpg (nel 2002 ci provò per le vie legali Cesare Previti, l’ex ministro della Difesa imputato a Milano, ma ottenne un secco no). Non è un bene. Anche perché non è un mistero che i magistrati aderenti alle due correnti siano spesso importanti, esposti, attivi in ruoli chiave. Negli anni Settanta e Ottanta, Md era presente soprattutto nei «ranghi bassi»: pretori d’assalto, giudici istruttori. Oggi, con i colleghi di Mpg, la sinistra giudiziaria è presente ovunque, soprattutto nelle procure, e arriva fino in Cassazione.

Non bastasse la capacità politica espressa in Italia, la sinistra giudiziaria ha poi una sua casa europea. Da anni Md e Mpg aderiscono a Medel, Magistrats européens pour la démocratie et les libertés: da Strasburgo l’organizzazione propugna il diritto di azione collettiva dei magistrati, la «diffusione della cultura giuridica democratica» e ha tra gli obiettivi «la difesa dei diritti delle minoranze, con particolare riguardo a quelle dei migranti e dei poveri». Medel oggi riunisce 19 correnti delle toghe di sinistra ed estrema sinistra, come l’Unión progresista de fiscales in Spagna e Syndicat de la magistrature in Francia, per oltre 17 mila iscritti. Molto influente presso la Commissione europea e le Nazioni unite, Medel risponde alle parole d’ordine della sinistra più oltranzista: ha appena preso posizione contro i tagli allo Stato sociale dettati dalla crisi finanziaria; critica ogni tentativo di introdurre il minimo principio di responsabilità civile nell’attività giudiziaria; attacca ogni censura (anche istituzionale) che vada a colpire un magistrato «democratico». Insomma, se mai servisse, è una superlobby a difesa degli interessi della categoria. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. E poi ridono quando dicono che un giudice si butta a sinistra…

GIUDICI IMPUNITI.

I giudici impuniti: risarcito un innocente su 100. Quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono «in attesa di giudizio»: sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del codice del 1989 si chiamava più onestamente «ordine di carcerazione preventiva». Per l’esattezza, calcola l’associazione Antigone, i reclusi che non sono ancora stati processati sono 26.804 su un totale di 66.685. Nessun Paese europeo ha statistiche così elevate e sconvolgenti: la media generalmente non supera il 10-15 per cento.

Su 400 cause intentate dal 1988 per ingiusta detenzione l’errore è stato riconosciuto soltanto 4 volte. Solo l'1 per cento dei ricorsi contro i magistrati per ingiusta detenzione si risolve con una condanna della toga , scrivono  Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia su “Il Giornale”. Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’1% dei giudizi ha visto lo Stato «pagare» i danni del lavoro del giudice. Insomma la «montagna» della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un «topolino». A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’1% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. «Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili». Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato «emerge una eccessiva operatività» di questo «filtro». Questo «difettoso funzionamento della legge» porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per «ogni manifesta violazione del diritto». Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme». Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: «Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge». Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato.

La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.

Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.
Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;
b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;
c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;
d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;
e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;
f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm.

E noi adesso lo diremo. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri.

Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa). Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!)
- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%)
- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%)
- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%)
- 2 sono stati  i rimossi (l’1%)

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema giudiziario.  Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni e milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione viene ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di “L’Espresso”  nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela particolari e retroscena inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il potere in Italia. Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al giorno. Gli esami per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta come i giudici si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla politica. Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede che dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente  dagli incarichi e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Solo sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012, sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono state giudicate negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei lavoratori “medi”. Gli inquirenti tedeschi si accontentano di un multiplo più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa la macchina giudiziaria agli italiani? Per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal Cepej), contro una media europea di 57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini ci sono. Peccato, però, che come tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti male. Da noi ci sono 2,3 Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in Francia uno. Ogni togato dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti factotum dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7. Uno in meno quindi. Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle. Cane non mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute 5.921 notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben 5.498, cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono stati sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che i giudici ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro. Lo 0,28%. Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la legge sulla responsabilità civile che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la norma 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per colpe specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%, sono in attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione. 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia perso solo 4 volte. Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per ogni giorno effettivo di impiego. Su questi dati, Livadiotti non è mai stato smentito. Né con i fatti, né con le parole. Ebbene sì, tutto questo è lo scandalo degli scandali. La macchina della giustizia dovrebbe cambiare in tutto e per tutto, essere rivoltata come un calzino. I veri privilegiati, anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati. La vera grande colpa di Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10 anni di governo, una legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei giudici. Questa, nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi, in Italia sono costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati. Prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, poteri e un’immunità che non ha pari al mondo.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

"C'è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”, alla cui dotta enucleazione si sono stracciate le smancerie antiberlusconiane. "Ci deve pur essere un giudice a Berlino" è espressione che, anche quando se ne ignora l'origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l'aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all'inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l'aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo. Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino. Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all'inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell'imparzialità della giustizia. Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un'area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Alla fine questi giudici  hanno condannato Silvio Berlusconi, che anela, ancora, un Giudice a Berlino.

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

Il Paese del garantismo immaginario. Le vanterie sull'Italia patria di Beccaria? Sono sciocchezze: la cultura manettara è egemone, scrive Alessandro Gnocchi  su “Il Giornale”. Viviamo in una società garantista? Il garantismo è pensiero corrente, se non egemone? No, è la risposta secca di Non giudicate, il saggio di Guido Vitiello edito da Liberilibri. Un giro in libreria, scrive Vitiello, a caccia di tomi che propugnino ideali garantisti, si risolverebbe in una ricerca senza frutto. Al contrario, gli scaffali sono ben riforniti di libri firmati da «magistrati-sceriffo impegnati sulla frontiera delle mille emergenze nazionali» o da «reduci gallonati di Mani pulite» o da giudici «scomodi» ma non al punto da non trovare frequente ospitalità nei vari talk show serali. La tivù è la tribuna da cui levano doglianze sui paletti alle indagini posti dai politici in nome del «garantismo» (quasi sempre «peloso», nota Vitiello). Basta dare un'occhiata alle cronache dei quotidiani per rendersi conto che gli avvisi di garanzia sono percepiti come sentenze della Cassazione; e che spesso l'odio (ma anche l'amore) per l'inquisito o il condannato di turno fa velo alla valutazione dei fatti. Il pensiero supposto egemone si rivela «solitario», e paga il conto anche ai «falsi garantisti» che si sono mescolati ai veri, «finché la moneta cattiva ha scacciato la buona e reso sospetti tutti i commerci». Insomma, la reputazione «ben poco commendevole» del garantismo in parte, ma solo in parte, è meritata: c'è stata poca chiarezza nel distinguere casi personali e questioni di principio. La tesi di Vitiello comunque è limpida: «L'imbarbarimento giudiziario italiano è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di vederlo, e non abbia interessi di bottega tali da suggerirgli una cecità deliberata. Basta gettare uno sguardo, anche distratto, sul punto di caduta o di capitolazione - le carceri di un sistema che è in disfacimento fin dalla testa, per arrossire quando sentiamo ripetere quelle insulse vanterie sul Paese di Beccaria». L'originalità del saggio consiste nel farci vedere i principi incarnati in quattro ritratti di garantisti doc: Mauro Mellini, Domenico Marafioti, Corrado Carnevale, Giuseppe Di Federico. Sono pagine nate sulle colonne del Foglio (l'introduzione è di Giuliano Ferrara) ampliate e arricchite da un carteggio fra Mellini ed Enzo Tortora. E proprio la vicenda di Tortora, insieme con Marco Pannella e le battaglie dei Radicali, lega tutti i protagonisti di Non giudicate. Tocca a Mellini, avvocato di conio liberale, leader radicale e deputato per svariate legislature, introdurre il lettore all'abbecedario garantista, cioè alle parole di cui diffidare perché sventolate al fine di giustificare l'indebito allargamento dei poteri della magistratura. Emergenza: «cela il proposito di passar sopra a certe fisime per instaurare una giustizia di guerra»; giustizia d'assalto: «ha dato la stura a innumerevoli interventi di magistrati ritenuti o autodefinitisi provvidenziali, di cosiddette supplenze e vicarianze di altri poteri»; esemplare: è una sentenza «che punisce con esagerata severità in un determinato momento, quindi una sentenza esemplarmente ingiusta». Domenico Marafioti, avvocato e letterato, è l'uomo delle profezie inascoltate: nel 1983 pubblicò La Repubblica dei procuratori. Sottolineava, scrive Vitiello, «i prodromi dell'integralismo giudiziario, dell'esondare della magistratura, specie di certe sue avanguardie, dalle dighe che legge e Costituzione le assegnano»; criticava il modello inquisitorio del processo; segnalava la nascita del giudice pedagogo, che vuole redimere il prossimo. Corrado Carnevale, presidente della Prima sezione penale della Cassazione dal 1985, è noto come l'ammazzasentenze, nomignolo affibbiatogli da una campagna stampa denigratoria iniziata dopo l'annullamento dell'ergastolo ai mandanti dell'omicidio di Rocco Chinnici. La corporazione non si levò certo in sua difesa (lo fece Pannella). Più volte finito sotto processo, sempre assolto, Carnevale illustra cos'è «l'astratto formalismo» che gli veniva imputato: osservanza scrupolosa della legge scritta. «Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss'anche per intenti nobili, mette lo Stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali». Carnevale rifiuta l'appellativo di garantista: «E nel fare giustizia il garantismo che c'entra? Non esiste per il giudice qualcosa di diverso dall'applicazione corretta, intelligente della legge». Giuseppe Di Federico ha fondato il Centro studi sull'ordinamento giudiziario dell'università di Bologna. È lui a sollevare un altro insieme di questioni: la separazione delle carriere, l'assenza di un valido sistema di valutazione dell'operato dei giudici, il tabù dell'obbligatorietà dell'azione penale. Questi sono i limiti non solo, per così dire, ideologici del sistema ma anche gli ostacoli all'efficienza della macchina. Se vi sembra che queste idee siano moneta corrente nel nostro Paese «garantista»...

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

Come è possibile che i giovani siano attratti dal pensiero giustizialista? Cronaca della presentazione del libro “Non giudicate” di Guido Vitiello su “Zenit”. L’opera, con la prefazione di Giuliano Ferrara, raccoglie le voci di alcuni “veterani del garantismo” italiano, scrive Antonio D’Angiò.  Sabato 27 ottobre 2012 è stato presentato alla Camera dei deputati, in occasione della quarta edizione delle “Giornate del libro politico a Montecitorio”, il “libretto” (così definito dallo stesso autore) di Guido Vitiello intitolato “Non giudicate” edito da liberilibri. Vitiello, nato trentasette anni fa a Napoli, è docente all’Università di Roma La Sapienza e collabora, tra gli altri, con il “Corriere della Sera” e “Il Foglio”. Per una fortuita coincidenza temporale, all’interno dell’opera è raccontato quanto avvenuto precisamente dieci anni fa, cioè il 30 ottobre 2002, quando il Presidente di Cassazione Corrado Carnevale è stato assolto, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (accusato di aver “aggiustato” alcuni processi di mafia e da alcuni pentiti di essere un referente dei boss) dopo circa un decennio di vicende processuali. Iniziamo da questa “ricorrenza temporale” per parlare del libro di Guido Vitiello, perché Corrado Carnevale, con Mauro Mellini, Domenico Marafioti e Giuseppe Di Federico è uno dei quattro veterani (tutti ultraottantenni all’epoca dell’intervista e, peraltro, tutti meridionali) che l’autore  ha incontrato per discutere del garantismo in Italia e successivamente dare vita a questa pubblicazione. Ma soprattutto perché Carnevale è l’unico dei quattro che oltre a discutere, descrivere, documentare, applicare i temi e i commi della legislazione, è stato sia giudice che imputato e come recita la terza di copertina, è stato “esemplare garante del giusto processo, per questo ha subìto una persecuzione mediatico-giudiziaria, uscendone vittorioso”. Una serata (nell’affollata sala Aldo Moro del Parlamento) dove le riflessioni di giovani come Guido Vitiello e Serena Sileoni (Direttore Editoriale di liberilibri, coordinatrice dell’evento) si sono ben integrate nei toni e nei contenuti con quelle di tre maestri del giornalismo italiano: Pierluigi Battista, Massimo Bordin e Giuliano Ferrara, quest’ultimo autore della introduzione all’opera. Scrivendo e parlando della giustizia, non poteva non essere posta in relazione la giustizia degli uomini con quella di Dio (o amministrata per conto di Dio), in particolare nelle assonanze con alcune ritualità tra inaugurazione degli anni giudiziari e i “riti basilicali”; in alcune forme sceniche dei processi che ricordano in Italia più i tribunali dell’inquisizione in confronto con quelle della legge britannica (dove l’imputato è al centro e in alto rispetto alla corte giudicante); nonché con quel “non giudicate” che fa proprio uno dei passaggi del discorso della Montagna di Gesù Cristo o, infine, nel riferimento a Ponzio Pilato o al bacio di Giuda. Così come è stata più volte ripresa, per i cultori del diritto, la conseguenza che comporta sui processi la combinazione, tipicamente italiana, tra l’obbligatorietà dell’azione penale, la carcerazione preventiva, la limitata responsabilità civile dei magistrati e l’assenza della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Oppure, per gli appassionati di vicende processuali, i racconti su alcuni processi, come quelli nei confronti di Enzo Tortora o di Scattone e Ferraro (questi ultimi accusati dell’omicidio della studentessa Marta Russo) che fanno emergere quanto, questi processi, abbiano rappresentato un’occasione mancata per una più ampia riflessione sul sistema giudiziario, prima che il termine garantismo fosse abbandonato da chi lo aveva nel suo patrimonio culturale e politico e fosse acquisito (l’autore dice “sputtanato”) da neofiti in virtù di un’interpretazione forzatamente privata, “ad personam”, di questioni comunque universali. Infine, i riferimenti letterari a Sciascia, Borges, Kafka, Pasolini, Dostoevskij, Gide, Anatole France, Gadda, Dante Trosi, rappresentano un vero e proprio elenco di consigli per la costruzione di una biblioteca del garantismo nella quale cercare le motivazioni più profonde sull’essenza del giudicare. L’avvocato e politico radicale (e anticlericale) Mellini, lo scrittore e avvocato Marafioti (di formazione repubblicana, deceduto pochi mesi dopo l’intervista), il professore di diritto Di Federico, il cattolico magistrato di Cassazione  Carnevale, aiutati dalla prefazione di Giuliano Ferrara, tendono a spiegare quello che Vitiello rende immediatamente percepibile con una domanda. Come è stato possibile che i giovani, gli studenti (che peraltro lui incontra nelle aule universitarie) siano stati attratti dal pensiero giustizialista con quell’incarognimento che li ha portati a parlare di legalità, manette, intercettazioni con sillogismi feroci? E allora, per chiudere, pensiamo che le parole finali della conversazione con Corrado Carnevale in un certo qual modo possano spiegare il senso più profondo del libro e lasciare a credenti e non credenti il cercare di comprendere se e quanto ampio, in tema di giustizia, sia oggi la distanza tra cultura radicale, liberale e cristiana, per provare a indicare una nuova direzione alle giovani generazioni. “Ecco, ho sempre cercato di giudicare il mio simile nel modo più umano possibile, senza eccessi di moralismo. Non mi sono sentito diverso e migliore anche dal peggior delinquente che talvolta mi è capitato di dover giudicare.” Suona come una variante del precetto evangelico che abbiamo scelto come titolo per questo libro, “Non giudicate”, nel quale Sciascia credeva dovesse radicarsi la missione stessa del giudice. Qualcosa di non troppo diverso intende Carnevale: “Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, e aveva ragione. Il Cristianesimo ha degli aspetti che non dovrebbero essere trascurati. Io sono credente. Ma grazie al cielo il Cristianesimo non è una corrente associativa.”

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna. Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina. Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

Manette facili e ideologia. Che processi tragicomici.

Oltre quarant'anni fa, le commedie all'italiana avevano colto le degenerazioni del sistema giudiziario. Quasi nulla è cambiato, scrive Claudio Siniscalchi su “Il Giornale”. L'editoria cinematografica italiana è stata dissanguata prima dagli ideologi di sinistra, poi dal dominio della scrittura oscura di semiologi e psicoanalisti, o presunti tali. Ormai trattasi di un corpo tenuto in vita da una macchina artificiale. Ci vorrebbe, per rianimarlo, un miracolo. O, almeno, un po' di sangue fresco. Buona linfa scorre all'interno di una linea di ricerca sul cinema italiano avviata dall'editore calabrese Rubbettino, guidata dal giovane universitario Christian Uva, all'insegna di una complementarità: cinema e storia. L'ultimo tassello è In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello. Il volume, raccolta di molti saggi, suscita alcune considerazioni. Dagli anni Trenta del secolo passato ad oggi, cioè dal fascismo alla democrazia, la commedia è stata il genere principe del cinema italiano. Nel Ventennio la macchina da presa s'è tenuta alla larga dai tribunali. Nel dopoguerra invece ci si è buttata per cogliere il tratto comico della giustizia. L'immenso Vittorio De Sica con la toga da avvocato (versione aggiornata dell'azzeccagarbugli manzoniano), folti capelli candidi, gesti da mattatore, eloquio da senatore (del Regno non della Repubblica), ridicolizzato dalla perdita della memoria. Totò e Peppino, grandissimi falsi testimoni. L'Albertone nazionale alla sbarra imputato di essersi bagnato nella marana senza vestiti. Il giudice Adolfo Celi che non ammette repliche alla sua autorità e competenza equestre. Insomma, in aula si ride. Pensate ora all'americano Codice d'onore (1992) di Rob Reiner. Il giovane Tom Cruise in doppiopetto blu con bottoni d'oro, avvocato della marina, assistito da Demi Moore, impegnato ad incastrare davanti alla corte marziale un mastino gallonato del corpo dei marine, Jack Nicholson. Non è uno scontro generazionale, di temperamenti, ma di visioni del mondo. Persino di attori. Il processo qui è anche spettacolo. Un grandioso spettacolo. Serissimo. Certo l'impianto giuridico americano rispetto a quello italiano agevola la drammatizzazione cinematografica. Per questo il cinema hollywoodiano ha un genere specifico dedicato ai tribunali, il courtroom drama o legal film. La commedia all'italiana, però, non è stata soltanto un contenitore di risate. Ha saputo anche cogliere e indicare questioni cruciali. Ad esempio la denuncia dell'arbitrarietà della carcerazione preventiva. L'odissea giudiziaria (e carceraria) che tocca ad Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy è un capolavoro dal sorriso amaro. Lo stritolamento dello sfortunato e innocente geometra mette a nudo l'arretratezza del sistema giudiziario e carcerario italiano. Siamo all'inizio degli anni Settanta, e sembra la storia di oggi. E come dimenticare l'istantanea sull'ideologizzazione progressista della magistratura scattata da Dino Risi nel suo In nome del popolo italiano (1971)? Il giudice Ugo Tognazzi non riesce a contenere l'odio di classe nei confronti dell'imprenditore di successo Vittorio Gassman. Quest'ultimo incarna il male del capitalismo italiano del boom economico: corrotto e corruttore. Quindi va eliminato, anche bruciando le prove della sua innocenza. La condanna non deve essere giudiziaria ma ideologica e morale. Infatti il procuratore, che mostra con disinvoltura una copia dell'Unità, non ce l'ha solo con i ricchi. Vorrebbe chiudere in cella anche capelloni, maoisti, anarchici, obiettori di coscienza, giovani scansafatiche. Da un figlio dei fiori redarguito si becca un insulto e l'accusa di essere fascista. Del resto nello stesso periodo la magistratura viene raffigurata come il braccio armato del potere (spesso occulto, antidemocratico, fascistoide), sia nel genere popolare «poliziottesco», sia nel filone di «ricerca impegnata», da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1976) di Elio Petri a Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi. Il cinema italiano si suicida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Nelle macerie dell'ultimo trentennio si salva poco o niente. L'inchiesta Mani pulite poteva diventare un serbatoio infinito di sceneggiature ma la poltrona della sala cinematografica è stata sostituita dal divano di casa. La magistratura saliva al cielo grazie al piccolo schermo. La grande popolarità di Antonio Di Pietro, il più teatrale dei magistrati, comincia con la televisione. E con la televisione si chiude. Non regge all'urto della cannonata sparatagli da Milena Gabanelli. Col tubo catodico era schizzato tra le stelle. Col plasma è tornato sulla terra.

Vi ricordate di Antonio Esposito, uno dei giudici della Corte di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi per il processo “Mediaset”? «Chist'è na stupotaggine». Ormai la battuta gira irrefrenabile. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha dato mandato all'ispettorato del ministero per approfondire la vicenda relativa all'intervista del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che ha emesso la sentenza Mediaset, e ha nominato come consulente Felice Caccamo, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”.  Il direttore e fondatore del giornale 'O Vicolo è l'unico in grado di interpretare lo spirito di quella famosa intervista passata alla storia come «Vabbuò, chill' nun poteva nun sapere». Quando si ascolta la registrazione della telefonata del presidente Esposito al giornalista del Mattino viene spontaneo immaginarselo nelle vesti di Felice Caccamo: giacca azzurra, cravatta con nodo esagerato, gli occhiali dalle lenti spesse e il Vesuvio sullo sfondo: «Tengo 'o mare n' fronte, 'o cielo n' ccoppa». Il tormentone su Caccamo (forse il più riuscito personaggio di Teo Teocoli) è partito da un articolo di Annalisa Chirico su Panorama.it e ha fatto in fretta a diffondersi, come succede a quelle battute che diventano subito una spia di consenso. Persino la senatrice Alessandra Mussolini si è esibita in un'imitazione della telefonata. Certo, tra un esimio presidente della Corte di Cassazione e un giornalista, un po' cialtrone, intento più alle sue singolari abitudini alimentari ('o struzzo di mare oppure 'a frittura globale), che a scovare notizie, la differenza è abissale. Ma sono bastati una telefonata in dialetto («Tiziu, Caiu e Semproniu an tit che te l'hanno riferito. E allora è nu pocu divers»), un momento di eccesso di confidenza, uno stato di rilassamento familiare per avvicinarli in maniera incredibile. Caccamo vive con la moglie Innominata (che prende puntualmente a «mazzate in faccia») e i figli Tancredi, Boranga e Ielpo. I suoi inseparabili amici sono Pesaola, Bruscolotti e l'ex presidente del Napoli Ferlaino, suo vicino di casa. Ormai è una maschera napoletana, come Pulcinella, Tartaglia (il vecchio cancelliere balbuziente, astuto e pedante, dai grossi occhiali verdi), 'O Pazzariello («Attenzione... battaglione... è asciuto pazzo 'o padrone...»).  Caccamo sa bene che i magistrati parlano attraverso le sentenze, ma sa anche che qualche volta parlano al telefono.

Certo non era una verginella riguardo ai suoi trascorsi. I guai disciplinari di Esposito: già due processi davanti al Csm.Il magistrato è stato imputato a fine anni '90 per "protagonismo", minacce a un cancelliere e per il doppio lavoro all'Ispi. Ma si è salvato, scrive Emanuela Fontana  su “Il Giornale”. Non è la prima volta che il Consiglio superiore della magistratura deve occuparsi del caso Esposito. Il giudice della Cassazione che ha presieduto il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi, e che in un'intervista bomba al Mattino ha spiegato le ragioni della sentenza prima che ne siano state depositate le motivazioni, era stato interrogato per ben due volte in qualità di «imputato» in altrettanti procedimenti disciplinari a suo carico. Vicende finite con l'assoluzione, ma che hanno visto comunque il magistrato ora nell'occhio del ciclone nella scomoda posizione di difendersi di fronte all'organo di controllo delle toghe. In uno dei due procedimenti, ricorda adesso con Il Giornale uno dei membri della sezione che si era occupata di questo caso, la posizione del giudice fu «in bilico e la sentenza molto combattuta». Le accuse si chiusero comunque, va ribadito, con un nulla di fatto. Furono rivolte tutte a Esposito alla fine degli anni 90, quando era pretore a Sala Consilina, e riguardavano una serie di questioni, da un incarico extra-lavorativo del magistrato, con un presunto utilizzo improprio degli uffici giudiziari, a una presunta minaccia nei confronti di un cancelliere, passando per accuse di «protagonismo». Le tracce di questo percorso che si è incrociato più volte con il giudizio del Csm sono ora decriptabili grazie alla raccolta di file audio e video di Radio Radicale. Il 18 settembre del '98, dunque, Antonio Esposito viene ascoltato in qualità di imputato al Csm per rispondere di tre questioni. Il segretario magistrato lo accusava di aver «gravemente mancato ai propri doveri rendendosi immeritevole della fiducia di cui il magistrato dovrebbe godere». Prima di tutto perché in qualità di consigliere pretore dirigente della pretura circondariale di Sala Consilina aveva celebrato nel '91 un procedimento penale contro Maria Pia Moro per interruzione di pubblico servizio «senza che tale procedimento fosse compreso tra quelli a lui assegnabili». I colleghi lo accusavano del desiderio di «coltivare la propria immagine» attraverso un processo celebre che avrebbe attirato «gli organi di informazione». Nella relazione si parla anche di «spirito di protagonismo» («Non protagonismo, ma assunzione di responsabilità», era stata la replica di Esposito). La seconda accusa riguardava la concessione a «un messo comunale di frequentare gli uffici della sede distaccata di Sapri», e di avere le chiavi di ingresso come «uomo di fiducia» di Esposito, per il quale effettuava «vari servizi», come il «trasporto suo e dei familiari», consegna di spese e recapito della corrispondenza. La terza accusa era la meno facile da controbattere: il Csm chiedeva conto a Esposito della sua attività e del suo ruolo «di estremo rilievo» divenendo il «gestore di fatto», dell'Istituto superiore di studi socio-pedagogici di Sapri. Il «dottor Esposito», proseguiva il segretario magistrato, era stato autorizzato a «svolgere un incarico gratuito» di docente in materie giuridico che invece «veniva retribuito». Non solo: «Utilizzava il personale della sezione distaccata di Sapri per la battitura di tesi attinenti al corso». Il capitano della compagnia dei carabinieri di Sapri, Ferdinando Fedi, testimoniò al Csm che «il dottor Esposito era quasi sempre reperibile presso la sede dell'Ispi». Altro appunto: Esposito era intervenuto varie volte sulle tv locali «per reclamizzare l'istituto di cui fino a poco tempo addietro era presidente sua moglie». Dell'altro procedimento disciplinare il Csm si è occupato nel 99. In questo caso Esposito era stato accusato dai collaboratori di Sala Consilina di aver pronunciato nel 94 «espressioni minacciose». Questa la frase oggetto del processo: «Se mi va bene una certa cosa vi devo spezzare le gambe a tutti quanti» all'indirizzo di un cancelliere. Parlando così, Esposito «violava i doveri professionali di correttezza e di rispetto». Il processo era partito dopo gli accertamenti del presidente del tribunale di Sala Consilina.

La rete di affari di Esposito: ecco perché fu trasferito. Il Csm lo spostò: "Con la sua scuola guadagna centinaia di milioni che gli  permettono di avere una Jaguar, una villa a Roma e un motoscafo". Nelle carte i favori ricevuti. E spuntano una Mercedes gratis e le cene a sbafo, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Tutta colpa di una scuola e di affari milionari. A far traslocare da Sala Consilina Antonio Esposito, dopo un quarto di secolo nel quale il magistrato era rimasto affezionatissimo a questa piccola perla del Tirreno, è stato il plenum del Csm, il 7 aprile del 1994. In poco meno di cinque ore, l'organo di autogoverno della magistratura votò a maggioranza la proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale. Le 32 pagine di verbale di quella seduta raccontano il dibattito serrato dei consiglieri che dovevano decidere del suo futuro. Forse con una certa apprensione, visto che in apertura venne ricordata l'ispezione ministeriale condotta da Vincenzo Maimone, con lo 007 portato in tribunale da Esposito e «prima condannato per calunnia e poi assolto in appello», a maggio del 1992, perché il fatto non costituiva reato. Così il consigliere togato Gianfranco Viglietta rilevò «come il dottor Esposito si rivolga in modo pesantemente critico nei confronti di tutti coloro i quali esprimano riserve sul suo operato», osservando che «ciò è certamente indice di non particolare equilibrio». Una sindrome del complotto, insomma. Che toccava anche uno dei presenti nel plenum, Alfonso Amatucci, il quale infatti mise a verbale di essere «a giudizio di Esposito (...) una sorta di quinta colonna di quel complotto presso il Csm». Ruolo che Amatucci, va da sé, negò con forza. Spiegando di aver appreso frequentando Sapri dei «molti giudizi negativi» sul giudice, ai quali non aveva dato peso. A far cambiare approccio ad Amatucci era stato un primo episodio «significativo», quando «dopo aver cenato in un ristorante», a Sapri, il consigliere «ricevette i complimenti del ristoratore per il fatto che egli, a differenza di altri magistrati del luogo, era intenzionato a pagare il conto». «Da quel momento» Amatucci «prese a considerare con maggior attenzione le voci sul conto di Esposito». Lo stesso consigliere rivelò anche un'altra «vicenda emblematica: sarebbe stata portata, per conto della ditta Palumbo (un costruttore attivo all'epoca nell'area del golfo di Policastro, ndr), una vettura Mercedes di colore beige, gli pare di ricordare a benzina, acquistata» da un direttore romano di banca «con chiavi nel cruscotto, sotto l'abitazione del dottor Esposito». Ancora Amatucci rispolverò la fresca assoluzione dell'avvocato Francesco Vallone (che aveva dato il via con un esposto al procedimento disciplinare contro Esposito) nel processo per calunnia e falsa testimonianza intentato contro di lui proprio dall'ex pretore, e Vallone aveva parlato proprio di presunti favoritismi della pretura di Sapri nei confronti del costruttore che avrebbe «recapitato» la lussuosa berlina tedesca. Il plenum sostenne che Amatucci, che aveva parlato di episodi non presenti negli atti dell'istruttoria, avrebbe dovuto «comunicare per tempo elementi così gravi e rilevanti». Alcuni consiglieri cominciarono a valutare l'ipotesi di un rinvio della pratica in commissione, altri, come Laudi, consideravano invece «paradossale rinviare la decisione in ragione del fatto che sono stati presentati elementi aggravanti». Si decise di votare per il rinvio, ma la proposta venne respinta. Il coinvolgimento di Esposito nella «scuola» di famiglia, l'Ispi, ebbe un forte peso nella decisione, e il relatore spiegò che quell'elemento, insieme alla presenza «ultraventennale», avevano «accresciuto il potere» di Esposito, dando luogo «qualcosa di diverso e incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Anche perché il contributo che il pretore dava alla scuola non era solo per passione. Ecco cosa scrivono i consiglieri del Csm quando definiscono il trasferimento. Sulla scuola di formazione si soffermano a lungo, e un po' si stupiscono davanti al tenore di vita del magistrato, «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo». Avallano così «l'ipotesi che l'Ispi abbia consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Insomma, toglierlo da Sapri è un gesto «di buon governo». Al voto, 14 consiglieri sono per il trasferimento, 11 votano contro, 4 si astengono. Non è finita. Esposito a gennaio '97 cita in giudizio davanti al Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento danni per 4 miliardi di lire, due componenti del Csm - Amatucci e il relatore, Franco Coccia - insieme all'avvocato Vallone e a Ermanno Marino, «reo» d'aver raccontato ad Amatucci di aver guidato la famosa Mercedes. Ma il tribunale di Roma respinse la sua richiesta. Far pagare i consiglieri per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni era davvero troppo.

E il giudice querela il Giornale ma non chiarisce il caso Ispi. Esposito si fa scudo dell'associazione Caponnetto e denuncia Il Giornale per lo scoop sul doppio lavoro. Il colloquio col Mattino è lungo 40 minuti: al Csm l'audio integrale, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il giudice Antonio Esposito si sente diffamato. Quello che ancora non conosciamo è invece l'umore del dottor Antonio Esposito, il tuttofare della scuola Ispi, quello che mette il suo numero di telefono tra i contatti per chi vuole fare master o esami nella sede locale dell'università telematica. Non si sa, insomma, cosa pensano l'uno dell'altro. L'unica cosa certa è che sono la stessa persona e di fatto il giudice fa un doppio lavoro. La domanda allora è: si può fare? Esposito promette querela. L'annuncio non lo fa di persona, ma si nasconde dietro l'associazione Antonino Caponnetto di cui è presidente onorario (e che sulla pagina Facebook «si stringe intorno al suo presidente e ai suoi familiari vittime di una campagna vergognosa e diffamatoria dopo la sentenza di condanna emessa a carico di Berlusconi»). In pratica tira in ballo una colonna della lotta alla mafia per ribadire quello che il Giornale in realtà non ha mai nascosto, e cioè che la sezione disciplinare del Csm lo ha sempre ritenuto estraneo a tutte le accuse. O meglio, a quasi tutte, visto che il 7 aprile del '94 il plenum del Csm approvava a maggioranza la proposta di trasferimento d'ufficio dell'allora pretore di Sala Consilina, che venne destinato alla Corte d'Appello di Napoli nonostante lui avesse fatto presente che l'adozione del provvedimento gli avrebbe causato danni incalcolabili, ledendo irreversibilmente il suo onore e il suo prestigio professionale e denunciando che la relativa procedura sarebbe stata condotta con spirito persecutorio e diffamatorio nei suoi confronti, in esecuzione di un disegno comune ai convenuti». I suoi colleghi, insomma, conoscevano l'intreccio di interessi tra il pretore e la vita sociale ed economica di Sapri. E per questo lo hanno trasferito. Nell'ultima seduta del Csm i consiglieri ne hanno parlato a lungo, anche scontrandosi sulle diverse interpretazione di certi episodi. Ma alla fine sono stati d'accordo sul fatto che «la presenza ultraventennale di Esposito nella pretura di Sala Consilina e il suo coinvolgimento nella gestione dell'Ispi hanno determinato una situazione particolare che ha accresciuto il suo potere fino a dar luogo a qualcosa di diverso e di incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Sulla scuola di formazione i consiglieri si soffermano a lungo, ipotizzando che il particolare tenore di vita del magistrato che risultava «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo avallassero l'ipotesi che l'Ispi avesse consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Alla fine è stata proprio la gestione dell'Ispi a determinare il trasferimento. «Dovrebbe essere provato - si legge nel provvedimento - che Esposito svolga attività ulteriori rispetto a quella dell'insegnamento per il quale è stato autorizzato dal Csm». E come emerge dagli accertamenti del capitano dei carabinieri Ferdinando Fedi. «Esposito - scrivono i consiglieri - poteva essere reperito sistematicamente presso i locali della scuola e i collegamenti con l'Ispi venivano tenuti anche in pretura. Pure i carabinieri a volte dovevano attendere perché nello studio del pretore erano a colloquio delle studentesse della scuola stessa». Ora, invece, Antonio Esposito deve chiarire il pasticciaccio della sua intervista al Mattino di Napoli. Qualche domanda se la sta facendo anche il ministro Cancellieri, che ha messo in campo gli ispettori di via Arenula per indagare sulla vicenda. Qualcosa non torna neppure al Csm, dove il presidente della prima commissione Annibale Marini e il vicepresidente Michele Vietti si sono affrettati ad acquisire l'audio integrale del colloquio. Il Mattino ne ha pubblicato on line solo una manciata di minuti. Il resto, quasi 40 minuti, non è irrilevante. Forse il primo a dover pretendere trasparenza è proprio il giudice Esposito. Chieda al suo amico giornalista di farci ascoltare tutto.

Il buonsenso vorrebbe che le dichiarazioni di Esposito fossero considerate gravi. Invece non è così, anche se danno a Berlusconi un ottimo alibi per fare ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, scrive Alessandro Tantussi su “Imola Oggi”. Gli “ermellini” sono basiti: ora si aprono nuovi scenari. Ubi maior minor cessat, però mi vanto di averlo detto prima. La gravità della sortita del magistrato non può e non deve sfuggire alla gente di buon senso, anche a chi non mastica tutti i giorni diritto. Esposito ha smentito di aver pronunciato quelle frasi, ma il sonoro dell’intervista registrata lo inchioda alle sue responsabilità. Il direttore del quotidiano napoletano lo ha ribadito: il magistrato voleva proprio dire quello, ha anticipato ad un organo d’informazione le motivazioni della sentenza, non ancora rese note per le vie ufficiali. Alla faccia della terzietà, della sobrietà, dello stile di vita specchiato e della limpidezza operativa che dovrebbe contraddistinguere chi fa la professione di Esposito. Si è verificato l’ennesimo cortocircuito tra settori politicizzati della magistratura e alcuni media che puntano ad esasperare il conflitto tra poteri. In Cassazione tutti sono basiti. Con le sue dichiarazioni, che di fatto anticipano i contenuti di una sentenza impostata sul principio che Berlusconi “sapeva” della frode fiscale, Esposito apre inevitabilmente (e inconsapevolmente) nuovi scenari. Quelle parole, seppure ritrattate dal diretto interessato inchiodato dal sonoro della registrazione che quindi si è beccato del bugiardo a ragione veduta, sono un assist sia per la difesa, che ora avrà ulteriori motivi per tentare la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

E anche Wanna Marchi fa ricorso a Strasburgo.

Il magistrato svelò la condanna prima della sentenza. La difesa: "Diritti violati", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. L'intervista show di Antonio Esposito invade ancora giornali e tv come un'onda anomala. E lui, il giudice del Cavaliere, si ritrova sempre più al centro dell'attenzione. Ora, e pare incredibile, anche Wanna Marchi, l'urlatrice di Castel Guelfo, ha deciso di portare Esposito, o meglio la claudicante giustizia italiana, a Strasburgo, davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Il motivo è molto semplice: anche la Marchi ha letto sul Giornale il documentatissimo articolo firmato da Stefano Lorenzetto, giornalista e scrittore con un passato nella redazione di via Negri. Ricordate? In quel pezzo Lorenzetto rievocava una cena avvenuta a Verona, in occasione della consegna del premio «Fair play», il 2 marzo 2009. Nel corso della festa Lorenzetto aveva conosciuto proprio lui, Antonio Esposito. E il magistrato, fra una portata e un brindisi, l'aveva deliziato descrivendo le presunte performance a luci rosse del Cavaliere, lo stesso Cavaliere che Esposito ha condannato la scorsa settimana con sentenza definitiva. Non solo: già che c'era, gli aveva preannunciato un altro verdetto importante: quello che di lì a un paio di giorni avrebbe travolto proprio Wanna Marchi, la regina delle teletruffatrici, e la figlia Stefania. Affondate, rispettivamente con 9 anni e 6 mesi e 9 anni e 4 mesi di carcere. Quella sera, a sentire Lorenzetto, Esposito era stato perentorio: la Marchi che gli stava, per usare un eufemismo, antipatica, era colpevole. Senza se e senza ma. E puntualmente di lì a poche ore arrivò la condanna, irrevocabile, come si dice in questi casi, per madre e figlia. Giù il sipario, dunque. Le Marchi erano scomparse dai nostri radar. Peccato che le sentenze non possano però essere anticipate, così come non si dovevano bruciare sul tempo le motivazioni del processo Mediaset che il relatore deve ancora vergare. Ma Esposito corre in avanti. Troppo. Con Silvio Berlusconi e con Wanna Marchi, senza aspettare quel momento burocratico e noioso, ravvivato da chissà quali sbadigli, chiamato camera di consiglio. Così le Marchi, dopo aver digerito la clamorosa sorpresa, hanno deciso di giocare la carta del ricorso a Strasburgo: se le rivelazioni a posteriori sono esatte, il presidente del collegio non era imparziale. «Attenzione - spiega l'avvocato Liborio Cataliotti - Wanna Marchi non intende negare le proprie responsabilità e neppure cerca una qualche scorciatoia rispetto alla pena, in gran parte già scontata, e al successivo percorso di reinserimento nella società insieme alla figlia. Wanna ha avuto prima il lavoro esterno, poi la sospensione della pena; Stefania ha lasciato la cella per motivi di salute ed è detenuta ai domiciliari. Però le Marchi chiedono come tutti che i loro diritti fondamentali siano rispettati». Dunque, a Strasburgo si cercherà di capire se la Suprema corte abbia agito in modo canonico oppure se quelle confidenze spifferate nel bel mezzo di un banchetto conviviale costituiscano una ferita che oggi deve essere sanata. Il viaggio a Strasburgo non sarà una passeggiata: ci vorrà tempo e certo un'eventuale condanna non riabiliterebbe la Marchi, a capo di una vera e propria associazione a delinquere pensata per spolpare migliaia e migliaia di creduloni sparsi su tutto il territorio nazionale, ma sarebbe uno schiaffo per l'alto magistrato e soprattutto per la credibilità della nostra giustizia sulla vetrina internazionale. Cataliotti, l'avvocato di Reggio Emilia che i lettori del Giornale conoscono bene perché a lui è affidata la maxi-causa civile, una sorta di class action, contro Antonio Ingroia, è pronto alla battaglia. E questa volta è lui a suggerire il possibile finale: «Se otterremo un risarcimento i soldi andranno dritti alle parti civili». Sì, alle vittime dei raggiri della teleimbonitrice. Senza trucco e senza inganno.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

"Ad alto rischio" di Mario Mori e Giovanni Fasanella (ed. Mondadori). "Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarantanni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'll settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."

La paradossale condizione di un servitore dello Stato, che è riuscito ad arrestare il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, che alla fine della carriera viene accusato da quello stesso Stato di essere sceso a patti con la mafia. È la storia del generale Mario Mori:

«Non mi arrendo di certo e voglio andare fino in fondo, abbiamo anche rinunciato alla prescrizione  perchè vogliamo essere giudicati e avere giustizia».

Presentando il libro “Ad alto rischio”, scritto a quattro mani con il giornalista Giovanni Fasanella, su "la vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Toto’ Riina" (così recita il sottotitolo), il generale Mario Mori affida a poche parole il capitolo non ancora scritto della sua vita, quello che riguarda la vicenda giudiziaria ancora in corso che lo vede coinvolto.

«Ho scritto questo libro perchè io e il mio ex collaboratore Mauro Bino, imputato con me nel processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, non usciremo mai da questa situazione, in quanto per una parte dell’opinione pubblica rimarremo personaggi ambigui: quindi lo dovevo a lui e a tutte le persone che hanno lavorato e rischiato con me», si limita a dire il generale presentando il volume nella sala del Refettorio di palazzo San Macuto: accanto a lui, oltre al coautore, ci sono giornalisti e politici che ne hanno seguito le gesta: Emanuele Macaluso, Giuliano Ferrara, Marco Minniti, Massimo Bordin, Stefano Folli.

Nel libro si ripercorre la storia del generale dei Carabinieri, tra i fondatori del Ros, dagli inizi al Sid fino ai vertici del Sisde, passando per i nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, la sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, le indagini con Falcone e Borsellino a metà degli anni ’80. Nel libro Mori scrive di non essere amareggiato, perchè «servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati comporta dei rischi” e “si possono pagare dei prezzi anche molto alti. Ci si deve guardare dal nemico e, a volte, a presentarti il conto per i risultati che hai ottenuto sul campo può essere lo stesso Stato al quale hai dedicato una vita».

Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano scrive Stefano Brusadelli su “Il Sole 24ore”. Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal. E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata». Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.

Mario Mori: "Mi hanno assolto ma non mi basta".

Il generale, prosciolto dall'accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano, racconta a Panorama 20 anni di persecuzione giudiziaria. Appena il tempo per una breve vacanza in montagna, ed eccolo di nuovo a Roma, a prepararsi per la «campagna d’autunno», quando a Palermo inizierà il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Cosa nostra. Ma è sereno, Mario Mori, generale dei carabinieri ed ex direttore del servizio segreto civile. Dopo aver già vinto una battaglia contro la Procura di Palermo nel 2006, alla fine del luglio scorso ha incassato una seconda assoluzione, insieme al colonnello Mauro Obinu. Se arriverà anche la terza, ovviamente nessuno può dirlo. Di sicuro, il fondatore del Ros, il Raggruppamento operativo speciale che è stato strumento d’eccellenza nella lotta alla mafia, da anni costretto a difendersi nelle aule di tribunale, è pronto a combattere. Intanto, eccolo nel suo nuovo ufficio con il cronista di Panorama, il giornale cui rilascia la sua unica intervista.

Generale, è ovvio che se lo augurasse. Ma, sinceramente, avrebbe scommesso su questa sentenza?

«Non avevo dubbi che sarebbe finita così, anche se in un processo di mafia c’è sempre un condizionamento ambientale che può indirizzare persino il giudice più corretto e asettico. Dopo più di cento udienze, è emersa tutta l’inconsistenza delle argomentazioni dell’accusa: sì, prevedevo l’assoluzione, ma non la formula».

È la migliore che lei potesse sperare?

«Attendo il deposito della motivazione per capire come i giudici sono arrivati alla sentenza».

Non è comunque privo di significato il fatto che il tribunale abbia disposto l’invio alla procura delle testimonianze dei suoi accusatori, Massimo Ciancimino e Michele Riccio.

«Certo, significa non solo che non li ha ritenuti attendibili, ma vuole che la procura valuti se ci sono anche gli estremi per un procedimento per calunnia nei loro confronti. Comunque, Mauro Obinu e io abbiamo già denunciato Michele Riccio per calunnia».

Tre lustri vissuti sotto tortura giudiziaria: ora come si sente?

«Sotto tortura, sì, è proprio il caso di dirlo. Il mio calvario giudiziario è iniziato formalmente nel 2006. Ma in realtà ero finito sotto tiro già nel 1994, un anno dopo la cattura di Totò Riina. Da allora, sono diventato mio malgrado un personaggio pubblico, criticato, meglio sarebbe dire bombardato, da una certa area ideologica. Siamo nel 2013, l’anno prossimo sarà il ventennale. Sarebbe una bugia se dicessi che non sono provato da questa esperienza. Ma, per carattere, non la do vinta a nessuno. Per assurdo direi che, se questa storia finisse, non saprei più che fare, talmente mi sono immedesimato nella parte. Una battaglia che Obinu e io abbiamo combattuto a viso aperto. Abbiamo rinunciato alla prescrizione, uno dei pochissimi casi nella storia giudiziaria italiana, probabilmente. Ma era doveroso farlo, per imputati di reati connessi all’esercizio della propria professione. Osservo a riguardo che anche questa correttezza istituzionale non ci è stata riconosciuta dai nostri detrattori».

Come ha cambiato la sua vita, questa battaglia?

«Dal punto di vista professionale non ha inciso granché: ero ormai a fine carriera. Quando cominciò il primo processo, nel 2006, avevo praticamente ultimato il mio incarico alla direzione del Sisde, l’allora servizio segreto civile. Sul piano personale mi ha aiutato invece la solidarietà che ho sentito intorno a me. Certo il limo mediatico, con il mio nome dato continuamente in pasto all’opinione pubblica senza la possibilità di poter replicare, ha pesato molto…»

E sul piano familiare?

«In famiglia ovviamente mi hanno sostenuto, mi sono stati tutti vicini».

E nel suo ambiente professionale, nell’Arma cui lei è molto legato, lei ha pagato qualche prezzo?

«Ho avuto la solidarietà ravvicinata di tanti colleghi e dipendenti che non mi hanno mai fatto mancare anche il loro contributo di idee alla mia difesa». 

Colleghi e dipendenti dell’Arma... E i vertici?

«Hanno assunto una posizione di prudente attesa. Che cosa vuole? Le istituzioni in quanto tali sono sempre un po’ «matrigne» nei confronti dei loro figli che incappano in qualche incidente di percorso».

Perché?

«Difesa dell’ufficio, della funzione. Ma lo capisco. Sono stato a capo di un'istituzione e in talune circostanze mi sono comportato in modo analogo».

Dopo la sua assoluzione, è cambiato l’atteggiamento?

«Non saprei… Sono una persona piuttosto spigolosa. Molti probabilmente hanno paura di telefonarmi perché sanno che li manderei a quel paese».

Ma c’è mai stato qualche momento in cui lei si è sentito completamente solo?

«Il rapporto tra la mia posizione e il mondo esterno è sempre stato molto lineare. C’erano i favorevoli e i contrari, come sempre avviene in Italia, il Paese delle tifoserie. Quello che però mi ha offeso profondamente è stato il pregiudizio. Gran parte dell’opinione a me contraria lo era in modo acritico: quanto fango lanciato senza conoscere i fatti!»

Ne è sorpreso?

«È stata una scoperta, sì. Mi ha profondamente offeso in particolare l’atteggiamento della stampa e della politica».

La stampa?

«La stampa, certo. Non ha seguito correttamente il processo, tranne rare eccezioni. I grandi quotidiani non inviavano quasi mai i loro cronisti. Ai dibattimenti c’erano costantemente solo i giornalisti delle agenzie. Poi, però, l’indomani leggevi resoconti molto dettagliati, soprattutto quando l’udienza sembrava più favorevole all’accusa. La gran parte dei giornali ha sposato acriticamente le tesi dell’accusa, senza quasi mai riportare quelle della difesa».

E la politica?

«Mi hanno offeso le posizioni assunte da persone che stimo e da cui non me lo sarei mai aspettato».

Qualche nome… Se la sente di farlo?

«L’onorevole Giuseppe Pisanu, per esempio. E Walter Veltroni. Da loro mi aspettavo giudizi più distaccati e sereni. Pisanu è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia».

Si riferisce alla sua relazione finale, licenziata qualche mese prima della sentenza?

«Non posso accettarla, quella relazione! Ha scaricato su un semplice colonnello dei carabinieri, qual ero io all’epoca dei fatti, tutto il peso di una vicenda che, se fosse stata come da lui descritta, aveva aspetti penalmente rilevanti e non poteva non coinvolgere personalità che stavano più in alto, molto più in alto. Sia politiche che istituzionali».

C’è stato invece qualche gesto che l’ha sorpresa positivamente?

«Le telefonate di molti magistrati dopo la sentenza di assoluzione. Ma non le farò i nomi».

Un’indicazione geografica, almeno?

«Telefonate ricevute da ogni parte, dalla Sicilia alla Lombardia».

Piemonte?

«No, Piemonte no».

Torniamo al processo. Diceva dell’inconsistenza delle ipotesi accusatorie…

«L’accusa non è riuscita a prospettare ipotesi plausibili in relazione ai fatti accertati».

Favoreggiamento per il ritardato o il mancato arresto di Bernardo Provenzano. Di questo lei era accusato.

«Mi sono difeso contestando ogni accusa con i documenti. Solo una persona innocente può portare la propria difesa sui fatti, perché i fatti parlano da soli. Durante il dibattimento ho reso una serie di dichiarazioni spontanee che hanno documentato la mia innocenza». 

Ha capito perché lei e suoi ufficiali del Ros siete da 20 anni sotto attacco giudiziario?

«Considerazioni più ponderate potranno essere fatte solo tra qualche anno, quando certe situazioni si saranno decantate, e la vicenda sarà meno calda e sensibile».

Un’interpretazione, almeno, di quello che è accaduto?

«Questi processi sono conseguenza di una funzione della magistratura che si è enormemente dilatata, perché non è più limitata al campo specifico della attenta applicazione della norma, ma si inserisce nel contesto politico-sociale, spesso condizionandolo».

Secondo lei questa azione della magistratura avviene in buona fede?

«Bisogna riconoscere la buona fede a tutti. Mi correggo: quasi a tutti. E mi fermo qui, per ora».

La sua famosa inchiesta dei primi anni Novanta su mafia e appalti, quella che le aveva affidato Giovanni Falcone, è per caso all'origine delle sue disavventure giudiziarie?

«Diciamo che è stata una discriminante, per un certo tipo di contesto. Il conflitto che si è creato tra il Ros e una parte della magistratura palermitana e il danno che ne è derivato nell’attività investigativa sono stati certamente ben visti da una parte della società siciliana. Mi riferisco a quella zona grigia al confine tra politica, economia e mafia».

Col senno di poi, avrebbe attenuato certe sue posizioni critiche sulla Procura di Palermo?

«Io ho il carattere che ho. E anche certi magistrati hanno il loro caratteraccio. Se ci fossero state meno spigolosità, certe fratture forse si sarebbero sanate. Tuttavia, su un punto insisto: il metodo investigativo che attaccava il potere mafioso attraverso l’ambito economico, cui Falcone e il Ros si ispiravano, è ancora oggi il più efficace nella lotta a Cosa nostra: non ha alternative altrettanto valide».

Le accuse contro di lei si basavano in gran parte sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. A che cosa puntava il figlio di don Vito?

«Voleva salvare il salvabile dei beni di famiglia, sfruttando documenti che gli aveva lasciato il padre adattandoli e interpretandoli a suo modo».

Eppure, Ciancimino jr era stato elevato addirittura a «icona dell’antimafia». Perché?

«Il personaggio è stato sfruttato senza valutarne il reale peso specifico, per pure ragioni strumentali o di cassetta. E lui è riuscito a cogliere gli interessi anche di tipo ideologico di settori dell’informazione, e li ha assecondati. Da un lato passava notizie finalizzate a colpire personalità istituzionali; e dall’altro forniva ai giornalisti argomenti che confermavano certi loro teoremi sul rapporto Stato-mafia. La verità è che Ciancimino jr e i suoi sostenitori si sono usati a vicenda».

L’effetto di quelle campagne, a parte le sue disavventure giudiziarie?

«Si è attenuata l’attività investigativa di uno dei reparti di eccellenza impegnati nella lotta alla mafia, il Ros. Questo è stato il risultato. E qualcuno, in Sicilia, ne è stato molto contento. Non mi riferisco alla magistratura, ovviamente. Ma alla zona grigia di cui ho parlato prima».

Lei è già stato assolto in due processi. Ma ora dovrà affrontarne un terzo, quello sulla trattativa Stato-mafia: peseranno le prime due sentenze, a lei favorevoli?

«Lo capiremo solo quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. Tuttavia, il terzo processo, almeno per il 70 per cento, è stato costruito sulla documentazione del secondo. Io sono ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia e politica nell’ambito della trattativa. E io sono stato assolto per ben due volte dalle accuse rivoltemi».

Restano tuttavia molte ombre su quello che accadde in Italia tra il 1992 e il 1993…

«È ancora troppo presto per dire cose concrete. Di sicuro, nel tempo, c’è stata una lunga correlazione tra la politica siciliana e la criminalità mafiosa, sin dal Risorgimento. Ma non necessariamente erano contatti diretti. C’era, diciamo così, una reciproca conoscenza tra le due parti: una sapeva qual era l’interesse dell’altra, e cercava in qualche modo di assecondarla».

Un rapporto storico, che andò in crisi dopo la fine della Guerra fredda. Ci fu una trattativa per rinegoziarlo?

«Non so se ci fu una trattativa: se ci fu, io non ne sono a conoscenza. Comunque, non credo che, se c’è stata, sia avvenuta intorno al famoso 41 bis (il regime penitenziario per i mafiosi, particolarmente severo): su 324 «ammorbidimenti» del carcere duro, poco più di una ventina riguardavano mafiosi e nessuno era un boss di rango. Se qualcosa è successo, è avvenuto a livelli altissimi».

Generale, mentre si prepara per il terzo processo, lei ora di che cosa si occupa?

«Con alcuni amici abbiamo avviato un’attività di tipo pubblicistico. Abbiamo aperto un portale informatico di geopolitica, economia e sicurezza, Lookout news , rivolto principalmente al campo internazionale. Facciamo analisi di situazioni, prepariamo report su aree di crisi e approfondimenti su temi specifici. Abbiamo già circa 12 mila visitatori che ci seguono costantemente da tutte le parti del mondo. E presto vorremmo realizzare il portale in una o più lingue».

Una volta lei disse: «Non finisce qui». Ha ancora qualche sassolino da togliersi dalle scarpe?

«Ci sto pensando, non è escluso che lo faccia. La vicenda Mori-Obinu è emblematica di un’Italia che non va bene. Per niente!»

ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.

Periodicamente si presentano i referendum sulla Giustizia. Riforme che, per viltà, nessun rappresentante del popolo vuol attuare. Escamotage pilatesche dei radicali appoggiati da chi ha l'interesse temporaneo a strumentalizzare un interesse comune. Ancora non si sa neanche se i Radicali riusciranno a raccogliere le 500mila firme necessarie per poter presentare i loro referendum sulla "Giustizia Giusta", ma nel 2013 già attorno a questi quesiti si sono create polemiche, tutte politiche. E come sempre, quando si parla di giustizia, in mezzo c'è Silvio Berlusconi. I referendum del partito di Marco Pannella ed Emma Bonino hanno iniziato e entrare nel dibattito politico solo dopo che il Cavaliere ha annunciato che il Pdl avrebbe aiutato i Radicali a raccogliere le firme, e dopo che Beppe Grillo ha prima fatto sapere che anche lui li avrebbe appoggiato e poi, dopo una lettera aperta di Di Pietro, ha cambiato idea: il Movimento 5 Stelle non avrebbe aiutato i Radicali.

Ma quali sono i cinque quesiti sulla giustizia?

Partiamo dal più controverso: la separazione delle carriere di pm e magistrati, norma da sempre sognata dal Cavaliere. Il punto è che in Italia esiste la possibilità per il singolo magistrato di passare dalla funzione giudicante a quella requirente. Di passare quindi dal ruolo di "magistrato che combatte il crimine" al ruolo di "giudice imparziale". Per i sostenitori della separazione delle carriere questa situazione ha due difetti: da una parte si critica la possibilità di trasformarsi di colpo da pubblico ministero in giudice, dall'altro si pensa che non ci sia un processo equo in un Tribunale in cui pm e giudici si conoscono da lungo tempo e sono in confidenza. Il problema è che, nel momento in cui ci fosse la separazione delle carriere, il pubblico ministero diventerebbe un avvocato dell'accusa. E quindi, secondo i detrattori, alle dipendenze della polizia e di conseguenza del ministero dell'Interno. Dicendo così addio all'indipendenza della magistratura. È la posizione, per esempio, di Antonio Di Pietro.

Un secondo quesito controverso è quella della responsabilità civile dei magistrati. I Radicali utilizzano come bandiera di questa parte del referendum Enzo Tortora, il presentatore tv vittima di un gravissimo caso di malagiustizia a causa del quale, innocente, passò anni in carcere e morì poco dopo la sentenza che lo assolveva definitivamente. Il quesito quindi ha lo scopo di "rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati". La responsabilità civile del magistrato non è assolutamente sanzionata dal nostro ordinamento, nonostante il referendum del 1987 (dove votò per il Si oltre l’80% degli elettori) e la legge che ne scaturì (l.13 aprile 1988 n. 117) fu semplicemente una legge truffa, che non ha affatto risolto il problema. Anche lo scandalo dei magistrati “fuori ruolo” deve cessare senza starci troppo a pensare: in un paese dove c’è un arretrato mostruoso di processi e dove una sentenza civile ci mette mediamente 8  anni per arrivare in porto, ci permettiamo il lusso di centinaia di magistrati collocati fuori ruolo, perché applicati presso i ministeri o perché eletti in Parlamento o per cento altre strane ragioni. Bisogna stabilire una volta per tutte che i magistrati possono candidarsi solo dopo essersi dimessi dalla magistratura (ed ovviamente non rientrarci dopo). Quanto a quelli applicati presso i ministeri, appare evidente quanto sia inopportuno questo intreccio fra esecutivo e giudiziario, anche sul piano della separazione dei poteri, così spesso invocata a proposito ed a sproposito. Chi è contrario a questa norma sottolinea come in questo modo i magistrati non si sentirebbero più liberi di svolgere la loro azione penale, temendo di dover pagare (in senso lato e in senso letterale) per ogni loro errore.

I restanti tre quesiti hanno meno risvolti problematici. Quello sul "rientro nelle funzioni proprie dei magistrati fuori ruolo" ha l'obiettivo di far tornare al lavoro di magistrato tutti quelli che sono invece dislocati nei vertici della Pubblica Amministrazione. In modo da aiutare a smaltire l'enorme quantità di processi che spesso finisce in prescrizione.

Il quarto riguarda invece l'abuso della custodia cautelare: "Attualmente migliaia di cittadini vengono arrestati, e restano in carcere in attesa di processo per mesi, in condizioni incivili". Si vuole quindi che il carcere preventivo, cioè prima della sentenza di condanna, si applichi solo per reati gravi.

L'ultimo quesito riguarda l'abolizione dell'ergastolo, e va a toccare punti morali e costituzionali. Nella Costituzione Italiana c'è infatti scritto che "la pena deve tendere alla rieducazione del condannato". Cosa impossibile nel momento in cui si condanna qualcuno al "fine pena mai". Di fatto, però, in Italia quasi nessuno è condannato all'ergastolo, perché la legge Gozzini del 1986 permette alla gran parte degli ergastolani di uscire dopo meno di 30 anni. Fa eccezione l'ergastolo "ostativo", che non ammette sconti e viene comminato principalmente a boss mafiosi e criminali efferati. La Corte Costituzionale ha ammesso la costituzionalità anche di questa forma di ergastolo perché la pena viene ridotta a chi collabora con la giustizia.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano".

Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.

Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.

Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.

Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.

Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:

L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

 

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

Liberali? Solo a parole, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. C’è chi confonde l’idea liberale con un’ideologia: un set di regole precise e immutabili. Un dogma. Il fascino liberale è che esso, piuttosto, è un metodo. Prendiamo il caso delle sigarette e del maldestro tentativo governativo (poi annacquato) di vietarne l’uso in auto in presenza di minori. È l’apoteosi dello statalismo. Cioè l’esatto contrario del metodo liberale. La religione di Stato (in alcuni paesi basta togliere il predicato) decide cosa sia buono e giusto per il singolo, usurpando il libero arbitrio. La «violenza» dell’imposizione statuale detta un comportamento o uno stile di vita, che, se non rispettato, procura sanzioni. Molti considereranno la questione delle sigarette una bazzecola. Ma dietro questa pensata c’è un’ideologia pericolosa e che pervade le nostre istituzioni. Che banalmente si può riassumere così: c’è un gruppo di persone (politici e burocrati) da noi retribuite che pretendono di sapere cosa sia meglio per noi. Una roba da far accapponare la pelle. La libertà è pericolosa. È pericoloso aprire un’azienda, è pericoloso concepire un figlio, è pericoloso pensare diversamente, è pericoloso mangiare, bere e fumare. Ma è molto più pericoloso che qualcuno decida per noi riguardo questi affari. Un effetto collaterale di questo diffuso cancro ideologico è la deresponsabilizzazione che provoca dell’individuo. Ci conformiamo alla legge non perché ne siamo convinti, ma perché la trasgressione è punita. In un recente libro dell’istituto Bruno Leoni (Breve storia della libertà) si ricorda l’esperimento psicologico di Milgram. La facciamo breve: i cittadini possono diventare carnefici del prossimo, pur non volendolo, solo perché l’Autorità lo richiede e solo grazie alla pulizia della coscienza che ci fornisce un meccanismo di deresponsabilizzazione. In quanti casi un funzionario pubblico può devastare una vita, una storia, un’impresa solo imponendo il rispetto di una norma? Un ultimo suggerimento non richiesto alla componente governativa che si rifà al centrodestra. E che per di più si dice voglia ritornare allo spirito originale di Forza Italia. Libertà civili e libertà economiche sono strettamente connesse, come insegnava Einaudi, e fare i furbetti sulle prime, rende meno credibili le battaglie sulle seconde.

POPULISTA A CHI?!?

Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema. 

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

«Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che, nelle sue tre legislature alla Regione Veneto, nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo. - Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ai microfoni de "La Zanzara" su Radio 24. - Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male. Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista». Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi. Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.

E poi c’è quello che non ti aspetti.

LA LEGA MASSONICA.

Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la  “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E  l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

Il misterioso uomo della tensione, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. Sconosciuto all'opinione pubblica grazie alla copertura dei servizi segreti, Berardino Andreola compare in tutti gli episodi misteriosi degli anni di piombo: dai delitti Calabresi e Feltrinelli fino a Piazza Fontana e alla morte di Pinelli. Un libro inchiesta rivela la sua storia. Ci sarebbe un unico uomo dietro a tanti dei misteri che hanno messo in ginocchio l'Italia negli anni Sessanta e Settanta. Dietro la strategia della tensione, i delitti Calabresi e Feltrinelli, la morte di Pinelli, il tentato sequestro dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Una abile spia dal passato troppo nero che a un certo punto, protetta dai Servizi segreti tedeschi, difesa da alcuni potenti rappresentanti delle istituzioni italiane e tutelata dal ricorso quasi schizofrenico a travestimenti e ad alias differenti, si sarebbe abilmente mescolata con il rosso al fine di depistare, insabbiare. E uccidere. Il suo nome è Berardino Andreola, nato a Roma nel 1928 e morto a Pesaro nel 1983, indagato varie volte - con le fittizie generalità, a seconda dei casi, di Giuseppe Chittaro, Umberto Rai, Günter, Giuliano De Fonseca - per le morti di Feltrinelli e di Calabresi e per la bomba alla questura di Milano; e infine condannato - con il nome autentico - per il solo tentativo di sequestro a scopo di estorsione dell'ex presidente dell'Ente minerario siciliano, il veneto Graziano Verzotto, compare d'anello del boss catanese Giuseppe Di Cristina. A collocare Andreola sotto una luce nuova e più articolata, svelandone l'incredibile storia, alcuni movimenti, collaborazioni, appartenenze e vicinanze inaspettate (l'Ufficio affari riservati,il vertice dell'Ufficio politico della questura di Milano, l'Aginter Press, il segretissimo gruppo Alpha, probabile mandante del delitto Calabresi), illustrandone i numerosi depistaggi e i raggiri e ipotizzando nuovi contatti, è lo studioso padovano Egidio Ceccato nella documentatissima inchiesta da poco pubblicata per Ponte alle Grazie, "L'infiltrato". Ceccato, tanto per cominciare: chi è Berardino Andreola. "E' un personaggio che ha più volte fatto capolino, con vari alias - penso a Giuseppe Chittaro Job, Giuliano De Fonseca, Umberto Rai, Günter, Francesco Miranda Sanchez, tanto per ricordarne qualcuno - in diverse inchieste di quegli anni, ma che alla fine è stato processato e condannato solo per aver diretto il tentato sequestro ai danni di Verzotto nel gennaio 1975. Proprio a seguito di questo fallito rapimento di natura politica - non estorsiva, come hanno invece stabilito le sentenze -, eseguito da tre soggetti probabilmente arrivati da Berlino, erano emersi per la prima volta il suo vero nome e la sua qualifica: "Agente segreto appartenente ad una organizzazione ideologica d'estrema sinistra (Gruppo Feltrinelli)". Agli sbigottiti inquirenti siciliani Andreola aveva spiegato, mentendo, di essere arrivato sull'isola per "infiltrarsi negli ambienti mafiosi" e per "studiare i sistemi operativi della mafia allo scopo di utilizzarli nell'ambito dell'organizzazione di cui faceva parte". In verità la spia era sbarcata in Sicilia un mese dopo i fatti accaduti alla questura di Milano: con ogni probabilità ci era arrivato per seguire il caso Verzotto, per impedire all'ex senatore padovano di rivelare segreti collegati all'assassinio di Mattei. A ogni modo Andreola (noto in questo caso come Chittaro, anarco-maoista friulano) viene indagato per l'attentato alla questura". Erede di una famiglia fascista con un padre maresciallo in servizio presso l'Ovra, l'ex brigata nera Berardino Andreola era stata addestrata nei campi delle Ss in Germania, dove aveva imparato un fluente tedesco. Finito per qualche tempo in carcere per reati legati alla criminalità comune, negli anni Sessanta l'uomo si era messo a professare idee "anarco-maoiste" e antiviolente, diventando il braccio destro di Feltrinelli nei Gap (con il nome fasullo di Günter); un informatore importante di Calabresi (con quello di Chittaro); avvicinandosi a Pinelli, a Valpreda e agli anarchici milanesi prima della strage di Piazza Fontana e facendo al contempo da tramite con la mafia nella fornitura e nel traffico di armi. Come si lega Andreola con le vicende milanesi, in particolare con la "madre" delle stragi: Piazza Fontana?"Alla fine di novembre 1969 Chittaro/Andreola aveva contattato dalla Francia per via epistolare il capo dell'ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra, presentandosi come un anarchico-maoista che prendeva le distanze dalle idee violente dei propri compagni. Ad Allegra aveva preannunciato nuovi fatti di violenza politica dopo la morte dell'agente Antonio Annarumma. La sera del 12 dicembre, dopo la scoppio della bomba alla Banca dell'Agricoltura, il capo dell'Ufficio politico lo contatta immediatamente e gli organizza per l'indomani un incontro con Calabresi nella vicina Svizzera. Il 13, perciò, il commissario lo incontra per tre ore a Basilea. Nessuna delle sue dichiarazioni viene tuttavia messa a verbale".

Andreola sembra essere l'anello che congiunge molti fatti terribili accaduti nel nostro Paese. E diversi documenti citati nel libro lo confermano. Eppure il suo nome è praticamente sconosciuto all'opinione pubblica. Perché?

"Per le fortissime coperture di cui ha goduto, innanzitutto. Penso alle indagini per la morte di Feltrinelli, coordinate dal giovane e inesperto magistrato Guido Viola, che non verbalizza le dichiarazioni rilasciate in proposito da Chittaro/Andreola ritenendole pure e semplici fantasie di un mitomane. Molto più probabilmente, però, la mancata verbalizzazione avviene perché dall'alto qualcuno gli consiglia di lasciarlo fuori dalle indagini. Questo non è l'unico episodio a presentare tali caratteristiche. Mi sono convinto, anche grazie a documenti che ho acquisito dopo l'uscita del libro, che Andreola fosse uno dei burattinai che muovevano i fili della strategia della tensione. Per comprendere questa torbida figura non si può infatti prescindere dal Piano Chaos della Cia e dai punti della guerra non ortodossa stabiliti nel maggio 1965 all'hotel Parco dei Principi a Roma. Di Andreola, legato a quella che io chiamo Internazionale nerazzurra - per i contatti con gli apparati americani della Nato - si è parlato in passato, senza che però fosse collocato in un contesto preciso e senza che venissero forniti alla sua figura quei collegamenti che io ritengo essenziali. Le indagini del tempo si erano concentrate sui singoli personaggi, sui suoi tanti alias. Uno separato dall'altro. Con "L'infiltrato", nato durante le mie ricerche per un saggio sulla morte di Mattei che dovrebbe uscire l'anno prossimo, ho cercato di dare un filo logico, di riunire tutto sotto la stessa persona: gli alias e gli episodi delittuosi. Gli importanti collegamenti con Milano, poi, sono potuti emergere grazie ad alcuni documenti forniti da un giornalista dell'Ansa, Paolo Cucchiarelli. Certo, non c'è la pistola fumante, che invece giace forse assieme ad Andreola, ma su chi è stato e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti".

GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.

Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza, scrive Angelo Panebianco su “La Repubblica”. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa. Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra. Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani. Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio. La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia». Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica). Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci. Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri. Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.

SILVIO BERLUSCONI: UN SIMBOLO PER TUTTE LE INGIUSTIZIE.

Un simbolo per tutte le ingiustizie. Con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Gli italiani non avevano un simbolo comune su cui convogliare la rabbia per le ingiustizie patite da ciascuno: i reati subiti e non puniti, i reati puniti e non commessi, le sfacciate disparità di trattamento, i ritardi e le disfunzioni dei processi, le persecuzioni nel nome della Legge e del Fisco, più il vittimismo. Ora la magistratura, dopo un lungo e assurdo percorso, li ha accontentati: con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune. Un paese in ginocchio, con una maggioranza cagionevole, riceve il colpo di grazia. Nessun senso dello Stato e del Bene Comune, nessuno sforzo di chiudere con equilibrio una feroce partita che ha sfasciato l'Italia. Intanto i corvi, le jene e le carogne maramaldeggiano a mezzo stampa. E invece è un dramma per tutti, a cominciare dalla sinistra, surrogata dai giudici nel liquidare con la forza l'era berlusconiana (col rischio di resuscitarla più cazzuta che pria). Ora il Pd si vede costretto a governare con un condannato in via definitiva o a sfasciare il governo e dunque il Paese con una chiamata folle alle urne. E la destra si vede obbligata a stringersi intorno al Capo. Di lui, il condannato, non dirò niente, anzi la butterò sul comico che è l'unica via d'uscita dal tragico kafkiano. Se andrà in carcere, in pochi mesi lo acclameranno direttore del carcere. Se sarà costretto ai domiciliari rifonderà la Casa delle Illibertà. Se sarà affidato ai servizi sociali dovrà aiutare le coetanee ad attraversare la strada. Che pena.

GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.

Gli italiani non hanno fiducia nella giustizia. La sentenza della Cassazione su Berlusconi non c'entra. Lo dice anche il presidente Napolitano: "Serve una riforma", scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica nella dichiarazione immediatamente seguita alla sentenza: "ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso". Napolitano rappresenta l'Italia. Come il Re fu l'incarnazione dello Stato monarchico il Presidente della repubblica lo è di quello Repubblicano. Infatti non sbaglia. Il 96% degli italiani, cioè tutti, ritengono che “bisogna che il sistema della giustizia funzioni meglio di ora". Questo non significa che non vi sia fiducia nel sistema legale italiano. Anche se il Paese su questo aspetto è dubbioso. La maggioranza dei cittadini (52%) è sfiduciato dall’operato dei giudici, mentre solo il 47% da loro credito. Valori che ci avvicinano di più a paesi europei come la Polonia e Slovacchia che non Germania, Inghilterra o Danimarca e Svezia. Ma si tratta pur sempre di quasi la metà della popolazione. Allora diventa interessante comprendere chi, pur dimostrando fiducia nella giustizia, ne richiede con forza la riforma: si tratta del 30% degli italiani. Sono tendenzialmente in maggior numero fra i maschi, in età tra i 35 ed i 55 anni e con livelli d’istruzione medio-alti. Vengono principalmente dalle “regioni rosse” ed infatti, avere fiducia nella giustizia ma richiederne con forza una riforma, sembra un tema molto più caro a chi si definisce di centrosinistra che non di centrodestra, ambito in cui il favore alla magistratura riscuote molto meno consensi. Tra i partiti, persino la maggioranza, seppur relativa, degli elettori di Sel (46%) o del Pd (45%) è di questa opinione, gli altri o semplicemente non hanno fiducia o hanno in merito opinioni contrastanti. Se più della metà della popolazione non ha fiducia nei magistrati e i due terzi degli altri ne chiedono una riforma, allora la questione sembra andare al di là delle questioni politiche legate ai problemi di Berlusconi. Si va oltre al centrodestra. Con questi numeri, il tema di una riforma dell’ordine giurisdizionale sembra molto più essere legato alla singola esperienza dei singoli cittadini.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste. Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele). Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio. Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva. Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana. E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita. L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari. Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.

Giustizia: non si può più tacere. Nell'editoriale di Panorama in edicola dall'8 agosto il direttore, Giorgio Mulè, racconta come e perché lui, ed altri giornalisti del settimanale sono stati intercettati dalla Procura di Napoli. Ora tenterò di spiegarvi perché la riforma della giustizia non è un pericoloso argomento usato dall’insurrezionalista Silvio Berlusconi per sistemare i suoi processi (è così bravo a farlo che il risultato s’è visto…), ma una necessità ineludibile per questo Paese. Dovrò raccontarvi una storia che riguarda Panorama. Nell’agosto di due anni fa, notate bene due anni fa, Panorama pubblicò uno scoop: rivelò che la Procura di Napoli aveva concluso un’inchiesta nei confronti di Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per una presunta estorsione ai danni dell’allora premier Berlusconi. Si trattava di una notizia riservata, esattamente come altre centinaia che vengono pubblicate da qualsiasi organo di informazione. La capacità di rivelare notizie riservate spesso scomode, per intenderci, è la cifra che distingue un bravo cronista da un passacarte delle procure. Si dice, non a caso, che il mestiere del giornalista è quello di penetrare (e violare) i segreti. Più ne infrangi, più sei bravo. Molto spesso accade che siano i pubblici ministeri a violare il segreto, lo sanno anche le pietre ma non si può dire. Diremo allora che ai cronisti del Fatto, per esempio, nessun pm da Palermo ad Aosta si è mai sognato né si sognerebbe di soffiare una notizia non ufficiale. E lo stesso discorso vale per i cronisti del Corriere della sera (a cominciare dalla notizia dell’invito a comparire a Berlusconi del ’94) o meno che mai della Repubblica. Torniamo a noi: in quell’agosto di due anni fa il cronista di Panorama fu così bravo da riferire nel suo articolo anche numerosi dettagli dell’inchiesta. In breve fece (e assai bene) il suo lavoro. Alcuni giorni dopo, il giudice ordinò l’arresto di Lavitola e Tarantini. Il primo, però, si rese latitante. Un latitante sui generis tanto da essere intervistato via satellite in diretta televisiva da Enrico Mentana con il contributo speciale del «procuratore aggiunto» Marco Travaglio: nessun pm napoletano osò contestare (e meno male) ad alcuno degli intervistatori il reato di favoreggiamento né (e questa circostanza invece lascia molto perplessi) disturbò Mentana o alcuno dei suoi ospiti per chiedergli da dove il latitante Lavitola fosse collegato. Il faccendiere, infatti, rimase tranquillamente uccel di bosco per altri 8 mesi, finché decise autonomamente di costituirsi. In quegli stessi giorni di agosto 2011, invece, prendeva il via un’inchiesta a carico del giornalista di Panorama autore dello scoop. Alla luce di quello che oggi sappiamo è il caso di parlare di una maxi inchiesta, un’indagine monstre condotta da ben quattro magistrati in servizio a Napoli (Francesco Greco, Henry John Woodcock, Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli) con il dispiegamento di decine di poliziotti. L’inchiesta coinvolge anche il sottoscritto, da almeno un anno. Avevo avuto modo di parlarvene nell’editoriale pubblicato il 4 luglio scorso (il titolo era «Corruzione, mi mancava solo questa») subito dopo aver ricevuto un invito a comparire dalla Procura di Napoli in cui si vaneggiava nei miei confronti il reato di concorso in corruzione: avrei in sostanza pagato qualcuno per avere lo scoop. Un’ipotesi fuori dal mondo, giunta a due anni dai fatti. E parliamo di due anni in cui eravamo già al corrente di una frenetica, dispendiosa e mai interrotta attività istruttoria costellata da varie perquisizioni (al cronista raggiunto di buon mattino a casa da quattro agenti di polizia napoletani venne risparmiata l’ispezione corporale «in quanto - recita letteralmente il verbale - lo stesso si presentava in pantaloncini pigiama»), diverse consulenze e numerosi interrogatori.

Ora arriva la ciliegina.

Quell’invito a comparire nei miei confronti che contempla un’ipotesi di reato folle somiglia a un’esca, non so come altro definirla. Che la corruzione fosse un’ipotesi campata in aria lo scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari alla procura in un provvedimento del 22 giugno di cui adesso sono venuto a conoscenza laddove in neretto afferma: «Non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione». Eppure, nonostante queste parole non lascino spazio a interpretazioni, cinque giorni dopo (il 27 giugno) la procura emette l’invito a comparire, che mi viene preannunciato l’1 luglio e notificato il giorno successivo, con l’ipotesi non «seria» di corruzione. Un atto urgente e non differibile, avevano specificato i poliziotti incaricati della notifica. E sapete il perché di tanta urgenza? Perché i miei telefoni erano sotto controllo dal 20 giugno. Così come quello del vicedirettore esecutivo, del capo della redazione di Roma, del cronista autore dello scoop, di un collaboratore di Panorama, di un impiegato di banca, di un avvocato e di un cancelliere di Napoli. Sono in tutto la bellezza di 24 utenze telefoniche. Si è trattato di una gigantesca operazione di spionaggio nei confronti del vertice di Panorama, che è stato intercettato per almeno 15 giorni. Numerosi agenti di polizia hanno trascorso il loro tempo ad ascoltare e trascrivere migliaia di conversazioni (anche sul numero di casa del vicedirettore esecutivo) fatte o ricevute da giornalisti non indagati come il mio vice e il capo della redazione di Roma. Anche loro raggiunti da un provvedimento-esca mentre già i loro telefoni erano sotto controllo: esche costituite da convocazioni della Procura di Napoli nella veste di testimoni tra il 25 e il 28 giugno. E che cosa pensavano le brillanti menti investigative partenopee con l’avallo del gip che ha autorizzato questa enorme e inaudita attività di spionaggio? Scrive il giudice: «La ragionevole probabilità che, a oltre un anno dai fatti (in realtà sono due, ndr), le utenze in oggetto possano essere impiegate per comunicazioni utili allo sviluppo delle indagini discende dalla contestuale predisposizione di attività perquirenti che possono stimolare confidenze tra i soggetti coinvolti. Da queste considerazioni discende anche l’urgenza dell’attività intercettiva». Traduco: dopo due anni dai fatti convochiamo i giornalisti per essere interrogati (è l’«attività perquirente», vocabolo sconosciuto al Devoto-Oli) e origliamo al telefono se dicono qualcosa di utile alla nostra indagine. Non fa niente che alcuni di loro non siano sospettati di alcunché, non interessa che siano persone perbene: si intercetti alla ricerca del reato. E si intercettano anche conversazioni personalissime e delicatissime (che magari finiranno nelle mani di giornalisti guardoni), come molte di quelle che transitano sui telefoni di chi dirige un giornale. Cari lettori, questo non è più uno stato di diritto: è, da tempo, uno stato di polizia, come invano ripete il prigioniero politico Silvio Berlusconi. E badate bene: di questa inchiesta partenopea ci sono ancora molte cose da raccontare ed è quello che ovviamente faremo nei prossimi numeri. A cominciare da un dubbio che non ha ancora risposta. Perché si sa, per esempio, che i quattro pm avevano già chiesto di intercettare me, la mia segretaria e il cronista già nel maggio di un anno fa. Con che esito al momento non so. E soprattutto non so per quanto tempo in questi due anni i giornalisti di Panorama siano stati ascoltati nelle loro conversazioni private. Secondo voi, questo spiegamento di forze e di spese avviene per ogni fuga di notizie sui giornali? Non prendiamoci in giro. Se c’è da colpire Berlusconi o chi lo appoggia, la giustizia lenta si fa veloce e non bada a spese. Ora mio rivolgo a Lei, signor presidente della Repubblica, al quale la Costituzione assegna anche la guida del Consiglio superiore della magistratura. Mi rivolgo a Lei perché «ora», dopo la condanna del Cavaliere, ritiene maturi i tempi per una riforma della giustizia. Mi rivolgo a Lei perché anche Lei ha patito la violenza di una indebita e arbitraria intercettazione telefonica. Faccia sentire alta la Sua voce, pronunci parole nette per ristabilire le garanzie elementari nei confronti dei cittadini scolpite nella nostra Carta. Lo faccia prima che sia troppo tardi, prima che questo Paese sprofondi definitivamente nelle tenebre dell’arbitrio giudiziario e della tirannia della magistratura. Non c’è più tempo. Perché un bel tacer non fu mai scritto.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

Scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. Si invoca la riforma della giustizia come priorità assoluta. Silvietto strepita e i giornali riprendono l’accorato appello. Sono assolutamente d’accordo, non con lui, ma con la tesi della priorità assoluta. Lo scrivo da tempo e lo ribadisco. Occorre intendersi con chiarezza, senza il consueto velo di ipocrisia che connota questo Paese. Di “larghe intese” mica per niente. Chi oggi la invoca è volutamente in mala fede poiché postula una riforma tesa a condizionare l’autonomia della magistratura, per consentire alla politica di continuare a gestire impunemente interessi massonici, economici, illeciti, di enorme valore, la cui gestione in questi decenni ha demolito pezzo dopo pezzo la democrazia ed il sistema di tutela dei diritti, relegandoci agli ultimi posti nel mondo quanto a livello di libertà di stampa, efficienza della giustizia, pressione fiscale, corruzione, modernità etc. La finta-destra che invoca tale riforma vuole una magistratura che non intacchi la libertà del “potere politico” (esecutivo, legislativo, amministrativo), libertà che si pretende nel senso più libertario del termine, come libertà della condotta accompagnata da una impunità assoluta. Un tale progetto, riproposto, è eversivo e grave, contrastante il principio della divisione dei poteri che sorregge la nostra democrazia. All’opposto, occorre riflettere attentamente sulle posizioni della finta-sinistra che oppone le barricate ad un tale disegno (riforma in generale), ritenendo intoccabile la giustizia. Come se in Italia avessimo una giustizia degna di cotale nome. Invece abbiamo una melassa mal mostosa che chiunque abbia vissuto in prima persona, può raccontare come sia essa stessa fonte di nocumento e di danni alle parti processuali, soprattutto alla parte che ha subito l’ingiustizia. Sicchè la “giustizia ingiusta” si amplifica fino a stordire ed annichilire i diritti, mostrando una sordità ed una kafkiana presenza tale da scoraggiare di suo un secondo tentativo di accesso. Intendiamoci, la “giustizia ingiusta” è quella lenta (perché il tempo ha un ruolo fondamentale nella soppressione dei diritti), quella immotivata (con motivazioni errate in diritto e in fatto, frutto di errori), quella resa in mala fede o in conflitto di interessi (c’è anche quella, soprattutto per la giustizia amministrativa), quella arrogante (con giudici che non ascoltano, non studiano, non leggono, pieni di pregiudizi, schierata). C’è un sistema giustizia, stratificato ad arte nel tempo, che ostacola l’accertamento dei diritti invece che assumersi il ruolo e la responsabilità di rispondere ad esigenze di giustizia. Dalla complicatissima notifica degli atti (dopo vari anni, ancora oggi non è chiaro se si possa notificare via Pec, come, da chi e a chi!) allo pseudo processo telematico a macchia di leopardo (a pezzi, nel processo e geograficamente); dalla impunità assoluta del personale amministrativo inetto (cancellieri, ausiliari, ufficiali giudiziari) verso il quale avvocati e magistrati neppure presentano esposti, alla impunità assoluta dei magistrati (la c.d. responsabilità indiretta è merce rarissima, contandosi pochi casi a fronte di circa 16.000 giudici tra togati e non togati), sino agli Ordini degli avvocati che invece di sanzionare i propri iscritti per gravi illeciti impediscono pure l’accesso agli atti pur di proteggere l’iscritto (avrei voglia di raccontarvi della condotta di un ordine del Nord-ovest); dalle riformicchie mediocri introdotte in questi anni nel processo civile che invece di adottare un rito snello e celere (ricalcando il rito del lavoro), hanno inserito decine di incomprensibili novità (perché ancora dibattute dagli operatori del diritto), intimidatorie e sanzionatorie (descritte come deflattive, o yes) accostate ad una raffica di aumenti delle spese vive (contributi unificati moltiplicati n volte, marche aumentate per ogni battito di ciglia) finalizzate solo a impedire che si acceda al processo, privilegiando solo i benestanti. Il suggello di tale percorso lo si è veduto nuovamente con la reintroduzione della mediazione obbligatoria (in veste ammiccante, una sorta di squillo con abito bianco), ossia un ossimoro secondo cui i litiganti sono “obbligati a mediare”. Percorso che difatti l’Europa non ha indicato, pur sollecitando le Adr, quali misure alternative alla giurisdizione. La riforma dunque è necessaria e prioritaria ma la finta-sinistra vi si oppone. Ecco perché non si sa più nulla del processo Montepaschi di Siena e di tanti altri processi vitali. Meglio che la giustizia non sia poi così efficiente. Meglio un Paese storto che un Paese “diritto”. Un Paese bipartisan, appunto.

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

Da quanto tempo stiamo aspettando giustizia? «Da tempo immemorabile», dice Massimo Bordin intervistato da  Ubaldo Casotto su “Il Foglio”. Carcerazione preventiva, uso politico delle indagini, gogna mediatica. Massimo Bordin, voce dei radicali e veterano della battaglia per la riforma del sistema, squaderna il suo archivio delle bestialità italiane. Parlare di giustizia con Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, è come consultare un archivio, ma senza la fatica della ricerca. Gli diciamo dell’iniziativa di Tempi, “Aspettando giustizia”, e delle persone che vi partecipano: il generale Mario Mori, Ottaviano Del Turco… «Certo. Del Turco, sto seguendo il suo processo». Il caso dell’ex sindacalista, poi dirigente del Pd, arrestato nel 2008 per uno scandalo della sanità abruzzese e dimessosi dalla presidenza della Regione è per i più – anche tra i giornalisti – un fatto di cronaca del passato, finito prima di sapere come è andata realmente a finire. Bordin sta seguendo il processo.

Bordin, da quanto tempo l’Italia è un paese che “aspetta giustizia”?

Da tempo immemorabile. Il problema dell’amministrazione della giustizia e della carcerazione preventiva si trascina almeno dalla famosa legge Valpreda (1972, Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, era in carcere da più di tre anni, fu poi assolto, ndr) che per la prima volta dovette affrontare il tema di una carcerazione preventiva che si andava protraendo oltre ogni logica. Da allora la legislazione sulla custodia cautelare è stata praticamente un elastico, secondo lo spirito del tempo l’hanno ridotta in alcuni momenti o allungata in altri. Ci sono stati casi, come quello del processo “7 aprile” (1979, contro le presunte “menti” delle Br), dove alcuni imputati hanno sopportato una carcerazione preventiva di quasi sei anni, a quel punto una condanna a cinque anni fa sorgere inevitabilmente il dubbio che se ci fosse stata una carcerazione preventiva più breve non si sarebbe giunti a quella condanna. Dopo che hai tenuto in galera uno quasi sei anni senza processo non è che gli puoi dire: mi sono sbagliato, arrivederci e grazie.

I pm d’assalto hanno radici profonde…

Non si è mai trovato un vero equilibrio fra i vari ruoli della magistratura. Gli anni Settanta sono stati anni di riforme in questo senso, ma se prima c’era un eccesso di rigore gerarchico che più che l’attenzione dei magistrati al diritto e al suo rispetto favoriva un ossequio all’ordine, ora quella tendenza è stata invertita dando un colpo di timone dalla parte opposta.

Perché in Italia è difficile definirsi garantisti, e si passa per i difensori dei corrotti, quando non dei mafiosi?

In questi anni è successa una cosa molto singolare, che riguarda i media. Mentre prima il processo, nel senso del dibattimento, era il momento nel quale l’opinione pubblica più direttamente entrava nel vivo e veniva informata delle questioni processuali, oggi l’attenzione al dibattimento è quasi scemata: ci sono grandi vicende giudiziarie che ci hanno appassionato e poi non ci ricordiamo più nemmeno come sono finite. Il massimo dell’attenzione si concentra sulla fase istruttoria durante la quale l’informazione viene quasi drogata. Alla fine, per il concorso di una serie di fenomeni che vanno quasi per conto loro, resta, comunque vada, uno stato di disagio, una certa insoddisfazione per come la giustizia ha funzionato. Già il fatto che si parli di garantismo e giustizialismo è la prova che qualcosa non funziona. Il vero garantista è quello che chiede il rispetto delle garanzie per l’imputato e però anche l’applicazione della legge, non la non applicazione. La distorsione è tale per cui lo scontro è tra due scuole di pensiero che chiedono entrambe l’applicazione della legge e hanno entrambe buone ragioni per mostrare che in alcuni aspetti della faccenda la legge non è applicata. C’è qualcosa che non va nel manico, e la situazione non tende minimamente a migliorare.

Va detto che molti politici quando parlano di legalità non sembrano molto credibili.

Facciamo i nomi: su alcuni punti Berlusconi ha ragione, in altri casi le sue difese sono evidentemente strumentali. D’altro canto sul lato opposto della barricata si ritrovano gli stessi difetti rovesciati. Se quando qualcuno parla di garanzie fa sorridere, quando altri parlano di applicazione della legge mettono paura.

Una tua denuncia costante è che la giustizia opera ormai prima del processo, sui media e nel dibattito pubblico, con la conseguente pena anticipata: carcerazione preventiva e gogna mediatica.

La giustizia opera addirittura fuori del processo, ormai si può, quasi in senso tecnico, parlare di amnistia occulta. La prescrizione è un modo di fatto per depenalizzare e non arrivare nemmeno al dibattimento a causa dell’elefantiasi dei tempi istruttori, per una serie di motivi che non possono sempre essere addebitati a una carenza di risorse. Chi segue queste faccende da una trentina d’anni sa che alla magistratura sistematicamente sono state date risorse in più, molto più che ad altri settori. È innegabile, non si può parlare di un settore trascurato dall’amministrazione, tutt’altro.

Come interrompere il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario per cui finiscono puntualmente sui giornali carte coperte dal segreto istruttorio? Il giudice Marcello Maddalena propone pene amministrative significative per i giornalisti che pubblicano, sei d’accordo?

Perché ci deve andare sempre di mezzo il povero giornalista, che poi alla fine una firma la deve mettere, mentre chi gli passa le carte resta anonimo? È anche poco sportivo. La prima separazione delle carriere da fare nel mondo della giustizia è quella tra certi giornalisti e certi pubblici ministeri, perché sono quelle le carriere intrecciate. Il mio eroe Antonio Ingroia è riuscito addirittura a sommare le due parti nella stessa persona, gli hanno dato pure il tesserino da pubblicista e ha fatto un discorso in cui si definiva magistrato-giornalista. Perfetto, la sintesi ideale. Balza agli occhi pure di un bambino il collegamento tra un network di pubblici ministeri, gruppi inter-procure, e un network di giornalisti giudiziari, basta vedere chi aveva le anticipazioni delle carte e chi no delle indagini sulla “cricca”, sulla P3, sulla P4… quella roba lì… Si fa presto a vedere come funzionano certe filiere, e come si possono interrompere. Ci vorrebbe una parola forte da parte della magistratura nei confronti dei pm, ma anche, se avesse un senso la sua esistenza, dell’Ordine dei giornalisti nei confronti dei giornalisti. Perché non credo che il lavoro del giornalista sia semplicemente quello di fare il passacarte delle procure.

In nome del “se ho un documento lo pubblico” si rischia di diventare una buca delle lettere.

Questo senz’altro, fermo restando che se a me viene data una carta che viola il segreto istruttorio, se è una notizia io la pubblico. Però sta alla mia deontologia – la parola è inutilmente grossa – fare in modo che io non diventi una buca delle lettere, e non lo divento se non mi lego in un sodalizio perverso con chi mi passa le carte. Perché è evidente che chi me le passa ha interesse a vedere pubblicizzato il proprio lavoro, e poi non apprezzerebbe un atteggiamento eventualmente critico, a quel punto potrebbe chiudere i rubinetti delle indiscrezioni. Così il giornalista diventa non solo una buca delle lettere ma un pierre, perché deve in qualche modo anche valorizzare le carte che il pm gli dà apposta. Il circuito è assolutamente perverso.

Dici che è tutto così evidente, eppure sembra difficile denunciarlo. Ci ha provato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, e mal gliene incolse.

Ci voleva l’ennesima uscita di Ingroia per far parlare l’Anm, che in questi anni, diciamo la verità, ha visto di tutto e di più ed è sempre stata zitta. Anche questo è un segnale che non fa ben sperare e rende evidente che ci sono dei comportamenti da cui persino l’Anm deve in qualche modo cercare di dissociarsi.

Tu auspichi un intervento della magistratura, ma chi potrebbe intervenire sembra intimidito. Ci è voluto il ricorso del capo dello Stato alla Corte costituzionale per scuotere in modo deciso le acque.

I poteri del presidente del Csm ci sono, ma sono molto relativi, se uno deve sbattere il pugno sul tavolo, deve alzare i toni. Tutti ricordiamo quando Francesco Cossiga, da presidente del Csm oltre che della Repubblica, arrivò ai ferri corti con quel consiglio, che fra l’altro era un dei più tosti e corporativi, minacciò addirittura di mandare i carabinieri a interrompere la seduta. Se il presidente deve farsi valere, inevitabilmente si arriva a una drammatizzazione dello scontro.

Giorgio Napolitano è stato coinvolto nelle intercettazioni per le indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Voi radicali storicamente non siete certo stati teneri nei confronti delle devianze degli apparati della Repubblica, perché quest’indagine non ti convince?

Perché non sta in piedi. Io non ho alcuna difficoltà a credere che possano esserci state personalità politiche non solo colluse ma addirittura in alcuni casi quasi interne al fenomeno mafioso. Io questo non ho la minima remora a crederlo. Così come penso che possano esserci stati abboccamenti, magari attraverso intermediari, fra politici e mafiosi anche nell’epoca delle stragi. È molto probabile, da cronista dico solo che l’impianto accusatorio della “trattativa” così come finora si è mostrato, nelle carte consegnate al Gip, non regge. La stessa elevazione dei capi di imputazione è discutibile, non c’è bisogno di essere docente di procedura penale per capire la debolezza della contestazione del reato di minaccia al corpo dello Stato a Totò Riina; voglio vedere come ottengono una condanna per un signore che ha concretato quella minaccia in alcune stragi per le quali è già stato mandato all’ergastolo. Poi è assolutamente evidente, secondo il loro impianto accusatorio, il ruolo fondamentale dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso; se è vero quello che dicono, il passaggio decisivo è stato quello delle sue scelte sull’attenuazione del 41 bis a molti mafiosi. Se è così, primo quei magistrati non hanno alcuna competenza, perché se non è un reato ministeriale quello non si vede quale lo sia, e quindi la competenza è del tribunale dei ministri; secondo, appare solo una furbizia quella di stralciare Conso e mantenere aperta l’indagine su di lui mentre la si chiude per gli altri. C’è poi il paradosso denunciato da Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato: ma come, avete detto che il delitto Borsellino è un passaggio fondamentale della trattativa Stato-mafia e poi nella vostra indagine del delitto Borsellino manco ne parlate? Come è possibile? Ci sono incongruenze talmente palesi che mi fanno pensare che, come al solito, questa sia la tipica inchiesta mediatica.

Il sottinteso politico è che il tutto avrebbe spianato la strada alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Riesce difficile vedere l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nelle vesti di promoter dell’uomo che ha poi strenuamente combattuto.

Non ha alcun senso, come molte cose in questa indagine. C’è un altro paradosso: si protrae il periodo delle stragi sino alla fine del 1993, e quindi arrivando in limine alla famosa discesa in campo di Berlusconi, prospettando l’ipotesi di un attentato che praticamente non ha lasciato nessuna traccia: allo Stadio Olimpico di Roma doveva esplodere una macchina uccidendo centinaia di carabinieri e non solo. La macchina non l’hanno mai trovata, ci fidiamo, tra gli altri, della parola di un signore, Gaspare Spatuzza, che dice: la macchina c’era io ho premuto il telecomando, però non ha funzionato. E allora ce ne siamo andati a casa, poi la macchina l’hanno rimossa. L’ultimo attentato che si situa in un momento cronologico fondamentale per il discorso sulla preparazione della discesa in campo di Berlusconi, è un attentato del quale non c’è traccia.

Il circuito mediatico-giudiziario ha dimostrato sin qui di saper funzionare bene. Pensi che la divulgazione della notizia dell’esistenza delle intercettazioni del capo dello Stato sia stato un passo falso?

Hanno esagerato, ma viene il dubbio che non tutto il male vien per nuocere. Non dico che l’abbiano fatto apposta, ma dall’incidente hanno saputo trarre profitto, è stata quella la principale cassa mediatica su un’inchiesta che piano piano si stava sfarinando. Hanno consegnato gli incartamenti al Gip, se non ci fosse stata la notizia delle telefonate, la polemica che ne è nata, la raccolta delle firme… oggi la posizione di chi deve giudicare le carte di Ingroia sarebbe molto più semplice, potrebbe decidere con maggiore serenità.

Che effetto ti ha fatto questa operazione extragiudiziale di raccolta firme a sostegno di un’indagine?

La consegna delle firme è una buffonata senza pari, supera quella della passeggiata in Galleria Vittorio Emanuele a Milano del pool di Mani pulite all’epoca di Tangentopoli. C’è una foto che immortala quella consacrazione popolare, qui siamo oltre. È una evidente pressione sul Gip. Ingroia da questo punto di vista ha un suo palmares, le due inchieste che lui avviò su Berlusconi e Dell’Utri come committenti delle stragi sono state per due volte bocciate dal Gip, non sarebbe clamoroso se succedesse anche questa volta. Certo con questo bailamme sulle telefonate quirinalesche il Gip ha un compito meno facile.

Il palazzo del potere deve essere di vetro per poterci guardare dentro. Come rispondi all’argomento della trasparenza?

È la classica argomentazione che ti costringe alla difensiva, a evocare la necessità di una zona grigia del potere che comunque c’è sempre stata, e fai inevitabilmente la figura di quello che in qualche modo copre l’omertà di Stato o chissà che. E questa è un’altra questione che non si riesce a dirimere. In America è un fatto normale, dopo un certo numero di anni, pubblicare libri con documenti desecretati. C’è una cultura per cui la trasparenza ha delle eccezioni, la riservatezza va difesa, ma non è mai assoluta, o per motivi di tempo o per motivi che la rendono alla fine inutile. Il problema non è trasparenza od oscurità, ma regola. In Inghilterra il sistema dei media funziona anche sulla fiducia, se circolano alcune notizie ritenute relative alla sicurezza nazionale, un funzionario convoca i direttori dei giornali e dice loro: queste notizie non devono uscire. E non escono. Forse che la stampa inglese non è libera?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

Giudici, non diventate 'casta', scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di perdere credibilità. Facendo così il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione. Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale". Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica. L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate. Questi ed altri fattori non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati). Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese. Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili. E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.

Da un paradosso ad un altro.

DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.

Le 10 condanne record nella storia degli Usa. Bradley Manning rischia di essere condannato a 140 anni di carcere. Ma quali sono state le condanne più severe in passato? Scrive Michele Zurleni su “Panorama”. Si è salvato dall'accusa più pesante, "complicità con il nemico", il reato che prevedeva l'ergastolo, ma Bradley Manning rischia di dover subire una durissima condanna. Sulla base delle imputazioni, la talpa che ha passato i documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato a Wikileaks, potrebbe non uscire mai più di prigione: la pena potrebbe arrivare fino a quasi 140 anni di carcere. Non un fatto inusuale per la giustizia americana. In passato sono state diverse le condanne record. Questo è l'elenco delle dieci più severe.

1) Charles Scott Robinson, 30.000 anni di carcere

I giurati del suo processo dissero che volevano essere sicuri che non uscisse mai più di prigione. Era il 1994, eravamo in Oklahoma e questa sentenza ha stabilito un record che non è stato ancora eguagliato. La più alta pena mai inflitta in un tribunale statunitense. Robinson era stato arrestato per aver stuprato dei bambini. Per ogni atto di violenza, 5.000 anni di carcere. Il giudice non voleva che l'allora trentenne potesse ottenere la grazia e uscire dal carcere dopo qualche anno, circa 15 anni, come accade in media. Per cui stabilì una pena che, di fatto, lo condannava a vita. Secondo i suoi calcoli, infatti, l'uomo avrebbe potuto fare domanda di perdono solo all'età di 108 anni.

2) Dudley Wayne Kyzer, 10.000 anni di carcere

Nel 1981, per aver ucciso la moglie, l'uomo ebbe questa condanna del tribunale dell'Alabama che lo giudicò. E per aver assassinato la suocera e un ragazzo, la corte decise che Kyzer doveva essere anche condannato all'ergastolo per ognuno dei due omicidi. Due vite intere in carcere più diecimila anni. Un altro record della giustizia americana. Ma il giudice disse che quello che aveva commesso Kyzer era stato troppo crudele per essere più clemente con lui..

3) Darron Bennalford Anderson, 2.200 anni di carcere

Per i reati di sodomia, stupro e rapimento di minore, venne condannato in Oklahoma nel 1994 a più di venti secoli di carcere. Fece appello e stabilì un nuovo record. La sua pena venne aumentata invece che diminuita. Di alcuni secoli. Poi, in un altro appello, venne ridotta di 500 anni. Alla fine, rimase la pena originaria. Anche in questo caso, il giudice voleva essere sicuro che l'uomo non potesse chiedere perdono dopo pochi anni. Ma solo dopo qualche secolo.

4) Peter Malloy, 1000 anni di carcere

L'ex proprietario del canale televisivo TV33 di Lagrange, in Georgia, è stato condannato nel 2013 per sfruttamento e abusi sessuale di minori. Cinquanta i casi accertati, per ognuno dei quali, Malloy ha preso 20 anni di prigione, in totale, dieci secoli di prigione. Era stato arrestato nel 2011 dopo una denuncia. Durante le perquisizioni, gli inquirenti ritrovarono migliaia e migliaia di file di materiale pedopornografico. Poi, il processo e la condanna.

5) Bobbie Joe Long, 28 ergastoli e una condanna a morte

Un serial killer della Florida, che ha avuto una sorta di record di condanne. Per i suoi reati, dieci omicidi, più rapimenti e violenza carnale, Long ha collezionato una condanna a cinque anni di carcere, quattro a novantanove anni di carcere, 25 ergastoli senza possibilità di perdono, 3 con possibilità di grazia e una condanna a morte sulla sedia elettrica, che deve essere ancora eseguita.

6) Ryan Brandt e Jeffrey Kollie, sette ergastoli a testa e 265 anni di carcere per ogni rapina

Non avevano commesso delitti, non avevano stuprato, ma erano dediti alle rapine a mano armata. La giustizia della Georgia non è stata leggera con loro. Nel 1996, dopo la loro cattura, il giudice decise di dar loro una condanna esemplare, che fosse da monito anche agli altri rapinatori. I loro legali, ma non solo, protestarono con forza per quella dura condanna. Voleva dire buttare via la chiave della prigione in cui venivano rinchiusi due persone che altrimenti, sosteneva l'avvocato, avrebbero potuto redimersi. La condanna è arrivata dopo che i due avevano rifiutato un patteggiamento che li avrebbe tenuti 40 anni in carcere.

7) Sholam Weiss, 845 anni di carcere

La sua data di rilascio, in questo momento, è il 23 novembre 2754. Processato nel 2000 per la bancarotta del National Heritage Life Insurance, accusato di frode e di riciclaggio, di aver truffato e sottratto milioni i dollari ai pensionati che avevano investito i loro fondi, Sholam Weiss ha un poco invidiabile record sulle sue spalle: è il “colletto bianco” a cui è stata inflitta la pena più severa.

8) Mark Anthony Beecham, 645 anni di carcere

Rapimento e violenza sessuale su minori Il 25enne dell'Alabama è stato condannato nel 2012 a 99 anni per ogni reato per il quale è stato ritenuto colpevole. Dopo la sentenza, ha protestato, dicendo di non avere avuto un processo equo. Quella do Beecham è stata la seconda condanna più pesante nella storia dell'Alabama dopo quella inflitta a Dudley Wayne Kyzer.

9) Norman Schimdt, 330 anni di carcere

La sua data di rilascio è il 12 settembre 2291. Norman Schimdt è al secondo posto della speciale graduatoria dei “colletti bianchi” condannati con le pene più alte. E'rinchiuso in un carcere in Texas e al processo è stata ritenuto colpevole di aver architettato una truffa milionaria.

10) Bernard Madoff, 150 anni di carcere

Un nome famoso, una truffa clamorosa, una condanna esemplare. L'uomo d'affari newyorchese, protagonista della più grande truffa finanziaria nella storia degli Usa, 65 miliardi di dollari, una vera e propria montagna di denaro, è rinchiuso nel penitenziario di stato di Butner e la sua data di rilascio è il 14 novembre 2139.

E, infine, un altro caso esemplare, quasi da record, non per la lunghezza della pena, ma per le condizioni in cui scontata

10 (ex equo) William Blake, 77 anni di carcere, 26 passati in assoluto isolamento

In una lettera spedita ad un'associazione di carcerati, occasione unica nell'ultimo quarto di secolo, quest'uomo, arrestato per l'uccisione di un poliziotto nello stato di New York, ha raccontato il suo calvario: ventisei anni passati in totale isolamento, per decisione del giudice che l'aveva condannato per l'omicidio a 77 anni di carcere. “Non vedo la televisione dagli anni'80 e non ho mai utilizzato un telefono cellulare” - ha raccontato William Blake. “Tu devi passare il resto dei tuoi giorni all'inferno” gli avrebbe detto il giudice del suo processo nel 1987. Da allora ha vissuto nella sezione d'isolamento della prigione di Elmira: 23 ore in cella, niente televisione, possibilità di telefonare o di fare attività ricreative o sportive. Sepolto vivo.

IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.

Il magistrato Vincenzo Maccarone è innocente. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula pi ampia: il fatto non sussiste. Finisce così il calvario dell’ex sostituto procuratore generale della Cassazione, un calvario iniziato l’8 maggio del 2007. Quella sera un gruppo di agenti della Guardia di Finanza avevano bussato alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattarono le manette e l’alto magistrato venne condotto nel carcere di Regina Coeli, rinchiuso in una cella di isolamento. L’arresto era nato da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore Leonardo Giombini. Lo scopo: aiutare Giombini a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia, una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi all’obbligo di dimora nel comune di Osimo. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Maccarone dalla Procura generale di Roma alla Corte d’appello de L’Aquila. Da allora sono passati due anni e il gup Palmisano, il 16 luglio scorso, ha accertato che Maccarone e gli altri imputati sono innocenti. 16 luglio 2009. Il magistrato Vincenzo Maccarone è stato assolto, scrive Riccardo Arena su “Il Detenuto Ignoto”. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula più ampia. Il fatto non sussiste. Vincenzo Maccarone è innocente.

8 maggio del 2007. È sera. Un gruppo di agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattano le manette. Il magistrato viene condotto nel carcere di Regina Coeli. È rinchiuso in una cella di isolamento. È la notte più difficile nella vita dell’alto magistrato. Un magistrato stimato da tutti. L’arresto nasce da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore Giombini. Lo scopo: aiutare Giombini a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia. Una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi agli arresti domiciliari. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Macccarone dalla Procura generale di Roma, alla Corte d’appello de L’Aquila. Passano 2 anni e un Giudice accerta che Maccarone, e gli altri imputati, sono innocenti. Sulle agenzie stampa di questo errore giudiziario ovviamente non c’è traccia. Ma è questa una vicenda che comunque deve far riflettere. Una riflessione che deve riguardare la Giustizia di oggi. Una riflessione che deve essere però condotta con un approccio concreto, e non accademico. Riflettere sulla concreta efficacia di una regola. Riflettere sul modo in cui concretamente la regola viene applicata. Un approccio concreto che deve suggerire riforme concrete. Riforme che devono riguardare sia norme che magistrati. Inutile girarci intorno. Maccarone, come tanti altri imputati ignoti, non doveva essere arrestato. La regola di diritto è stata violata. Senza una riflessione concreta su casi come questo, non si andrà lontani. La giustizia, sarà sempre più inefficiente e, con essa, la magistratura sarà facile bersaglio di riforme insensate fatte da un legislatore incapace. Occorre fermarsi e riflettere.

TOGHE SCATENATE.

Tempi ad personam per Berlusconi: già emesso e notificato il decreto di carcerazione. Revocato il passaporto, scrive Luca Fazzo  su “Il Giornale”. Altro che procedura ordinaria. Neanche il tempo che si asciughi l'inchiostro sulla sentenza, e la Cassazione mette il turbo alla macchina destinata a eseguirla e a privare Silvio Berlusconi del seggio di senatore, della possibilità di espatriare e - alla fine, non si sa come né quando - della libertà. Le sentenze sotto i cinque anni di solito viaggiano da Roma a Milano per posta ordinaria, e anche in questo caso tutti si attendevano che la prassi venisse rispettata. Invece alle 20 e 31 di giovedì dalla cancelleria della sezione feriale della Cassazione il fax con la condanna parte per l'ufficio di Manlio Minale, procuratore generale a Milano: dove però a quell'ora non c'è nessuno, proprio perché nessuno si aspettava tanta fretta. Ieri mattina, alle 7 e 59, un cancelliere insolitamente mattiniero della Cassazione rimanda il fax: stavolta al numero dell'ufficio esecuzione della Procura generale. Gli impiegati lo trovano poco dopo, arrivando in sede. È il segnale del via. La macchina dell'esecuzione è partita. Perché tanta fretta? Cinque o sei giorni non avrebbero cambiato niente. L'unica spiegazione possibile è che a Roma o a Milano qualcuno fosse convinto che Berlusconi si preparasse a scappare, e che per questo fosse urgente ritirargli il passaporto. Per questo si è voluto tagliargli le vie di fuga verso una sua personale Hammamet. La Procura di Milano, vista la rapidità d'azione della Cassazione, si mette al passo. Il sostituto procuratore generale Antonio Lamanna legge il fax e lo trasmette al piano di sopra, nelle mani di Ferdinando Pomarici: 71 anni, uno dei grandi vecchi della Procura milanese, il pm dei processi a Prima Linea e del caso Calabresi. Duro era e duro è rimasto. Vicino alla pensione, Pomarici si occupa di un ufficio usualmente defilato, l'ufficio esecuzione. Che però in questo caso diventa un ufficio delicato. Pomarici non perde tempo. Apre un fascicolo intestato a «Berlusconi Silvio». Emette il decreto di carcerazione, e subito dopo il decreto che sospende l'esecuzione della pena per dare il tempo al condannato di chiedere misure alternative. Poi fa partire tre copie del provvedimento. Una è per i carabinieri, che devono mettersi alla ricerca di Berlusconi. Uno è per la questura di Milano, che ha rilasciato il passaporto al Cavaliere e che deve revocarlo. Il terzo, ed è quello che arriva per primo a destinazione, è per il Senato, perché provveda - in applicazione del decreto legge anticorruzione del governo Monti, che porta la firma di Angelo Alfano e che molti avevano accusato di essere troppo morbido - a dichiarare decaduto l'ex presidente del consiglio dallo scranno di Palazzo Madama. Subito dopo è la questura di Milano a dare immediata esecuzione all'ordine della Procura. Il passaporto rilasciato al cittadino Berlusconi viene revocato «su ordine dell'autorità giudiziaria». A farsi riconsegnare materialmente il documento provvederà la questura di Roma, dove - secondo quanto ha verificato in tempo reale la Procura - il Cavaliere ha trasferito da poco la sua residenza. Ma la revoca del passaporto è già stata inserita nel database delle forze di polizia. Se oggi Berlusconi cercasse di espatriare - anche per una vacanza o un impegno politico - si vedrebbe respinto alla frontiera. Anche il passaporto diplomatico di cui gode, rilasciato dal ministero degli Esteri, verrà revocato in queste ore. Sono misure a loro modo burocratiche, ovvie. Ma che segnano una svolta epocale nel percorso giudiziario, umano e politico di Berlusconi. Di visite dei carabinieri il Cavaliere ne ha già ricevute tante, a partire dal giovane ufficiale che il 22 novembre 1994 gli portò a Napoli il primo avviso di garanzia. Ma la visita di ieri del generale Maurizio Mezzavilla a Palazzo Grazioli racconta tutta un'altra storia. Nel foglio che gli consegna il generale gli viene comunicata la sua prima sconfitta. Certo, c'è la sospensione della pena, ci sono trenta giorni di tempo - che poi diventeranno più di settanta per via delle vacanze - per decidere le prossime mosse. Ma il foglio era intestato: «Ordine di esecuzione». Non deve essere stato un bel momento.

Il pm Fabio De Pasquale aggiunge un nuovo "primato" al suo lungo curriculum: fu il primo a ottenere una condanna definitiva per Bettino Craxi, oggi invece è il primo ad ottenere una condanna definitiva per Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano. Il Cavaliere dopo un assedio durato vent'anni perde il suo status di incensurato, e le brutta nuova arriva al termine di un'inchiesta firmata proprio dalla toga De Pasquale, che anni fa fece incriminare il leader socialista nell'affare Eni-Sai. Erano i tempi di Tangentopoli, De Pasquale agiva all'ombra di Antonio Di Pietro, era il volto semisconosciuto della Procura milanese. Anche oggi non è una delle toghe più celebri, nonostante la lunga indagine su Mediaset, iniziata nel 2001. Di sicuro, a Milano, ben più riconoscibile di lui c'è Ilda Boccassini, la grande accusatrice nel caso Ruby, la toga che ha fatto sfilare le Olgettine in aula e che, per ora, si è dovuta accontentare di una condanna soltanto in primo grado, seppur molto più pesante (sette anni e interdizione a vita per Berlusconi). Che beffa, per Ilda la rossa, bruciata sul traguardo dal collega De Pasquale (che, per altro, può fregiarsi delle migliori stellette anti-Cav: in quattro anni ha istruito tre processi contro l'ex premier).

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI

L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.

ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.

AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.

CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.

ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.

GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.

ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.

CHI E' ANTONIO ESPOSITO.

Chi è Antonio Esposito?

Antonio Esposito è il presidente della sezione feriale. La sua è una famiglia di magistrati. Il figlio Ferdinando, procuratore aggiunto di Milano, ha conosciuto in passato Nicole Minetti, condannata in primo grado nel processo Ruby bis. Una conoscenza che gli ha creato qualche problemino in Procura, visto che è proprio la Procura ad accusare la Minetti di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Un articolo di Esposito conferma l'antipatia verso Berlusconi e il suo governo: "C'è un disegno per intaccare il principio di legalità", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un «disegno volto a intaccare profondamente il principio di legalità». Un'opera «devastante: delegittimazione della magistratura e disarticolazione del sistema giudiziario». Si è tentato di «offuscare il periodo luminoso di Tangentopoli». Non esiste «una magistratura giustizialista e politicizzata» che abbia «eliminato, per via giudiziaria, interi partiti e uomini politici democraticamente eletti». È «sistematico e costante l'attacco lanciato ai magistrati» quando «le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti». La legge Cirielli è stata adottata «imprudentemente». E la riforma della giustizia ipotizzata dal centrodestra è semplicemente da incenerire. Sono frasi scritte dal giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione di Cassazione che ha definitivamente condannato Silvio Berlusconi. Risalgono all'aprile 2011: evidentemente l'antipatia verso l'ex presidente del Consiglio e le riforme giudiziarie attuate o prospettate dai suoi governi è di antica data. L'articolo è stato pubblicato sulla Voce delle voci, il mensile erede della Voce della Campania («fino al 1980 quindicinale del Pci», si legge sulla presentazione online) diretto, tra gli altri, da Michele Santoro. Esposito, che il periodico esalta per aver «recentemente condannato Totò Cuffaro», sotto il titolo «La toga è nobile» attacca Berlusconi benché si guardi bene dal nominarlo esplicitamente. Egli ritiene che «in questi ultimi anni» sia stato avviato un meccanismo per scardinare il rispetto delle leggi, tentando «di ridurre gli spazi di quel controllo di legalità che spetta alla magistratura». E ciò è avvenuto con la «delegittimazione della magistratura» e la «disarticolazione» del nostro ordinamento giudiziario, con «parole d'ordine costruite in modo interessato, attraverso continue interviste, dibattiti politici e mediatici». Annullamenti e prescrizioni non dipendono dalla lentezza della giustizia o da errori giudiziari, ma «dall'aver cambiato le regole in corso di partita, modificando le norme che regolavano i criteri dell'acquisizione e della valutazione della prova». Esposito critica la stessa Cassazione, in particolare «due mai troppo vituperate decisioni delle Sezioni Unite» che applicavano una legge del centrosinistra. E aggiunge: «Non meno sistematico e costante, in questi ultimi anni (cioè con i governi Berlusconi, ndr), l'attacco lanciato ai magistrati ogni qualvolta le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti. Fino al punto di ipotizzare che i magistrati dovevano essere antropologicamente diversi e, quindi, mentalmente disturbati, costituendo essi anche una metastasi per il Paese». Ma i colpi più pesanti riguardano il tentativo di riforma, che «suscita enorme preoccupazione». La separazione delle carriere è tesa a «creare le premesse per un futuro controllo del governo sull'operato della magistratura». La modifica della composizione del Csm «porterebbe inevitabilmente a una sottomissione dell'organo di autogoverno e, quindi, della magistratura, al potere politico e, in particolare, a quello dell'esecutivo in carica». E la famigerata «legge bavaglio» sulle intercettazioni «mette in serio pericolo i principi fondamentali della libertà di pensiero e del diritto dei cittadini all'informazione». Quanto a Berlusconi, per farlo fuori Esposito riesuma il «principio di distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale approvato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1993 con una larghissima e inedita maggioranza (Dc, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete)». Quell'accordo di larghissime intese «stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, consistenti nella stigmatizzazione dell'operato e, nei casi più gravi, nell'allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Bandire i politici senza nemmeno giudicarli: un bel sollievo per il giudice Esposito e i suoi colleghi.

Intervista esclusiva al giudice Esposito rilasciata ad Antonio Manzo su “Il Mattino”: «Berlusconi condannato perché sapeva». Il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione spiega la sentenza: l'ex premier era a conoscenza del reato. Silvio Berlusconi non è stato condannato «perché non poteva non sapere», ma «perché sapeva»: era stato informato del reato. Così il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione, spiega la sentenza di condanna per il Cavaliere in una intervista esclusiva al Mattino. «Nessuna fretta nel processo. Abbiamo solo attuato un doveroso principio della Cassazione, quello di salvare i processi che rischiano di finire in prescrizione». E quello Mediaset sarebbe andato prescritto il primo agosto scorso. «Abbiamo deciso con grande serenità» aggiunge il magistrato. Sulle polemiche che negli ultimi giorni lo hanno colpito dal fronte berlusconiano, il presidente preferisce non replicare: «La mia tutela avverrà nelle sedi competenti». Aggiunge: «Ero per la diretta tv, ma avremmo turbato il processo».

Giudice Esposito, può esistere, chiamiamolo così, un principio giuridico secondo il quale si può essere condannati in base al presupposto che l’imputato «non poteva non sapere»?

«Assolutamente no, perché la condanna o l’assoluzione di un imputato avviene strettamente sulla valutazione del fatto-reato, oltre che dall’esame della posizione che l’imputato occupa al momento della commissione del reato o al contributo che offre a determinare il reato. Non poteva non sapere? Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza».

Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?

«Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere». Tempesta sul giudice Antonio Esposito dopo l'intervista esclusiva rilasciata al Mattino. All'attacco Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, il segretario della commissione Giustizia della Camera, Luca d'Alessandro, Mara Carfagna, portavoce del gruppo Pdl alla Camera, l'ex ministro Maria Stella Gelmini, Daniela Santanchè e il deputato Elvira Savino. Sulla vicenda intervengono anche gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, scrive “Il Mattino”.

Bondi. «È normale che il giudice Esposito entri nel merito della sentenza della Cassazione con un'intervista rilasciata ad un quotidiano nazionale? È questo il nuovo stile dei giudici della Cassazione? Io credevo che i giudici parlassero attraverso le sentenze, anche se controverse, e che i magistrati fossero "la bocca della legge". Ma vuol dire che mi sbaglio». Così Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, in merito all'intervista rilasciata dal magistrato a "Il Mattino".

Gelmini. L'intervista del giudice Esposito sul Mattino di Napoli presenta «modalità incomprensibili». A dirlo è Maria Stella Gelmini (Pdl), intervenuta a "Radio Anch'io" su Radio1 Rai. «Questo processo nel quale è stato condannato in terzo grado Silvio Berlusconi - sostiene - ha veramente delle profonde anomalie dal fatto che il presidente di Mediaset Confalonieri sia stato ritenuto del tutto estraneo alla vicenda, com'è giusto che sia, ma che allo stesso tempo chi in quel periodo faceva ed era impegnato ad essere presidente del Consiglio sia stato più responsabile di chi lavorava in Mediaset e quindi debba essere condannato: è un qualcosa che non si comprende, una modalità incomprensibile perché Berlusconi non era in Mediaset e in quel momento non era impegnato tanto meno ad occuparsi di diritti televisivi; aveva un ruolo ben preciso, quello di presidente del Consiglio».

D'Alessandro. «L'ineffabile dottor Esposito ha oggi inventato la smentita che non smentisce, anzi che conferma l'intervista rilasciata al Mattino. Al di là dei commenti più espliciti sulla sentenza, che egli dichiara di non aver proferito e sui quali attendiamo curiosi la replica del Mattino, il presidente della sezione feriale della Cassazione conferma non solo di aver ricevuto il giornalista, ma anche di averci parlato e di aver rilasciato l'intervista, il cui testo (leggiamo dalla sua stessa smentita) è stato "debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato"». È quanto afferma Luca d'Alessandro (Pdl), segretario della commissione Giustizia della Camera. «Poichè tutta la conversazione attiene al processo a Silvio Berlusconi e alla sentenza emessa proprio da Esposito, è davvero paradossale e grave che egli sostenga di aver parlato solo in termini generali. Ribadiamo che non è importante ciò che il giudice dice (ancorchè grave), ma è inquietante che egli intervenga pubblicamente e lo faccia anche prima delle motivazioni. Quanto poi al testo che egli avrebbe controllato e approvato, il fatto che non sia reso conto che tutta l'intervista - da lui letta prima della pubblicazione - abbia riguardato il processo a Berlusconi ci fa sorgere più di un dubbio sulle sue capacità di discernimento. E se ha così mal compreso quanto ha scritto il giornalista, da lui sottoscritto, ci chiediamo con terrore se sia stato in grado di comprendere fino in fondo le carte di un processo così delicato per la sorte di un leader politico, che ha un seguito di dieci milioni di elettori, e di un intero Paese», conclude.

Carfagna. «Nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto principio costituzionale del "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", tuttavia esistono dei limiti morali e di opportunità che il buon senso, le circostanze e i ruoli impongono». Così la portavoce del gruppo Pdl alla Camera dei deputati Mara Carfagna, nell'ultimo post del suo blog, ha commentando l'intervista al Mattino. «Un togato - è quanto sottolineato l'esponente del Popolo della libertà - dovrebbe esprimere i propri "giudizi" con le sentenze, che si compongono di un dispositivo e di motivazioni, da depositare nei tempi e nei modi prestabiliti dalla legge. Anticipare queste ultime in forma pubblica, attraverso un'intervista ad un organo di informazione nazionale, appare più come un modo per ottenere visibilità per chissà quale scopo futuro. Gli esempi di Di Pietro e Ingroia sono assolutamente vividi nella mente di tutti, così come la loro parabola politica». «Un togato, ancora di più se della Cassazione, dovrebbe fare della discrezione e del rispetto - formale e sostanziale - nei confronti di chi ha giudicato, degli imperativi categorici. Se ciò non avviene, allora, tutti sono legittimati a "fraintendere", ponendoci delle domande sulla reale terzietà di certi giudici» aggiunge Carfagna.

Savino. «Se il presidente della sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, ha ritenuto di dover concedere una intervista (confermata dal Mattino) per spiegare le motivazioni della sentenza addirittura prima del deposito della sentenza stessa, allora è la conferma che c'è più di qualcosa che non va. Ha voluto mettere le mani avanti, ma, excusatio non petita, accusatio manifesta». Lo afferma Elvira Savino, deputata pugliese del Pdl. «E c'è che ancora qualcuno che ci vorrebbe imporre di non commentare le sentenze, se poi sono gli stessi giudici che le hanno emesse a farlo? C'è ancora qualcuno che sostiene che una riforma della giustizia non è necessaria e urgente? Noi non possiamo accettare, e mai lo faremo, che un leader politico venga estromesso dalla vita pubblica non dalle urne ma da certi tribunali. Per questo - conclude Savino - non smetteremo mai difendere Silvio Berlusconi dagli ingiusti attacchi che subisce da vent'anni».

Santanchè. «Come valuterebbe il giudice Esposito il caso di un imputato che si comportasse come ha fatto lui, ovverossia, dichiarasse palesemente il falso? Complimenti,signor giudice!» afferma Daniela Santanchè, Pdl.

Ghedini. «Solo nei processi nei confronti del presidente Berlusconi possono verificarsi fatti simili», afferma Niccolò Ghedini in una nota. «Prima del deposito della motivazione nel processo cosiddetto "Diritti" - spiega il legale dell'ex premier - il presidente del collegio della sezione feriale della Corte di Cassazione dott. Esposito avrebbe anticipato le motivazioni della sentenza ad un giornalista del Mattino di Napoli che lo ha riportato con grandissimo risalto. Il fatto in sè è ovviamente gravissimo e senza precedenti». Prosegue Ghedini: «Fra l'altro il dott. Esposito avrebbe affermato che il presidente Berlusconi sarebbe stato avvertito delle asserite illecite fatturazioni da "Tizio, Caio e Sempronio" e per ciò meritava la condanna. La tesi in punto di diritto è del tutto errata, ma come qualsiasi controllo degli atti può dimostrare, così non è. Mai nessun testimone ha dichiarato che Silvio Berlusconi conoscesse o si occupasse dell'acquisto dei diritti cinematografici nè in particolare che si occupasse degli ammortamenti o delle dichiarazioni fiscali. Dunque, il presidente Berlusconi doveva essere assolto. Ma sempre il dott. Esposito quest'oggi ha smentito l'intervista affermando di aver parlato in generale. La tesi già di per sè sarebbe assai peculiare poichè è facile cogliere l'inopportunità di tale intervento senonchè il direttore del giornale in questione ha dichiarato che l'intervista al dott. Esposito è stata trascritta letteralmente e vi è la registrazione. Se così fosse tale accadimento è, come è facile comprendere, ancor più grave e dimostrerebbe un atteggiamento a dir poco straordinario. È evidente che gli organi competenti dovranno urgentemente verificare l'accaduto che non potrà non avere dei concreti riflessi sulla valutazione della sentenza emessa».

L'avvocato Coppi. «Ormai di quello che sta accadendo non mi meraviglio più. Se Berlusconi riterrà di dover far qualcosa se la vedrà lui. Certo, normalmente le motivazioni di una sentenza si conoscono con il deposito della sentenza stessa. In genere dichiarazioni in anteprima non si rilasciano». Lo afferma ad Affaritaliani.it l'avvocato Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, a proposito dell'intervista al presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito. Riguardo al modo in cui sconterà la pena, Coppi ha detto che quando Berlusconi «avrà deciso che cosa fare, noi tecnici ci metteremo a disposizione per realizzare quello che è il programma che lui stesso ha delineato. In questo momento non voglio entrare in questo tipo di discorso». La questione della richiesta di grazia per l'ex premier è ancora una strada percorribile? «È una questione di competenza del presidente della Repubblica - risponde Coppi - e vedremo che cosa deciderà di fare. Per il momento noi come legali stiamo soltanto alla finestra. Vedremo quello che succederà». Anche su un eventuale ricorso in Europa, «non abbiamo preso una decisione: comunque bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza. Non possiamo mica fare il ricorso sulla base di quello che ha detto il presidente Esposito».

Antonio Esposito, la toga che ha trasformato Berlusconi un pregiudicato e che, in dialetto campano, anticipava a un giornalista de Il Mattino le motivazioni della sentenza. Esposito, al telefono, alzava l'asticella: "Altro che non poteva non sapere. Berlusconi sapeva". Questo il succo del suo pensiero. Basta questo a renderlo "di sinistra"? No, affatto, anche se un sospetto è legittimo: come è possibile che non abbia neanche un dubbio? Questo non è dato saperlo, attendiamo le motivazioni (quelle vere) della sentenza. A renderlo "di sinistra" - con buona pace dei "ritratti, indiscrezioni e ricostruzioni" sul collegio destrorso - è una nuova indiscrezione, rilanciata da Il Giornale, che ha spedito un inviato a Sapri, provincia di Salerno, il regno del giudice Esposito. La parola all'edicolante della toga che ha crocifisso il Cavaliere: "Compre sempre e soltanto Repubblica e Fatto Quotidiano. Non è un mistero che Berlusconi non gli vada a genio". Avete ancora qualche dubbio al riguardo? La rivelazione via telefono di particolari riguardanti, non solo le sentenze ancora da motivare, ma addirittura i contenuti delle inchieste giudiziarie in pieno svolgimento, sembra un vizio collaudato fra le toghe, scrive Cristina Lodi su “Libero Quotidiano”. Le quali, a differenza di Silvio Berlusconi, alla fine la fanno sempre franca.  Sembrano lontani i tempi in cui l’ex Presidente del consiglio veniva messo sotto inchiesta, processato e condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, per avere favorito la pubblicazione su il Giornale della famosa intercettazione («Abbiamo una banca!») tra l’ex capo dei Ds Piero Fassino e  Giovanni Consorte. Erano i tempi della scalata del gruppo assicurativo bolognese Unipol a Bnl. Silvio, con questa storia, ha collezionato una condanna che il prossimo settembre 2013 cadrà nell’oblio della prescrizione. Il giudice Antonio Esposito, che invece ha anticipato in un’intervista le motivazioni della sentenza di condanna da lui stesso pronunciata a carico del Cavaliere, rischia (forse) un procedimento disciplinare. E poco importa se nel rivelare che Silvio Berlusconi fosse (secondo la Cassazione) al corrente della frode fiscale a lui contestata, rischi inevitabilmente di condizionare il relatore Amedeo Franco che ora dovrà scrivere quelle stesse motivazioni. Ai giudici sembra tutto concesso. Basta guardare quanto accaduto a Viterbo, dove  Aldo Natalini, pm nella famosa inchiesta senese sul Monte dei Paschi di Siena, si sente in diritto di rivelare al telefono a un amico dettagli dell’indagine. Questo amico del pm inquirente si chiama Samuele De Santis, soggetto finito sotto accusa per una storia di estorsione a imprenditori invischiati in una vicenda di appalti e tangenti. Samuele De Santis viene addirittura arrestato per falso ed estorsione. Ma tra febbraio e marzo 2013 raccoglie al telefono le rivelazioni dell’amico e compagno di studi Aldo Natalini, pm dell’inchiesta sulla banca. Il magistrato di Viterbo, Massimiliano Siddi, che indaga sull’avvocato per l’estorsione, intercetta le conversazioni e iscrive nel registro degli indagati il collega togato. Rivelazione del segreto istruttorio, l’accusa. Stando al Giornale d’Italia che ha dato notizia dell’inchiesta, il pm Natalini si sarebbe consultato apertamente con l’amico avvocato sulle strategie legali che si potrebbero intraprendere nel caso nell’inchiesta su Mps venissero coinvolti «anche i vertici del Partito Democratico». Spiegando, da un punto di vista giuridico, «quali sarebbero le eventuali eccezioni cui fare ricorso laddove le indagini andassero a colpire l’alta dirigenza del Pd». Quindi Natalini (stando al Giornale d’Italia) «non solo avrebbe spiegato come si possa difendere Giuseppe Mussari e Fabrizio Viola, ma anche chi direttamente o indirettamente influenza le sorti della Banca “rossa”». David Brunelli, avvocato di Natalini, ha confermato l’iscrizione nel registro degli indagati del suo assistito, ma ha voluto sottolineare che il magistrato «ha già chiarito tutto». E che «quella per cui il pm è stato indagato è una telefonata dai contenuti irrilevanti».  Anche la Procura di Siena è scesa in campo in difesa del pm inquisito: «Aldo Natalini non è mai venuto meno ai suoi doveri di riservatezza in ordine alle indagini da lui condotte e, in particolare, alle indagini aventi per  oggetto Banca Mps», dice il procuratore capo Tito Salerno, che al magistrato riconosce «la massima serietà e professionalità». Tutto questo nonostante il pm resti indagato e sotto inchiesta per avere violato i segreti dell’inchiesta del più «rosso» degli istituti di credito.

Il giudice Esposito e Felice Caccamo. L'audio dell'intervista al Mattino riporta alla memoria il personaggio cult di "Mai dire gol" piuttosto che un giudice della Cassazione, scrive  Annalisa Chirico su “Panorama”. No, non è come pensate. Prestate attenzione: non è la voce di un Felice Caccamo qualunque. Concentratevi sulle singole parole: “Chille nun poteva non sapere”, “Tiziu, Caiu e Semproniu an tit (hanno detto) che te l’hanno riferito. E allora è nu pocu divers’”. Che cosa avranno mai riferito Tizio, Caio e Sempronio? E chi sono costoro? A spiegarcelo non può essere Teo Teocoli nei panni del giornalista ittico-sportivo consacrato alla storia televisiva da “Mai dire gol”, l’allievo prediletto del professore Catrame, esegeta celeberrimo della cultura partenopea. “Gira la palla, gira la palla”, chi se lo scorda più. L’audio della discordia non riguarda i palloni, la voce non è quella di Teocoli in una improbabile giacca azzurra, ma quella dell’ermellino più famoso d’Italia, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi. Ecco a voi Antonio Esposito con la sua inconfondibile cadenza napoletana – non sappiamo se anche sua moglie si chiami Innominata -, una cadenza che va ben oltre l’elegante e sanguigna inflessione del  fior fiore dell’intellighenzia campana. “Chille nun poteva non sapere”, scandisce il magistrato al giornalista de Il Mattino, che lo ascolta e prende nota. In quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico. Si tratta proprio di un napoletano strascicato, più spagnolo che “vomeresco”. Un linguaggio che stride con l’ermellino, stride con l’autorevolezza e il decoro di una carica suprema ingolfata in una raffazzonata dizione che se ne infischia del soutenu, della buona immagine, lasciandosi andare a confidenze scomposte in un italiano scomposto. A parlare non è Caccamo, cui tutto è concesso, ma un giudice della Suprema Corte di Cassazione, legato da quarant’anni di amicizia a quel giornalista, dal quale confessa di sentirsi tradito. “Se fa il giornalista lo deve soltanto a me”, dichiara in modo non meno oscuro stamattina su La Repubblica. Ma non chiediamoci che cosa voglia dire, teniamoci sulla forma. E la forma è imbarazzante. Il giudice, che ha pubblicato anticipatamente in edicola le motivazioni di una sentenza, si rende protagonista di una sceneggiata grottesca. Non si tratta di una commedia di Guareschi, ma di una “caccamiata” senza Teocoli, ma con una fulgida maschera napoletana che restituisce un quadro fedele della Napoli di oggi, ai tempi del sindaco ex pm, del lungomare bloccato e delle esequie dei fasti che furono. La maschera napoletana si adombra di tristezza se consideriamo che un attimo dopo la pubblicazione dell’intervista Esposito fa un’altra brutta figura: egli si affretta a smentire, salvo poi essere irrefutabilmente sbugiardato dall’audio diffuso urbi et orbi. Dopo averlo sentito esprimere in libertà nella sua popolaresca napoletanità, possiamo soltanto immaginare che cosa avrà detto al figlio Ferdinando, giovane e aitante magistrato beccato a cena in un ristorante meneghino con l’ex consigliera regionale Nicole Minetti, allora imputata nel processo Ruby-bis. Ma “ogni scarrafone è bello a mamma soia”. E a papà soia. Infatti le accuse nate dalla segnalazione del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati nel maggio del 2012 sono state archiviate, Ferdinando è salvo. C’è da giurarci che anche Antonio ce la farà. In fondo, Partenope perdona sempre. Gira la palla, gira la palla. Ma c’è un precedente. Impietoso come sa essere, il web sta costruendo un nuovo mito. Si tratta di Mariano Maffei, procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice con il quale da qualche giorno l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella ha incrociato la spada.

ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.

Chi è Maffei?, scrive Panorama. "Un servitore dello Stato che per ben 44 anni ha amministrato la giustizia con altissima professionalità, con spiccato senso del dovere, con il massimo impegno, con autonomia e indipendenza assoluta". E così si descrive lui stesso, nel corso dell'affollata conferenza stampa in cui, oltre a spiegare i motivi dell'azione giudiziaria ai danni dei Mastella (e di metà Udeur campano), il procuratore ha anche risposto all'ex Guardasigilli: "La polemica sollevata in Parlamento dal ministro è disgustosa". Se non fosse, che accerchiato dai giornalisti e probabilmente poco abituato alle telecamere, l'anziano magistrato ha dato in escandescenze e dopo che il video integrale di quella malgestita comunicazione alla stampa è andato in onda a Matrix, è arrivato YouTube a rilanciarlo come clip più cliccata del momento. Complice quel marcato accento campano e quell’aspetto un po' rigido da personaggio d'altri tempi. Mastella non si è lasciato sfuggire l'occasione di attaccare : "Essere giudicati da uno come lui è malagiustizia. Per carità, massimo rispetto per tantissimi magistrati ma essere giudicati da gente così fa paura ad un cittadini. È sconvolgente" ha aggiunto Mastella "che un giudice incompetente arresti le persone ammazzando così famiglie. Io posso difendermi pubblicamente attraverso voi giornalisti, però gente come questa comporta drammi umani nelle famiglie. Un giudice che è diventato una macchietta su Youtube...".

Ve lo ricordate Mariano Maffei, il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che ottenne l’arresto di Sandra Lonardo, con conseguenti dimissioni del marito e allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella e caduta del governo Prodi? Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Sì, quello dell’intervista alla napoletana, diventata un cult su YouTube, che l’ex Guardasigilli definì «una macchietta». Ecco, il 10 dicembre scorso il pm di Roma Giancarlo Amato ha chiesto il suo rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio e calunnia. E nell’udienza del 19 febbraio 2008, di fronte al giudice per le indagini preliminari Maurizio Silvestri, Maffei dovrà difendersi da accuse pesanti. Di aver, cioè, denunciato per falso e abuso d’ufficio il suo aggiunto Paolo Albano e il sostituto Filomena Capasso, per una storia di indagini inadeguate da parte della polizia giudiziaria legate a un'inchiesta su un medico ospedaliero. Questo Maffei l’avrebbe fatto «in totale assenza di qualsiasi elemento accusatorio» e, scrive il pm, «pur conoscendo l’innocenza dei predetti magistrati» e «cagionando intenzionalmente ingiusto danno». Un comportamento, sempre secondo il magistrato inquirente, che trova «semmai giustificazione in precedenti dissidi personali e professionali» con i suoi colleghi. Della faida interna alle toghe sammaritane si è già molto parlato sia ai tempi dell’esplosiva inchiesta che travolse i coniugi Mastella e mezza Udeur campana sia dopo, quando fioccarono gli esposti contro Maffei e tre suoi «fidati» sostituti, da parte di altri procuratori che denunciavano indagini illecite su di loro, metodi scorretti di gestione dell’ufficio, «un clima insostenibile di sospetti e di comportamenti vessatori». Insomma, una forma di accanimento verso quelle toghe che non erano per così dire in linea con la direzione Maffei. Della guerra fra toghe, con accuse di mobbing, inchieste e denunce, si sono già occupati l’ispettorato del ministero della Giustizia, la Procura generale di Napoli e il Consiglio superiore della magistratura, ma Maffei nel mezzo della bufera se n’è andato in pensione e almeno le ripercussioni disciplinari le ha evitate. Le indagini giudiziarie, però, sono andate avanti e per competenza le ha fatte la procura di Roma. Ora il pm Amato firma una richiesta di rinvio a giudizio di cinque pagine, dalle quali emerge un quadro inquietante di quanto è successo per lungo tempo nella Procura di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza, è convinto che Maffei avesse «punito» per altri motivi i due pm Albano e Capasso, evidentemente non in sintonia con lui, facendoli finire sotto indagine senza motivo e ben sapendo che le sue accuse non poggiavano su nulla di concreto. Una mossa del tutto strumentale, dunque. E un metodo del genere fa pensar male sul modo di Maffei di scegliere gli obiettivi da perseguire e i soggetti da indagare, quindi sul suo modo di gestire l’ufficio. Certi nodi vengono al pettine solo ora che Maffei ha lasciato la magistratura, sbattendo la porta con aspri battibecchi con Mastella, che lo accusava di non essere imparziale e di agire con un mandante politico, sottolineando la sua parentela con il presidente della Provincia Alessandro De Franciscis, che dall’Udeur era passato al Pd. D’altronde, anche nei giorni della tempesta giudiziaria sui Mastella, l’allora procuratore non era stato affatto cauto, facendo dichiarazioni che tradivano il dente avvelenato contro il governo, parlando di «regime dittatoriale» e lamentandosi del fatto che «grazie» alla riforma Mastella, che imponeva una rotazione con il limite massimo di 8 anni per gli incarichi di vertice, doveva lasciare il suo posto e subire un capo sopra di lui oppure andarsene. Sarà interessante seguire gli sviluppi giudiziari della vicenda Mastella, perché già si parla di un testimone secondo il quale a novembre 2007 Maffei l’avrebbe giurata all’ex-Guardasigilli.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

Parliamo di quando Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, stava per essere assassinato dai Servizi Segreti. Poi però……………, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Si fa molto parlare oggi del giudice Antonio Esposito il Magistrato che ha presieduto il collegio della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi: Se ne parla perchè subito dopo la sentenza ha rilasciato un’intervista al quotidiano “Il mattino” di evidente valenza politica perché il Magistrato ha tenuto a precisare che Silvio Berlusconi non è stato condannato perchè non poteva non sapere che all’interno della sua azienda era stata consumata una frode fiscale ma è stato condannato perchè conosceva direttamente quella circostanza. Nel che è parso intravedere una certa soddisfazione per quella condanna che, unita alla celerità della fissazione del processo perchè potesse essere lui a giudicare, crea nel pubblico non poche perplessità. Quella degli Esposito è una famiglia di Magistrati. Magistrato è Antonio, Magistrato è suo fratello Vitaliano, magistrato è il figlio di Antonio, Ferdinando. E pochi sanno che Ferdinando alcuni anni fa è stato protagonista di uno degli episodi più torbidi della storia dei nostri servizi segreti deviati. divenendo depositario di segreti inconfessabili. Per i quali a momenti ci rimetteva la pelle. Ma procediamo con ordine. Nel dicembre 2007 IL PM Ferdinando Esposito figlio di Antonio Esposito esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale di Potenza competente a occuparsi si tutti i misfatti dei Magistrati di Brindisi Tarato e Lecce mentre suo padre Antonio e suo zio Vitaliano sono due anonimi Magistrati della Suprema Corte di Cassazione. Ma nel 2007 Ferdinando a Potenza diventa assegnatario di un’indagine delicatissima. Questa indagine riguarda il rapporto fra l’ex GIP di Milano, Clementina Forleo, e due PM della Procura di Brindisi, Santacatterina e Negri, ed un tenente dei carabinieri, Ferrari. La Forleo li ha denunciati tutti e tre per aver indagato poco e male. Anzi, per non aver indagato affatto sulla morte dei suoi genitori, avvenuta nell’agosto del 2005, guarda caso, in uno stranissimo incidente stradale. Quella inchiesta è stata archiviata. Ma la Forleo non demorde. Sostiene che la morte dei suoi genitori è molto sospetta, perché preceduta da inquietanti segnali: lettere e telefonate anonime, danneggiamenti e soprattutto messaggi profetici. Per competenza la denuincia è finita a Potenza, nelle mani del PM Esposito. Esposito iscrive nel registro degli indagati uno dei PM brindisini, Alberto Santacatterina, ed il tenente dei carabinieri di Francavilla Fontana, Pasquale Ferrari e li carica di una serie di imputazioni pesantissime: frode processuale, induzione a commettere reati, calunnia, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, associazione per delinquere per tutti e tre e in particolare a Santacatterina contesta anche il reato di falsità ideologica perché, nel chiedere l’archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un’audiocassetta “esplosiva”, registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i pm e il tenente avrebbero cercato di “rimediare” il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Negro, amico dei due. Poi chiede per i due al g.i.p. due mandati di cattura.

Povero Ferdinando! ………….Voleva fare il giudice sul serio!…………. In Italia!……………….

Subito dopo aver depositato questa richiesta Ferdinando Esposito subisce il secondo di tre stranissimi incidenti stradali di questa macabra telenovela all’italiana (il primo è quello che ha provocato al morte dei genitori della Forleo due anni prima nel 2005) che ne ricomprende almeno un terzo, come vedremo. Mentre torna a casa dal lavoro in Procura una sera del dicembre 2007 Ferdinando Esposito esce rovinosamente fuori strada proprio in corrispondenza di una scarpata e precipita nel fondo alla scarpata stessa. Ma come fa una macchina a finire in una scarpata senza ragione? Speronato? Manomessa la vettura? Non si sa. il Magistrato riporta ferite gravissime per le quali sarebbe sicuramente morto se per puro caso un altro automobilista non si fosse accorto dell’incidente e della presenza della vettura nella scarpata e non avesse allertato i soccorsi. Sicuramente chi l’ha buttato lì dentro pensava che morisse. Sono così gravi le ferite che Ferdinando Esposito rimane in ospedale per mesi ed è costretto ad abbandonare l’inchiesta sul collega Alberto Santacatterina e su Pasquale Ferrari. Il mandato di cattura non viene più eseguito. L’inchiesta passa a una sua collega dell’Ufficio Cristina Correale e nel tempo tutte le accuse vengono smontate e archiviate. Anzi, Alberto Santacatterina verrà anche promosso sostituto procuratore distrettuale antimafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Intanto Ferdinando giace per mesi – come detto – in un letto d’Ospedale. Immaginiamo papà Antonio e zio Vitaliano al suo capezzale: Figlio mio! Ma che cosa hai fatto! Ti sei messo contro i Poteri Forti! Volevi arrestare un collega! Tu vuoi rovinare la famiglia! Fatto sta che Ferdinando Esposito non parla. Perchè la vettura è finita nella scarpata? Un caso! Ma quali erano i fatti che avevano dato origine a quella richiesta di mandati di cattura? Erano fatti relativi all’inchiesta Antonveneta uno dei filoni di indagine del caso che va sotto il nome di “scalate bancarie”, illeciti di varia natura di dirigenti di banche nostrane interessati ad acquisire a tutti i costi la BNL e l’Antonveneta con la privatizzazione e a superare la concorrenza – più forte – di banche straniere. L’azione della dott.sa Forleo è in quell’occasione particolarmente determinata: ravvisati gli illeciti, la dott.sa Forleo sequestra i titoli della Banca Antonveneta, arresta Fiorani, presidente della Banca di Lodi, mette sotto controllo il telefono del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ne determina l’incriminazione e l’espulsione dai vertici della Banca, recupera 300 milioni, che sequestra e poi confisca. tutte queste iniziative giudiziarie stroncano però inesorabilmente il tentativo del Banco di Lodi e (ahimè;) della Banca d’Italia di acquisire con strumenti illeciti la Banca Antonveneta già Banca Antoniana del Veneto. Ma questo rigore in difesa della legge da parte della Forleo è una cosa che deve aver dato fastidio a qualcuno perché il 25 Agosto 2005 si verifica il primo stranissimo incidente stradale di questa storia. . L’incidente si verifica la sera alle ore 20.00 sulla provinciale Francavilla-Sava nel tratto che si trova in provincia di Brindisi. Un fuoristrada Toyota, condotto dal medico tarantino Salvatore De Bellis, impatta violentemente a un incrocio contro la Rover sulla quale viaggiavano Gaspare Forleo, di 77 anni, sua moglie Stella Bungaro, di 75, padre e madre del magistrato e il dott. Franzoso, marito della dott.sa Forleo. I primi due muoiono sul colpo, il terzo finisce in coma ma fortunatamente si riprende. Potrebbe essere un incidente come tanti altri. E invece è un sinistro sospetto perché è preceduto da inquietanti segnali, da lettere, da telefonate anonime, da danneggiamenti che si sviluppano secondo questo impressionante crescendo: 5 maggio 2005: viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana; 20 giugno 2005: viene incendiato l’intero raccolto di foraggio dell’azienda agricola di famiglia; 21 luglio 2005 la Forleo riceve una lettera in cui si dice: “Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te”. Il 25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. Il 30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un’altra lettera di “felicitazioni” per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38. Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l’incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplicissimo. Basterebbe acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli – fondamentali – delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Ferrari nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Sattacaterina e Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per una matta e per una visionaria. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giannuzzi , espulso dalla magistratura perchè su Brindisi aveva costituito uno studio di parenti avvocati, e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand’è di turno il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale Ferrari e del pm Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente. Il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Ma egli lo assegna ugualmente a se stesso. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Santacaterina indagini più approfondite. Che però non vengono fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. Santacatterina va da Giannuzzi per liberarsi del fascicolo. Ma Giannuzzi gli intima di mantenerlo e – ovviamente – di non fare indagini. E’ per questo che è nervoso Santacatterina. Quando lo contatta l’avvocato della Forleo lo manda a quel paese. “la Forleo ci sta rompendo i c……..!” – dice. Ma come! Una è parte lesa e il giudice cui si rivolge le dice: “Mi sta rompendo i c……..!” Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a il dott. Ferdinando Esposito, il quale ascolta tutta la trama e rimane scandalizzato dalla vicenda. Quindi – come abbiamo detto chiede a carico di uno dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacatterina e del tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari il mandato di cattura. Insomma una bomba! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l’inchiesta di Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari, reato dal quale la Forleo sarà poi assolta. Quindi su quella strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava facendo luce – come detto – il pm di Potenza Ferdinando Esposito. Ma qui avviene il secondo strano incidente stradale che abbiamo narrato e che mette fuori gioco Fernando Esposito. Ma non c’è due senza tre. In un o dei biglietti che profetizzavano l’incidente dei genitori era scritto “ E poi toccherà anche a te!”. E infatti il 3 dicembre 2009 l’auto della Forleo vien speronata in autostrada e finisce contro un guard rail. Se l’auto della Forleo non avesse avuto l’air bag anche la Forleo sarebbe morta. Però prima e dopo quella data gli Esposito ricevono benefici a più non osso. Il 21 novembre 2008 Vitaliano, lo zio di Ferdinando, viene nominato Procuratore generale della corte suprema di cassazione carica che ricopre fino al 13 aprile 2012. Nel gennaio 2013 però viene nominato dal governo Monti, su indicazione di Gianfranco Fini, Garante del Governo per l’esecuzione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, un incarico da 200.000 euro l’anno. Ma che c’entra un magistrato che ha sempre fatto penale con il controllo prescrizioni tecniche che riguardano un’industria siderurgica? Antonio padre di Ferdinando viene nominato presidente della seconda Sezione. I fatti strani però non finiscono qui. Il nome di Ferdinando Esposito compare anche in intercettazioni scabrose che riguardano i servizi segreti. Nel motivare le esigenze cautelari dell’ex n. 2 dell’Aisi Francesco la Motta, arrestato per aver fatto sparire 10.000 milioni di euro dai fondi del Fec (fondi erp gli edifici del culto da lui amministrati dal 2003 al 2006), il gip parla di «attività persuasiva». «La Motta -  scrive - a tutt’ oggi non si fa alcuno scrupolo a tentare di utilizzare le sue aderenze». Il magistrato riporta una conversazione del 23 maggio. L’ ex vice dell’ Aisi chiama tale Ferdinando Esposito che i militari identificano in un pm di Milano e dice: «Avevo bisogno solo… pigliarmi un caffè n’ attimo co’ papà per notiziarlo su alcune cose… me lo fai tu da ponte per favore?». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il padre è Antonio Esposito, presidente di Sezione in Cassazione. Secondo altra interpretazione si tratterebbe di suo cugino Ferdinando funzionario dell’ amministrazione penitenziaria, figlio di Vitaliano, ex procuratore generale della Cassazione e garante dell’ Aia per l’ Ilva di Taranto. Comunque o l’uno o l’altro………..L’ interlocutore risponde: «Sì, come no». Chiosa il gip: «Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il contatto sia andato a buon fine, occorre evidenziare le aderenze di La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e le più che concrete possibilità di inquinare le indagini». Quanto ha reso ala famiglia Esposito quel prezioso silenzio di Ferdinando Esposito su quello stranissimo incidente stradale del 2007?

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive Sonia Gioia su “La Repubblica”. Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un' altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre 2007 la sezione locale dell' associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L' avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all'ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Poi, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l' avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all'unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Il 30 maggio davanti al gup  l'avvocato Vincenzo Minasi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, racconta degli incontri tra il magistrato di Milano e Giulio Giuseppe Lampada accusato di essere il braccio finanziario della 'ndrangheta. La replica: "Calunnie, non l'ho mai conosciuto", scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Prima erano le cene con Nicole Minetti, consigliera regionale del Pdl nonché imputata per induzione alla prostituzione nel Rubygate. Adesso sono i pranzi con il 40enne Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Per Ferdinando Esposito, sostituto procuratore di Milano e nipote dell’ex pg della Suprema Corte, i guai proseguono e anzi, se possibile, si complicano. E così, dopo che i tête-à-tête con l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi sono atterrati sul tavolo del Csm, in seguito alla segnalazione del procuratore Edmondo Bruti Liberati, l’ultimo tassello sul caso del magistrato arriva dalle parole dell’avvocato Vincenzo Minasi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale, che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stato sentito dal giudice per l’udienza preliminare. Qui, dopo sette ore di parole, Minasi fa una pausa, poi riprende. E a proposito della fuga di notizie a favore di Giulio Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario della cosca Condello, dice: “Non aveva più bisogno dell’avvocato Minasi, visto che aveva come amico Esposito qui della procura della Repubblica di Milano”. Il pm non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Sono solo calunnie – dice – , mai conosciuto Lampada”. Posizione avvalorata da un dato: per oltre un anno e mezzo Lampada è stato monitorato 24 ore su 24 dagli investigatori e mai è stato osservato un incontro tra i due e nemmeno una telefonata. Il boss e il magistrato, dunque. Proseguiamo con il luogo degli incontri, uno dei ristoranti più noti del capoluogo lombardo. “Con lui Lampada andava a mangiare al Bolognese”. Quindi ribadisce il concetto: figuriamoci se aveva bisogno di me. Il colletto bianco dei clan, stando alla ricostruzione del legale, aveva ben altre entrature per andare a vedere le carte della procura antimafia che per tre anni ha indagato sugli intrecci politico-mafiosi in Lombardia. Nel novembre scorso, l’indagine ha fatto scattare le manette per dieci persone. Tra queste Franco Morelli, consigliere regionale calabrese e il giudice Vincenzo Giglio. Insomma, il cosiddetto secondo livello che si alimenta di rapporti opachi tra mafia e istituzioni. Il tutto sulla rotta Milano-Reggio Calabria. Il verbale prosegue. Minasi parla tanto. E aggiunge particolari sui rapporti tra il magistrato e il presunto boss. Spunta anche il nome di Lele Mora già condannato per bancarotta e, come la Minetti, imputato nel processo Ruby bis per induzione alla prostituzione (accusa che condivide anche con l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede). Qual è il contesto? Minasi spiega che Esposito “venne presentato a Lampada da un tale Massimo, ex autista di Lele Mora”. Il colletto bianco dei clan e l’agente dei vip. Altri rapporti. Il punto di contatto è Paolo Martino, coinvolto nell’indagine Caposaldo e accusato di essere il referente per il nord Italia della potente cosca De Stefano. Giuseppe Lampada e Martino si conoscono da tempo. Di più: il fratello di Lampada fino al 2007 detiene il 50% della Lucky World srl assieme allo stesso Martino. Chiude il cerchio la figura di Stefano Trabucco, uomo di Mora, e per qualche tempo presente negli assetti societari della Lucky. Le parole di Minasi, poi, portano il carico da novanta: “La macchina che guida Lampada, cioè la Bentley Continental, in realtà prima era di Lele Mora”. Insomma, in questa storia, tutto sembra tenersi. A partire da Esposito che da un lato, come pm, si occupa di anti-contraffazione nel mondo dei locali e dall’altro ama la bella vita. E di quei locali, Hollywood in testa (la discoteca di corso Como per anni regno di Mora), è assiduo frequentatore. Nulla di male, naturalmente. Un po’ meno cenare con un imputato a processo nel tribunale dove lui stesso lavora come sostituto procuratore. Su questo il Csm si è già pronunciato archiviando la posizione perché risultano “già informati i titolari dell’azione disciplinare”, ovvero il pg della Corte di Cassazione e il Guardasigilli. E dunque, Palazzo dei Marescialli riprenderà in mano la questione solo se il procuratore Giuseppe Ciani e il ministro Paola Severino decideranno di portare avanti il caso. Ma a rimescolare le carte adesso arrivano le dichiarazioni dell’avvocato vicino alla ‘ndrangheta. Parole che, ad oggi, restano senza alcun risvolto giudiziario. Ferdinando Esposito non risulta indagato. Non solo, seguendo le vicende del processo Valle-Lampada si scopre che il padre di Esposito è presidente della seconda sezione della Cassazione, la stessa che ha confermato l’arresto di Lampada e del giudice Vincenzo Giglio con motivazioni pesantissime. E questo fa sorgere il dubbio che le parole dell’avvocato Minasi con Ferdinando Esposito altro non siano che una ritorsione nei confronti del padre. da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 giugno 2012.

LA REPLICA DEL SOSTITUTO PROCURATORE ESPOSITO.

Dall’articolo pubblicato in data odierna sul “Il Fatto Quotidiano” a firma di Davide Milosa apprendo che tale avvocato Vincenzo Minasi – arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa – avrebbe affermato innanzi al G.U.P. di Milano che io sarei amico di Giulio Giuseppe Lampada “presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Poiché la notizia è completamente falsa, Le chiedo formalmente di pubblicare la seguente smentita: Non sono amico né frequentatore del Lampada, persona a me del tutto sconosciuta e della quale non ho alcun ricordo. Non ho mai conosciuto né letta una riga degli atti investigativi della inchiesta condotta dai magistrati della Dda. So soltanto – e credo che basti – che mio padre, dr. Antonio Esposito ha presieduto il Collegio che in Cassazione ha confermato le misure cautelari (e le ordinanze del Tribunale del riesame adottate nei confronti degli associati e dei fiancheggiatori); e so soltanto che le calunniose dichiarazioni del Minasi sono – guarda caso – di pochi giorni successivi al deposito delle decisioni adottate dalla Suprema Corte. Mi riservo ogni azione a tutela dei miei diritti gravemente lesi. Ferdinando Esposito.

Nessuna punizione per il figlio del giudice che ha condannato il Cav. Archiviazione annunciata quando il processo Mediaset è finito al padre, scrive Anna Maria Greco  su “Il Giornale”. Nessuna ombra doveva pesare sulla prevista e definitiva condanna di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti tv Mediaset. Ma c'era la storia di quel giovane e intraprendente magistrato, Ferdinando Esposito, a creare qualche problema per la cena con l'imputata Nicole Minetti. Fastidioso avercela ancora tra i piedi mentre proprio il padre, Antonio, doveva presiedere la sezione feriale della Cassazione che avrebbe sferrato il colpo finale della vicenda giudiziaria iniziata dieci anni prima. Così, molto tempestivamente, si è provveduto a chiudere la faccenda. L'8 luglio viene fissata l'udienza del Cavaliere davanti alla Suprema corte per il 30 del mese e subito dopo, l'11 luglio, si fa sapere che il rampante pm di Milano non rischia nessuna azione disciplinare per la sua solo «inopportuna» cena al ristorante «Il Bolognese» del capoluogo meneghino con l'ex consigliera regionale che, all'epoca, doveva essere ancora giudicata nel processo Ruby bis, con Lele Mora ed Emilio Fede. Il procuratore generale, Gianfranco Ciani, dirama la notizia che sono state archiviate le accuse nate dalla segnalazione fatta a maggio del 2012 dal capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati. Quell'incontro, per il titolare dell'azione disciplinare, è stato solo «occasionale» e non riguardava un caso giudiziario di competenza di Esposito. Dunque, fin dal 30 gennaio si è chiusa la preistruttoria, dopo che nove mesi prima lo stesso Csm, nella prima commissione, aveva deciso di non aprire la pratica per un'eventuale incompatibilità in attesa, appunto, della decisione sul versante disciplinare del procuratore generale della Cassazione. Il bel Ferdinando, alto, palestrato ed elegante, quello che va in giro in Porsche e si è fatto per un po' irretire dal fascino pericoloso della sexy Nicole, non può con le sue leggerezze mettere nei guai il padre Antonio, che finirà nelle pagine dei libri di storia per aver guidato il collegio che ha relegato fuori dal campo politico il leader del Pdl. Viene da una famiglia napoletana di magistrati, il giovane Esposito, che ha anche uno zio ancor più importante del genitore e cioè quel Vitaliano fino a pochi mesi fa Procuratore generale della Cassazione, proprio al posto di Ciani che l'ha tirato fuori dai guai in un battibaleno, facendo attenzione a divulgare la notizia prima della data fatidica della sentenza Mediaset. Si è parlato molto della cena di Ferdinando con la Minetti nell'elegante ristorante milanese, commentata a Palazzo de' Marescialli con frizzi e lazzi dei consiglieri, tipo: «Beato lui!». Ma non si è più saputo nulla circa l'altro esposto al Csm per un episodio nella palestra milanese «Downtown» di piazza Diaz che, sembra, frequentavano sia il pm che la bella consigliera. Raccontano che in un'occasione particolare il rampollo in toga, si sia fatto «riconoscere», per così dire. Mentre si concentrava sui bilancieri, per gonfiarsi i muscoli, qualcuno nello spogliatoio gli avrebbe sottratto il portafoglio dalla sacca sportiva. E lui, invece di andare in un posto di polizia e fare la denuncia come chiunque, con una telefonata la polizia l'avrebbe fatta accorrere in palestra per un'immediata e completa perquisizione. Il portafoglio, poi, sarebbe saltato fuori, ma questo sfoggio di autorità a qualcuno sarebbe apparso un vero e proprio abuso. Tale da giustificare un esposto al Csm. Che sicuramente sarà stato archiviato come l'altro, anche se per fatti più insignificanti ci sono magistrati che hanno passato qualche guaio. Qui, però, c'era di mezzo ben altro. Il processo del secolo, che non doveva essere «chiacchierato» neanche per la sventatezza - vogliamo chiamarla così? - di un giovane pm con un padre importante in un ruolo-chiave.

GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?

Quando la toga sparlava delle avventure piccanti del Cavaliere con le deputate Pdl, scrive “Libero Quotidiano”. Probabilmente non sapeva che il giornalista seduto tra lui e il giudice Ferdinando Imposimato fosse un cronista del Giornale. Del resto era una cena conviviale con il vincitore del premio Fair Play 2009 e lui, il giornalista, aveva appena consegnato il riconoscimento che negli anni passati aveva dato a Giulio Andreotti, Ferruccio De Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Quell'anno era toccato a Imposimato che si era portato appresso il collega Antonio Esposito, il giudice della Suprema Corte che mercoledì scorso ha emesso il verdetto di condanna contro Silvio BerlusconiStefano Lorenzetto, questo il nome del giornalista, rivela oggi quella chiacchierata a tavola e il racconto ha davvero dell'incredibile. "Esposito nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare con palese compiacimento circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario salvo poi smentirsi". "Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione", continua Lorenzetto, "dava segno di conoscerne a fondo il contenuto come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato nelle registrazione il Cav avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. ' E indovini chi delle due vince la gara?', mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo, nè volevo replicare di diede da solo la risposta: 'La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?". Lorenzetto quella sera del 2 marzo 2009 ancora non si era ripreso dal disgusto di quella conversazione che il giudice Esposito regalò ai commensali un altro scoop: rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente antipatica: "Colpevole". Dopo meno di 48 ore un lancio dell'Ansa confermava ciò che il magistrato aveva anticipato durante la cena all'Hotel Due Torri di Verona. Di questo episodio Lorenzetto però ne aveva già parlato nel suo libro del 2011 "Visti da lontano": allora aveva "giustificato" lo sproloquio di Esposito con il troppo alcool circolato a tavola. Alla luce della sentenza di mercoledì Lorenzetto ha cambiato idea: "Era assolutamente lucido nei suoi proprositi. Fin troppo".

Così infangava Berlusconi il giudice che l'ha condannato. Antonio Esposito parlò di presunte gare erotiche del premier con due deputate del Pdl. E anticipò la condanna di Vanna Marchi che emise due giorni dopo, scrive Stefano Lorenzetto – su “Il Giornale”. Questo è l'articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell'impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s'è ribellato: «Devi!».

Dunque eseguo per scrupolo di coscienza. In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti - fiducia e rispetto - per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio. Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell'illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l'ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell'imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall'alto ufficio che ricopre. Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L'avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m'invita in veste di moderatore-intervistatore. È un'incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell'occasione l'ex giudice istruttore dei processi per l'assassinio di Aldo Moro e per l'attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l'uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato. Seguì un ricevimento all'hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d'onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest'ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?». Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio. Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell'Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l'altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l'esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio? Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell'udienza, v'è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell'avventura che m'è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d'appello l'8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente. A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un'affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po' brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l'altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati». Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d'aver ecceduto con l'Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo.

«Ho scritto con grande disagio interiore. Ma ho dovuto farlo. Non avevo scelta». Dice di essersi rigirato nel letto una notte intera, Stefano Lorenzetto, scrive Cristiano Lodi su “Libero Quotidiano”. Il giornalista scrittore, autore dell’articolo pubblicato ieri dal Giornale sul giudice che, prima di pronunciare il tombale verdetto di condanna, aveva infangato Silvio Berlusconi, adesso cerca di farsi coraggio. Prova a seguire il consiglio dei pochi che lo difendono dagli attacchi e dagli insulti dei molti. Soggetti che hanno gridato allo scandalo. Non perché il magistrato in ermellino che ha condannato il Cavaliere lo aveva già insultato pubblicamente al ristorante nel 2009 («venendo meno ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre »), ma in quanto Lorenzetto ha osato scriverlo. Essendo stato testimone di un episodio che dovrebbe preoccupare chiunque. Il giornalista descrive il fatto (risalente al 2 marzo 2009) avvenuto alla presenza di testimoni autorevoli. In occasione di un pranzo a Verona, presente Antonio Esposito (presidente della sezione feriale della Cassazione che giovedì ha letto la sentenza), egli ha sentito pronunciare parole sprezzanti nei confronti di Berlusconi. «Un grande corruttore», «un genio del male », questi gli appellativi usati dall’alto magistrato; a dimostrazione della “imparzialità” e della “serenità” nei confronti dell’imputato. Stefano Lorenzetto racconta, con dettagli incontrovertibili, che durante quel ricevimento di inizio primavera 2009, alla presenza anche dell’ex giudice istruttore e presidente onorario aggiunto della Cassazione, Ferdinando Imposimato, il collega Antonio Esposito aveva cominciato «a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni riguardanti l’allora premier, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Adda - rio, salvo poi smentirsi». Il presidente Esposito, dice ancora lo scrittore: «Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora premier». E a sentire l’eminente magistrato, nei brogliacci delle conversazioni «il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti». Con tanto di indovinello, allo stesso Lorenzetto, su chi delle due donzelle vinse la gara. «Ma, siccome non potevo né volevo replicare », dice il giornalista, «Esposito si diede da solo la risposta: “La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?». E non finisce qui, perché il giudice, in quella stessa occasione, avrebbe anche «anticipato la sentenza di condanna inflitta a Vanna Marchi solo due giorni dopo». Su richiesta di chi? Del pg Antonio Mura: lo stesso giudice che mercoledì, ha chiesto di condannare Berlusconi. Quando si dice il destino. Lorenzetto non nasconde il disagio, ma si sente sollevato e ricorda le parole che gli disse Enzo Biagi: «Quando la coscienza bussa alla tua porta, non puoi fare finta di non essere in casa». «La mia coscienza», ammette il giornalista, «ha martellato una notte intera, impedendomi il sonno. Così mi sono alzato e ho scritto quello che avevo visto e sentito dal giudice Esposito, quattro anni prima». In tempi non sospetti, tanto che lo scrittore cita l’episodio anche in Visti da lontano, edito da Marsilio nel 2011. «Alle 7 del mattino di venerdì ho cominciato a scrivere», racconta ancora Lorenzetto, «e alle 12 ho spedito tutto al direttore del Giornale, lasciandolo libero di cestinare». Alessandro Sallusti non lo ha fatto. E Lorenzetto non arretra di un millimetro: «Mi dicono che Antonio Esposito sia un giudice di grande linearità giuridica, un mostro del diritto nello stendere le sentenze. Non ne dubito. Ma io ritengo che avrebbe dovuto astenersi dal giudizio su Berlusconi». Sui network piovono attacchi feroci al giornalista che ha osato tanto. «Vengo accusato di avere difeso il padrone. In realtà sono un cassintegrato di Panorama, l'altro mio datore di lavoro, e penso di essere stato il primo e unico giornalista ad avere lasciato la vicedirezione del Giornale, rinunciando ai cinque sesti dello stipendio, per poter tornare a scrivere e a occuparmi, come faccio da 15 anni, solo di italiani qualunque ». Si definisce un «don Abbondio di campagna, che il coraggio se l'è dovuto dare, più dedito alla lettura dei Salmichenon dei giornali». Uno convinto che «i magistrati debbano fare i magistrati e i giornalisti i giornalisti: sarebbe così bello andare tutti d’amore e d’accordo, fidarsi gli uni degli altri. Invece...». Un amico magistrato, due avvocati e la moglie l’avevano sconsigliato di imbarcarsi in quest’avventura. «Mi sa che mi sono messo in un mare di guai. Ma non potevo sottrarmi. Del resto, come recita un proverbio talmudico, il male che un uomo è capace di fare a se stesso non sono capaci di farglielo dieci nemici». Ecco, dice Stefano Lorenzetto: «Questo vale per me e anche per il giudice Esposito».

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso -fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area- e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)».  Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più l a cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.

«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.

Vent'anni di persecuzione continua.

Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia Tagliaferri  su “Il Giornale”. Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».

I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 ( dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.

L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.

Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

I due condannati, senza passaporto. Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente  avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema , nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia.  Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….». Craxi-Berlusconi: ora  c’è  anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da  quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani,  a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani  su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate. Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi. Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico.  Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no.
Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo. Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.

La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”.  Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone.  “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".

"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".

CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

Corruzione, in manette giudice e avvocato. Indagati due ammiragli della Marina Militare. Sette in tutto gli arresti. La richiesta è partita dalla procura di Roma. Tra le persone finite il manette il magistrato del Tar del Lazio e l'ex presidente della Banca popolare di Spoleto, scrive “La Repubblica”. Sette arresti per corruzione in atti giudiziari: 3 in carcere, 4 a domiciliari. Ad eseguirli, su richiesta della Procura di Roma, sono stati i carabinieri del Noe. In manette sono finiti il giudice del Tar del Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, l'avvocato amministrativista Matilde De Paola e l'uomo d'affari Giorgio Cerruti. Ai domiciliari invece l'ex presidente della Banca Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, Francesco Clemente, Francesco Felice Lucio De Sanctis e Marco Pinti. Nell'inchiesta risultano indagati anche due ammiragli della Marina Militare e il costruttore Claudio Salini, dell'omonima impresa edile. Ma sono oltre 17 le persone indagate per fatti avvenuti negli ultimi mesi del 2012 ad oggi. L'inchiesta, si legge nel provvedimento del gip, ''trae origine dall'attività di intercettazione disposta nell'ambito di altro e diverso procedimento pendente dinanzi alla Procura di Napoli''. De Bernardi era già finito in manette a maggio 2013 con l'accusa di riciclaggio su richiesta della procura di Palermo: secondo gli inquirenti siciliani sarebbe stato a capo di un'associazione a delinquere sgominata dai finanzieri. Ora il pm della procura capitolina gli contesta il reato di corruzione in atti giudiziari. In particolare, come scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare, De Bernardi avrebbe siglato un accordo con l'avvocato Matilde De Paola ''in base al quale quest'ultima si impegnava a corrispondere al giudice del Tar somme di denaro quale compenso per il compimento di una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio consistenti di volta in volta, nell'accordarsi con parti processuali in ordine alla nomina della stessa De Paola quale difensore in procedimenti davanti al Tar del Lazio''. Episodi di corruzione non sporadici ma che, secondo il giudice, dimostrano, come scritto in un passaggio delle 101 pagine del provvedimento di custodia cautelare, "in maniera chiara ed univoca la sussistenza di un articolato ed organizzato sistema di corruzione che fa capo al De Bernardi". "Sussistono seri elementi, ben al di là di quanto esige il parametro dei gravi indizi di colpevolezza, in ordine al fatto - si legge nel provvedimento - che, egli si sia ripetutamente accordato con diversi privati ed in relazione a diversi procedimenti per alterare, dietro la corresponsione di somme di denaro, il corretto e imparziale esercizio dell'attività giurisdizionale. In particolare risulta che egli abbia svolto tale illecita attività di interferenza avvalendosi, nella maggior parte dei casi, dell'ausilio dell'avvocato De Paola, avvocato amministrativista del foro di Roma. Al riguardo le emergenze processuali hanno dimostrato che il giudice aveva stretto con la citata professionista un accordo corruttivo 'aperto' in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano per ottenere il suo interessamento ai procedimenti che li riguardavano , ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell'attività di assistenza legale". Quanto ai due ammiragli della Marina Militare, Marcantonio Trevisani e Luciano Callini, entrambi 65enni, sono indagati per corruzione sui ricorsi pilotati al Tar del Lazio dal giudice De Bernardi. Stando al gip Maria Paola Tomaselli, De Bernardi avrebbe ''indirizzato allo studio dell'avvocato Matilde De Paola i due ammiragli, curando per loro la stesura dei ricorsi amministrativi dagli stessi proposti ed influendo in modo determinante nella stessa stesura della sentenza, ricevendo quale corrispettivo dall'avvocato De Paola, per il tramite della propria convivente Evis Mandija (che emetteva in relazione a tale pagamento fattura per operazioni inesistenti) la somma di 10mila euro''. ''Il giudice - dunque - ha svolto un'attività di interferenza nella fase di studio e di predisposizione del ricorso''. In una conversazione con l'avvocato De Paola, intercettata dagli investigatori, il magistrato amministrativo si sarebbe spinto ad affermare ''di aver fatto al Trevisani 'una sentenza ad hoc'''. Salini, invece, è tirato in ballo perché secondo l'accusa, il giudice amministrativo De Bernardi e l'avvocato De Paola, a partire dallo scorso marzo, ''accettavano, per il tramite di Francesco Clemente da ICS Grandi Lavori spa (riconducibile al gruppo facente capo proprio a Salini) la promessa del pagamento di imprecisate somme di denaro'', ''in cambio della sua attività di indebito interessamento ed illecita interferenza volti ad alterare le corrette procedure di assegnazione e decisione del ricorso proposto da ICS per l'annullamento del provvedimento di assegnazione dell'appalto per la costruzione del Ponte della Scafa''. ''Condotta illecita - scrive il gip Maria Paola Tomaselli - in effetti concretamente posta in essere da De Bernardi mediante la predisposizione di memorie difensive ed altre condotte orientate a conseguire un esito favorevole al ricorrente, come in effetti avvenuto, con corresponsione a De Bernardi di una prima parte (euro 5.000) del compenso concordato''. Nella vicenda del ricorso di ICS Grandi Lavori spa, il gip Maria Paola Tomaselli spiega che ''lo schema si ripete, con l'unica peculiarità che, in questo frangente, il privato non contatta il giudice De Bernardi, ma è, al contrario, un cliente dell'avvocato De Paola, alla quale era stato indirizzato dal di lei marito Patrizio Giuliani, amico dell'amministratore delegato della società Francesco Clemente''. Secondo il gip, la De Paola ''ricorre al sostegno del giudice De Bernardi al fine evidente di acquisire il gruppo Salini come cliente, avendo peraltro ben compreso che Clemente l'aveva incaricata della causa, affiancandola all'avvocato Musenga, proprio per giovarsi dell'intervento illecito di De Bernardi''. Per quanto riguarda l'arresto di Antonini, al centro dell'inchiesta ci sarebbe invece il ricorso al Tar del Lazio nei confronti di Bankitalia contro il commissariamento della Spoleto credito e servizi. L'ipotesi accusatoria sembra essere quella di un interessamento del giudice Maria De Bernardi al procedimento in cambio di 50mila euro ricevuti tramite Cerruti che entra in gioco, sottolinea il gip, ''sin dal 27 febbraio 2013 allorquando invita a pranzo (al ristorante "Il Caminetto" a Roma, ndr) De Bernardi, unitamente a un monsignore Manlio Sodi (di cui non sono ancora chiari il ruolo nella vicenda e il concreto interesse nutrito anche se il prelato risulta inserito in una Onlus, ndr), e ad Antonini, anticipandogli che si dovrà parlare di un ricorso amministrativo proposto da quest'ultimo. Il giudice - si legge nell'ordinanza - si mostrava molto disponibile ad adoperarsi per l'amico di Cerruti, esprimendosi testualmente nei seguenti termini: e glielo facciamo fare... lo serviamo come merita...è amico tuo''. L'accordo corruttivo poi prenderà forma l'8 aprile quando nello studio dell'avvocato Matilde De Paola si incontrano, oltre allo stesso legale, De Bernardi, Cerruti, Antonini al fine di discutere del ricorso. L'interessamento di De Bernardi è tale che la sua richiesta di essere assegnato all'udienza della terza Sezione (che non è quella di sua appartenenza) viene accolta. E ne informa subito la De Paola. Il difensore di Antonini, l'avvocato Manlio Morcella, si riserva una più approfondita valutazione una volta esaminati tutti gli atti d'indagine, ma sottolinea finora che ''non ci sono intercettazioni dirette tra Antonini e il giudice''. Il legale ha anche già annunciato ricorso al tribunale del riesame contro l'arresto.  «Un cappuccino anche per il giudice». Sono state intercettazioni come questa a incastrare il gruppo che al Tar del Lazio decideva chi dovesse vincere i ricorsi a suon di tangenti, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera” . In carcere sono finiti Franco De Bernardi, magistrato della seconda sezione quater, l'avvocato Matilde De Paola e Giorgio Cerruti, considerato uno degli intermediari delle mazzette. Gli altri due, Marco Pinti e Francesco De Sanctis, sono ai domiciliari insieme all'ex presidente della Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, e all'amministratore delegato dell'impresa di costruzioni ICS Grandi Lavori, Franco Clementi. Fra gli indagati, il fondatore della ICS Claudio Salini e due ufficiali, l'ammiraglio di squadra Marcantonio Trevisani, da cinque anni presidente del Centro alti studi per la difesa (la principale scuola di formazione degli ufficiali italiani), e il suo collega Luciano Callini, ai vertici dello stato maggiore della Difesa, nei mesi scorsi consulente del caso dei due marò indagati in India per omicidio. Sarebbero decine le cause pilotate contestate dal procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi e dai pm Stefano Pesci e Alberto Pioletti. E ammonterebbero a decine di migliaia di euro le tangenti ricostruite grazie alle conversazioni intercettate per un anno dai carabinieri del Noe, al comando del capitano Pietro Rajola Pescarini. La promessa di 50 mila euro avrebbe permesso all'ex presidente della Popolare di Spoleto di vincere il ricorso contro il ministero dell'Economia, che aveva commissariato la banca per un buco di diversi milioni di euro. La vittoria sarebbe stata propiziata da una cena al ristorante «Il Caminetto», ai Parioli, dove il 27 febbraio scorso Cerruti avrebbe invitato il giudice, Antonini e un non ancora identificato monsignore. «Cerruti, soggetto pregiudicato per reati gravi di criminalità economica», scrive il gip Maria Paola Tomaselli nelle 101 pagine dell'ordinanza, aveva «un proprio personale interesse all’esito favorevole del ricorso avendo egli goduto di un trattamento assolutamente privilegiato durante la gestione della banca da parte di Antonini». Anche la ICS Grandi Lavori avrebbe vinto un ricorso truccato, sconfiggendo quindi il Campidoglio che aveva assegnato a un'altra impresa l'appalto da 25 milioni di euro per la costruzione del ponte della Scafa. Secondo chi indaga, gli intermediari (Cerruti, Pinti e De Sanctis) conducevano dal magistrato i ricorrenti pronti a ottenere una sentenza favorevole a ogni costo e questi li invitata a rivolgersi all'avvocato, che «sapeva come fare». Ma il ruolo di De Bernardi non si sarebbe limitato all'invio dei clienti allo studio legale: smessa la toga indossata al mattino al Tar, il magistrato si trasformava in avvocato e scriveva le memorie che occorrevano per sostenere le tesi dei ricorrenti. Scrive infatti il gip: «Il giudice aveva stretto con la De Paola un accordo corruttivo "aperto" in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano, ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell’attività di assistenza legale». Ancora: De Bernardi si sarebbe «adoperato per utilizzare la sua collocazione presso il tribunale del Lazio al fine di influenzare a vantaggio del cliente l'esito dei procedimenti sia cercando di indirizzare le cause in udienze nelle quali era prevista la sua presenza, sia svolgendo un'attività di sensibilizzazione nei confronti di giudici amici». Stando all'ordinanza, De Bernardi avrebbe curato i ricorsi degli ammiragli «per mezzo dello studio De Paola» e avrebbe «percepito dall'avvocato un compenso di circa 10 mila euro». Secondo la procura si tratterebbe di una tangente, però mascherata da fattura per una consulenza pagata a Mandija Evis, compagna albanese del magistrato del Tar. Su Callini, poi, c'è un'intercettazione che lascia pochi dubbi, visto che proprio De Bernardi confida all’avvocato De Paola: «Gli ho fatto una sentenza ad hoc». L'inchiesta, durata un anno, è partita dagli atti trasmessi dalla procura di Napoli, che ha raccolto i primi indizi indagando su una storia di camorra. Il giudice e l'avvocato sono stati arrestati per corruzione in atti giudiziari, gli altri per corruzione. De Bernardi era già finito in carcere a maggio scorso a Palermo nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di lingotti d'oro (ma dopo tre giorni l'ordinanza era stata annullata), mentre Cerruti è noto alle cronache per il fallimento da cento miliardi di lire della sua Compagnia generale finanziaria nel '93. Legato alla massoneria e a Flavio Carboni, gli inquirenti dell'epoca erano arrivati a Cerruti seguendo i soldi di Licio Gelli.

Corruzione Roma: “Fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri”, scrive Donatella Stasio su “Il Sole 24Ore”. A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l’enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L’ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L’ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla “bilancia” un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant’è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l’effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C’è anche «l’utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso – e recente – dei processi previdenziali “finti”. «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all’estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell’Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un’altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch’essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l’eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un’integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie “anime morte” della giurisdizione». Va bene Gogol, ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell’impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell’impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali». L’elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».

«Il capitalismo malato non si cura in Tribunale» era il titolo dell'analisi firmata sul nostro quotidiano dall'avvocato Guido Rossi lo scorso 21 luglio, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 Ore”. «Nella totale e prolungata inettitudine degli altri poteri dello Stato, cioè di inconcludenti poteri esecutivi e nella avvilente condotta di quelli legislativi, i magistrati, giudici o procuratori, vanno sempre più assumendo un ruolo ingiustamente centrale, come sostituti effettivi di una politica assente». Ma il diritto penale, ragionava Guido Rossi, finisce per mostrare solo il volto severo dello Stato, accompagnato da una totale «inefficienza nel contenere la devianza economica». In più, «la cultura della vergogna non si è radicata in Italia, a causa di costumi storicamente rilassati, mentre una inutile e continua alluvione di norme contraddittorie aggrava la situazione del Paese conducendo spesso le imprese a uno stato di paralisi e di forzata rinuncia alla loro funzione di strumento dello sviluppo economico». Per uno strano gioco di coincidenze, solo due giorni dopo, il 23 luglio, sempre sul Sole 24 Ore, il Procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, proponeva una severa riflessione originata dall'arresto di sette persone per corruzione in atti giudiziari. «I protagonisti di queste inchieste sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia italiana: l'enorme numero dei processi, la complessità delle procedure, le difficoltà degli enti nel controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». E lanciava un invito: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». Due angolazioni complementari, che rinviano a un'unica visuale dei problemi in cui rischia di affondare il nostro Paese. In questa visuale, le complessità procedurali e i labirinti normativi creati in decenni di fuga dalla legalità - uno dei frutti più velenosi della non-politica - sono ormai terreno di coltura di una delinquenza di altissimo livello. Sotto questo aspetto, fa bene il Rossi magistrato a cercare cause e rimedi del degrado nelle file dell'apparato giudiziario-amministrativo: un'indicazione che, se applicata a ogni latitudine professionale, contribuirebbe a ripulire la società prima dell'intervento delle toghe supplenti, ovvero prima che i comportamenti e le devianze si concretizzino in fatti-reato. I filtri reputazionali vengono a monte di quelli giudiziari e solo riattivandoli si potrà ricostruire la capacità del Paese di provare "vergogna" per le cattive pratiche ritualmente esecrate in pubblico, ma diffuse, tollerate e coltivate nell'ombra. E solo per questa via è possibile togliere alle toghe la loro anomala centralità oltre che ricollocare imprese e professioni al loro posto nel rifondare l'Italia. Alternative vere, a ben guardare, non ce ne sono. Oltretutto, per attenuare e poi azzerare gli effetti depressivi del sistema relazionale sulle energie che sprigiona il merito, non servono nuove leggi: basterebbe riattivare gli strumenti di controllo indipendente e di autogoverno già minuziosamente codificati per la finanza, l'economia, le professioni, i mestieri, gli ordini, la politica.

Nello Rossi. Ma non è quel magistrato attenzionato dal CSM?

Il magistrato era stato intercettato al telefono con Mancino. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente. Il Csm ha aperto un fascicolo sul procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, per la telefonata intercettata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, con l’ex vice presidente del Csm Nicola Mancino, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente, dopo che il testo della conversazione era stato pubblicato da alcuni quotidiani. La conversazione, in cui il magistrato, esponente storico di Magistratura democratica, tranquillizza Mancino, è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia della Procura di Palermo. Nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ha più volte sottolineato le difficoltà incontrate a indagare su un tema così delicato che sfiora e in alcuni casi coinvolge pezzi importanti dello Stato se non istituzioni. Nel giugno scorso la Procura di Palermo ha chiuso le indagini per dodici persone: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri. Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ed ancora.  «Il pm che mi ha indagato in 60 giorni non fatto nulla per mio padre in tre anni».

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

L'autore del libro «Il caso Genchi» a processo con l'accusa di aver diffamato un magistrato dell'Anm: «Ma le indagini preliminari sulle valvole cardiache impiantate a mio padre che fece poi un ictus le ha tenute aperte tre anni e sei mesi. Poi la Procura ha chiesto nientemeno che l'archiviazione», scrive Felice Manti su “Il Giornale”. C'è un filo rosso che lega le grandi inchieste che coinvolgono parlamentari e magistrati e l'eterna lotta tra politici e toghe. Sullo sfondo c'è la riforma della giustizia che ad alcuni ambienti della magistratura proprio non va giù. Il libro «Il caso Genchi» sulla storia e i segreti del consulente dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris sul caso "Why Not", che ha fatto irritare molti magistrati, ne è la summa. A Milano nei prossimi mesi inizierà il processo contro l'autore del libro, Edoardo Montolli, che avrebbe diffamato il magistrato romano Nello Rossi e che oggi è alle prese con l'ultimo romanzo («L'Illusionista», Alberti editore), dove la fanno da padroni giudici e poliziotti corrotti. L'accusa contro di lui è rappresentata da Maurizio Romanelli, il pm che ha appena chiesto il rinvio a giudizio di Paolo Berlusconi, editore del «Giornale», per la famosa intercettazione Fassino-Consorte, quella dell'«abbiamo una banca». Del famoso brogliaccio si parla anche nel tuo libro, vero? Ma il pm non ti ha chiesto nulla? «Romanelli? Investigava sull'intercettazione Fassino-Consorte e non mi ha mai nemmeno convocato per farmi qualche domanda, dato che ne "Il caso Genchi" dedicavo a quella telefonata oltre cento pagine dense di dati, e non opinioni, che emergevano dall'archivio del consulente e dalla sua memoria difensiva. Ma si vede che non erano dati interessanti». Riguardavano Paolo Berlusconi? «No. Tutt'altro. Ma rimando alla lettura del libro, che comunque il pm Romanelli ha letto». Perché? «Sono stato querelato per il libro dall'ex segretario dell'Anm Nello Rossi, attuale procuratore aggiunto di Roma che, insieme all'ex magistrato Achille Toro, aprì l'indagine su Genchi. La querela è del 2 marzo. E il 3 maggio Romanelli ha chiuso le indagini. Evidentemente, nonostante le numerose indagini di cui si occupa, è riuscito a leggere molte pagine del libro e a tirare le conclusioni in due soli mesi, senza fare alcuna indagine. È stato strepitosamente veloce. Specie rispetto all'esperienza che ho vissuto con lui da privato cittadino». Cioè? «Mah, siccome ero strabiliato da una tale velocità, a luglio sono andato a controllare in tribunale a che punto fosse un esposto, che avevo fatto per quanto accaduto a mio padre nel novembre 2006, assegnato proprio a Romanelli. Per me una cosa un pochino più grave». Spiega. «Dopo un'operazione di sostituzione di valvola aortica nel 2000, mio padre ha avuto un ictus ed un'emiparesi sinistra, restando invalido al 100% a soli 55 anni. Pensavo fosse colpa del destino. Ma nel novembre 2006 la valvola, praticamente ancora nuova, risultava piena di trombi, nonostante tutte le settimane, invece che tutti i mesi, un primario ne controllasse i valori sanguigni, risultati sempre nella norma. Andava sostituita nuovamente. E siccome la valvola era stata messa da un medico, poi arrestato e condannato, ho chiesto il sequestro della vecchia valvola, avvenuto all'indomani dell'operazione e spiegato tutto in un esposto». Risultato? «L'indagine è stata presa in carico da Romanelli. Non ha mai chiamato né me né i medici che dovevano testimoniare. Ho pensato che avesse svolto indagini, che non fosse emerso nulla e che l'inchiesta fosse stata archiviata. Invece a luglio ho scoperto che, dopo 3 anni e sei mesi, l'indagine era ancora in fase preliminare». Tre anni e sei mesi? «Già. Ho chiesto l'avocazione del procedimento, ma la cosa più straordinaria è che stato respinto perché la Procura, addirittura in agosto, ha chiesto l'archiviazione. Cioè, ha tenuto aperto un fascicolo per tre anni e sei mesi per poi chiedere l'archiviazione, senza nemmeno sentire un teste. Ma ci volevano tre anni e sei mesi per accorgersi che non era accaduto nulla di penalmente rilevante? Da chi dovevano far analizzare la valvola, dalla Nasa? Ecco, il problema è proprio questo». Quale? «Che se è l'ex segretario dell'Anm a presentare una querela per diffamazione, i tempi del dottor Romanelli sono incredibilmente veloci, se invece da Romanelli va un cittadino qualsiasi, si prende un sacco di tempo. Certo, Nello Rossi si sentiva diffamato e si doveva fare in fretta, mentre mio padre ha "solo" rischiato di morire».  Non sembri avere molta fiducia nella magistratura. «È che mi fanno sorridere i magistrati che attaccano Berlusconi, dicendo che la legge deve essere uguale per tutti. Come no. Per esperienza personale e professionale, aggiungerei tutti quelli che vogliono loro. Dipende da chi querela e da chi è l'imputato. D'altra parte scrivo sempre di vicende di ingiusta detenzione, e non a caso l'Italia è il Paese più condannato dall'Ue in materia, senza che nessun magistrato sia mai stato condannato per questo. Finché la situazione è questa, se io fossi il premier, farei una legge "ad personam" al giorno per difendermi. D'altra parte nella conclusione del libro sul caso Genchi evidenziavo una volta di più il vero problema dell'Italia, che non è la destra o la sinistra, ma l'anomalia della magistratura». Cioè? «Proponevo una separazione delle carriere un po' diversa da quella richiesta dai politici: i magistrati che vanno al ministero non tornino in tribunale. Perché non è possibile che a giudicare i politici siano gli stessi magistrati che alla legislatura successiva ottengono incarichi di governo. O fai una cosa o fai l'altra». Genchi però attacca sempre di più Berlusconi...«Ognuno ha le sue idee. Di certo in "Why Not" di Berlusconi non c'era alcuna traccia. Ma basta leggersi il libro per trovare gli stessi nomi e gli intrecci emersi con il successivo scandalo Protezione Civile o alcuni sprazzi sulle stragi del '92-'93. Ma, a dirla tutta, ho scritto che nemmeno m'importava se "Why Not" fosse giusta o sbagliata. Quello che mi sembrava paradossale era che a prendere in mano le carte di De Magistris fossero magistrati sicuramente in contatto con alcuni imputati. Ecco, questo non è eticamente accettabile. Così come non è eticamente accettabile che chi ha sequestrato l'archivio Genchi avesse fatto alcune telefonate presenti all'interno del medesimo archivio, come quella tra l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi e l'ex ministro della giustizia Mastella che doveva mandare in soffitta entro la fine di luglio del 2007 la riforma Castelli sulla separazione delle carriere: il tutto mentre Prodi era stato appena indagato e a giorni lo sarebbe stato proprio Mastella. È su questo, su ciò che accadde a luglio 2007, che si discuterà nel corso del mio processo. E invito tutti a venirlo a vedere per capire in che Paese viviamo. Che non ci sono eroi, tantomeno bianchi e neri. Ma che tutto è un intreccio grigio».

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

Invito a cena con carabiniere, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”.

Il 'vizietto' del generale dell'Arma Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 comandante della Regione Lazio. Organizzare cene di rappresentanza utilizzando mezzi e personale dell'Arma per trasportare i tavoli e servire i commensali. Come documentano le foto che siamo in grado di mostrarvi. La cena del 23 settembre 2008 cui partecipò anche Francesco Cossiga. Prima in divisa, con i gradi da brigadiere cuciti addosso. Poi, nelle foto successive, in giacca bianca e cravatta nera, intenti trasportare piatti, a stappare bottiglie, a mescere vino nei calici e a chinarsi per porgere con deferenza il vassoio dei salatini agli ospiti attovagliati al desco del loro Generale. Ospiti illustri, se è vero che tra di essi è possibile riconoscere il defunto Presidente Francesco Cossiga, il segretario generale della UIL Luigi Angeletti, Giancarlo Elia Valori, ex presidente della holding regionale Sviluppo Lazio e di Confindustria Lazio, famoso anche per essere stato l'unico iscritto alla P2 a subire l'espulsione dalla loggia massonica. Intorno a loro si muovono carabinieri tramutati in camerieri, ufficiali di polizia giudiziaria immortalati mentre servono ai tavoli di una cena organizzata nei locali della caserma "Giacomo Acqua" di Piazza del Popolo a Roma, sede del Comando Regionale del Lazio. Risalgono al 2008, ma conservano intatto l'effetto del classico pugno nello stomaco le istantanee che sgusciano fuori dal seno dell'Arma. La documentazione in fotogrammi di una pratica, quella di utilizzare militari professionali per scopi di rappresentanza e in mansioni estranee e "degradanti" rispetto alle loro reali funzioni, più volte aspramente stigmatizzata dalle rappresentanze di base delle Forze Armate e dai sindacati di polizia. Critiche e proteste che evidentemente non hanno fatto breccia nell'animo del Generale di Corpo d'Armata Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 il comandante della Regione Carabinieri Lazio. E' lui l'organizzatore della cena documentata nelle foto ottenute dal sito de "l'Espresso", risalente al 23 settembre 2008, con i due carabinieri (di stanza nella caserma di Piazza del Popolo) impegnati a servire ai tavoli negli ambienti dell'ex Circolo Ufficiali interno alla struttura, pallide comparse tra un brindisi e l'altro dei partecipanti alla cena. Tra cui si riconoscono anche i due figli dell'allora comandante regionale, il "padrone di casa". Oggi Favara, in pensione, fa il consigliere regionale del Lazio, eletto alle ultime elezioni nel listino del Presidente Nicola Zingaretti. Durante il suo comando il generale con il pallino della politica ha usufruito appieno dei locali della caserma "Giacomo Acqua", anche di quelli non destinati al suo alloggio di servizio: per esempio la terrazza panoramica con splendido affaccio su Piazza del Popolo, utilizzata la sera del 21 e quella del 25 luglio 2008 per ospitare cene con invitati di rispetto. Tavoli trasportati per l'occasione, bottiglie in ghiaccio e raffinate decorazioni floreali, sullo sfondo la magia di Roma: scampoli di una vita un po' meno spartana di quanto si è soliti immaginare in una caserma. Niente di particolarmente eclatante né di illecito. Tra le fila dell'Arma però, dove una parte dei militari semplici ha i nervi a fior di pelle per il blocco degli stipendi in vigore dal 2010 e i sacrifici quotidiani imposti dai tagli della spendig review, fa male constatare come in entrambe le occasioni, nuovamente, siano stati utilizzati due brigadieri nelle vesti di camerieri. Chi nei giorni scorsi ha ascoltato l'allarme preoccupato lanciato dal Comandante Generale dell'Arma Leonardo Gallitelli sui mezzi che rischiano di rimanere senza benzina, osserva con perplessità anche un altro particolare che emerge dalle foto fornite al sito de "l'Espresso": un Ducato militare utilizzato apposta per trasportare tavoli, poltrone e sedie in almeno tre occasioni, dalla cena con i comandanti provinciali del 7 luglio 2008 a quella del 13 settembre 2008 con autorità varie, passando per il pranzo del 26 aprile 2008 in occasione del battesimo del nipote di Favara. Tra i fondi previsti in base alla legge nel bilancio del ministero della Difesa, accanto a quelli per l'acquisto di riviste, per conferenze, cerimonie, convegni, raduni, congressi, mostre, figurano anche quelli destinati a finanziare le spese per scopi di rappresentanza, da intaccare in occasione di cerimonie ed eventi istituzionali. Nulla, peraltro, autorizza ad escludere che il generale Favara - nell'invitare a cena i suoi ospiti in caserma - abbia utilizzato soldi propri. In entrambe le ipotesi - si chiede però con amarezza una fonte dall'interno dell'Arma - non si capisce a quale titolo il servizio ai tavoli, come anche il ricevimento e l'accompagnamento degli ospiti all'ascensore e il compito di addetti al guardaroba, siano stati svolti da appuntati, marescialli e brigadieri interni alla "Giacomo Acqua", impiegati in attività non affini a quelle istituzionalmente esercitate. Da anni ormai, e certamente già all'epoca delle cene in questione, i servizi di mensa all'interno delle caserme sono svolti da ditte civili che li ricevono in appalto. Mentre tra i compiti dei carabinieri addetti al "minuto mantenimento" nelle sole strutture appartenenti al Ramo Difesa possono rientrare - in base ai regolamenti - esclusivamente piccoli lavori di ordinaria manutenzione, come quelli di falegnameria. Nel luglio del 2012 persino la domanda del consiglio di rappresentanza di base della legione Friuli Venezia Giulia per la costituzione anche a livello provinciale di un'aliquota di personale "a doppio incarico" da impiegare - dopo corsi di formazione - nella manutenzione delle caserme è stata respinta dall'ufficio personale: "l'attribuzione di un secondo incarico distrarrebbe indubbiamente il personale", è stata la motivazione. Anche se nel 2008 la spending review non aveva ancora infierito su stipendi e organici, c'è da immaginare che la stessa intransigenza sarebbe stata usata dall'Arma di fronte alla richiesta di usare degli ufficiali di polizia giudiziaria (come quelli immortalati nelle foto) per il servizio ai tavoli. Eppure non è la prima volta che il tema dell'impiego di personale per compiti non attinenti al servizio nell'ambito delle Forze Armate balza all'onore delle cronache. Nell'ottobre dello scorso anno ha suscitato scalpore - non solo tra i militari - la pubblicazione di una "comunicazione di servizio permanente" del comandante in seconda della nave da guerra "Francesco Mimbelli". Un elenco dettagliato delle disposizioni per l'accoglienza del Comandante in Capo della Squadra Navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in occasione della sua visita a bordo avvenuta l'8 settembre 2012. A colpire l'attenzione, in quell'occasione, fu soprattutto l'ordine impartito all'Ufficiale in Comando d'Ispezione: accertarsi ogni mattina della "effettiva presenza in quadrato Ufficiali di una idonea bottiglia di spumante/champagne tenuta in fresco in riposto Ufficiali, nonchè biscotti al burro e mandorle da tostare al momento a cura del cuoco di servizio". "Il Capo Reparto Logistico, avvalendosi del Capo Gamella dovrà accertarsi che sia prontamente reperibile dal personale addetto al quadrato Ufficiali il materiale di consumo sopra indicato", continuava la circolare. Suggellata da un'ultima perentoria intimazione, che ha fatto infuriare più di ogni altra cosa le rappresentanze di base. "Alla chiamata 'Il Comandante in Capo della Squadra Navale a Bordo-Alza Insegna' il personale addetto al Quadrato Ufficiali o l'addetto ai Quadrati Unificati (durante il fine settimana/giornate festive) dovrà essere in tenuta di rappresentanza pronto a servire mandorle tostate e spumante/champagne". Parole che sono la radiografia dall'interno di un mondo ancora in parte legato a privilegi e rituali scavalcati dal presente, trattato con guanti di velluto dagli ultimi governi. Nessuna norma di riduzione della spesa è intervenuta finora per eliminare - per esempio - la SIP, speciale indennità pensionabile che spetta ai Vice Comandanti Generali dei carabinieri e della guardia di finanza. Negli ultimi 15 anni ben 22 generali di corpo d'armata dei carabinieri (tra loro anche Clemente Gasparri, fratello di Maurizio) si sono avvicendati nel ruolo di Vice Comandanti, restando in carica per periodi brevissimi (anche meno di un mese) sufficienti a maturare il diritto a una pensione da 14.000 euro, somma dei 6.000 euro di stipendio (oltre a varie indennità) più un maxi incremento di 8.000 euro che non trova riscontro nei contributi versati. Ai piedi della piramide, invece, le cose sono andate diversamente. Con le retribuzioni e gli aumenti legati alle promozioni congelati dal 2010 e fino al 2014 - come in tutto il comparto pubblico - i carabinieri semplici (stipendio da 1.300 euro al mese, spesso prosciugato da un affitto da pagare nel luogo di servizio) ingoiano rabbia e frustrazione ormai da troppo tempo. E iniziano a valutare con insofferenza crescente la forbice che separa il vertice dalla base.

E che dire di un altro Generale. Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Gite in montagna e pesce fresco in baita così Speciale usava l'Atr della Finanza, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Robereto Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco. Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine. Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia. Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio. Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio. Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore. Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti. Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna. Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.

Spigole con l'aereo di Stato Conto da 200mila euro per l'ex generale Speciale. Nel 2005 l'ex ufficiale si era fatto spedire il pesce in Trentino con un Atr-42 dalla base di Pratica di mare. Oggi la Corte dei conti lo ha condannato a pagare, scrive “Libero Quotidiano”. Costerà bello caro, il banchetto a base di pesce che il generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale si fece spedire  in Trentino con un Atr-42 militare. Il caso passò alle cronache come quello delle "spigiole col volo di Stato" e risale all'estate 2005. Nell'agosto di quell'anno, il generale si trovava a Predazzo in vacanza coi famigliari. E per allietare i suoi ospiti fece decollare appositamente dalla base di Pratica di Mare un aereo carico di spigole e altro pesce. Aereo adibito, normalmente alla sorveglianza delle coste per contrastare reati come il contrabbando o l'immigrazione clandestina. La vicenda venne denunciata due anni più tardi da Repubblica e sul piano penale (reati di abuso d'ufficio e peculato) si è conclusa con la prescrizione. Ma il danno patrimoniale, quello non si è prescritto e così a otto anni da quella storia la Corte dei Conti ha imposto all'ex ufficiale delle Fiamme Gialle il pagamento di un "conto" da 200mila euro  in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze: circa 30mila euro per il consumo del carburante dell’aereo, altri 7mila euro per le spese del personale impegnato nell’organizzazione di quel viaggio; ben 170mila euro a titolo di risarcimento del danno di immagine. Gabriella Bottone, 67 anni, un passato alla Gucci e moglie di un militare Ha fatto causa all'ex comandante generale della Guardia di Finanza.

"Speciale pretendeva orologi e argenteria per anni ho pagato, ora rivoglio tutto", scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Sostiene la signora Gabriella che le spigole di Passo Rolle non sono state un inciampo. Perché "Roberto Speciale è sempre stato ossessionato dalla roba. Dall'idea del potere come privilegio". Gabriella Bottone è una donna di 67 anni dai modi e il portamento eleganti. Nipote di una medaglia d'oro, moglie del generale della riserva Gualberto Peri. Per oltre dieci anni, Gabriella e Gualberto sono stati amici di Roberto Speciale e della moglie Maria Antonietta. Ne hanno frequentato la casa, le feste, le cene. Fino a quando non si sono sentiti "traditi". Gabriella, a metà anni '90, era stata testimone chiave di importanti inchieste condotte dalla Procura militare di Roma su episodi di malversazione nell'Esercito. Una scelta - racconta - che avrebbe pagato con "minacce", "aggressioni" e quasi due anni di vita sotto scorta. Con "l'umiliazione" inflitta al marito di un congedo "senza avanzamento di grado, come pure avrebbe avuto diritto". Roberto Speciale, allora, era sottocapo di Stato Maggiore. "Dopo averci usato per una vita, ci abbandonò. Ora, non mi voglio vendicare, ma far sapere a chi è stato affidato per anni prima il grado di sotto capo di stato maggiore e poi di comandante generale della Guardia di Finanza".

Come ha conosciuto Speciale?

"A metà anni '80 lavoravo alle pubbliche relazioni della 'Gucci'. Avevo rapporti istituzionali con lo Stato Maggiore dell'Esercito cui facevo applicare sconti del 50 per cento sulla merce acquistata per occasioni di rappresentanza. Speciale era tenente colonnello. Mi avvicinò e mi disse che aveva bisogno di foulard. Cominciammo a frequentarci. E dai foulard si è passato ad altro".

Cosa vuole dire?

La signora Gabriella estrae da una ventiquattro ore una lista dattiloscritta con tanto di protocollo e bolli di deposito giudiziari. Si legge: "Bicchieri da acqua e da vino in argento marca "Brandimarte"; bicchieri da liquore in argento (6) "Brandimarte"; vassoio grande in argento martellato con frutta ai lati "Brandimarte"; vassoio rotondo in argento con bordo di rose e nomi incisi "Brandimarte"; cornice in argento con specchio "Brandimarte"; oliera in argento e cristallo "Brandimarte"; caraffa da un litro in argento "Brandimarte"; cestino da pane tipo paglia in argento "Brandimarte"; litro in argento "Brandimarte"; orologi di varie marche, di cui due in oro, uno per Roberto Speciale, uno per il figlio; collana in oro con croce; collana di perle per la moglie; anello in oro con tre pietre per la figlia; antico porta vaso cinese; vestiti, scarpe, slips; piatti da parete 'Versace'".

E questa lista cosa sarebbe?

"E' l'inventario di merce che, nel tempo, il generale Speciale ha ricevuto dalla sottoscritta e per la quale la sottoscritta ha pagato dal primo all'ultimo soldo. Lui chiedeva e noi, per evitare ripercussioni negative, lo accontentavamo. Sono arrivata al punto di acquistare un paio di mocassini che aveva chiesto e di doverli cambiare perché, dopo averli provati in ufficio, li sentiva un po' stretti. Voleva gli si comprassero persino le mutande. Non le dico poi mio marito, un ufficiale che ha servito in Albania e Somalia. All'epoca, lavorava al comando "Ftase" (Forze Alleate terrestri Sud-Europa) di Verona. Lo spaccio era duty-free. E allora giù a chiedere scatole di antichi toscani e stecche di sigarette. E bottiglie di whisky. Ordinava direttamente lui e poi si occupavano del resto la sua segretaria di allora, Concetta Giuliano, o il suo segretario, il maresciallo Romani. Entrambi, a quel che mi risulta, sistemati al Sismi una volta assunto il comando della Finanza. Si occupavano anche dei biglietti per la tribuna di onore della Juve dove spesso andava il figlio del generale, Massimo. All'epoca sottotenente a Torino e poi finito al Sismi".

Lei dice che non erano regali. Ma forse il generale li riteneva tali.

"Questo lo deciderà il tribunale civile di Roma dove pende una mia causa contro Speciale per ottenere indietro parte di questa merce. Vedremo. Ma il motivo per cui le mostro la lista è per dimostrarle che Roberto è ossessionato dalla roba. E dal cibo. Il pesce a passo Rolle mi ha fatto ripensare a cosa arrivava dalla Sicilia nella sua villa alle porte di Roma".

Cosa?

"Pesce, aragoste, frutti di mare. Spiedini di carne siciliani. Montagne di marzapane. Era cibo buonissimo. E quando andavo via, spesso, mi dava anche la "mappatella", come direbbero a Napoli, con i fruttini di marzapane, che mi piacevano moltissimo".

Magari erano regali anche quelli. Oppure merce regolarmente spedita da altrettanto regolari fornitori.

"Io non ho controllato se avessero una bolla di accompagno. Ma, per dire il tipo, so per certo, ad esempio, cosa accadde un giorno in cui mio marito fu convocato in gran fretta alla Difesa. Speciale gli mise in mano un bustone in cui c'erano due leoni d'argento alti una settantina di centimetri, simbolo della brigata "Aosta" di Messina, che lui aveva comandato per un anno. Speciale disse: "Fateci qualcosa. Se potete "scioglierli" da Brandimarte per farne dei sottopiatti...". Ero fuori di me. Presi quei due leoni e li feci depositare al monte dei Pegni. Forse sono ancora lì".

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

Punita la pm anti Vendola. E ora vuole candidarsi. La Digeronimo denunciò i rapporti tra Nichi e il gip che l'aveva assolto dall'abuso di ufficio, scrive Tiziana Paolocci su “Il Giornale”. Il processo a Nichi Vendola ha fatto strike di magistrati all'interno del Tribunale di Bari. Il pm Desirè Digeronimo, che all'indomani dell'assoluzione del governatore della Regione Puglia da parte del gup Susanna De Felice denunciò l'amicizia tra questa e la sorella del governatore, Patrizia, è stata trasferita alla Procura di Roma. Una punizione in piena regola per chiudere un procedimento aperto proprio dal Csm per «rimuovere preventivamente una situazione di presunta incompatibilità tra lei e i colleghi». Il gup che giudicò innocente il presidente di Sel dall'accusa di abuso d'ufficio, invece, verrà trasferita alla Corte d'appello di Taranto, ma solo per avallare una sua richiesta. Era stato lo stesso giudice a chiedere, infatti, il trasferimento all'interno di un concorso ordinario. Due pesi due misure, quindi, per i principali attori di un processo che sollevò un vero e proprio terremoto all'interno del Tribunale, seguito da uno strascico di polemiche. I pm Desirè Digeronimo e Francesco Bretone che avevano chiesto una condanna a 20 mesi di reclusione per Vendola (processato insieme all'ex assessore alla Salute Alberto Tedesco), infatti, subito dopo l'assoluzione del politico avevano inviato un esposto al procuratore generale di Bari, al capo del loro ufficio e a un procuratore aggiunto, segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore. Dall'iniziativa, però, avevano preso le distanze 26 pm firmando una lettera, che aveva spinto poi i consiglieri di Area ad aprire una pratica sulla Digeronimo. Le accuse del Csm su di lei erano basate non solo sulla conflittualità con alcuni colleghi e avvocati, ma anche sul rischio di non imparzialità per via dei rapporti personali con l'ex direttore generale della Asl di Bari, Lea Cosentino e con la sua amica Paola D'Aprile. E non era bastato a dar manforte alle parole della Digeronimo le foto pubblicate a febbraio da Panorama, che mostravano una pranzo organizzato nell'aprile 2006 per il compleanno di una cugina di Vendola, al quale partecipavano lo stesso governatore e il giudice De Felice. Così il pm non ha potuto far altro che indicare una nuova sede di lavoro ottenendo in cambio l'archiviazione della pratica disciplinare. Ma non ha deposto le armi e ieri in una lettera aperta è tornata ad attaccare il Csm, Vendola e i colleghi: «Incolpevolmente ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che la legge è uguale per tutti». Poi annuncia: «Se si creeranno le condizioni servirò in altro ruolo i miei concittadini». Una promessa che non esclude un futuro da candidato sindaco di Bari.

Ecco il testo della lettera aperta indirizzata "ai cittadini di Bari" e postata dal sostituto procuratore Desirée Digeronimo sul suo profilo Facebook: "Ho chiesto il trasferimento alla Procura di Roma ritenendo non più “tollerabile” la mia permanenza in servizio presso la Procura di Bari a seguito delle accuse totalmente infondate di alcuni colleghi sostituti auditi al CSM nel corso della pratica che mi ha riguardata. Preciso che tale procedura per incompatibilità non attiene in alcun modo a profili disciplinari né tantomeno a pretese irritualità riferibili all’invio di una nota, riservata personale, diretta ai miei superiori gerarchici e avente ad oggetto accadimenti inerenti il processo a carico del Presidente di Regione, Niki Vendola. La richiesta di trasferimento è stata motivata dal profondo rispetto dovuto all’istituzione della Procura della Repubblica di Bari e dalla mia personale indisponibilità a proseguire una collaborazione con alcuni colleghi in servizio in tale ufficio; infatti, dopo la pubblicazione sulla stampa del contenuto delle contestazioni formulate dal CSM, ancor prima che, in un legittimo contraddittorio, potessi dimostrarne la pretestuosità e falsità, come in ogni caso ho fatto depositando una memoria ampiamente supportata da riscontri documentali, ho ritenuto doveroso tutelare, da tali false accuse, la mia onorabilità e dignità professionale depositando un esposto alla competente Procura di Lecce. Nel corso di questi anni e soprattutto di questi ultimi mesi, attraverso un’ ossessiva sovraesposizione mediatica, ovviamente mai da me voluta o ispirata, sono state riportate notizie non corrispondenti alla verità dei fatti, che oggi ritengo opportuno precisare e smentire. La riservata da me sottoscritta unitamente al collega Bretone sulla vicenda De Felice – Vendola costituiva, nell’esercizio delle mie funzioni di Pubblico Ministero titolare di quel processo, una doverosa comunicazione di ufficio con riferimento a fatti e circostanze che necessitavano di superiore valutazione da parte dei soggetti istituzionali a ciò preposti. Tale atto, e non esposto, lungi dall’essere stato compiuto in violazione di legge e/o regole processuali era corrispondente a precisi doveri del mio ufficio. Illegittima e in violazione del dovere di riservatezza risulta la pubblicazione di tale nota riservata, circostanza in merito alla quale ho provveduto a formalizzare denuncia presso le sedi competenti. Tralasciando aspetti suscettibili di altre e ben più gravi valutazioni, una irrituale interferenza nell’esercizio delle funzioni a me assegnate dallo Stato potrebbero considerarsi i successivi documenti diramati alla stampa da parte dei rappresentanti di associazioni di categoria e/o di singoli uffici, con i quali, senza cognizione di causa e frettolosamente, veniva stigmatizzata a mio carico l’inesistente violazione di regole processuali. In merito ad una serie di false affermazioni riferite da alcuni protagonisti di tale vicenda e riportate dalla stampa , ho sporto denuncia presso la Procura di Lecce, in particolare: al contrario di quanto riferito dal Presidente Vendola nel corso di numerose trasmissioni televisive non sono mai stata amica, nel senso pieno del termine, della collega De Felice né mai ho presentato quest’ultima alla sorella del Presidente, Patrizia; del resto nella ormai nota fotografia del settimanale “Panorama” non sono certo io ad essere ritratta tra tali intimi protagonisti del pranzo di compleanno della cugina del Presidente; al contrario di quanto riferito da Patrizia Vendola non ho mai chiesto favori a lei o al fratello né mai ho avuto motivi di astio o inimicizia nei confronti di costoro; al contrario di quanto riferito dalla dott.ssa Pirrelli, moglie del ex senatore PD e magistrato Gianrico Carofiglio, non ho mai avuto rapporti conflittuali con giudici o avvocati del distretto, né con la maggior parte dei colleghi sostituti di Bari, mai ho intrattenuto rapporti di amicizia o colloqui telefonici con la dott.ssa Lea Cosentino, come risulta peraltro inconfutabilmente dimostrato dalla trascrizione di una intercettazione telefonica tra me e la dott.ssa Paola D’Aprile avvenuta ad opera del collega Scelsi nell’agosto del 2009, collega oggi imputato a Lecce per tali condotte in un processo che mi vede persona offesa. La verità di ciò che è accaduto in questi lunghi anni è tutta da un’altra parte. Prima di indagare sugli illeciti nella gestione della sanità regionale pugliese anche per chi oggi mi accusa ero magistrato competente e attento e del resto i risultati prodotti in 15 anni di lavoro appassionato e serio presso la Procura di Bari sono sotto gli occhi di tutti. La mia incompatibilità ambientale nasce dall’ “incolpevole” circostanza di essermi imbattuta in un’indagine che avevo il dovere, in ossequio al servizio che svolgevo per i cittadini di Bari, di approfondire e concludere; doveri che mi imponevano di non voltare la testa, di non tenere le carte nei cassetti. “Incolpevolemente” ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che “la legge è uguale per tutti” e pur provocata e aggredita , “incolpevolemente” ho pensato che per un giudice il primo dovere fosse proseguire il suo lavoro nel silenzio e nella riservatezza, facendo parlare esclusivamente i propri provvedimenti. Ed in effetti i provvedimenti della Corte di Cassazione che hanno confermato la bontà dell’impianto accusatorio dell’indagine sulla sanità che sino al novembre 2009 ho personalmente seguito e poi condiviso con altri colleghi non possono che parlare per me. Oggi sono fiera di essere riuscita a indossare con onore una toga, pervenendo a tali importanti risultati , mentre un “potente” , come Lui stesso si è definito in recenti interviste, Presidente di Regione, nell’agosto 2009 in una lettera aperta pubblicata su tutte le testate nazionali, pur dichiarando di agire “per amore della verità” chiedeva a gran voce la mia astensione dall’indagine, mi tacciava di incompetenza, accusandomi genericamente di intrattenere rapporti di parentela e amicizia incompatibili con il ruolo. Sono fiera di aver saputo onorare con il silenzio l’istituzione che rappresento a fronte di tale comportamento del Presidente della Regione Puglia, che omettendo di rappresentare le sue doglianze presso le sedi competenti, così privandomi di ogni legittima difesa e contraddittorio, compiva una grave interferenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali di un magistrato della Repubblica Italiana. Sono fiera di aver resistito nell’adempimento del dovere nonostante la solitudine e la mancanza di solidarietà di chi avrebbe dovuto proteggere non me ma la mia funzione. E così la sezione locale dell’ANM che liquidava la questione della lettera di Vendola come un “fatto personale” tra me e il Presidente o il CSM dell’epoca che, contrariamente a quanto fatto per identici casi che riguardavano altri colleghi e altri personaggi pubblici, mi negava tutela posso dire oggi, con assoluta convinzione, che mancavano di salvaguardare non un singolo magistrato ma il prestigio e la credibilità delle funzioni giudiziarie. Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso, forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre il centro dei miei affetti e dei miei pensieri, e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini, con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza. Tanto esprimo ai cittadini di Bari che non mi hanno fatto mancare l’affetto e la solidarietà ma anche a chi oggi gioisce per una vittoria di “Pirro”. Un grazie speciale e con il cuore alle donne e agli uomini con cui ho condiviso quotidianamente le fatiche e le gioie del mio lavoro, ho apprezzato in voi onestà e coraggio, abnegazione assoluta a uno Stato spesso avaro con i suoi uomini migliori. Infine, rivolgendo un pensiero a quei colleghi della Procura di Bari, che pur decretando il mio esilio ringrazio per avermi aperto nuove e luminose strade da percorrere, mi torna in mente con un sorriso la frase di Diogene il cinico, il quale, condannato dai “ Sinopi” all’esilio, condannava costoro a rimanere in Patria". Bari lì 26 luglio 2013 Desirée Digeronimo.

La giunta distrettuale di Bari dell’Anm esprime "il proprio rammarico per il discredito che è stato gettato sull'intera magistratura, sul suo organo di autogoverno e sulla stessa Associazione nazionale magistrati". Secondo la giunta barese dell’Anm, è doveroso "sottolineare come il magistrato non possa sottrarsi alle regole che è chiamato a far rispettare". "La scelta della dott.ssa Digeronimo – rileva l’Anm – di trasferirsi presso altra sede, che di fatto ha bloccato il procedimento apertosi per la verifica di condotte che l’abbiano resa incompatibile con la permanenza presso la Procura di Bari, non può e non deve portare a cercare il consenso popolare, per fini evidentemente extragiudiziali, attraverso dichiarazioni unilaterali che altri magistrati, in ossequio ai principi di serietà, riservatezza e rispetto del codice deontologico, hanno riservato esclusivamente alle sedi istituzionali".

Vendola risponde al magistrato che lo indagò. "Scende in politica? Ci guadagna la giustizia". Scontro aperto tra il governatore leader di Sel e il pm Digeronimo che ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco di Bari. "Contro di me spinta da motivazioni politiche".  "Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".  E' scontro aperto tra il governatore Nichi Vendola e il magistrato Desirée Digeronimo che lo ha indagato per la vicenda della nomina di un primario, cui sono seguiti strascichi giudiziari e frizioni interne al Palazzo di Giustizia di Bari che hanno portato al trasferimento del pm a Roma per incompatibilità, scrive “La Repubblica”. Trasferimento annunciato con una lettera aperta alla città in cui la Digeronimo, oltre ad attaccare Vendola e i colleghi che l'hanno segnalata al Csm, si è detta pronta  a candidarsi per diventare il prossimo sindaco di Bari. Circostanza che - attacca Vendola - porta a galla la verità sulla "lunga clandestina campagna elettorale che spingeva le azioni della dottoressa Digeronimo". "Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso" scrive la Digeronimo alla cittadinanza, sostenuta da un gruppo di associazioni politiche, pronte a lanciare le primarie della società civile. "Forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre al centro dei miei affetti e dei miei pensieri e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza". "Sebbene sia abituato a cercare sempre le parole più appropriate per raccontare le mie emozioni - questa la replica del governatore - confesso che questa volta, dinanzi alle parole della dottoressa Digeronimo, ho provato la tentazione di restare in silenzio. Per marcare una distanza. Tuttavia, siamo dinanzi a una lettera pubblica e non davanti ad un atto giudiziario: ed è doveroso parlare. Una lettera ai 'cittadini baresi' proveniente da un magistrato tuttora in servizio a Bari, che non disdegna di esibire la propria 'folgorazione' per la politica. Lo fa con esibita ostilità nei confronti della mia persona. Lo fa, ed è la cosa che appare più paradossale e imbarazzante, con ostilità nei confronti della funzione giudiziaria, che tutti i cittadini vorrebbero esercitata da uomini e donne equilibrati e sereni. Che la dottoressa Digeronimo non sia stata terza e serena nei miei confronti, io lo so bene e la sua lettera una volta di più lo conferma. "Oggi capisco che non è serena nemmeno con il Csm, che ne ha decretato all'unanimità l'incompatibilità, imponendole di fatto il trasferimento. E non è serena neppure con i suoi colleghi, pm e giudici. Per cinque anni ho bevuto un calice amaro, ma sono stato sempre ossequioso verso le istituzioni giudiziarie e mi sono difeso nei processi uscendone sempre a testa alta. E' vero: mille volte ho sospettato che il suo accanimento nei miei confronti fosse motivato anzitutto da vanità, sebbene piuttosto crudele. Oggi finalmente appare la verità. Dunque, era solo una lunga clandestina campagna elettorale per una sorprendente autocandidatura quella che spingeva le azioni della dott. ssa Digeronimo. Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

E sulle foto di Vendola spunta Carofiglio. C'è il nome del magistrato-scrittore, secondo Panorama, nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto del governatore  a pranzo con il giudice De Felice. Spunta a sorpresa il nome del magistrato-scrittore-politico Gianrico Carofiglio nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto di Nichi Vendola a pranzo con Susanna De Felice, il giudice che lo ha assolto nell’ottobre 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio. Lo rivela Panorama, in edicola da domani, giovedì 18 luglio. Lo ha scoperto la Polizia postale di Bari che ha analizzato il computer dell’uomo che dice di avere rubato quelle immagini, Cosimo Ladogana, all’epoca compagno di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi. Tutto inizia quando Ladogana, tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, senza rivelare la sua identità, propone a Panorama alcuni scatti di quel pranzo e altri riguardanti un incontro a casa di Carofiglio tra Patrizia Vendola e De Felice alla vigilia del processo contro il governatore della Puglia. Il settimanale, subodorando una trappola, dà conto della strana offerta. L’identikit di Ladogana viene riconosciuto da amici e parenti e così, il 28 febbraio, il presunto ladro scrive all’allora senatore del Pd Carofiglio, amico della famiglia Vendola e del giudice De Felice, un’email di giustificazioni: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista di Panorama, ndr) e non certo tutti noi». Giura che il suo piano (successivamente realizzato) era quello di far incriminare per ricettazione il giornalista: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: “A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato”». Ladogana è disperato e a Carofiglio assicura: «Sono disposto a tutto (…). Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Dopo pochi minuti Carofiglio, sempre per posta elettronica, risponde e promette di concedere la sua consulenza a una condizione: Cosimo dovrà inviare - precisa il magistrato - «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Nei giorni successivi Ladogana spedisce in visione diverse bozze della sua autodenuncia al magistrato-scrittore e il 5 marzo, quando il documento è già stato lungamente corretto e limato (anche nella parte sull’incontro a casa Carofiglio), ne consegna una copia alla Digos. Dopo poche ore la procura di Bari apre un fascicolo per furto e ricettazione.

Tutta la verità sulle foto di Vendola. La vera storia del fidanzato di Patrizia Vendola e delle foto regalate a Panorama, scrive Giacomo Amador su “Panorama”. Oggi la notizia del giorno a Bari la offre ai suoi lettori «La Repubblica», sulla prima pagina del dorso locale: «Il partner di Patrizia Vendola: “Ho dato io le foto a Panorama» . Il sommario chiarisce meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore (Nichi Vendola ndr) e il gip (Susanna De Felice ndr) che lo ha assolto». Bum! Ma perché avrebbe tradito la famiglia della fidanzata «all’insaputa di tutti»? Semplice: «Voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna» sarebbe la versione offerta ai poliziotti. In realtà la storia è andata un po’ diversamente e vale la pena di essere raccontata dall’inizio. Alle 10 e 52 minuti di giovedì 21 febbraio sul computer della segreteria di Panorama arriva una email di un lettore misterioso, nascosto dietro il nickname Japigia69 (Japigia è un quartiere di Bari). Panorama è da poche ore in edicola con la storia della foto della ormai famosa festa di compleanno a cui parteciparono il Vendola e il giudice De Felice, che lo avrebbe assolto nel 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio a fronte di una richiesta di condanna a 20 mesi di reclusione. Il nostro settimanale, però, sino a quel momento, aveva pubblicato solo un disegno, una ricostruzione grafica di quell’evento conviviale. Scrive Japigia: «La foto originale, scattata da me, del 15 aprile 2007 (non 2006) di cui parlate nell’articolo di oggi è in mio possesso insieme ad altre 30 foto che ritraggono e raccontano l’evento. Se interessati, le cedo molto volentieri, altrimenti passo ad altri che sono in attesa. Grazie». Panorama, mentre il giornale va in stampa, è riuscito a entrare in possesso dell’immagine del pranzo e la pubblicherà sul suo sito Internet verso mezzogiorno di quella stessa mattina. Ma Japigia non può saperlo e ritiene di poter fare il colpo grosso. Anche se l’immagine la abbiamo, il cronista è ovviamente interessato a capire meglio la vicenda e invia una email a Japigia. La risposta è rapida e l’appuntamento viene fissato per il pomeriggio successivo, venerdì 22 febbraio. Nel frattempo ci attrezziamo per capirne di più e smascherare l’anonimo. Pochi giorni prima ci aveva telefonato, schermato da un numero privato, un altro mister x e ci aveva offerto immagini a un prezzo cospicuo. L’uomo senza volto dà del «tu» al cronista e sa che ha già visionato (senza riuscire a ottenerla) un’istantanea della festa. La storia non ci piace e pensiamo a come svelare l’identità del trafficante di immagini. Dopo un consulto con la direzione viene chiamato il procuratore di Lecce Cataldo Motta che, a quanto ci risulta, ha un fascicolo aperto sui rapporti tra De Felice e Vendola. Non sappiamo, né possiamo sapere, che Motta ha già chiesto l’archiviazione per il gip. La risposta del magistrato è secca: «E che c’entro io?». Quindi consiglia: «Avvertite le forze di polizia, se lo ritenete». Noi preferiamo a quel punto raccontare la proposta ricevuta ai nostri lettori. Torniamo a Japigia. Dopo il primo colloquio, le nostre difese non si abbassano. Ma come i giocatori di poker chiediamo di «vedere». L’uomo, grande e grosso, età apparente sui 45 anni, si presenta nella hall dell’albergo in cui alloggiamo. Si siede con noi a un tavolino e inizia subito a riempire l’aria di millanterie (lo scriverà lui stesso in una mail successiva, quando scoveremo la sua reale identità). Dice di essere tornato in Puglia da un anno, di lavorare per un misterioso gruppo di persone che lo paga profumatamente per trovare notizie «scomode» e di essere iscritto all’albo dei giornalisti. Questa informazione, come accerteremo, è vera: Ladogana dovrebbe aver fatto il praticante in un piccolo giornale di Sesto San Giovanni (Milano) ai tempi in cui faceva il «galoppino» di alcuni noti politici del luogo, ci rivela un amico dell’epoca, Filippo Penati in primis, ex caposegreteria di Pier Luigi Bersani, oggi afflitto da qualche grattacapo giudiziario. In albergo Cosimo (ma lui si presenta come Domenico, anche se a un certo punto si confonde e dichiara il vero nome) tira fuori tre quattro fogli formato A4 pieni di foto, stampe di provini o di cartelle digitali, e ce le mostra. Ci sono gli scatti del pranzo (sono davvero una trentina) e quelle di un altro evento molto più recente. Cosimo insiste su questo punto, dice che risalgono all’1 maggio del 2012 e che erano presenti sia De Felice che Patrizia Vendola. Aggiunge pure che ci sono altre foto delle due donne in occasione di una Pasquetta e di un Capodanno trascorsi insieme, sempre successivi al 2009 e quindi «pericolosamente» recenti per la famiglia Vendola. Sono questi scatti vicini nel tempo la merce che prova a vendere in questo mercatino improvvisato, visto che le immagini del pranzo del 2007 hanno perso valore alla borsa della notizia dopo la pubblicazione della prima foto su Panorama.it. L’informatore dice di avere estratto le istantanee da un vecchio telefonino della Vendola, poi si contraddice e racconta di aver pagato un tecnico per recuperare un hard-disk usato della donna, pagando 3 mila euro. Una cifra buttata lì, quasi a dare un prezzo al pacchetto. Japigia non capisce, o forse sì, che quegli scatti, con tali premesse, diventano roba buona per i ricettatori. Lui, per tranquilizzarci, si propone per una collaborazione che duri nel tempo con il giornale, ovviamente da realizzare con la sua reale identità. Nel frattempo sul tavolo srotola altre storie. Dice di avere degli audio compromettenti di un magistrato a colloquio con Patrizia Vendola e che quelle registrazioni le aveva suggerite un parlamentare del Pd. Sostiene inoltre di avere  il file di un colloquio tra due imprenditori che scagionerebbe Penati. Gli riferiamo che il nostro tempo è scaduto perché dobbiamo andare al comizio di Vendola per provare a intervistarlo. Sospendiamo la trattativa, con la promessa di rivederci. Siamo in una fase di studio: il racconto di Cosimo è confuso, le foto sono chiaramente autentiche, lui preferisce rimanere anonimo. La sera lo incrociamo in compagnia di una donna (tra poche righe scoprirete la sua identità). Ci ignoriamo volutamente. Il giorno dopo, altro appuntamento in albergo, ma la matassa non si sbroglia. Anzi. Japigia ci dà appuntamento a Roma, promette di svelare il suo nome e di consegnarci il materiale. In realtà sparisce dai radar. Salvo inviare quattro foto via email: «Sta a voi decidere se ringraziarmi» precisa. Anche senza pagare un centesimo, l’accusa per Panorama di essere una macchina del fango (un ritornello che Vendola aveva già cantilenato dopo una nostra intervista alla sorella) è dietro l’angolo. E sebbene scopriremo che quella melma Vendola ce l’ha in casa, con la direzione decidiamo di pubblicare le istantanee e di descrivere così chi ce le ha consegnate: «Ma qual è l’identità della fonte e come è entrata in possesso delle foto? Il percorso non è chiaro. Potrebbe essere tortuoso, financo illegale. “Carbonara” (nel pezzo lo chiamiamo così ndr) dice di essere un giornalista freelance e di aver videoregistrato il nostro incontro. Quindi scompare e non si fa più sentire (…). Un approccio indecifrabile. Anche perché nelle stesse ore il cronista incrocia Carbonara per le vie di Bari, e lui fa finta di niente. Passeggia con una signora, con cui sembra in confidenza. Il cronista la riconosce: è Patrizia Vendola (ecco chi è la donna ndr). Gioco o doppiogioco? In ogni caso non è divertente». Secondo noi ce n’è abbastanza per incuriosire le forze dell’ordine o un magistrato. Ma nessuno, a Bari, sembra interessato alla nostra storia. Nessuno si preoccupa di verificare chi siano gli strani personaggi che offrono foto di cronaca in città senza rivelare la propria identità. Proviamo a chiedere aiuto a Gianrico Carofiglio, magistrato, senatore Pd e grande amico dei Vendola: «So chi è la vostra fonte, ma vi rivelerò la sua identità solo se prima mi racconterete tutto». Quello che avevamo da dire sull’informatore lo abbiamo scritto, replichiamo. A Carofiglio non basta, vuole altri particolari, cerca conferme ai suoi sospetti. Eppure quanto pubblicato su Panorama sembra sia bastato a rendere identificabile Ladogana all’interno del cerchio magico di Vendola. Per lo meno questo sostiene Japigia, che il 28 febbraio ricompare con una email intestata «Ringraziamenti»: «Davvero un peccato. Tutto sommato anche previsto. Grazie. Buona giornata». Il messaggio è vagamente minaccioso. Rispondiamo spiegando che il suo comportamento, le sue parole e le sue frequentazioni ci avevano fatto sospettare di una trappola. Lui si indigna: «Io ero sincero, volevo darvi sul serio una mano, per motivi personali, non ho preteso soldi (…) non sono scomparso, aspettavo il vostro articolo. È andata così, pazienza». Lo abbiamo reso riconoscibile e questo lo ha mandato nel panico: «Beh, almeno adesso avete la certezza che non era un trappolone come lo chiamate voi, che non ero in combutta con nessuno. Cellulare bollente il mio oggi, insulti a non finire, dai miei ex conoscenti, impossibile negare e quindi reo confesso». La storia è sempre più intricata e Cosimo non intende proprio togliersi la maschera. Scopriamo il suo nome casualmente, da un conoscente vicino al cerchio magico, ma anche questo ci aiuta poco. Esistono diversi omonimi. Iniziamo la caccia. Vogliamo conoscere la verità e glielo facciamo sapere. Chiediamo, sempre per iscritto, di incontrarlo e di parlare a quattr’occhi, per capire i reali motivi del suo comportamento. Non risponde. Gli riferiamo che il materiale in suo possesso ci servirà in vista di eventuali querele già annunciate. Lui preferisce restare nell’ombra. Ma l’uomo è venale e per riagganciarlo gli proponiamo «una soluzione buona per entrambi». Abbocca. «Non vedo perché dovrei fidarmi di te» scrive riferendosi al cronista, «ti ho incontrato e tu due ore dopo mi vedi in compagnia (di Patrizia Vendola ndr) e decidi di trattarmi così? Mi hai messo tutti contro» si lamenta. Ma alla fine del messaggio apre uno spiraglio: «Quale sarebbe “una buona soluzione per entrambi”?». Restiamo sul vago. Non promettiamo niente di concreto. Lui torna alla carica: «Anche se volessi accettare come potreste tutelarmi da eventuali conseguenze penali e quale sarebbe il mio compenso?». Proponiamo di continuare a proteggere il suo anonimato ed eventualmente di pagargli foto e collaborazione, se dimostrerà di essere un giornalista, attraverso «un regolare bonifico». Probabilmente queste condizioni lo scoraggiano e si eclissa di nuovo. Nel frattempo apprendiamo molte informazioni sul suo conto. Un ex politico di Sesto San Giovanni ci racconta la sua vera storia, le imprese fallite, l’attuale vita fatta «di espedienti». Ci invia il suo numero di cellulare con questa raccomandazione: «Non fategli male, è un buon diavolo, forse un po’ c…e». Inviamo a Cosimo altre email, messaggini sul cellulare, ma lui continua a non dare segni di vita. Il 4 marzo, a causa della nostra insistenza, probabilmente si sente in trappola e spedisce al cronista poche righe, apparentemente dettate da un leguleio: «Preciso che tutto quello che ho detto nella nostra chiacchierata, erano invenzioni e millanterie. Ho frequentato Patrizia Vendola per oltre un anno, siamo stati insieme tutti i giorni e nell’arco di quest’anno c’è stato un solo casuale incontro con la dottoressa De Felice. Ogni cosa diversa tu dovessi dire o attribuire virgolettata, sul tuo giornale sarà falso e ne dovrai rispondere alle persone eventualmente diffamate, in sede civile e penale». Rispondiamo che per tutelarci a noi basta rivelare il suo nome, il fatto che ci abbia consegnato le foto e che ne abbia altre. Il 5 marzo scriviamo un articolo sull’affaire Vendola-De Felice senza citarlo. È l’ultima possibilità che gli diamo per uscire allo scoperto. Gli facciamo capire che lo proteggeremo come fonte in cambio delle prove di quello che abbiamo scritto, riscontri che abbiamo visto, ma che non ci ha consegnato. Ribadiamo che se non si farà vivo saremo costretti a svelare la sua identità per difendere il nostro lavoro con i lettori e nei tribunali. Quello stesso pomeriggio un collega ci avverte che Ladogana è andato ad autodenunciarsi alla Digos. Alle 19.25 Japigia ci annuncia personalmente la decisione: «Ho riferito tutto alla polizia giudiziaria, consegnando la documentazione. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità». La nostra risposta è lapidaria e un po’ ironica: «Bene. Finalmente trionferanno verità e giustizia. Speriamo che almeno alla Digos tu non abbia chiesto soldi, abbia dato le tue vere generalità, consegnato tutto quello di cui parli nell’audio e le foto che ci hai fatto vedere». Già. Chissà se a qualcuno, adesso, interesseranno le immagini che documentano gli incontri della famiglia Vendola e del giudice De Felice anche in anni molto recenti. Forse ora ci sarà chi proverà a vederci chiaro. Se accadrà, di questo piccolo miracolo dovremo ringraziare Japigia.

Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre scorso ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, scrive “Libero Quotidiano”. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori. Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese ora impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama.  «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali. 

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta.

Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato - per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole. Bisognerà invece aspettare ancora per avere le motivazioni della sentenza Fitto: la corte ha chiesto un'ulteriore proroga, bisognerà aspettare sino al 14 agosto. Non hanno ancora finito di scrivere le motivazioni per la sentenza che ha condannato Raffaele Fitto a quattro anni di reclusione per corruzione e abuso d’ufficio, e già questo processo è finito in un altro fascicolo giudiziario: Fitto ha accusato i suoi giudici, con un esposto alla procura di Lecce, di essere stati troppo celeri nei suoi riguardi. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta, aperto il fascicolo, ha chiesto gli atti del processo al presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, che glieli ha trasmessi e di fatto ora sono i giudici Luigi Forleo, Clara Goffredo e Marco Galesi a doversi difendere. “Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi”, aveva attaccato Fitto poche ore dopo la condanna, “gli stessi giudici, per altri processi, hanno tenute tre udienze l’anno mentre, nel mio caso, ci sono state anche tre udienze a settimana”, scrive Antonio Massari su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo l’attacco verbale, l’esposto in procura, con annesso fascicolo e indagine appena aperta. Per quanto possa apparire surreale, ora sono i giudici a doversi tutelare dall’accusa di essere stati troppo ligi, di aver evitato la prescrizione in un processo che vedeva coinvolto, con l’accusa di corruzione, uno dei più potenti politici del Pdl, ex ministro e tuttora pupillo dell’ex premier Silvio Berlusconi. E come Berlusconi con Nicolò Ghedini, anche Fitto è difeso da un avvocato che siede in Parlamento, ovvero Francesco Paolo Sisto. Condannato in primo grado – la vicenda riguarda la tangente da 500mila euro, pagata dagli Angelucci al movimento politico di Fitto, “la Puglia prima di tutto”, per ottenere in cambio, secondo l’accusa, la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa) – ora Fitto si rimetterà al giudizio della Corte d’Appello. Il Presidente della corte d’Appello di Bari è Vito Marino Caferra, da poco nominato “osservatore” del “comitato dei saggi” per le riforme costituzionali. Una nomina passata in commissione affari costituzionali, fortemente voluta proprio da Francesco Paolo Sisto, che l’ha proposto, questa volta – s’intende – nella sua veste di parlamentare Pdl. E quindi, in sintesi, da un lato Fitto denuncia – e la procura di Lecce indaga – i giudici che l’hanno condannato, perché troppo celeri nel calendarizzare le udienze del suo processo. Dall’altro il suo avvocato, in qualità di parlamentare, spinge il presidente della Corte d’appello – che dovrà calendarizzare le future udienze – nel ruolo di osservatore dei saggi. Nessun dubbio sul fatto che Caferra, nella sua veste di giudice, non si lascerà condizionare. Molti dubbi, invece, sull’opportunità di accettare questo incarico, giunto proprio su proposta di Sisto.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

AVVOCATI: DIAMO I NUMERI?

Dal sito “Pagella Politica” si legge un dichiarazione. Beppe Grillo: "150.000 avvocati. Gli avvocati di Milano sono di numero maggiore di tutti gli avvocati della Gran Bretagna. Gli avvocati di Roma sono di numero maggiore di tutti gli avvocati della Francia". Beppe Grillo e una dichiarazione che profuma di "Vero". Su internet è un tripudio dei blog più disparati che riportano dati simili, saltati fuori come funghi soprattutto dopo che nel 2008 l'allora presidente vicario della Corte d'Appello di Roma, Claudio Fancelli, dichiarò che a Roma si trovavano tanti avvocati quanti in tutta la Francia e il Corriere ci scrisse un articolo. L'articolo precisava anche:"il presidente Fancelli non fa numeri, ma è sicuro dei suoi dati". Incuriositi, andiamo alla ricerca di questi dati. Risultato? Un'altra bufala che popola il web...Partiamo dal primo dato: numero di avvocati in Italia. Che ce ne siano tanti è indubbio. Lo ha mostrato recentemente anche la Cepej (Commissione Europea per l'Efficienza della Giustizia, istituita in seno al Consiglio d'Europa) nell'ultimo Rapporto sui sistemi giudiziari europei del 2012. Si tratta di un tomo di 443 pagine che vi risparmiamo volentieri e andiamo dritti al punto. A pagina 308 si trova un elenco del numero di avvocati in 46 Paesi. I dati sono riferiti al 2010 e vedono l'Italia prepotentemente in testa con 211.962 avvocati. Ma il numero nel frattempo è aumentato, se si pensa che la recentissima Relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2012 specifica che gli iscritti all'albo nell'agosto 2012 sono 247.040. I dati, ripartiti per Regione, sono disponibili anche sul sito dell'Albo nazionale degli avvocati. Grillo ha dunque sottostimato notevolmente il dato: non 150mila, ma quasi 250mila avvocati affollano lo Stivale. Ben più staccati gli altri Paesi: la Gran Bretagna (i dati parlano di Regno Unito ma Grillo parla di Gran Bretagna - quindi sommiamo i valori di Inghilterra, Scozia e Galles) è seconda con 175.860 avvocati, seguita dalla Germania a quota 155.679 e la Spagna a 125.208. La Francia si distingue per un numero molto più basso di avvocati: 51.758 nel 2010 secondo i dati Cepj, anche se il Conseil National des Barreaux (l'Ordine degli Avvocati francese) parla di 53.744 avvocati al primo gennaio 2011, in aumento in media del 3,5% ogni anno, per cui possiamo stimare che ad oggi in Francia ci siano tra i 55 e i 60 mila avvocati. Veniamo ora al confronto Milano-Gran Bretagna. Un articolo del Corriere del 2010 parla di circa ventimila avvocati, dato confermato sul sito dell'Ordine degli avvocati di Milano, che annovera un totale di 17.162 avvocati, cui si aggiungono 1.613 praticanti abilitati al patrocinio. Considerando i dati sopra, vediamo che in Gran Bretagna gli avvocati sono dieci volte di più. Forse Grillo ha fatto confusione nel sistema britannico tra solicitors e barristers: in estrema sintesi, i primi essenzialmente prestano la consulenza legale ai clienti ed istruiscono la pratica mentre i secondi rappresentano e difendono la parte davanti alla Corte. Secondo il Legal Services Board, in Inghilterra e in Galles, nel 2012, ci sarebbero 15.204 barristers - un numero che, a fronte dei 17mila avvocati di Milano, confermerebbe la dichiarazione di Grillo. Tuttavia, anche i solicitors sono lawyers - avvocati - e non è corretto non considerarli tali. Passiamo al confronto Roma-Francia. Dati ufficiali sul numero di avvocati iscritti all'Ordine di Roma non si trovano, ma diverse fonti parlano di cifre intorno alle 20mila unità: l'Unione dei giovani avvocati italiani (Ugai) ne rileva circa ventimila; l'articolo del Corriere citato sopra parla di 21mila avvocati; un partner dello studio legale Cleary Gottlieb su Repubblica sostiene ce ne siano 24 mila, così come afferma anche una recente inchiesta su Panorama. In ogni caso, secondo l'Albo nazionale, nel Lazio gli avvocati sono poco più di 30mila, quindi i numeri rimangono ben lontani da quelli francesi. Certo, se paragonati ai nostri cugini d'Oltralpe rimangono numeri notevoli, ma che a Roma ci siano più avvocati che in tutta la Francia sembra un mito da sfatare. Tre errori su tre fanno guadagnare a Beppe Grillo il giudizio da tutti temuto: "Panzana pazzesca"! Avvocati in Italia: Puglia quarta, Foggia decima. La Puglia è la quarta regione italiana per densità di avvocati (1 ogni 139 abitanti) con la provincia di Lecce prima e Taranto ultima. E’ quanto emerge da un’analisi di DAS, compagnia del gruppo Generali specializzata nella tutela legale, condotta in occasione del lancio della polizza Difesa in Linea, che offre consulenza legale telefonica nell’ambito della vita privata e lavorativa, della circolazione stradale e delle proprietà immobiliari. Lecce con una densità di 1 legale ogni 125 abitanti, oltre che leader nella regione, è al 9° posto in Italia. A Foggia, seconda in Puglia e 10° in Italia, c’è 1 avvocato ogni 126 abitanti mentre nel capoluogo di regione, Bari (12° posto Italia), la presenza di avvocati scende a 1 ogni 132 abitanti. BAT, con 1 avvocato ogni 133 abitanti, è 4° in Puglia e 13° in Italia. DAS ha rilevato nella provincia di Brindisi 1 avvocato ogni 177 abitanti (22° in Italia) e a Taranto, ultima tra le province pugliesi e 25° in Italia, 1 ogni 184 abitanti. Roberto Grasso, amministratore e direttore generale di DAS Italia: “Dalle nostre ricerche di mercato abbiamo capito quanto gli italiani abbiano bisogno di un supporto legale per tutelarsi dai rischi e dai problemi della vita quotidiana, soprattutto in caso di controversie relative a incidenti stradali,  liti condominiali o vertenze di lavoro. Gli italiani hanno il terrore di rivolgersi a un avvocato perché temono di non poterselo permettere e contestualmente non sempre ne hanno uno di fiducia a cui potersi affidare. Il nostro servizio assicurativo di consulenza diventa perciò un vero e proprio primo soccorso legale a costi certi ed estremamente contenuti”. Calabria e Campania guidano la classifica della maggior densità di avvocati: ne hanno rispettivamente 1 ogni 123 abitanti e 1 ogni 129, contro una media nazionale di 1 ogni 204, per un totale di oltre 291 mila legali in esercizio nel nostro Paese. Anche Lazio e Puglia risultano avere una forte presenza di avvocati: 1 ogni 133 abitanti nel primo caso e 1 ogni 139 nel secondo caso. Al quinto posto troviamo il piccolo Molise con un legale ogni 146 abitanti. In altre regioni il numero di avvocati è invece di gran lunga inferiore alla media nazionale. In Umbria si conta 1 legale ogni 856 residenti, analogamente in Trentino Alto Adige il rapporto è tre volte e mezzo inferiore alla media italiana (1/698 abitanti) e similare è la situazione in Valle D’Aosta (1/600 abitanti). Se restringiamo l’osservazione al dettaglio provinciale sono tre le realtà meridionali più “affollate” di avvocati. Su tutte svetta Salerno (1/101) con una densità più che doppia rispetto alla media nazionale. Anche Catanzaro non è da meno: 1 legale ogni 105 residenti. Terza è Benevento (1/114 abitanti) che precede la Capitale (1/117) e Napoli (1/118).

CI SONO AVVOCATI ED AVVOCATI. NON DIAMO I NUMERI. 2011. GLI AVVOCATI ISCRITTI ALL’ALBO SONO 247MILA; GLI AVVOCATI ISCRITTI ALLA CASSA FORENSE SONO 187MILA.

CI SONO AVVOCATI ED AVVOCATI. In Italia è boom di avvocati: sono ben 247mila, circa il doppio dei colleghi francesi, e continuano a crescere al ritmo di 14mila nuovi ingressi annuali, scrive Anna Guida su “Articolo 36”. La professione esercita ancora un forte appeal tra le nuove generazioni, sebbene il mito del “principe del foro” sia ormai oscurato dalla triste verità dei numeri. I dati della Cassa forense parlano chiaro: se per il 2011 il reddito medio della categoria è di 47mila euro l’anno, i professionisti under 29 non raggiungono i 14mila, quelli nella fascia 30-34 anni si fermano a 20mila, mentre i 60-64enni toccano quota 92mila. E questi numeri non tengono in considerazione la fascia più povera della categoria, quei circa 60mila avvocati che nel 2011 risultavano iscritti all’Albo ma non alla Cassa forense perché il loro reddito era inferiore alla soglia minima di 10.300 euro. Non è difficile immaginare che si tratti soprattutto di nuove leve. La forbice reddituale che coinvolge le diverse generazioni di legali italiani è ben superiore a quella - già molto significativa - evidenziata dall'Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati) per tutti gli iscritti alle casse private: il reddito medio dei professionisti italiani under 40 risulta inferiore del 48,4% rispetto a quello degli over 40. Avvocati e architetti, sottolinea l'Adepp, le due categorie più colpite da questa tendenza alla polarizzazione.
«Il percorso professionale dei giovani che si affacciano alla carriera forense è divenuto negli ultimi anni particolarmente difficile», ammette Paolo Giuggioli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. «Le ragioni sono variegate. Senza dubbio è un fenomeno ampio che, per via della crisi che ormai da oltre un quinquennio condiziona pesantemente lo sviluppo del nostro Paese, riguarda non solo questo settore professionale ma tutte le attività economiche. Tuttavia, rispetto ad altre categorie, l’avvocatura sta pagando il prezzo di un lungo periodo nel quale il numero degli iscritti è cresciuto enormemente. Dal 2000 ad oggi sono più che raddoppiati. Solo l’Ordine di Milano conta quasi 17.500 avvocati, mentre allora erano 8.300. Purtroppo non si può registrare un corrispondente innalzamento del reddito complessivamente prodotto». Come dire: i commensali raddoppiano, ma la torta da spartire rimane grosso modo la stessa. Ancora una volta, a rimanere a bocca asciutta sono soprattutto i giovani. Giovanissimi, poi, molti di loro non lo sono più. Se fino a qualche anno fa la piaga del lavoro sottopagato coinvolgeva principalmente i praticanti e i ragazzi in attesa di abilitarsi, oggi l’asticella della miseria si è spostata sempre più su fino a raggiungere anche coloro che hanno 10 o 15 anni di esperienza. Perché l'amara gavetta legale non finisce con l'agognata firma del dominus sul certificato di compiuta pratica. Come racconta Krizia, 26 anni, tra i promotori della ricerca sul praticantato i cui desolanti risultati sono stati ripresi da Articolo 36 qualche settimana fa: «Dopo quella firma inizia un periodo di limbo che, per i più fortunati, dura circa un anno: è il tempo che intercorre tra la fine della pratica e l'esame orale dell'esame di Stato, per chi lo passa subito. Io sto ancora aspettando l’esito dello scritto di dicembre; se tutto va bene, sosterrò l’orale in autunno. In caso contrario, il mio “purgatorio” durerà almeno un altro anno». Come vivono gli aspiranti avvocati in questo periodo in cui non sono più praticanti ma non sono ancora abilitati? «Molti restano nello studio in cui hanno svolto la pratica e percepiscono lo stesso “stipendio” di prima. Nel mio caso, 300 euro al mese. Ma sono fortunata: ho persino ottenuto due settimane di “pausa” pre-esame, ovviamente non retribuite», spiega Krizia. «A me non è stato concesso», racconta ad Articolo 36 Francesco, 26 anni, anche lui tra i promotori della ricerca. «Allora ho deciso di “licenziarmi” e dopo lo scritto di dicembre sono approdato in uno studio piuttosto grande, dove lavoro 10 ore al giorno e non ricevo nessun compenso. Ma sono abbastanza contento perché qui ho l’impressione di imparare il mestiere, mentre prima svolgevo quasi solo lavoro di segreteria». Forse allora sarà l’abilitazione il momento in cui si potrà finalmente “cambiare musica”? «Purtroppo no! Nel mio studio lavorano anche giovani abilitati e la loro situazione non è molto migliore. Guadagnano 800 o mille euro, i loro compensi crescono molto lentamente. A 33 anni portare a casa 1.200 euro, a fronte di 12 ore di impegno al giorno a ritmi piuttosto stressanti, non è una grande vittoria. Anche perché si lavora a partita Iva e da questa somma vanno tolti...

BASTA CON LA TIRITERA DEI TROPPI AVVOCATI IN ITALIA.

In media, in Italia ci sono 3,4 avvocati ogni mille abitanti. Questa la proporzione in ogni regione ogni mille abitanti: Valle d'Aosta 1,3; Piemonte 1,9; Liguria 3,6; Lombardia 2,7; Trentino Alto Adige 1,5; Veneto 2,2; Friuli Venezia Giulia 1,8; Emilia Romagna 2,8; Toscana 2,8; Umbria 3,1; Marche 3,1; Lazio 4,8; Abbruzzo 4,2; Molise 4,4; Campania 4,9; Puglia 5,0; Basilicata 3,8; Calabria 5,9; Sicilia 3,8; Sardegna 2,7 (dati da ilsole24ore del 17/4/2010). In un articolo pubblicato da ilsole24ore il 28 aprile 2009, scrive l’avv. Maurizio Perelli, dal titolo "Classe forense, i numeri da sfatare", si leggeva che all'albo avvocati di Roma sono iscritti 20.186 avvocati; all'albo di Madrid più del doppio, addirittura 45.166; all'albo di Monaco pochi di meno e cioè 18.364. Altra notazione si leggeva, ancor più interessante; quella per cui, se è vero che in Francia ci sono circa tanti avvocati quanti ne sono iscritti all'albo di Roma, è pure vero che la Francia costituisce un eccezione tra i paesi europei, nei quali sono presenti avvocati in misura non molto diversa che in Italia. In particolare quasi in ogni paese d'Europa il numero degli avvocati supera i 150.000 (159.295 in Spagna, 150.375 in Germania, 151.802 in Inghilterra-Galles). 

Interessante la progressione numerica degli iscritti all'albo in Germania (vedi articolo di Roberto Giardina a pag. 11 de ItaliaOggi del 18/2/2010): erano poco più di 36.000 nel 1980; 56.000 nel 1990; nel 1995 erano già un 50% in più; 104.000 nel 2000; oggi, nel 2010, sono 150.400. 

Dunque, si parli sulla base di questi dati, se non si è in grado di smentirli. E basta con la tiritera dei troppi avvocati in Italia. Già la si ripeteva stancamente intorno al 1920 e oggi ci tocca sentirla sempre più spesso (persino in occasione dei discorsi d'apertura dell'anno giudiziario) e assurdamente posta a motivo dell'eccessivo numero di cause in Italia: assurdamente perchè di certo, per il penale, le cause non le sollecitano gli avvocati, mentre per il civile e l'amministrativo la colpa della litigiosità eccessiva è tutta del legislatore e della giurisprudenza, i quali sono uno più incerto dell'altro. In realtà "l'eccesso di norme, che si stratificano confusamente e si richiamano l'un l'altra in un groviglio inestricabile, la loro "bassa qualità", che alimenta dubbi interpretativi e incertezza nell'applicazione, gli alti livelli di contenzioso e litigiosità che ne scaturiscono, la lentezza dei procedimenti, l'ampiezza della regolazione cui sono soggette le attività economiche e sociali: tutti questi fattori, tra loro intrecciati, alimentano una domanda diffusa di servizi di intermediazione legale" (da Società Libera, , 8° RAPPORTO SUL PROCESSO DI LIBERALIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ ITALIANA, Edizione Guerini e Associati, 2010 cit, p. 37).   Gli avvocati italiani si aspettano che gli organismi che si dicono rappresentativi dell'avvocatura li difendano dall'accusa infamante di creare artificiosamente le cause che intasano i Tribunali. Invece che sulla "autoritaria" (e incostituzionale perchè irragionevole, sproporzionata e anticoncorrenziale) riduzione del numero degli avvocati, si focalizzi l'intervento di modifica della legge professionale sulla necessità di porre rimedio ad una regolazione anticoncorrenziale della professione forense. Al riguardo occorre rammentare che un settore produttivo può dirsi aperto alla concorrenza non se è alto il numero dei concorrenti ma se i loro redditi non sono eccessivamente differenziati, come avviene invece (e risulta pacificamente dai dati pubblicati dalla Cassa Forense) tra gli avvocati italiani, i quali in piccola percentuale sono titolari d'alti redditi mentre in alta percentuale sono ormai "proletarizzati".

FUGA DALLA PROFESSIONE.

L’Avv. Eugenio Gargiulo spiega: "Fuga degli avvocati dalla professione legale". Il reddito medio di un avvocato è sceso del 30 per cento negli ultimi tre anni. Nell’ultimo anno, inoltre, il 30% circa degli iscritti alla cassa forense non è riuscito a pagare i contributi previdenziali. Sulla scorta di tali preoccupanti cifre, rese note dall’Ordine Nazionale degli Avvocati, è possibile “dipingere uno scenario dalle fosche tinte”  relativo a una professione che ha sempre attirato una massa di giovani che, oggi, purtroppo, sempre più vanno meditando di lasciare quella professione, il cui titolo di abilitazione  è stato faticosamente guadagnato con anni di sacrifici. Un numero di iscritti che negli ultimi quattro anni è continuato a crescere anche se in proporzioni minori. Se anche i colleghi più anziani vedono i loro redditi ridursi del 20/30 per cento perché spesso i clienti non pagano, per un giovane che non ha alle spalle uno studio avviato dal padre la prospettiva di potersi sostenere con la professione si è allungata parecchio. Inoltre la cosiddetta fisiologica “gavetta” dura ben oltre i 30 anni, e solo con grandi motivazioni, e probabilmente dopo i 35 anni, si arriva a guadagnare appena quanto un dipendente pubblico”. Lo scenario che si prospetta in un futuro prossimo è quello che “a resistere sarà soltanto una elite di avvocati, mentre la fascia media e, soprattutto, quella bassa sarà schiacciata perché la concorrenza è molto ampia, perché siamo in tempi di crisi e perché la professione è cambiata in negativo”. Da un esempio classico si può comprendere le difficoltà in cui attualmente incappano le “nuove leve” dell’avvocatura che, solitamente, muovono i primi passi nelle cause degli incidenti stradali: un giovane avvocato, fino a qualche anno fa, si faceva le cosiddette ossa con le cause che riguardavano gli incidenti stradali. Oggi non è più possibile: una volta chi subiva un incidente stradale andava dall’ avvocato per farsi risarcire e il legale faceva quindi da intermediario. Oggi questo non accade più perché non c’è l’indennizzo diretto, ovvero la compagnia non riconosce più le spese legali. Un mediatore contatta il danneggiato, fa valutare il danno e si chiude la pratica. Nel caso contrario, la compagnia non riconosce più le spese legali. E questo è un grave danno per tutti quei giovani che iniziano la professione”. Secondo l’Ordine Nazionale degli Avvocati, in realtà, molti iscritti quasi non esercitano la professione e i nuovi parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi introdotti dal decreto ministeriale 140 del 20 luglio 2012 comporteranno, sempre secondo l’ordine, un’ulteriore contrazione dei redditi. Tra i sintomi di una professione che versa in un profondo stato di crisi, segnalo altresì il rapporto diverso che si è instaurato tra l’avvocato e il cliente a causa dell’obbligo del preventivo: “ E’ una difficoltà in più perché prima s’instaurava un rapporto fiduciario totale tra legale e cliente mentre oggi, con l’obbligo del preventivo, si è trasformato in un rapporto contrattuale: quanto andrò a spendere? E’ questo che si domanda il cliente”.  In conclusione,  non sono a rischio solo i giovani, per cui l’approccio alla professione richiede una forte motivazione, ma anche gli avvocati più anziani che lamentano, dopo anni, di aver perso parte del reddito.

PROFESSIONISTI SENZA DIGNITA’.

Il pizzino del giudice contro gli avvocati: "Siete degli scemi" Clamorosa gaffe di una toga milanese. Il legale apre  il fascicolo del processo e trova il bigliettino offensivo, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci mancava solo questo, in giorni in cui le gaffe fuorionda del ministro della Giustizia Cancellieri e gli scioperi degli avvocati hanno fatto bruscamente salire la temperatura dei rapporti tra chi governa i tribunali e chi ci lavora dalla parte degli utenti. A Milano salta fuori un bigliettino, dimenticato da un giudice nel fascicolo di un processo civile, che racconta meglio di tanti dibattiti la sciatteria e il fastidio con cui agli avvocati capita di sentirsi trattare: come se il ruolo del difensore non fosse essenziale alla giustizia quanto quello del giudice. La storia arriva dalla dodicesima sezione civile del tribunale milanese: sezione che si occupa prevalentemente di assicurazioni e risarcimenti. Materia arida ma affollata, e che per il cittadino «normale» è uno dei casi più frequenti di impatto con le aule di tribunale. Qui, davanti a un giudice, era in corso una causa come tante: un incidente stradale, un motociclista che viene investito e subisce un grave trauma a una gamba. A rendere più complessa e più triste la vicenda, c'è il fatto che dopo le terapie per recuperare la gamba, il motociclista sviluppa un tumore che lo uccide. L'investitore viene condannato, gli eredi dell'investito spiccano un decreto ingiuntivo nei confronti della compagnia di assicurazione per ottenere i 200mila euro di risarcimento. L'assicurazione impugna il decreto. Si arriva davanti al tribunale. E avviene il fatto. Il 28 giugno scorso, nuova udienza. L'avocato degli eredi, Mino Siracusa, apre il fascicolo e rimane di sasso. Appuntato alle carte c'è un biglietto scritto a mano con grafia femminile. É un appunto del giudice, Maria Teresa Zugaro. «Credete di essere furbi a chiedere le somme con decreti ingiuntivi. E invece siete scemi». Siracusa non crede ai suoi occhi. Nell'appunto, il giudice non si limita a far capire chiaramente di avere già deciso a chi dare ragione. Ma insulta i legali di una delle parti. E poco conta che fosse una riflessione che il giudice voleva tenere per sè, e che ha messo per iscritto solo per propria memoria. Quell'appunto fotografa in modo impietoso il modo in cui il giudice affrontava la causa. Così l'appunto sui furbi e sugli scemi è diventato un caso che ha investito i vertici del Palazzo di giustizia milanese. Siracusa ha chiesto un intervento del consiglio dell'ordine degli avvocati. E ha depositato a Livia Pomodoro, presidente del tribunale milanese, una istanza di ricusazione in cui va giù senza diplomazia: «Il sottoscritto avvocato, dopo trent'anni di professione, non intende farsi dare della "scemo" da un giudice che non ha neppure guardato i documenti di causa, non ha capito l'oggetto della medesima né la causa petendi, e intende preservare la propria dignità di professionista di fronte ad abusi così evidenti e oltraggiosi da parte di un pubblico Ufficiale che dovrebbe garantire Giustizia». Caso-limite o spia di un fenomeno? Non è la prima volta che un giudice dimentica in un fascicolo tracce evidenti di una decisione presa anzi tempo. Ma che una toga arrivasse a mettere per iscritto epiteti irriguardosi verso un avvocato non era finora mai successo. Anche questo, a suo modo, è un «fuori onda» eloquente.

AVVOCATI PERMALOSI E TRAFFICHINI. STRANO MODO DI FARE LOBBY.

AVVOCATI AVVELENATI! “LA LOBBY” METTE IL MUSO ALLA CANCELLIERI, NON LA INCONTRA E INDICE 8 GIORNI DI SCIOPERO.

Rea di aver detto “ora me li tolgo dai piedi” a un gruppo di contestatori che le impedivano di parlare - Il presidente nazionale Guido Alpa fa lo svenevole: “Ci ha umiliati e offesi, ha un pregiudizio verso di noi”. Veramente, era proprio un giudizio…, scrive Roberta Catania per "Libero" e riportata da “Dagospia”.  Tra avvocati e governo Letta è guerra. Il primo colpo, forse involontario, è partito dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. Un fuori onda di Sky Tg24, due giorni fa, l'ha tradita: «Li vado a incontrare », riferito ai legali di Napoli, «così me li tolgo dai piedi». Poi al momento di dare una spiegazione, la titolare del dicastero di via Arenula è caduta dalla padella alla brace: «Gli avvocati... le grandi lobby... impediscono che il Paese diventi normale», alludendo alle riforme. Sembrava che la polemica potesse sgonfiarsi, magari con le scuse che a quattr'occhi avrebbe potuto porgere ieri la Cancellieri ai rappresentati della categoria dei professionisti, invece gli avvocati hanno disertato l'incontro già in programma al ministero e annunciano lo sciopero dall'8 al 16 luglio. «Ci ha umiliati e offesi», ha spiegato il presidente del Consiglio forense, Guido Alpa, «non è possibile per il momento proseguire una collaborazione ». All'incontro avrebbero dovuto partecipare tutti i rappresentanti dell'Avvocatura: il Consiglio nazionale forense, i presidenti di tutti gli Ordini territoriali, l'Organismo unitario dell'Avvocatura e la Cassa forense. Le parole di ostilità pronunciate dal ministro Cancellieri (quelle riferite alla lobby degli avvocati) sono solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso diventato improvvisamente colmo con il famigerato fuori onda ripreso dalle telecamere Sky e rimbalzato in Rete. Ulteriore ragione di scontro tra gli avvocati e il ministro è stata l'approvazione a sorpresa delle misure sulla giustizia civile contenute del decreto legge del Fare, dopo che la titolare di via Arenula aveva garantito un confronto con gli avvocati prima di prendere qualunque decisione. «Il ministro ha manifestato idee che esprimono un pregiudizio nei nostri confronti», ha quindi spiegato Alpa, annunciando che invierà una lettera a Cancellieri per spiegare perché l'Avvocatura ritiene impossibile proseguire il confronto con il ministro. Sulla vicenda è intervenuto anche Nicola Marino, presidente dell'Oua, l'organismo unitario dell'avvocatura: «La nostra categoria non è una lobby e non si farà "togliere dai piedi"». Quindi, Marino ha aggiunto: «L'Italia è l'unico Paese d'Europa dove gli avvocati non vengono neppure sentiti quando si parla della riforma della giustizia», perciò «altro che corporazione». Inoltre, riguardo la riforma della giustizia che la Cancellieri accusa i legali di ostacolare, gli avvocati non fanno mistero di contestare la riforma Severino delle circoscrizioni giudiziarie, quella che accorpa o abolisce i piccoli tribunali. Ad alimentare lo scontro, però, è stato quel «decreto del fare» che è passato sopra le loro teste e che, contestano, «contiene importanti provvedimenti sulla giustizia come la mediazione obbligatoria, presi senza consultare l'avvocatura» e neppure «informare i vertici precedentemente incontrati». Le dichiarazioni della Cancellieri sulla «lobby» sono state solo l'epilogo di una situazione già tesa, che certamente non aveva bisogno di un ministro poco attento al labiale. Infine gli avvocati hanno annunciato proposte alternative, che probabilmente saranno illustrate in commissione giustizia. C'è quindi la volontà di andare avanti, ma per ora non si registra alcuna intenzione di issare la bandiera bianca. Nessuno vuole arrendersi e, a questo punto, sottomettersi alla supremazia dell'altro.

Ed in questo trambusto chi si inserisce? Proprio chi non ti aspetti.

"Immediate dimissioni" del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, per "palese inadeguatezza": a chiederle è l’Ordine degli avvocati di Taranto. In una nota riportata da “La Gazzetta del Mezzogiorno” gli avvocati ionici solidarizzano con l'Ordine forense di Napoli per le dichiarazioni del ministro di martedì scorso e annunciano l’adesione allo sciopero nazionale indetto dall’8 al 16 luglio prossimi dall’organismo unitario dell’avvocatura contro gli interventi in materia di giustizia contenuti nel "decreto del fare" del governo. "Il ministro – spiega il presidente degli avvocati tarantini, Angelo Esposito – più di qualunque altro suo predecessore, ha mostrato un palese fastidio e disprezzo non solo terminologico nei confronti del ceto forense che quindi ne chiede, come condizione indispensabile per la ripresa dei normali rapporti di collaborazione e dialogo con la politica, le immediate dimissioni motivate dalla sua palese inadeguatezza". Esposito aggiunge che il ministro avrebbe manifestato "disprezzo nei confronti di un ceto professionale che ha fatto la storia di questo Paese e che vanta fra le sue fila la gran parte dei componenti dell’Assemblea Costituente del '46". Ceto professionale che "oggi si vede svillaneggiato da un ministro che arricchisce i ranghi dei rappresentanti di un dicastero che, al contrario di quanto accade, dovrebbero essere competenti o quantomeno a conoscenza delle dinamiche del mondo giudiziario".

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto e quello, con l’Ordine di Lecce e Brindisi, che non ha battuto ciglio alle accuse della Commissione di esame di avvocato di Catania che ha corretto i compiti salentini, per la quale i candidati salentini avrebbero copiato.

Gli avvocati e quella formula ormai logora di fare lobby. Avrà sicuramente sbagliato nel metodo regalando ai patiti del fuori onda espressioni che non avrebbe dovuto pronunciare ma al ministro Anna Maria Cancellieri va riconosciuto il coraggio di aver riportato all'ordine del giorno il tema del rapporto tra l'azione politica di risanamento e l'ostruzionismo delle lobby, scrive Dario Di Vico su “Il Corriere della Sera”. La contrapposizione degli avvocati al governo ha origine in due provvedimenti, la riorganizzazione delle sedi giudiziarie e la reintroduzione dell'istituto della mediazione. Il primo va nella sacrosanta direzione di razionalizzare la spesa pubblica e il secondo, oltre a porsi obiettivi di sfoltimento del contenzioso, applica al mondo legale la moderna ricetta della sussidiarietà. Si potrà obiettare che il bilancio dell'introduzione della mediazione non è esaltante, che in un periodo di crisi nera è diventato de facto una sorta di rifugio anche a scapito della competenza reale, che il coinvolgimento delle professioni - e degli stessi avvocati - poteva essere curato meglio, ma - detto tutto questo - il principio riformatore va comunque difeso. E la sfida che gli avvocati hanno rivolto, non solo al governo ma all'intera opinione pubblica, appartiene alla tradizione di un lobbismo d'altri tempi. Nei periodi di crescita economica, anche se contenuta, la pressione degli interessi di parte si concentrava nell'ottenimento di vantaggi redistributivi, le grandi e le piccole lobby cercavano di condizionare la politica e portare a casa la maggior porzione possibile di vantaggi per i propri associati. Peccato però che quella stagione sia tramontata forse definitivamente e siamo entrati, nostro malgrado, nell'epoca del budget zero e della spending review permanente, indirizzata a scovare inefficienze, sprechi e rendite di posizione. O la rappresentanza degli interessi fa propria questa discontinuità o si isola dalla vicenda nazionale, cerca inutilmente di ritagliarsi, alzando i decibel della propria protesta, un ambiente protetto. L'interesse generale nel quinto anno della Grande Crisi non è un concetto politologico astratto, è l'unica strada che possiamo ragionevolmente percorrere per allontanarci dal baratro. Tutti, avvocati e non. Fortunatamente c'è anche chi questa novità l'ha interiorizzata e ha saputo cambiare i propri comportamenti. Prendiamo, ad esempio, il mondo dell'edilizia che rappresenta forse la filiera più ampia del sistema produttivo italiano: ha saputo unirsi, dall'industria alle professioni, attorno a proposte ragionevoli e valide non solo per un segmento della società civile. La battaglia per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione e le iniziative per lo snellimento della burocrazia fanno parte di una modalità di rappresentare gli interessi capace di cucire obiettivi strettamente «sindacali» e interesse generale. Le lobby che il ministro Cancellieri ha evocato sono quelle che invece operano al riparo della concorrenza internazionale e si esercitano quasi esclusivamente nel gioco dell'interdizione e del rinvio. Parliamo degli avvocati ma guardando un po' più in là, e agli obiettivi di razionalizzazione della spesa che il governo non potrà non adottare, è facile pensare anche al blocco di resistenza di chi non vuole che la pubblica amministrazione si modernizzi e cambi passo. Se l'esecutivo guidato da Enrico Letta vorrà mostrarsi incisivo dovrà adottare la stessa franchezza esibita dal ministro Cancellieri nei confronti dei legali anche in direzione dei grandi e piccoli commis dello Stato. La riflessione sulle lobby retrò e le interdizioni del mondo legale non hanno niente a che vedere con le legittime preoccupazioni sul futuro del professionalismo italiano. Non siamo in presenza solo della caduta del reddito medio, dell'affermarsi di una figura come il professionista semi-disoccupato, di un regime di apartheid nel quale operano i più giovani ma stiamo rischiando l'impoverimento delle competenze e la marginalizzazione internazionale. Il dato fa riflettere e, se volete, lo si può leggere come il riassunto delle trasformazioni in corso: il 90 per cento degli architetti, quando lavora, lo fa esclusivamente nell'ambito del suo Comune.

«Boccaccia mia statte zitta»: la guardasigilli Anna Maria Cancellieri, davanti alla reazione degli avvocati, si sarà morsa la lingua come il pupazzo Provolino di un vecchio Carosello. Sulle lobby professionali che ostacolano le riforme, però, ha ragioni da vendere. Basti dire che l'Italia ha il triplo degli avvocati rispetto alla media europea. E l'anomalia pesa troppo spesso, in certe aree, sulla macchina della giustizia. Un esempio? La Campania ha il 61% delle cause per sinistri stradali, spesso inventati, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”, non nascondendo il suo palese pregiudizio contri i meridionali in generale e i napoletani in particolare. Sia chiaro: guai a fare di ogni erba un fascio. C'è avvocato e avvocato, Ordine e Ordine, regione e regione. E sarebbe disonesto confondere i professionisti che fanno il loro mestiere al meglio, cercando di dare una mano per far funzionare i tribunali, con una quota di azzeccagarbugli che drogano un'enormità di cause finendo per intralciare la giustizia giusta. Lo stesso Pietro Calamandrei, del resto, in un saggio per «I quaderni della Voce» di Giuseppe Prezzolini intitolato «Troppi avvocati!», se la pigliava nel 1921 con «l'esistenza di questo proletariato forense» considerato «la sciagurata causa di tutti mali dell'avvocatura» proprio per difendere quella professione così vitale in una democrazia. E per lo stesso motivo attaccava «gli avvocati (che) riempiono le aule del Parlamento trasformandolo in Camera d'Avvocati». Sulla base dei dati del Cepej (European Commission for the Efficiency of Justice), l'economista Leonardo d'Urso, collaboratore de «lavoce.info», ha composto una tabella che da sola dice tutto. Ogni 100.000 abitanti ci sono in Europa 127 avvocati. Bene: la media italiana è di 406. Solo la Val d'Aosta (la più virtuosa con 139) si avvicina al resto della Ue. E la sproporzione via via si accentua fino a toccare a Roma e nel Mezzogiorno numeri da brivido: 524 «toghe» nel Lazio, 586 in Puglia, 652 in Campania, 664 in Calabria. Dove c'è un legale ogni 150 abitanti contro la media continentale di uno ogni 787. Cosa vorrà mai dire: che da noi i cittadini sono molto più tutelati? Ma dai! E sarà un caso che le regioni in cui ci sono più avvocati sono quelle in cui ci sono anche più cause? È il numero esorbitante delle cause che ha man mano fatto crescere quello dei legali o piuttosto, al contrario, è l'esubero di legali ad aver fatto crescere le cause fino a intasare i tribunali? La stessa Banca d'Italia, nello studio «La giustizia civile in Italia: i divari territoriali» di Amanda Carmignani e Silvia Giacomelli, sottolinea il parallelo: «L'effetto del numero di avvocati in rapporto alla popolazione sulla variabile dipendente risulta positivo e statisticamente significativo. In base all'evidenza empirica, le variabili che hanno maggiore impatto sul tasso di litigiosità sono il valore aggiunto pro capite e il numero di avvocati per abitante». Traduzione: esattamente come accade nel film di Billy Wilder «Non per soldi ma per denaro», dove Walter Matthau convince il cameraman Jack Lemmon a fingersi gravemente ferito in un incidente di gioco per spillare all'assicurazione un milione di dollari, sono talvolta certi trafficoni delle aule giudiziarie a cercare i clienti e a spingerli a fare causa. E per trarne profitto è essenziale che la Giustizia funzioni peggio possibile. Per una coincidenza, mentre gli avvocati si sollevavano contro il ministro e la sua tesi sulle lobby di traverso alle riforme, l'Ania (l'associazione delle imprese assicuratrici) metteva online il suo rapporto 2012-2013. Dove si legge che «delle oltre 240 mila cause civili pendenti davanti a un giudice di pace circa 150 mila sono concentrate in Campania e, di queste, 108 mila nella sola città di Napoli. Di quelle rimanenti, altre 26 mila riguardano la Puglia, mentre 18 mila sono quelle presenti in Sicilia e quasi 10 mila in Calabria. Escludendo il Lazio (e in particolare la città di Roma), con circa 16 mila cause civili pendenti, le rimanenti regioni d'Italia si suddividono in modo uniforme appena 23 mila procedimenti». Insomma, la Campania assorbe da sola il 61% di tutti i processi per i risarcimenti danni da incidente stradale che ingombrano gli uffici dei giudici di pace. E la città capoluogo, da sola, copre il 45% più di tutto il resto d'Italia messo insieme, tolta la Campania. Si è visto di tutto, in questi anni. Comprese, come qualche lettore ricorderà, sentenze false emesse da giudici falsi e notificate da avvocati falsi per incidenti stradali falsi. E come dimenticare Gerardo «Tapparella» Oliva, un tappezziere che in un solo anno ebbe la ventura di assistere, così disse, a 650 incidenti? Usciva di casa e vedeva un tamponamento, girava l'angolo notava un pedone finire sulle strisce sotto un motorino... È considerata praticamente un ammortizzatore sociale, qua e là, la truffa alle assicurazioni. Le quali, per carità, badano ai loro interessi e a volte fanno penare per anni dei risarcimenti sacrosanti e scaricano sui clienti rincari da brivido, ma certo devono arginare imbroglioni di ogni genere. Ecco la famigliola che in un anno denuncia 12 schianti tutti e dodici con la stessa macchina. La Lancia Y che colleziona 20 incidenti in due anni. Le cartelle cliniche false. E via così. A volte scappa un sorriso perfino alla vittima della truffa. Come nel caso di una Suzuki 1000 che, impennandosi alla Valentino Rossi, era finita contro un'auto causando danni ingenti. Alla guida figurava una vecchia di 85 anni che non usciva di casa da tempo immemorabile. Possibile che fosse sua l'idea tentare di tirar su qualche soldo con l'assicurazione? La tradizione, del resto, è antica. Nel 1729 Montesquieu annotava già questa abbondanza esagerata di avvocati: «Non c'è un Palazzo di Giustizia in cui il chiasso dei litiganti e loro accoliti superi quello dei tribunali di Napoli. Ho sentito dire dal Viceré che ci sono a Napoli 50.000 di questi "causídici", e vivono bene. Lì si vede la Lite calzata e vestita». Da allora son passati tre secoli...

GLI AVVOCATI SONO UNA CASTA: PUNTO E BASTA!

Gli avvocati sono una casta. Come i magistrati. Punto e basta, conclude Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Se preferite potete chiamarla corporazione: basta sfiorare i loro interessi e, da lustri, si scatena una babilonia. Guardiamoci nelle palle degli occhi e raccontiamoci che gli avvocati non sono una lobby, se credete: tanto lo sono lo stesso. Va da sé che la lobby maggiormente corresponsabile della malagiustizia italiana resta la magistratura: è quella l’ultra-casta, sono loro i veri intoccabili. Se non vi piace la parola lobby, chiamatela corporazione: ma esiste pure quella degli avvocati, e basta sfiorarne gli interessi - da lustri - perché scendano sul piede di guerra, paventino scioperi e annuncino gli stati generali della categoria. Non è certo una notizia che il loro spropositato numero (250mila avvocati) alimenti la perenne domanda di intermediazione giudiziaria che stritola la giustizia: più ricorsi e appelli e rinvii ci sono e, per loro, meglio è, visto che in Italia è proibito farsi pagare a forfait. I problemi della giustizia sono tanti e riguardano in particolare la sua organizzazione,  ne abbiamo scritto milioni di volte: ma non è possibile che ogni volta che si fanno notare anche le contraddizioni degli avvocati scoppi una babilonia e loro la menino con gli attentati alla democrazia. Quando il capo dello Stato ha parlato di riorganizzare gli uffici giudiziari e ha auspicato che «gli interessi particolari non prevalgano su quelli generali», dicano, di chi pensavano che stesse parlando? Solo dei magistrati? E dicano, a proposito della riforma della geografia giudiziaria: non è forse vero che gli avvocati puntano - tanto per cambiare - a un rinvio?

Quella degli avvocati è una vera lobby: altro che Bisignani e cento inutili dissertazioni su tema. È una lobby, e che lobby: tu sfiori i loro interessi e in tre secondi netti sono in grado di scendere sul piede di guerra, raccogliere firme in tutto il Parlamento, paventare scioperi, minacciare crisi di governo, annunciare gli stati generali della categoria e mobilitare il Consiglio nazionale forense: ottenendo ciò che volevano – lo stralcio del provvedimento che li riguardava – in altri due secondi netti, continua Filippo Facci su “Il Post”. È quello che è successo mercoledì, dopo il timido annuncio di fievoli liberalizzazioni che avrebbero potuto riguardarli e che invece toccheranno solo agenti immobiliari e parrucchieri e altri fondamentali categorie: bravissimi, davvero. È da lustri che riescono a impedire che si muova foglia anche se sono palesemente corresponsabili dello sfascio e della lentezza della giustizia: lo sanno tutti, lo capisce anche uno scemo, ma tu prova a dirlo, prova a far notare che oltre ai magistrati – dei quali ci siamo occupati abbastanza, ci pare – appare come una vera e principiesca casta anche la loro, quella di avvocati che in Italia sono 230mila quando in Francia sono 48mila, una casta che da noi alimenta quella perenne domanda di intermediazione giudiziaria che sta stritolando la nostra giustizia: perché più ricorsi e appelli ci sono e più loro guadagnano. In Italia oltretutto è proibito farsi pagare a forfait, a compenso fisso, tantomeno, nel caso della giustizia civile, a risultato: è anche per questo che non gliene frega niente di chiudere le cause rapidamente, e cercano, semmai, di tirarla in lunghissima, e rinviare, rinviare per quanto possibile, e in Italia è possibile quasi sempre. È lo stesso sistema, tra parentesi, che favorisce pochi e consolidati studi a svantaggio di migliaia di giovani avvocati sottoccupati che sono spesso ridotti a galoppini di studio, gente che fa fotocopie per anni con paghe da schiavi versate regolarmente in nero: ma è proprio questo sistema elefantiaco a illuderli, a farli accedere alla professione a stormi di 15mila inutili avvocati all’anno, partoriti da università che non preparano per niente alla professione (quest’anno gli iscritti a giurisprudenza sono più di quarantamila, chissà che lavoro vogliono fare) senza che nessuno si sogni di proporre il numero chiuso come c’è per medicina: forse perché l’esercito di ragazzini affamati assicura manodopera pressoché gratuita agli studi legali più rinomati. C’è una riforma semplice semplice, per fare un esempio, che tutti dicono che sarebbe logica e soprattutto economica: chiudere i tribunali con meno di dieci magistrati e autorizzare un solo tribunale per ogni provincia: chi credete che si opponga, e perché? Ma certo che non tutti i torti sono i loro: lo sottolinea chi, lo scrivente, tra gli avvocati ha avuto le migliori fonti della sua professione. I pagamenti a forfait non sono una panacea: ci sono avvocati che transano (o transigono) tutte le cause per incassare la parcella col minimo sforzo, e i giornalisti ne sanno qualcosa. La giustizia, inoltre, dovrebbe essere essenzialmente giusta prima ancora che veloce, e un avvocato talvolta deve badare più agli interessi del cliente e magari meno al funzionamento dell’economia. È chiaro che i problemi della giustizia sono anche altri e che riguardano in particolare l’organizzazione della medesima,  ne abbiamo scritto milioni di volte: ma non è possibile che ogni volta che si fanno notare le contraddizioni e le colpe (anche) della professione forense – in questo caso una timida liberalizzazione – scoppi una babilonia e gli avvocati la menino con «la tutela dell’interesse pubblico» e il «servizio al cittadino» e i «diritti dei consumatori» e altre amenità che celano perlopiù il mantenimento di uno status. Gli avvocati sono una lobby come i medici, i commercialisti, i giornalisti e i farmacisti: solo che sono più forti, soprattutto in quest’era berlusconiana. È la stessa lobby, a proposito di giornalisti che non contano un fico secco, che da una quindicina d’anni straparla di depenalizzare il reato di diffamazione e poi non ne fa mai niente: chissà perché. Però è stato l’Ocse, è stata l’Europa – non i comunisti, o Giulio Tremonti – ad auspicare una ridefinizione in senso liberale della categoria, illuminando ogni tipo di barriera all’accesso alla professione e quindi anche l’esame di Stato. Le cose si possono fare in cento modi, certo: basti pensare alle «lenzuolate» liberalizzatorie di Bersani. Ma, nel frattempo, gli avvocati restano una casta. Pardon: una lobby. Possono resistere, ma questo sono. E prima o poi dovranno cedere.

I MAGISTRATI SONO UNA CASTA!

Art. 102.

La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari (funzionari dello Stato) istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

Art. 103.

Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.

La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.

I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.

Art. 104.

La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. (Ordine, non potere).

SERVIZI PUBBLICI E SPESA PUBBLICA: SACRIFICI, MA NON PER TUTTI.

Parola d’ordine: risparmiare. È in vigore la spending review, il decreto del governo Monti che taglia le spese eccessive. No! No si toccano gli sprechi o i privilegi delle caste, compresa la più onerosa: la magistratura. Ferie di quasi 2 mesi e stipendi esorbitanti. No! Si tagliano ospedali e tribunali. La spending review prevede il taglio di tre miliardi di euro per il fondo sanitario nazionale nel 2012-2013, con un miliardo in meno quest’anno e due miliardi a partire dal 2013. Per il ministro Renato Balduzzi saranno 7.000 dal prossimo anno i posti in meno negli ospedali: «una razionalizzazione», nell’ottica di raggiungere lo standard di 3,7 posti letto per mille abitanti, invece dei 3,9 attuali (secondo stime della Cgil i posti a rischio sarebbero invece molti di più: circa 80.000). Particolarmente critiche le Regioni: con questi tagli, dicono, il sistema non può reggere. Il decreto interviene anche in materia di giustizia. Stabilisce la soppressione di 37 tribunali e di 38 procure, e delle 220 sezioni distaccate esistenti in Italia. Nessun taglio agli organici, però: i dipendenti amministrativi e i magistrati saranno «redistribuiti sul territorio». La riduzione degli uffici giudiziari comporterà risparmi di spesa, pari a circa 3 milioni di euro per il 2012, 17 milioni per il 2013 e 31 per il 2014. La crisi c’è per tutti, ma non per i magistrati: si sono aumentati lo stipendio del 5%. La crisi non è uguale per tutti. La retribuzione di giudici e pm scongelata dopo un pronunciamento della Corte Costituzionale. Aumenta del 5 per cento lo stipendio dei giudici. In media, circa 8 mila euro all’anno in più. I magistrati, insomma, non conoscono crisi. Anche perché l’ha stabilito la Corte costituzionale. Cioè altri giudici. Si tratta di un incremento del trattamento economico complessivo, da maturare entro il 2014 ma con effetto retroattivo dal 2012. Nel 2010, infatti, il governo Berlusconi aveva congelato per 5 anni gli aumenti per le toghe, con la Finanziaria che mirava a risparmiare un po’ di soldi. Ora, però, dopo ricorsi in tutte le sedi (Tar compreso), la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo quel provvedimento. E il decreto è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Nella motivazione della Corte costituzionale si legge che il blocco dell’aumento degli stipendi è “una violazione del principio di indipendenza della magistratura, in quanto le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, i quali finirebbero con il controllare, in maniera arbitraria, la magistratura e, quindi, a comprometterne l’indipendenza”. Giusto per fare un esempio, un magistrato della Corte dei Conti che nel 2011 ha guadagnato 174.690 euro, dal 2012 incassa 182.287 euro. Alla faccia della crisi.

Una Casta intoccabile. Magistrati, ok all'aumento dello stipendio: le toghe guadagneranno 8 mila euro in più. Il Cav nel 2010 bloccò l'incremento del 5% della busta paga fino al 2015. Ma la Corte Costituzionale (e Monti) sbloccano tutto e riempiono le tasche dei magistrati, scrive Ignazio Stagno su “Libero Quotidiano”. Si può tagliare tutto in nome dell'austerity. Ma non toccate gli stipendi dei magistrati. Quelli devono crescere nonostante il blocco agli aumenti che la finanziaria del 2010 aveva previsto per le buste paga delle toghe. Una sentenza della Corte Costituzionale ha ribaltato la decisione dell'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti che aveva chiuso i rubinetti delle casse togate fino al 2015. La decisone fu presa dal governo Berlusconi per risparmiare qualcosa nelle casse dello stato strozzate da spread e debito pubblico. Il provvedimento prevedeva un blocco dell'aumento del 5 per cento per 5 anni. I giudici sono subito entrati in guerra con ricorsi al Tar e richiami alla Corte costituzionale che li ha accontentai. Un decreto del presidente del Consiglio, firmato Mario Monti si dà semaforo verde all'aumento degli stipendi con retroattività fino al 2012. Una decisone quella della Corte Costituzionale che testimonia come la busta paga delle toghe sia ritenuta inviolabile. A sostenerlo è proprio la Corte Costituzionale.  Per la Corte il blocco dell'aumento è un attentato all'indipendenza dei giudici, "una violazione del principio di indipendenza della magistratura, in quanto le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, i quali finirebbero con il controllare, in maniera arbitraria, la magistratura e, quindi, a comprometterne l’indipendenza". Dunque le buste paga dei magistrati sono intoccabili e inviolabili. Così grazie alla sentenza e al decerto del Loden un magistrato che nel 2011 guadagnava 174 mila euro all'anno, ora ne guadagnerà 182 mila. Insomma 8 mila euro in più in tempo di crisi non sono pochi.  Inoltre le toghe godranno ancora di un “indennità giudiziaria”. Si tratta di un importo fisso che tutti i magistrati percepiscono in misura eguale, cioè a prescindere dal grado di carriera che, stando al legislatore, viene corrisposta in relazione agli oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività. Secondo la Corte questa indennità costituisce “compenso all'attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell'apparato della giustizia”. L'indennità corrisponde ad un sesto della busta paga. La percepiscono tutti. Pure chi non lavora in condizioni disagiate. La magistratura potrebbe dunque non avere nessun interesse ad avere una giustizia efficiente perchè sistemate le carenze verrebbe meno il diritto ai quattrini perchè si possa far fronte alle carenze strutturali.  Eppure, già nel 1992, Giuliano Amato aveva messo mano alla busta paga dei magistrati. Anche quello era un periodo di austerity. Le cose erano andate per il verso giusto. ora invece le toghe si aggrappano allo stipendio con le barricate. Sono state accontentate. La busta paga, come la legge, non è uguale per tutti.

Consulta: "Niente tagli a stipendi di giudici e manager pubblici". Vietato toccare i privilegi della magistratura e gli stipendi dei manager statali. La Consulta: "Incostituzionali". Perché i sacrifici sono chiesti solo ai cittadini? Scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Guai a toccare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Non possono essere sforbiciati nemmeno di un centesimo. Mentre la crisi economica fa schizzare alle stelle il numero dei disoccupati e l'Unione europea chiede, contestualmente, al nostro governo sempre maggiori sacrifici che vanno a pesare sui portafogli dei contribuenti, la Corte costituzionale ha stabilito che le retribuzioni dei magistrati non possono essere abbassate. Non solo. La Consulta si è anche opposta anche alla riduzione dei dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90mila euro lordi all'anno. "Il Parlamento decide in modo sacrosanto di mettere dei limiti a stipendi fuori da ogni logica - tuona la Lega Nord - e la vera casta si difende". Altro che la casta dei politici. In parlamento, per lo meno, qualche taglio di facciata lo stanno facendo. Nei tribunali e nella pubblica amministrazione, invece non si può. A difendere i privilegi dei giudici e i maxi stipendi dei manager pubblici ci ha pensato la Consulta con due sentenze che legano le mani al governo in tema di spending review e che sono destinate a far sicuramente discutere. "I tagli sulla retribuzione dei magistrati previsti dal decreto legge sulla manovra economica 2011-2012 sono incostituzionali", ha spiegato la Corte stabilendo, appunto l’illegittimità del decreto nella parte in cui dispone che ai magistrati non vengano erogati gli acconti per il triennio tra il 2011 e il 2013 e il conguaglio del triennio tra il 2010 e il 2012 e nella parte in cui dispone tagli all’indennità speciale negli anni 2011 (15%), 2012 (25%) e 2013 (32%). Non solo. La Consulta ha, poi, azzerato i tagli per i dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90mila euro lordi all'anno (-5% per la parte eccedente questo importo) e 150mila euro (-10%) dal momento che, come già sostenuto dal Tar, la norma introdurrebbe "un vero e proprio prelievo tributario a carico dei soli dipendenti pubblici". Per la Consulta un’imposta speciale prevista nei confronti dei soli dipendenti pubblici viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta dal momento che il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. Morale? La Consulta arriva addirittura a proporre al legislatore rimodulare i tagli con "un universale intervento impositivo", andando quindi a colpire tutti i cittadini. Contro la Consulta si è subito levata una selva di critiche da parte della politica. Ad attaccare duramente i giudici della Corte costituzionale sono stati soprattutto i parlamentari leghisti secondo i quali "non è possibile che si voglia trasformare la nostra Repubblica in una regime governato" dalle toghe. Il responsabile del Dipartimento Fisco, Finanze ed Enti Locali, Massimo Garavaglia, ha chiesto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di intervenire per "eliminare questa vergogna". "Non si può chiedere alla gente di andare in pensione a settant'anni e di vedere aumentare disoccupazione e crisi per rispetto dei vincoli europei - ha concluso l'esponente del Carroccio - quando poi i cosiddetti dirigenti dello Stato, veri e propri burocrati nel senso peggiore del termine, continuano ad avere privilegi ingiustificati".

Gli stipendi pubblici non si tagliano, parola di giudici, scrive Lorenzo Dilena su “L’Inkiesta”. La Corte Costituzionale ha detto no: il taglio degli stipendi pubblici sopra i 90 mila euro è illegittimo. Una raffinata sentenza per dire che sarebbe come mettere una tassa su alcuni mentre su altri (i privati) no. A noi resta la sensazione che, in questo paese, la revisione della spesa abbia troppi nemici potenti. Ma che cosa bisogna fare per tagliare la spesa pubblica e risanare questo Paese? Lo chiediamo ai signori giudici della Corte Costituzionale. I quali hanno appena deciso che sono incostituzionali i tagli agli stipendi dei dirigenti pubblici superiori a 90mila euro, decisi con decreto legge 78 del maggio 2010 (v. sentenza 223 del 2012). Qualcuno se ne ricorda ancora? Era una delle poche decisioni ragionevoli che ogni tanto spuntavano nelle manovre governo Berlusconi: un taglio del 5% per la parte compresa fra 90mila e 150mila euro, e del 10% oltre i 150 mila euro. E invece no: la scelta di tagliare gli stipendi, cosa peraltro fatta in diversi paesi europei, comporta un «irragionevole effetto discriminatorio». Idem per il blocco degli incrementi automatici per i magistrati, per i quali si configurerebbe addirittura una lesione dell’autonomia e indipendenza. Senza farla troppo lunga con le disquisizioni giuridiche, di cui peraltro siamo men che incompetenti, la cosa viene spiegata così: poiché la riduzione dello stipendio viene imposta, si tratta di tributo, indipendentemente da come viene chiamato. Perciò, limitarlo ai dipendenti pubblici vìola il principio della parità di prelievo a parità di capacità contributiva. Se la riduzione fosse stata estesa a tutti i cittadini con reddito superiore a 90mila euro (= aumento Irpef), non ci sarebbero stati problemi. Giustizia è fatta? Per i giudici lo Stato deve garantire «il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza». La coerenza giuridica è salva, i conti dello Stato e il senso di equità possono aspettare. La decisione ha tutta l’aria di uno di quei casi in cui la somma giustizia diventa ingiustizia. Nel decidere che il taglio alle retribuzioni di dirigenti pubblici e magistrati è in sostanza un’imposta, con tutto quel che ne consegue, la Corte ha fatto una scelta. Avrebbe potuto farne altre? Di sentenze “innovative”, se non creative, in questi anni ne abbiamo lette tante. Stavolta, evidentemente, nessuno ha pensato che l’«irragionevole effetto discriminatorio» non è nient’altro che l’equivalente delle riduzioni salariali che si vedono nel mondo privato. Ma forse la Corte immagina un governo che si siede al tavolo con i sindacati e dichiara migliaia e migliaia di esuberi per arrivare magari a un “contratto di solidarietà”: taglio agli stipendi in cambio di una riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti pubblici. Questo sì che sarebbe ragionevole, no? Ma quando la Corte prende una decisione, c’è poco da discutere: la questione si chiude lì. Ora la grana è tutta del governo Monti ma anche dei cittadini, su cui potrebbe ricadere il costo della suprema giustizia della Consulta. A meno che non si trovi il modo di riconfigurare giuridicamente il taglio. A noi resta la sensazione che, in questo paese, la riduzione della spesa pubblica abbia troppi, potenti nemici. Specialmente quando si toccano i “mandarini” dello Stato. Specialmente fin quando la logica (per carità, impeccabile) di difesa dei privilegi continuerà ad andare a braccetto con un apparato pubblico elefantiaco, costoso e incapace di fornire servizi accettabili. Ma tutto questo è legittimo e non discriminatorio: e quindi ragionevole, anche se ci sembra assurdo.

PARLIAMO DELLE TOGHE IN FERIE.

«E così l’onorevole Mazziotti (Andrea Celso, deputato di Scelta Civica) vuol ridurre le ferie ai magistrati... Che ne penso? Beh, che si può fare». Francesco Nitto Palma, presidente della commissione Giustizia del Senato, è uno di qui politici a cui piace procedere con cautela, SCRIVE Enrico Paoli su “Libero Quotidiano”. Del resto le esperienze professionali, maturate in magistratura, e quelle politiche, accumulate dentro al Pdl, gli hanno insegnato che il passo deve essere sempre commisurato alla lunghezza della gamba. E siccome non conosce nel dettaglio la proposta dell’esponente di Scelta Civica, prima intervista noi e poi dice la sua. Dunque rapido riassunto per i distratti. Giovedì il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, lancia la proposta di ridurre le ferie ai magistrati. Secondo il calendario delle toghe, che non combacia con quello dei comuni mortali, l’attività si ferma dal primo agosto al 15 settembre. Ovviamente l’inizio del mese è solo indicativo, visto che  molti giudici sono già in vacanza. L’onorevole Mazziotti, che aveva presentato un emendamento al decreto del Fare, anticipa a Libero la proposta di legge depositata ieri. Taglio delle ferie e una corposa serie disposizioni per accelerare la giustizia civile, che incide pesantemente sulla vita degli italiani. «Certo non sono quindici o venti giorni in meno che cambieranno le cose», spiega il senatore del Pdl Nitto Palma, «però si tratta di un adeguamento necessario. Lo spirito con il quale era stata scritta la legge del 1969 (che dà diritto ai magistrati a oltre 50 giorni di ferie, ndr) è stato ampiamente superato dai fatti. Quei quindici giorni  in più rispetto alla media sono solo un privilegio e non una necessità». Dunque il senatore Nitto Palma è pronto a sottoscrivere, dopo averla letta e studiata, la proposta di legge del collega di Scelta civica? «Dico che si può fare». Eppure l’onorevole Mazziotti, proprio a Libero, ha detto che il Pdl «ha qualche remora nell’affrontare la materia». Come se fosse una questione di lobby. «Sono contento che l’esponente montiano sostenga questo», afferma l’ex ministro della Giustizia, «è la dimostrazione che il Pdl non  ha nessuna posizione preconcetta nei confronti delle toghe. Le maggiori resistenze al mantenimento dell’attuale status quo dei magistrati arrivano dal Pd, non da noi. Quindici giorni  in più di vacanza a cosa servono? Sono un privilegio inaccettabile o una necessità? Basta rispondere a questa semplice  domanda e si chiarisce tutto». E, tanto per comprendere quanto sia importante questa iniziativa parlamentare, l’onorevole Mazziotti, depositando la proposta di legge ha spiegato che l’accelerazione della Cassazione sul processo Mediaset per Silvio Berlusconi «è stata dovuta proprio alla sospensione feriale». E poi dicono che non c’è stato un «avviso» da parte della «stampa amica». Tornando alla proposta di legge, e all’aspetto politico della questione,  anche l’ex ministro Stefania Prestigiacomo si è detta pronta a sottoscrivere l’iniziativa parlamentare di Mazziotti.  «Non è più concepibile che mentre tutto il Paese è in affanno con i problemi di un’economia in recessione che stenta a ripartire», sostiene l’esponente del Pdl, «la giustizia chiude i battenti e se ne va in vacanza per un periodo così lungo. Il sistema giudiziario ha bisogno di essere riformato, e presto, in tutti i suoi aspetti perché così com’è oggi non funziona, non è efficiente e non è all'altezza degli standard europei. Una realtà che, a maggior ragione in questo difficile periodo, il Paese non si può assolutamente permettere». Altro che Pdl «titubante». Se l’esponente montiano andava cercando degli alleati li ha già trovati. Del resto come ha spiegato il primo firmatario della proposta di legge, il responsabile Giustizia di Scelta civica, «non si tratta di togliere le ferie, basta stabilire dei turni in modo da assicurare che a settembre ci sia un funzionamento pieno così come la prima settimana di agosto». Altro che guerra ai magistrati e voglia di persecuzione. Le toghe e i 51 giorni di ferie: confessioni di un magistrato. Se ne vanno in vacanza a fine luglio e tornano il 15 settembre: parla il giudice Cappello con Annalisa Chirico su “Panorama”.

Alessandro Apostoli Cappello, presidente della sezione penale del Tribunale di Padova, andrà in ferie a fine luglio e rientrerà in ufficio il 15 settembre, salvo una settimana di turno a Ferragosto.

Presidente, non sono troppi 51 giorni di ferie?

È un “privilegio” antico, fondato sulla presunzione che un magistrato, seppure in ferie, ha spesso del lavoro da smaltire. Alle ferie assegnate a ogni altro dipendente pubblico si sono aggiunti 15 giorni. Si tratta di una presunzione, che in quanto tale lascia il tempo che trova. Sicuramente ci sono magistrati che in ferie non staccano del tutto. Ma sono solo alcuni casi e non è facile individuarli.

Con quasi 9 milioni di procedimenti pendenti, non si potrebbero ridurre queste ferie?

La rinuncia ai 15 giorni avrebbe un impatto positivo sull’arretrato, pur non essendo di per sé risolutiva. Si potrebbe ridurre ad un mese il periodo di sospensione dell’attività, che va dal 1° agosto al 15 settembre. Probabilmente gli avvocati non sarebbero d’accordo.

Da qualche parte bisognerà pure cominciare.

Sono d’accordo. Non deve essere un alibi per non far nulla.

Con gli automatismi di carriera i magistrati, sgobboni o pigroni che siano, percepiscono gli stessi stipendi.

E’ un problema più avvertito di quanto non si creda.

Il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha tentato di introdurre un criterio di valutazione per i magistrati, ma il Csm lo ha stroncato.

Quella proposta era meritoria. Si è detto di un rischio di interferenza perché sarebbe spettato ai giudici  valutare i pm. Tale rischio però sussiste già oggi a causa della unitarietà delle carriere. Io non sono contrario alla separazione.

VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA, LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.

DALLE TOGHE DEI LEGULEI ROSSE A QUELLE BIANCHE, DALLE TONACHE DEI PRETI ROSSE A QUELLE BIANCHE, DALLE AULE DEI "MASTRI" O "PROF" ROSSE A QUELLE BIANCHE.

DALLE TOGHE DEI LEGULEI ROSSE A QUELLE BIANCHE.......

Desirèe Di Geronimo vittima dei corvi o della politica? Alta tensione, chi tocca i fili muore; in sostanza, quando si mettono le mani su vicende che scottano e che hanno tutta l’aria di essere poco pulite, succede che si rischia di turbare certi equilibri tra politica e malaffare. I giornali esprimono differenti opinioni sul comportamento del sostituto procuratore della Repubblica che ha avuto l’ardire di osare di dubitare della buona fede di personaggi legati al Presidente della Giunta Regionale, il comunista Nicola Vendola. La Di Geronimo, da inquirente a inquisita e questo su sollecitazione di togati di “area” per punire la loro collega, rea di aver espresso perplessità sul comportamento del giudice barese Susanna De Felice che aveva assolto Vendola. Al Tribunale di Bari comandano forse i togati di “area”? Significa che sono politicamente schierati? Sarebbe questa la Giustizia uguale per tutti? E il CSM non è anche espressione della politica? Il pesce come si è soliti dire, puzza dalla testa, e se nei tribunali tra corvi e  veleni si è scatenata una rivolta, i cittadini possono ancora credere in una Giustizia giusta a due binari? Il Parlamento deve urgentemente predisporre una commissione d’inchiesta finalizzata a riportare serenità tra i magistrati il cui compito è quello di essere imparziale e di non ritenersi padroni di vita e di morte. E’ urgente la riforma della Giustizia e la separazione delle carriere. Basta con l’accanimento giudiziario nei confronti di nemici politici da eliminare. Abbiamo compreso poco nella vicenda Di Geronimo-Bretone contro Susanna De Felice difesa dai togati di “area”, ed avendo come motivo della contesa l’assoluzione di Vendola da una pesante accusa. Ricordo solo per la cronaca che in questi tempi recenti nel tribunale di Bari non si è respirata aria salubre. In attesa che le vicende si chiariscano esprimiamo la nostra convinta solidarietà alla Dott.ssa Desirèe Di Geronimo  autrice di tante inchieste coraggiose, scrive Lucio Marengo su Made in Italy.

La Pm che ha indagato sull’ex assessore alla Sanità della Regione Puglia Alberto Tedesco si sentiva isolata dai suoi stessi colleghi, scrivono Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E oggi che a Lecce appare come parte offesa, è interessante leggere le dichiarazioni di Desirèe Digeronimo agli ispettori del ministero della Giustizia: gli stessi che hanno ritenuto «non sussistente» l’ipotesi di dissapori in Procura a Bari. E che l’accusano di non essersi astenuta, visti i suoi rapporti con una delle amiche più strette di Lea Cosentino, ex manager della Asl Bari indagata. Ma il procuratore di Lecce Motta e l’aggiunto De Donno la vedono in modo diverso, tanto da contestare al Pm Giuseppe Scelsi l’abuso d’ufficio: avrebbe intercettato Paola D’Aprile proprio per «incastrare» la Digeronimo. Il racconto parte nell’estate 2009, quando inizia un «bombardamento mediatico» anche nei suoi confronti: «Infuriava una campagna di stampa sulla vicenda Tarantini che mi preoccupò non poco per il clima di sovraesposizione, e ritenni pertanto opportuno (...) avvertire il procuratore delle intercettazioni tra il Tedesco e il fratello di Pino Scelsi, poiché emergeva dalla mia indagine un conflitto acceso tra i Tarantini e Tedesco, e che il dottor Michele Scelsi, fratello del collega, si lamentava con Tedesco di alcune scelte in materia sanitaria effettuate dalla Cosentino, all'epoca direttore generale dell'Asl Bari, indagata dal collega e da me unitamente al Tedesco». Dicevamo dell’isolamento. «Dall'estate del 2009 e sino a quando ho iniziato a collaborare con i colleghi Bretone e Quercia (...) sono stata completamente isolata dagli altri colleghi e pertanto, non ho avuto più rapporti con loro, come ad esempio con Scelsi, la Pirrelli, la Iodice, persone con le quali maggiormente mi confrontavo in merito a questioni lavorative, perché eravamo amici, anche per la comunanza correntizia («Magistratura democratica). A un certo punto ho capito che l'indagine sull'assessorato alla Sanità, che coinvolgeva il Tedesco, esponente del centrosinistra, verosimilmente aveva inciso sui miei rapporti con loro. Ho chiesto formalmente, anche a seguito di ciò, la cancellazione dalla mia corrente». E come esempio del clima la Digeronimo ricorda l’episodio in cui la collega Iodice le negò l’accesso ad alcune intercettazioni «con allegato il parere dei due procuratori aggiunti Drago e Di Napoli». «Molto spesso apprendevo dalla stampa dell'esistenza di elementi utili per le indagini in corso su Tedesco». E poi le intercettazioni della D’Aprile. Dopo una cena con la Gdf, Laudati «mi fece ascoltare la registrazione di una conversazione tra me e la D'Aprile e mi chiese di chiarire alcune circostanze rilevabili dal colloquio». E così in Procura cominciano i veleni: «Nella stessa circostanza in cui Laudati mi fece ascoltare la conversazione di cui sopra, mi disse, sempre informalmente, che Scelsi aveva diffuso in ufficio pettegolezzi sul mio conto dicendo che io e Marzano lo avevamo pressato per archiviare il procedimento a carico della Cosentino (...). Inoltre, gli evidenziai che la Cosentino era ancora indagata nel mio procedimento». Poi, dice la Digeronimo, ne parlò con Scelsi: «Gli dissi come mai gli era venuto in mente di mettere in giro voci del genere sul mio conto, prive del tutto di fondamento. Lui ha farfugliato che “si era dovuto difendere perché, dopo l'arrivo di Laudati, gli erano stati contestati errori nelle indagini”».

C'è la prova: le toghe rosse hanno in mano la politica. Fioroni rivela: l'Anm ha premuto perché ritirassi la candidatura in commissione Giustizia della Camera per far posto alla Ferranti. Poi le strane smentite, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. La legge del contrappasso colpisce l'Anm. Mentre protesta a gran voce contro il Pdl che «delegittima» i magistrati sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, ecco che le scoppia in casa la bomba Fioroni. A dimostrazione delle sue logiche di potere e delle pretese di condizionare la politica. La nota dell'Anm critica le «espressioni violente e offensive, estranee a ogni legittimo esercizio del diritto di critica» contro i magistrati e richiama gli inviti di Giorgio Napolitano ad evitare conflitti. Nella stessa giornata Beppe rivela (ma poi in serata smentisce) di telefonate avute dal sindacato delle toghe per garantire un posto chiave in parlamento a un'esponente di Magistratura democratica: Donatella Ferranti, ex segretario generale del Csm. Nel caos che regna nel Pd sul dopo-Bersani, Fioroni doveva fare il presidente di commissione ma è costretto al passo indietro. «Mi hanno detto - racconta a Repubblica- o ci sei tu o c'è la Ferranti. Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. "Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia. Sa, con Nitto Palma al Senato...". E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». Segue scambio di sms, sempre rivelato dall'esponente Pd, con il premier Enrico Letta che gli chiede se è «contrariato» e l'ex-Ppi che gli promette di contrariarlo sabato all'assemblea del partito. La storia suscita una sfilza di domande inquietanti. Perché dall'Anm chiamano un Pd per una questione di posti? Perché hanno bisogno della Ferranti in commissione Giustizia della Camera? Perché, poi, Fioroni dovrebbe «obbedire» ai magistrati? In serata arriva la smentita dell'ex ministro, ieri a colloquio, sembra, col Guardasigilli Cancellieri: «Tutte le ricostruzioni sono fantasiose e infondate. Nessuna associazione, tantomeno di magistrati, ha mai parlato con me, ho condiviso la presidenza della commissione Giustizia all'onorevole Ferranti». Anche l'Anm in serata smentisce: «Mai intervenuta per condizionare l'elezione del presidente della commissione Giustizia della Camera». Dietrofront a parte, sembra che la Ferranti pensasse di avere in tasca il sottosegretariato alla Giustizia e per lei sia stato un colpo vederselo scippare da Giuseppe Berretta. Tanto più che in quota Pdl è stato scelto Cosimo Ferri, leader della corrente d'opposizione all'Anm, Magistratura indipendente. Una nomina andata di traverso al sindacato delle toghe e contestata da Md. Come quella di Palma, presentata come uno scandalo. Tutto questo dimostra quanto l'Anm pretenda di essere forza politica, pur lanciando appelli all'indipendenza e autonomia della magistratura, e pretenda di condizionare le scelte del Palazzo. Collateralismo, lo chiamano. «Se fosse vero quello che dice Fioroni - commenta al Giornale Lorenzo Pontecorvo, vicepresidente di Mi e membro del direttivo dell'Anm - sarebbe molto grave. L'associazione dovrebbe occuparsi dello svolgimento dell'attività giudiziaria, non intromettersi nelle questioni della politica, tantomeno se si tratta delle commissioni Giustizia del parlamento». Il fatto è che l'Anm, guidata dal cartello di sinistra e da Unicost, vive una crisi storica. Rappresenta forse la metà dei 9mila magistrati, se gli iscritti sono ben sotto gli 8mila, 3mila votano Mi, 300 Proposta B e tanti non partecipano. La base è in subbuglio, insofferente per il correntismo e un vertice troppo orientato a sinistra che si preoccupa di politica e non di questioni sindacali, si moltiplicano i movimenti indipendenti e Mi, uscita vittoriosa dalle urne, si trova all'opposizione.

Altro che "toghe rosse": ecco la pattuglia di magistrati che difende Berlusconi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri "comunisti". Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci sia una vera e propria pattuglia di magistrati.

E' uno dei cavalli di battaglia di Silvio Berlusconi, e non certo da oggi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri 'comunisti'. Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci sia una vera e propria pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Dopo l'ultima tornata elettorale la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato sono nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica), mentre erano diciassette nella precedente legislatura. Il partito di Berlusconi non ha mai smesso di portare in parlamento toghe di livello come l'ex ministro Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, che sono stati appena rieletti al Senato. Caliendo si è messo in luce come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, arrestato per camorra. Ancora più preziosi per Berlusconi, scrive il settimanale, sono quei magistrati che entrano nei palazzi come tecnici, come il giudice Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. "Nemica" dei pm milanesi ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di "maschilismo" chi la etichetta solo come moglie di Bruno Vespa e rivendica i suoi 35 anni di lavoro come "giudice imparziale". Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti).

Alla faccia delle toghe rosse, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Berlusconi accusa i pm 'comunisti' ma al suo fianco c'è una vera e propria pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Toghe rosse? No, azzurre. Vent'anni di bombardamenti della propaganda berlusconiana su fantomatici complotti dei giudici al servizio dei comunisti (o viceversa) rischiano di far dimenticare il ruolo e l'importanza dei magistrati che sono invece scesi in campo con il centrodestra. Con le ultime elezioni la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato, l'associazione Openpolis ne ha contati nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica), contro i diciassette della precedente legislatura. Eppure prima e dopo la campagna elettorale si è parlato moltissimo di loro. Non di tutti, però, solo di alcuni: da Piero Grasso, l'ex procuratore antimafia eletto presidente del Senato con il Pd, ad Antonio Ingroia, il pm di Palermo che dopo la bocciatura politica ora si oppone al trasferimento alla procura di Aosta. Ma anche il partito di Berlusconi non ha mai smesso di candidare e continua tutt'oggi a portare in parlamento toghe di grande esperienza come l'ex ministro Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo. Rieletti al Senato, hanno già sfornato disegni di legge assai contestati, soprattutto dai magistrati rimasti nei tribunali. Caliendo si è messo in luce come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, arrestato per camorra, e poi per una raffica di progetti di legge (al momento nove, ma di altri sette è cofirmatario) che hanno fatto rumore: dal rilancio del condono per l'abusivismo edilizio, ai nuovi illeciti disciplinari a geometria variabile per colpire i pm ritenuti politicizzati. Il bello è che nessuno ha mai accusato loro, i due ex magistrati berlusconiani, di aver fatto politica con indagini e processi, nonostante la delicatezza dei tanti fascicoli trattati. Caliendo, napoletano d'origine, è stato per più di trent'anni giudice e sostituto procuratore generale aMilano e poi in Cassazione, diventando anche capocorrente al Csm: un magistrato ascoltatissimo dal centrodestra (grazie ai buoni rapporti con ex dc come Giuseppe Gargani) ancor prima di entrare in parlamento nel 2008. Mentre Nitto Palma è stato uno dei pm di punta della procura di Roma, prima di diventare amico di Cesare Previti (l'ex ministro oggi pregiudicato) e sbarcare in parlamento nel 2001, segnalandosi subito per un tentativo di resuscitare l'immunità parlamentare totale. Oggi è il presidente della commissione giustizia del Senato. Nel lustro 2008-2013, tra i magistrati in aspettativa perché eletti, il Pd ne schierava 9, il Pdl 7 e i centristi uno. Oggi alla Camera, stando alle autocertificazioni dei diretti interessati, resistono tre giudici, equamente divisi: Donatella Ferrante del Pd, Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Ignazio Abrignani del Pdl. A ben guardare, però, quest'ultimo non è un magistrato, ma un avvocato civilista siciliano, fedele all'ex ministro Scajola, che faceva anche il giudice tributario. Al Senato invece il Pd batte il Pdl per quattro a due, con l'ex pm Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e Piero Grasso, che peraltro si è dimesso dalla magistratura appena candidato. Le due toghe azzurre in compenso pesano molto: Caliendo e Nitto Palma sono tra i pochissimi in grado di influenzare la linea di Berlusconi sulla giustizia, tema tornato urgente dopo la condanna anche in appello per le maxi-frodi fiscali sui diritti tv di Mediaset. Preziosissimo, per il miliardario di Arcore, è anche il lavoro dei magistrati che entrano nei palazzi come tecnici. Tra i più in vista c'è il giudice romano in aspettativa Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. Da sempre ostile ai pm milanesi, per replicare a una puntata di "Report" ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di «maschilismo» chi la etichetta come «moglie di Bruno Vespa» e rivendica i suoi 35 anni di lavoro, portati benissimo, come «giudice imparziale». Qualità dimostrata, per altro, già ai tempi di Tangentopoli, quando chiese di astenersi sulla richiesta di arresto per Gianni Letta e Adriano Galliani, spiegando: «Siamo amici di famiglia». Ora, nel governissimo di Enrico Letta, brilla la stella di Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia e capocorrente di Magistratura Indipendente, capace di farsi eleggere al Csm da ben 553 magistrati benché chiacchierato (ma non indagato) per le intercettazioni di Calciopoli, del caso Santoro-Mills e della cosiddetta P3. Con la nuova legislatura, intanto, il centrosinistra ha detto addio a ex magistrati del livello di Gerardo D'Ambrosio, l'ex procuratore Silvia Della Monica o il giudice-scrittore Gianrico Carofiglio, senza contare gli ex pm che avevano lasciato la toga più di vent'anni fa, come Antonio Di Pietro o Luciano Violante. Ma anche il centrodestra ha rinunciato a ex magistrati di governo come Franco Frattini e Alfredo Mantovano, avvicinatisi a Monti e non ricandidati. Per non parlare di uomini di legge come Melchiorre Cirami, l'ex giudice di Agrigento entrato in Parlamento nel '96 con l'Udc, passato nel '98 al centrosinistra con l'Udeur e rieletto nel 2001 con il centrodestra dopo il patto Cuffaro-Berlusconi: portano ancora il suo nome la versione originale del "legittimo sospetto" (per fermare i processi, bastava chiederne il trasferimento) e il comma "super-513" (per annientare i verbali d'accusa, bastava far tacere il complice), subito dichiarato incostituzionale. La fede nel Grande Sud del sottosegretario Gianfranco Miccichè (meno dell'1 per cento a Siracusa) ha tradito anche Roberto Centaro, altra toga azzurra in missione parlamentare dal 1996 al 2013: un presidente della commissione antimafia capace di polemizzare con tutte le procure, oltre che relatore della legge-bavaglio contro le intercettazioni. Incolmabile, poi, il vuoto lasciato da Alfonso Papa, ex pm di Napoli e Roma eletto nel 2008 con il Pdl: nel 2011 è diventato il primo parlamentare, dai tempi dell'esplosivista missino Massimo Abbatangelo, a entrare in carcere perdendo l'immunità. Tornato libero, Papa ha chiesto di riprendere il lavoro di magistrato, ma per ora resta imputato: in teoria dovrebbe preoccuparlo la condanna patteggiata dal suo coindagato, il piduista per sempre Luigi Bisignani, ma a suo favore gioca ancora il privilegio politico che gli ha garantito la distruzione delle prove più insidiose, le famigerate intercettazioni. Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti). Da allora Berlusconi gioca soprattutto in difesa: oggi il Pdl schiera 17 avvocati al Senato e 21 alla Camera. Ma su questo fronte il Pd post-giustizialista non teme i rivali-alleati: ha 9 legali tra i senatori e 37 tra i deputati. In totale nel nuovo parlamento, secondo i dati di Openpolis, si contano ben 105 avvocati, che a differenza dei magistrati possono continuare a fare processi (e incassare parcelle dai clienti) anche mentre hanno il potere di cambiare le leggi.

DALLE TONACHE DEI PRETI ROSSE A QUELLE BIANCHE.......

Dalle toghe rosse ai preti rossi, la litanìa è sempre la stessa: una canzone mono-nota, scrive Girolamo Fragalà su “Il Secolo d’Italia”. Dalle toghe rosse alle tonache rosse. Le pecorelle non sono tutte uguali, la carità cristiana è lasciata ai posteri (e non per l’ardua sentenza), del perdono manco a parlarne, si prega solo per alcune anime e si spera che le altre vadano dritte all’inferno, avvolte nelle fiamme. Di preti che si mettono in mostra per la loro fede più comunista che cattolica ne stanno uscendo parecchi. Militanti col pugno chiuso e poco moderati. L’ultimo in ordine cronologico è don Paolo Farinella, sacerdote della Diocesi di Genova, che è stato ospite del programma di Radio2 Un giorno da pecora. Contro chi si è scagliato? Naturalmente contro Berlusconi che «fa soldi solo con la corruzione e se ne frega della fede». Roba quasi da querela. Come se non bastasse, il “don” ha aggiunto: «Se lui non fosse così vigliacco da scappare dai tribunali e venisse fuori che è colpevole, deve andare dentro». Il tutto mentre continuano a girare a mille, sul web, le performance di don Gallo, sacerdote antagonista, fede vendoliana. Record di visualizzazioni per il video in cui si vede il prete, nella Chiesa di San Benedetto a Genova, sventolare il paramento sacro che aveva sulla tonaca come se fosse una bandiera rossa e cantare Bella Ciao. La gustosa scena è avvenuta alla fine della Messa, davanti ai fedeli. Don Gallo nel 2009 partecipò al Genova Pride e ultimamente ha dichiarato che «sarebbe magnifico avere un Papa gay». Facendo un piccolo salto indietro, ricordiamo don Giorgio, il parroco di Monte di Rovagnate, che creò un mare di polemiche per una sua frase («prego il Padreterno che mandi un bell’ictus a Berlusconi facendolo rimanere secco») che nulla aveva di cattolico. Tutti “figli” di don Vitaliano, che tutti ricordano come il prete no-global: insieme con Vittorio Agnoletto (ex parlamentare di Rifondazione comunista) piombò nella sala stampa del Festival di Sanremo munito di bandiere pacifiste. Tra chi insulta,  chi augura gli ictus e chi canta Bella Ciao sull’altare, l’unica vera vittima è la Chiesa. Che finisce per perdere credibilità a causa delle tonache rosse. Proprio ciò che sta accadendo alla magistratura a causa delle toghe rosse.

E poi ti ritrovi l'estemporaneo vescovo di provincia.

Mafiosi, niente funerali religiosi. Niente funerali in chiesa nella Diocesi di Acireale, in provincia di Catania, per chi è stato condannato in via definitiva per reati di mafia e non ha mostrato pentimento prima di morire. Lo ha stabilito il vescovo di Acireale (Catania), Mons. Antonino Raspanti, che ha promulgato un «decreto di privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia in via definitiva». Il decreto è stato illustrato dallo stesso prelato nella chiesa di San Rocco, ad Acireale, durante un incontro dal titolo «Conversazioni sulla legalità», al quale hanno preso parte il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e il Procuratore della Repubblica a Catania Giovanni Salvi. «Questo decreto è nella tradizione di tutto quello che la Chiesa siciliana, i miei confratelli vescovi, anche quella italiana, già da parecchi decenni hanno fatto, lavorando e sensibilizzando di concerto con la società civile, anche con non credenti della società civile», ha spiegato monsignor Raspanti. «Io ho voluto solo mettere - ha aggiunto il vescovo - una conseguenza che è nella logica delle cose, non è una vera e propria innovazione di ciò che la Chiesa ha pensato negli ultimi decenni». «Probabilmente l'applicazione in questo territorio è un po' più innovativa, ma io non voglio enfatizzare, pero» è un segnale netto, fermo, certo, perché vorrei che ci fosse una netta distinzione e chiarezza tra chi appartiene ad una organizzazione e chi appartiene alla Chiesa: le due cose sono inconciliabili, questo e il senso''. «Vorrei che la sensibilità nostra , di tutti, nei confronti di questi fenomeni si alzasse di molto - ha concluso Mons. Raspanti - e desidererei anche che chi aderisce a queste organizzazioni ci riflettesse meglio e potesse, come dicono Gesù e il Papa, convertirsi, cioè cambiare. Questo provvedimento è fatto solo per tentare che qualcuno cambi. E allora tutti miglioriamo».

No alla Chiesa che vieta i funerali di un mafioso, no ai pentiti. Non sono le parole di un boss, ma di una vedova di boss. “Mi chiamo Rosa Pace e sono la vedova di Mariano Agate, ex detenuto del carcere di Viterbo sottoposto al regime del 41 bis, morto per un cancro dopo un’agonia a dir poco terribile il 3 aprile di quest’anno…”. Comincia in questo modo la lettera, il cui contenuto è stato reso noto dal sito Live Sicilia. La vedova del boss mafioso Mariano Agate ha voluto protestare contro il vescovo di Mazara, monsignor Domenico Mogavero, che ha vietato anche le esequie private, dopo che il questore aveva vietato quelle pubbliche.

Era un potente Mariano Agate, “il signore del male” come lo hanno definito in tanti, “socio” dell’”Escobar” calabrese Roberto Pannunzi, custode della latitanza di Totò Riina, massone. Una strategia di potere costellata poi da delitti, omicidi eccellenti, stragi come quella di Capaci. Nel 1983 passeggiando per i corridoi del carcere di Trapani annunciò l’imminente omicidio del giudice Ciaccio Montalto, nel 1988 – imputato in Corte di Assise a Trapani – mandò a dire a Mauro Rostagno, che in tv a Trapani raccontava le sue gesta mafiose, di smetterla di “dire minchiate”. Mariano Agate, lui più di Matteo Messina Denaro, è stato “l’inventore” della mafia sommersa e della mafia che fa impresa e che però “sa sparare e sa mettere le bombe” quando è ora “di sparare e mettere le bombe”. La vedova del boss a cui sono stati negati i funerali religiosi scrive al vescovo Mogavero:

«Mi chiamo Rosa Pace e sono la vedova di Mariano Agate, ex detenuto del carcere di Viterbo sottoposto al regime del 41 bis, morto per un cancro dopo un’agonia a dir poco terribile il 3 aprile di quest’anno. Mio marito è stato destinatario, in nome della Chiesa cattolica, di un singolare trattamento a mezzo del suo rappresentante territoriale e Vescovo di Mazara del Vallo Monsignor Mogavero, il quale, pur conscio che Mariano Agate era spirato dopo aver chiesto di avere contatto con il SIGNORE a mezzo di un sacerdote e di accettare, volere e ricevere l’estrema unzione, ha ugualmente vietato che la salma venisse portata all’interno di una Chiesa, pur non opponendosi alla celebrazione in epoca successiva ad una Messa di suffragio. A seguito di una facile ed univoca interpretazione dei fatti, non posso non essere indotta a concludere che Mons. Mogavero, incurante della manifestazione di fede da parte di mio marito ed incurante della sofferenza che avrebbe inferto a me ad ai miei figli senza un motivo che potesse giustificare il comportamento medesimo nel rispetto degli insegnamenti della Chiesa Cattolica, abbia voluto adempiere ad una particolare esigenza di lancio di un improprio messaggio mediatico e giustizialista, non potendo conseguentemente escludersi che Monsignor Mogavero attendesse un evento del genere, per poter aver a disposizione una tribuna politico-mediatica dalla quale fare propaganda giustizialista, facendo di me e la mia famiglia carne da macello. E’ indubbio che Mons. Mogavero, con il comportamento da me descritto e facilmente riscontrabile non ha sentito la necessità di esercitare il ruolo di Pastore di Anime, e di seguire anche solo in parte i mirabili comportamenti manifestati da giusti Rappresentati della Chiesa, qual deve essere considerato, tra i diversi, Padre Puglisi, che ha veramente dedicato la propria vita alla fede ed ai fedeli. A questo punto, è esagerato dire che Monsignor Mogavero abbia mostrato di privilegiare l’apparire al sentire religioso! Assurdo e per niente cristiano giustificare il divieto dei funerali per persone condannate per reati di associazione mafiosa che non abbiano mai manifestato alcun cenno di pentimento. Mi chiedo cosa ci sia di più intimo del pentimento dell'essere umano; (dolore, rammarico rimorso per aver fatto delle scelte in violazioni di norme giuridiche, religiose e o morali). Essere un collaboratore di giustizia non è e non sarà mai condizione necessaria del pentimento morale o religioso di qualsiasi uomo, detenuto, criminale. La collaborazione con la giustizia è solo un mero strumento necessario ai nostri magistrati per la lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata.»

Come la mettiamo con il perdono? È questa la domanda ricorrente di chi lo ha letto. E ancora: come coniugare il perdono dell’errante e la condanna dell’errore con l’iniziativa della diocesi di Acireale di negare i funerali ad un condannato per mafia espresso chiaramente in un documento ufficiale? Insomma, una gran bella questione, dove ci si sente tirati da questa parte o dall’altra, in un ondeggiare anche di sentimenti che scuote, nel profondo, l’animo umano e non consente risposte univoche o scontate. Come non essere d’accordo sul rifiuto della Chiesa di celebrare il funerale in Chiesa per chi si è macchiato di efferati delitti? Ma nel contempo come non pensare alla dimensione del perdono e della misericordia? Avvertiamo disagio di fronte a queste posizioni e non è facile individuare un sentire comune.

E come discernere tra mafiosi palesati e palesanti e mafiosi istituzionali che, mafiosando, in più abusano dei loro poteri, con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri?

Il parroco anti camorra sconfessa il pm Woodcock. Don Merola in radio attacca la toga dell'inchiesta Cosentino: "Leggendo gli atti non ho trovato prove per dire che è un camorrista. Immorale che sia in prigione". Francesco Cramer  su “Il Giornale”. Il prete anticamorra benedice Berlusconi e Cosentino e sconsacra il pm Woodcock. È un fiume in piena don Luigi Merola, sacerdote, scrittore, cavaliere della Repubblica, una vita in trincea contro i clan dei vicoli campani. Microfono in mano, a La Zanzara su Radio 24, parla di politica. E parla chiaro: «Berlusconi? È un perseguitato, i magistrati lo perseguitano tanto». La sua è un'omelia politicamente scorretta ma genuina, specie quando parla delle toghe: «Lo perseguitano come hanno fatto con Mastella - dice il prete -. Alcuni magistrati sono politicizzati e ignoranti, devono leggere e studiare di più. Ci vuole la formazione permanente dopo il concorso». Parole sante anche se difficilmente Anm e Csm sarebbero disposti a fare mea culpa. Poi ci si aspetta che, da prete, arrivi la scomunica per lo stile di vita del Cavaliere. Ma don Merola è tutto fuorché un ipocrita: «Berlusconi - ragiona - è un peccatore come tanti altri. Sono stato a Roma tre anni per lavorare al ministero dell'Istruzione e dico che quello che fa Berlusconi lo fanno tutti, politici di sinistra e di destra, alti funzionari e magistrati. Tutta gente che ha la seconda, la terza e la quarta amante da cui si fanno accompagnare con l'auto blu. Farò nomi e cognomi». E ancora, per l'ex premier arriva il segno della croce: «Berlusconi lo assolvo per il fatto che fa mangiare 80mila famiglie in Italia. Lo perdono con l'assoluzione per qualsiasi cosa abbia fatto». Una vita a raccattare gli ultimi alla stazione centrale di Napoli; una quotidiana battaglia contro l'usura e contro i clan; una guerra aperta alla criminalità organizzata tanto che in un'intercettazione un camorrista disse: «Lo ammazzerò sull'altare». Don Merola la malavita la conosce bene. La tiene sotto controllo, la combatte, la studia. E studia le carte processuali. Tutte. Senza lenti ideologiche. Ecco perché, quando gli chiedono del conterraneo Nicola Cosentino, ex sottosegretario pidiellino diventato simbolo degli impresentabili, don Merola anche questa volta spiazza tutti: «Leggendo gli atti che riguardano Cosentino, mi sono fatto l'idea che non ci sono le prove per dire che è camorrista e per stare in carcere». E quindi «è immorale e ingiusto che sia in prigione, non può inquinare le prove perché si è costituito e il procedimento è chiuso». Naturalmente il sacerdote non può non parlare anche di Henry John Woodcock, uno dei pm titolari dell'inchiesta: «Woodcock lo considero di estrema sinistra, ho saputo che è diventato magistrato dopo due bocciature al concorso. Come prete vengo a sapere tante cose, Woodcock potrà essere preparato sullo sport ma sul diritto deve studiare un po' di più». Prete di strada, don Merola è solito dire pane al pane e vino al vino. Chiama le cose con il loro nome. E per questo è stato inviso alla sinistra. Sul sindaco di Napoli, per esempio, era stato tranchant: «De Magistris a Napoli ha fatto due cose: ha chiuso il centro storico e fatto la pista ciclopedonale, manco fossimo nella Pianura padana. Ma purtroppo non ascolta nessuno. Noi napoletani non sappiamo a che santo dobbiamo votarci, ma saremo proprio noi, alla fine che salveremo Napoli». E non aveva risparmiato neppure Grillo: «Non lo capisco: è un fenomeno tutto italiano. Come si fa a non avere nessun rispetto delle istituzioni, come si fa a dire arrendetevi a chi rappresenta l'Italia? Vogliamo costruire qualcosa o soltanto opporci?». Amico di Caldoro e di Francesco Nitto Palma, don Merola era stato in predicato di diventare parlamentare con la casacca del Pdl. Era pure stato a palazzo Grazioli per un'ora di colloquio con Berlusconi. «Mi ha offerto un seggio per portare avanti le mie battaglie. Ma poi ho detto di no vedendo le liste». Al suo niet fu subito corteggiato da Luca Cordero di Montezemolo ma anche a lui disse niet. E spiegò: «È inutile discutere sul Cosentino sì o Cosentino no. La colpa è del porcellum. Se i cittadini potessero scegliere direttamente questo non succederebbe, invece a scegliere sono i segretari dei partiti».

E che dire di Don Gallo che durante le sue funzioni religiose in chiesa cantava "Bella Ciao" con l'apoteosi rossa ai suoi funerali.

Dopo i porno-funerali di Gallo, autopsia di una Chiesa suicida, nella persona di Bagnasco Angelo, scrive  Don Ariel S. Levi di Gualdo su “PapalePapale”.

Durante il funerale:

“Bandiera rossa la trionferà… “. Ormai ci riesce solo nelle chiese cattoliche.

Preti, vestiti come fosse carnevale, vanno ai funerali di don Gallo.

Pure i comunisti sfottono il presidente dei vescovi italiani.

La segretaria di don Gallo interrompe l’omelia di Bagnasco, già interrotta dai cori di Bella Ciao e Bandiera rossa in chiesa.

Il funerale di don Gallo è diventato possibilità di “comizio” per tutti.

La demagogia clericale di don Ciotti sale sul pulpito.

E Luxuria parlò…

Tutti a rendere omaggio a don Gallo. Ma il fumo di un sigaro sostituisce l’incenso.

Bagnasco e la scena che ha fatto il giro del web: Comunione a Luxuria.

L’abominio della desolazione: le chiese ridotte a discarica abusiva del monnezzaio ideologico del mondo.

L’abominio della desolazione.

«LA SFIDA DELL’OBBEDIENZA NELLA FEDE: PER UN PRETE, PROTEGGERE UN VESCOVO, VUOL DIRE TUTELARE LA CONTINUITÀ STESSA DEL MISTERO SACRAMENTALE DELLA CHIESA.

Non nascondo disagio all’idea che Angelo Bagnasco sia il presidente di quei Vescovi d’Italia che a loro volta sono vescovi nostri. Rendendo però grazie ai doni dello Spirito Santo che molti sacerdoti hanno accolto veramente all’atto sacramentale della loro ordinazione, la nostra grazia di stato ci permette di separare l’uomo dall’ufficio apostolico che è chiamato a ricoprire, accettando e facendo nostra la sfida che spesso si pone dinanzi a noi: obbedire in coscienza e libertà anche le diverse mezze figure che popolano il collegio episcopale, nelle quali risiede il deposito della pienezza del sacerdozio apostolico e per questo meritevoli di sacro rispetto, non per ciò che umanamente sono, ma per ciò che rappresentano sul piano metafisico per l’ineffabile ministero sacerdotale istituito dal Signore Gesù. Ciò rende anche i vescovi più limitati e inadeguati dei legittimi continuatori della catena apostolica e come tali oggetto di dovuta venerazione, all’occorrenza anche di protezione; dovesse costare la nostra stessa vita, perché per un prete, proteggere un vescovo, vuol dire tutelare la continuità stessa del mistero sacramentale della Chiesa.

ANDREA GALLO: UNA PUBBLICA VERGOGNA DEL SACERDOZIO CHE HA SPOSATO TUTTO CIÒ CHE ERA IN CONFLITTO CON LA MORALE LA TEOLOGIA E LA DOTTRINA DELLA CHIESA

Il 22 maggio 2013, ricevendo notizia della morte del presbitero genovese Andrea Gallo, scrivendo su un pubblico forum di discussione informai amici e conoscenti che il giorno dopo avrei celebrato una Santa Messa di suffragio per lui, senza omettere di indicarlo appresso come una autentica vergogna del collegio sacerdotale. Andrea Gallo ha trascorso la vita a sposare e sostenere tutto ciò che è in aperto conflitto con la teologia, la morale e la dottrina sociale della Chiesa, ma soprattutto in aperto conflitto col Vangelo. Che egli abbia assistito i poveri e i disagiati, non fa di lui né un vero cristiano né un vero annunciatore del Vangelo. Se difatti così fosse, ogni filantropo ateo potrebbe costituire un modello di cristiano ideale, o come avrebbe detto quell’altro intoccabile seminatore di confusione di Karl Rahner: un “cristiano anonimo”. Alla santità e alla saggezza del padre della Rerum Novarum, il Sommo Pontefice Leone XIII che dette con essa vita alla Dottrina Sociale della Chiesa, Andrea Gallo ha preferito Hegel e Marx. Tutto ciò che la Chiesa dichiarava moralmente illecito lui lo dichiarava lecito, sempre e di rigore con critiche per nulla larvate, mirate non verso certe note aberrazioni dei clericali e del clericalismo, ma con critiche spesso accese e distruttive verso il magistero della Chiesa e dei suoi Sommi Pontefici, la dottrina e l’etica cattolica. E’ stato un elemento di scandalo e soprattutto di divisione il povero Andrea Gallo, basti pensare quando al termine di una Santa Messa cantò “Bella Ciao” sventolando un fazzoletto rosso.

PER NOI PRETI NON ESISTONO FASCISTI E COMUNISTI MA SOLO UOMINI E FIGLI DI DIO, NOSTRO DOVERE È ACCOGLIERE TUTTI COLORO CHE DESIDERANO ACCOGLIERE CRISTO

Come sacerdoti noi dobbiamo accogliere tutti coloro che intendono veramente accogliere Cristo, cosa che molti nostri confratelli hanno fatto in periodi drammatici della nostra storia patria italiana. Molti preti hanno accolto — alcuni pagando persino con la vita — l’accoglienza e la protezione data ai partigiani rossi mossi da ideali comunisti e ai partigiani bianchi d’ispirazione cattolico-popolare e liberale. Abbiamo accolto e nascosto i giovani socialisti ricercati dalla polizia fascista direttamente dentro il palazzo di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di Roma. Allo stesso modo abbiamo accolto i giovani fascisti e i giovani della Repubblica di Salò, quando all’apertura dei conti rischiavano il massacro da parte di coloro che per vent’anni avevano subìto le angherie del regime fascista. Per i santi preti che grazie a Dio l’Italia ha conosciuto in anni purtroppo ormai lontani, erano da proteggere dall’ira i ventenni manganellati dai fascisti e i ventenni diventati repubblichini di Salò che alla caduta del regime e dopo l’uccisione di Benito Mussolini rischiavano più o meno analoga fine. Questo è il prete, questo è il sacerdozio. Non dovrei spiegarlo io al Presidente dei Vescovi d’Italia, che noi siamo servi istituiti a servizio della Chiesa di Cristo e dell’uomo, di ogni uomo, per la salvezza dell’uomo. Il presbitero Andrea Gallo è stato un paradigma di prete ideologizzato a servizio dell’ideologia, che per propria natura è escludente; che non guarda all’uomo ma al “credo” politico al quale appartiene o dice di appartenere l’uomo. E avere usato il pretesto del Vangelo per simili scopi, è di per sé cosa malvagia e perversa. Nonostante che le autorità ecclesiastiche abbiano scelto di cedere all’immagine mediatica e di soprassedere su tutto questo, camuffandosi dietro al dito medio di una non meglio precisata misericordia e carità, basate l’una e l’altra — cosa sempre più dimenticata — sulla giustizia e sulla verità, all’occorrenza anche sulla giusta pena, come indica il Signore nel Vangelo.

ANDREA GALLO E LA MANCATA PERCEZIONE DELLA DIVINA DIGNITÀ SACERDOTALE: INDOMITO E IMPUNITO HA TRASCORSO LA VITA A DIVIDERE ANZICHÉ A UNIRE, FACENDO USO DISTORTO DEL VANGELO PER SUPPORTARE L’IDEOLOGIA MARXISTA, IL TUTTO SOTTO GLI OCCHI DELL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA IMPOTENTE

Della verità noi siamo servi e non padroni: «Tu non possiedi la Verità, è la Verità che possiede te» [Cf. S. Tommaso d’Aquino, De Veritate, 1257]. Sia chiaro: la grazia, la misericordia e il perdono di Dio costituiscono tutti assieme un mistero che valica di molto ogni giudizio umano, che di rigore non va dato perché non spetta all’uomo giudicare la coscienza dell’uomo. Compito nostro non è condannare con l’arrogante spirito di chi si sostituisce al giudizio di Dio pensando di poter leggere dentro l’intimo delle coscienze altrui. Compito e dovere nostro è indicare sempre con decisa amorevolezza al Popolo di Dio ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è lecito e ciò che invece è disordinato o intrinsecamente malvagio. La Chiesa mater et magistra [Cf. Giovanni XXIII, 15 maggio 1961] ci indica e ci insegna da sempre in che modo si può giungere alla beatitudine celeste e in qual altro si può correre il serio rischio di compromettere l’eterna salute della nostra anima. Perché Dio è «Lento all’ira e grande nell’amore» [Salmo 144 (145)]. Essere lenti all’ira non vuol dire però essere privi di ira divina, come narra il racconto della distruzione di Sodoma e Gomorra [Ge 18:16-22], così particolarmente azzeccato nello specifico contesto in questione. Nella sua vita pubblica Andrea Gallo ha vissuto, predicato e ubbidito la Chiesa sua sposa e i vescovi che reggono le membra del Corpo Mistico del Cristo, in modo conforme al Vangelo? Il tutto nella gravosa misura alla quale sono chiamati in responsabilità coloro che partecipano non solo al sacerdozio regale di Cristo come battezzati, ma coloro che sono chiamati col sacro ordine a partecipare per mistero di grazia al sacerdozio ministeriale di Cristo? Era chiaro — od era stato in qualche modo chiarito ad Andrea Gallo —, che noi sacerdoti abbiamo una dignità superiore a quella degli Angeli [Cf. S. Tommaso d’Aquino, cf. 3 p., q. 22, art. 1] essendo chiamati a celebrare il Sacrificio Eucaristico, memoriale vivo e santo di Dio incarnato, morto e risorto? Oltre alle opere dei sociologi comunisti, Andrea Gallo ha letto qualche libro di teologia o di patristica in vita sua? A parte l’Arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco e i suoi eminenti predecessori Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, questo prete ha avuto qualche vera e autorevole figura episcopale e qualche buon formatore che gli spiegasse con le parole di San Gregorio Nazianzeno che «Il sacerdozio è venerato anche dagli Angeli»? [cf. Sermo 26 de Sanct. Petr.]. E del sacerdozio, che a lui come a tutti noi è stato dato solo in comodato d’uso, non per nostro merito ma per servire la Chiesa e il Popolo di Dio, nel concreto, che cosa ne ha fatto Andrea Gallo, sotto gli occhi di tutti, pubblicamente, per anni e anni? Di questo prete che ha trascorso la propria esistenza in modo alquanto confuso, tutti abbiamo sempre vivo il ricordo umiliante e imbarazzante di un ideologo e di un demagogo che ha concorso a dividere anziché unire, facendo uso distorto del Vangelo per supportare la propria ideologia marxista, anziché usare il Vangelo per liberare se stesso e il Popolo di Dio dalle devastazioni che da sempre hanno prodotto le ideologie. Cosa questa che lui, nato nel 1928, quindi protagonista del Novecento, avrebbe dovuto sapere meglio di chiunque altro, circa i prezzi pagati dal mondo per le ideologie sia di destra che di sinistra.

LA VOLTA CHE VIDI I LIBRI DI ANDREA GALLO ESPOSTI NELLA VETRINA DELLA LIBRERIA INTERNA DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE, SCRISSI AL CARDINALE  BAGNASCO E AL CARDINALE MAURO PIACENZA DICENDO CHE MI SPETTAVA DI DIRITTO DIVENTARE PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA E CHIESI DI PORTARE AVANTI LA MIA CANDIDATURA. SONO SEMPRE IN ATTESA DI UNA LORO RISPOSTA.

Non sono mai stato scandalizzato dalle stravaganze di Andrea Gallo, anche perché nel nostro clero si cela di più e di peggio. A scandalizzarmi è stato invece il suo vescovo e i suoi predecessori  che non hanno mai preso alcun provvedimento verso di lui. Mai sono state applicate le sanzioni canoniche a carico di questo chierico che i canoni li ha violati tutti, assieme alle regole più basilari del cristiano e sacerdotale buon comportamento. E parlando del suo vescovo, non parliamo di un vescovo qualsiasi, ma del presidente dei Vescovi d’Italia. Pertanto, il vero errore — invero gravissimo — lo ha commesso l’Arcivescovo Metropolita di Genova, al quale tempo fa inviai una lettera che qui metto a disposizione di chiunque voglia leggere e per la quale non ho mai ricevuto risposta. Capisco che per essere degnati di attenzione da un cardinale, di questi tempi bisogna essere un rabbino ebreo o un imam mussulmano, perché in tal caso le risposte giungono subito, amabili, ecumeniche e interreligiose. Il senso di quella lettera è più che comprensibile: quando l’autorità è completamente priva di quella evangelica e cattolica autorevolezza che di fatto la priva di ogni credibilità, non resta altro che la pacata e rispettosa presa di giro. Quelle prese di giro alla San Filippo Neri, per intendersi, profondamente cattoliche e rammaricate, quanto più sono ironiche nella forma. La vera e profonda vergogna sta nel fatto che l’Arcivescovo Metropolita di Genova si sia esposto e abbia esposto la Chiesa italiana al ridicolo, dato il particolare ufficio da lui ricoperto nell’assemblea dei Vescovi d’Italia. Il vergognoso e indignitoso teatrino di quei funerali ha offeso la Chiesa, la sua dottrina cattolica e la dignità dei veri credenti. Una sconcia passerella di gay, transessuali, anticlericali, comunisti irriducibili ideologizzati sino al midollo e aggressivi scapestrati dei centri sociali che hanno egemonizzato la triste scena, cosa peraltro facilmente prevedibile e che proprio per questo andava prudentemente evitata. Una sfilata di tutto ciò che non è, ma che soprattutto esige in modo deciso e spesso anche violento di non essere cattolico.

IL CABARETTISTA EBREO MONI OVADIA CI HA REGALATO DUE PERLE DI DOGMATICA TRINITARIA: «ANDREA RIUSCIVA A ESSERE UNO E TRINO»

“Stupendo” il commiato del cabarettista ebreo Moni Ovadia, agnostico dichiarato e orgoglioso che non crede nella religione propria e tanto meno in quella degli altri. Un Ovadia affetto da evidenti corti circuiti psicoanalitici dati dal fatto che da una parte si proclama agnostico e dall’altra mangia cibo kasher, anzi glatt kosher. Grottesco oltre ogni limite, quando riferendosi al defunto ci ha rassicurato: «Sono ebreo e agnostico ma secondo me il Gallo risorge». Da questo guitto che gioca a fare l’aschenazita e che per i rabbini ortodossi è come fumo agli occhi, mentre per diversi amici miei che sono ebrei osservanti costituisce da sempre pessimo esempio di israelita che cavalcando la moda ebraica ha trovato solo modo per fare soldi, ci siamo dovuti sorbire anche una “lezione” di dogmatica trinitaria: «Andrea» — ha detto l’Ovadia con demenziale serietà — «riusciva a essere uno e trino».

L’OLIO DI VASELINA DELL’OSSERVATORE ROMANO, L’UNTUOSITÀ DELL’AVVENIRE, LO SCIVOLOSO COMMIATO DI RADIO VATICANA DEDICATO AD ANDREA GALLO

La vera vergogna è stato tutto ciò che di ovattato, di untuoso e di cosparso d’olio di vaselina hanno scritto l’Osservatore Romano diretto da Giovanni Maria Vian e l’Avvenire diretto da Marco Tarquinio, che sul giornale dei Vescovi d’Italia lascia pontificare quel piccolo eresiarca di Enzo Bianchi, impendendo al tempo stesso a un nostro stimatissimo confratello, l’eminente teologo e filosofo metafisico Antonio Livi, di contraddirlo pacatamente e d’indicare l’ovvio: quella di Enzo Bianchi non è teologia cattolica, anzi può essere ed è — aggiungo io — autentico veleno, specie per le giovani menti. In particolare per coloro che si stanno formando al sacerdozio e che solo certi nostri vescovi ormai fuori dalla grazia di Dio possono mandare a fare i ritiri spirituali nella comunità cattoprotestante di Bose prima di impartire loro i sacri ordini. Per non parlare poi dello scivoloso commiato di Radio Vaticana. Siamo davvero al capovolgimento …… questa somma di vergogne si edificano su una tragica realtà: viviamo in una Chiesa ridotta ormai alla totale inversione, dove il bene diventa male e il male bene, l’eterodossia ortodossia e l’ortodossia eterodossia da condannare e da perseguitare. Per questo assieme alla mia lettera del 18 aprile rimasta senza risposta, inviai in omaggio ad Angelo Bagnasco anche una copia del mio penultimo libro E Satana si fece Trino, dove illustro e analizzo questo processo di inversione ecclesiale. Sono certo e fiducioso che quando Sua Eminenza avrà imparato a leggere, quel libro forse lo leggerà. Quando avrà imparato a scrivere, mi risponderà come si conviene a un gentiluomo detto anche “Principe della Chiesa”. Infatti, lo spirito principesco, io non lo misuro sulla base dei titoli o di certe dignità onorifiche, per le quali sempre più preti e vescovi in carriera si venderebbero l’anima al diavolo. Lo misuro in base alla buona educazione e al devoto servizio reso alla Chiesa, in nome del quale spesso bisogna avere la forza di esibire i virili attributi per andare contro corrente e per prendersi la dolorosa responsabilità di non piacere alle masse. Per propria natura le masse sono quasi sempre brutte e irragionevoli, non piacque ad esse neppure il Signore Gesù. Tanto che alla domanda rivolta da Ponzio Pilato alla folla su chi dei due liberare, si levò deciso un terribile grido: «Libera Barabba!».

QUANDO UNA CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PRESIEDUTA DA UN VESCOVO RISCHIA DI DIVENIRE UN AUTENTICO LUPANARE SACRILEGO NEL QUALE CRISTO È RIDOTTO A MENO DI UN PRETESTO PER DARE SFOGO ALL’EGO IDEOLOGICO DEGLI ERETICI IN PRIMA LINEA

Come sacerdote che vive la liturgia come un sacro mistero che appartiene alla Chiesa e non certo a me che ne sono solo servo devoto, non padrone o primo attore, ho vissuto come un vero colpo basso quella processione filmata di preti “trasgressivi … fuori dal coro … disobbedienti … progressivi … arcobalenisti … filocomunisti …” capitanati da quell’altro notorio squallore sociologico-demagogico di Luigi Ciotti, il cui commiato durante la sacra celebrazione è stato — come suo uso — una gazzarra di sociologia politica priva di teologia, priva di dottrina, intrisa di buoni pensieri sociali ai quali Cristo e il Vangelo fanno da sempre secondario contorto come cornice di tutt’altro quadro, nelle parole di quest’altro arruffapopoli. Che tristezza quelle sciarpette variopinte multicolore dei preti pacifondisti pronti sempre a fare a pezzi i loro confratelli legati alla sana ortodossia cattolica, indossate sopra ai camici al posto di sobrie e consone stole viola, come prevede il rito e la liturgia delle esequie funebri. Che squallore, quell’altra indecente vergogna del sacerdozio di Vitaliano Della Sala, prete filo-omosessualista formato no global, che ha dichiarato: «Quella di Don Gallo è la vera Chiesa». Quanta ignoranza cristologica e teologica, quanta pubblica eresia tollerata dal nostro debole e pavido episcopato italiano! Poveri preti fallimentari fabbricanti di fallimenti e di falliti ecclesiali, grotteschi residuati sessantottini da discarica appartenenti alla “religione” di un non meglio precisato “sociale”, alla “religione” dell’ideologia che nel primo come nel secondo caso finisce spesso per essere una religione senza Cristo Dio, che si serve all’occorrenza di Cristo ma, beninteso: come uomo sociale, come “grande rivoluzionario liberatore”, non come il Verbo Incarnato proclamato e annunciato nel prologo giovanneo [Cf. Gv. 1,1].

DINANZI AI PUBBLICI PECCATORI IO NON CALO LE BRACHE COME IL CARDINALE BAGNASCO PER TIMORE DEL GIUDIZIO DEI MEDIA E DELLE REAZIONI DEGLI INTEGRALISTI LAICI, LI AMO CON CRISTOLOGICO CUORE SACERDOTALE E CERCO DI LAVORARE PER LA SALVEZZA DELLE LORO ANIME

Se a calarsi le brache e a presiedere questo teatro funerario porcino è stato il presidente dei Vescovi d’Italia, figurarsi gli altri nostri vescovi! Figurarsi a quale sbando totale siamo esposti noi poveri preti che dalle loro autorità sempre più prive di autorevolezza dipendiamo …Non aveva l’Arcivescovo Metropolita di Genova un vicario generale, un vicario episcopale o un presidente del capitolo metropolitano al quale far celebrare quel funerale al posto del presidente dei Vescovi d’Italia, semmai nella chiesa di appartenenza anziché nella chiesa cattedrale? Io vivo nel mondo del reale, al contrario del Cardinale Angelo Bagnasco che vive nel proprio palazzo feudale circondato da devoti e compiacenti segretari e collaboratori ai quali non passerebbe mai per la mente di dire in coscienza al proprio potente prelato: “Ritengo che questo sia sbagliato, ma detto ciò decida come meglio crede perché è Lei l’autorità episcopale e, a meno che non mi comandi cose contrarie alla dottrina e alla morale della Chiesa, io che non la penso come lei, proprio per questo sarò il primo a ubbidirle”. Diversamente dal Cardinale Angelo Bagnasco io non mi sposto con la scorta perché qualche burlone ha scritto nottetempo sui muri “Morte al Padre Ariel”. Io ho accolto e accolgo tutti, ma lo faccio in modo pastorale, paterno, evangelico e soprattutto cattolico, sempre e di rigore nel silenzio e nel nascondimento. Nel mio confessionale sono giunte decine di omosessuali afflitti e, come di recente ho dichiarato in una intervista a una rivista cattolica nessuno di loro ne è mai uscito senza assoluzione. Quando celebravo il Sacrificio Eucaristico in una basilica romana, ogni domenica sera, in fondo a quel maestoso tempio, quasi nascosti un gruppo di transessuali sudamericani partecipava sempre alla liturgia eucaristica. Non osavano presentarsi a ricevere il Santissimo Corpo di Cristo poiché consapevoli della vita che vivevano e che avrebbero seguitato a vivere, ma partecipavano con sincera devozione. Poi, dopo la celebrazione, venivano da me a chiedermi la benedizione. Io tracciavo sempre sulla loro fronte un segno di croce col pollice destro e poi li abbracciavo e li baciavo a uno a uno. Vorrei far notare all’Arcivescovo Metropolita di Genova la sostanziale differenza che corre tra queste anime sofferenti e combattute, che spesso mantengono col loro lavoro di prostituzione intere famiglie nei propri paesi di origine, coscienti che quel loro vivere non è bene ed è molto sbagliato; e l’arrogante trans Vladimiro Guadagno, detto Luxuria, ex politico, ideologo rasente l’integralismo, fiero e orgoglioso e, soprattutto, per nulla contristato dal proprio stile di vita …

VLADIMIRO GUADAGNO DETTO LUXURIA RICEVE LA COMUNIONE DAL PRESIDENTE DEI VESCOVI ITALIANI E CI DONA APPRESSO UN PREDICOZZO SULL’ACCOGLIENZA DAL PRESBITERIO DELLA CATTEDRALE DI GENOVA. NOI SACERDOTI, IN OBBEDIENZA ALLE DISPOSIZIONI DELLA CHIESA ALLE QUALI NON POSSIAMO E MAI DOBBIAMO VENIRE MENO, SI DEVE INVECE NEGARLA AI DIVORZIATI RISPOSATI

… è stata cosa imprudente e pure vergognosa l’Eucaristia amministrata dal Presidente dei Vescovi d’Italia al transessuale Luxuria durante la Messa funebre di Andrea Gallo. Semmai ciò non fosse stato sufficiente, l’Arcivescovo Metropolita di Genova ha concesso a questa creatura di prendere la parola all’interno della sua chiesa cattedrale dall’ambone da dove si amministra la Mensa della Parola di Dio, per fare a tutti noi questo predicozzo: «Grazie per averci aperto le porte della tua Chiesa e del tuo cuore. Grazie per averci dimostrato che in una Chiesa comprensiva, inclusiva, che non caccia via nessuno è possibile. Grazie per averci fatto sentire noi tutte creature transgender figlie di Dio amate da Dio. Noi ci auguriamo che tanti seguano il tuo esempio e ci auguriamo anche che qualcuno ti chieda scusa, Don Gallo». Due parole sulla accoglienza, posto che queste persone, notoriamente strapiene di un ego narcisista, disordinato e orgoglioso, aggressive oltre ogni umano limite verso chiunque osi non pensarla come loro, pare non abbiano chiaro che essa procede da Cristo e che la vera Chiesa è quella di Cristo, non certo quella “di base … di piazza … alternativa … disobbediente … arcobalenista” di Andrea Gallo. Il problema è che a questi ideologi del transgender non interessa che la Chiesa apra le porte. Loro vogliono che la Chiesa apra le gambe, possibilmente dalla parte posteriore, per poterla infiltrare da dentro e distruggerla con seme venefico. Ovviamente in nome di una strana carità evangelica e di una non meglio precisata accoglienza e misericordia. È consapevole Luxuria cosa voglia dire e che cosa comporti in senso ecclesiologico ed escatologico aprire le porte a Cristo per essere accolti da Cristo e dalla Chiesa suo corpo mistico? Comporta anzitutto accogliere Cristo e tutte le regole di vita contenute nel suo messaggio di salvezza, non certo pretendere di sovvertire le regole di Dio per andare incontro ai capricci della cultura gender e ai gravi disordini umani e morali di certi soggetti, che non reclamano affatto accoglienza, perché nei concreti fatti vogliono solo sfondare le porte per prendere possesso della casa cristiana alle loro condizioni, in massimo spregio a quelle che sono le regole dettate dalla divina rivelazione. È consapevole Luxuria che la Chiesa deve sì accogliere, ma al tempo stesso deve evitare che lupi rapaci facciano irruzione nell’ovile dove il buon pastore dovrebbe custodire e proteggere le pecore che il Signore ha lui affidato? O forse dobbiamo farci distruggere l’ovile e divorare le pecore perché i lupi travestiti da agnelli ci vengono a parlare di accoglienza, invitandoci a prendere esempio dai Gallo, dai Ciotti e dai Dalla Sala che la Chiesa l’hanno così male servita, con tanto di perentorio invito a chiedere scusa fatto da sotto ai nostri altari a chi la Chiesa intende invece proteggerla, il tutto proferito da un alto esponente di coloro che rivendicano il “sacrosanto” diritto a trasformare la Sposa di Cristo in una prostituta, affinché possa corrispondere alla loro desolante immagine e somiglianza da casa di tolleranza transgender? È consapevole l’Arcivescovo Metropolita di Genova che quel Santissimo Corpo di Cristo da lui amministrato a Vladimiro Guadagno detto Luxuria, noi preti, in devota obbedienza a quanto la Chiesa ci comanda, dobbiamo negarlo a coppie di divorziati risposati? Forse, a questo punto, al Cardinale Angelo Bagnasco non resta che andare a celebrare un solenne pontificale direttamente al Gay Village con Luxuria che fa da madrina alla manifestazione con tutte le accoglienti transgender travestite da agnellini rosa. Per molte volte Luxuria è stata infatti madrina delle parate del Gay Pride alle quali ha partecipato col politico e determinato spirito ideologico di chi esige che la Chiesa accolga e apra quelle porte che poc’anzi — senza irriverenza ma con molto allarme — ho chiamato gambe. E semmai, tutti gli integralisti gay che di prassi mettono in scena pantomime satirico-dissacranti marciando travestiti da suorine vogliose in calze a rete o da vescovi con mitrie color fucsia, l’eminentissimo cardinale potrebbe portarseli dietro come chierichetti. Siamo o non siamo una Chiesa accogliente, includente, caritatevole, misericordiosa? Però, con debita e caritatevole misericordia, anziché nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, tra una accoglienza e l’altra si dia uno sguardo a certe ripetute immagini dissacranti del gay pride, per avere idea del tasso di rispetto verso l’altrui fede e l’altrui patrimonio di sacralità che alberga in coloro che pretendono di farti sbattere in galera per omofobia, se solo osi semplicemente non condividere il loro stile di vita, improntato sull’evidente disordine umano e morale.

LA PUBBLICA PECCATRICE FU PERDONATA DAL REDENTORE PERCHÈ ERA PENTITA E PERCHÉ CAMBIÒ VITA. NON DIVENNE CERTO PALADINA E IDEOLOGA PRE-CRISTIANA  DELL’ASSOCIAZIONE DELLE LIBERE PROSTITUTE PER LA LIBERALIZZAZIONE E LA LEGALIZZAZIONE DEL MERETRICIO, IN NOME DEL CRISTO RISORTO, ACCOGLIENTE E MISERICORDIOSO

Tutti quanti sappiamo bene che genere di mestiere svolgeva la pubblica peccatrice pentita e perdonata [Lc, 7, 36-50] che bagnò con le proprie lacrime i piedi del Signore, asciugandoli coi propri capelli e cospargendoli col prezioso olio profumato contenuto nel suo vaso di alabastro. Ma sappiamo anche che dopo quell’incontro e quel pianto sui piedi del Redentore, cambiò mestiere e vita. Non divenne certo paladina e ideologa pre-cristiana dell’associazione delle libere prostitute per la liberalizzazione e la legalizzazione del meretricio nel nome del Cristo risorto accogliente, caritatevole e misericordioso. Devo proprio invitare io, il Presidente dei Vescovi d’Italia, a leggere bene e con attenzione quel Vangelo di cui egli è supremo maestro in sua qualità di sommo sacerdote?

POSSA IL SIGNORE PERDONARE IL CARDINALE ANGELO BAGNASCO PER L’UMILIAZIONE INFERTA ALLA CHIESA D’ITALIA E SPERIAMO CHE QUANDO ACCADUTO CON ANDREA GALLO, NON SI RIPETA TRA ALTRI ANNI CON UN’ALTRA VERGOGNA DEL SACERDOZIO: PAOLO FARINELLA, ANCH’ESSO PRESBITERO GENOVESE

Assicuro le mie sincere preghiere al Cardinale Angelo Bagnasco, perché temo che assieme all’anima di Andrea Gallo oggi si debba cominciare a pensare di salvare anche quella del suo vescovo, nonché presidente dei Vescovi d’Italia, che tutt’oggi, nel proprio presbiterio, può vantare un’altro celebre, impunito e ahimè intoccabile ideologo: Paolo Farinella. A tempo e luogo, dobbiamo forse attenderci un altro tripudio di plebaglia da osteria e da pornografico bordello transgender, con rumoroso seguito di giovani spinellari da centro sociale che egemonizzano col pugno chiuso alzato anche la scena dei funerali di quest’altra vergogna del sacerdozio, con la turba ebbra di cieca ideologia che dentro la Casa di Dio rinnova ancora il disumano grido sacrilego: «Barabba … Barabba!», ovviamente in nome di una non meglio precisata accoglienza, carità e misericordia? Possa Dio perdonare Angelo Bagnasco per il male che ha recato in questo delicato frangente alla Chiesa d’Italia e per l’umiliazione inferta ai devoti sacerdoti di Cristo e alle membra vive sempre più sofferenti del Popolo di Dio.» Ariel Stefano Levi di Gualdo, presbitero.

DALLE AULE DEI "MASTRI" O "PROF" ROSSE A QUELLE BIANCHE.

Don Milani, i maestri «rossi» e la meritocrazia dimenticata, scrive Pucci Cipriani su “L’Occidentale”. Ma quello che dette il colpo definitivo a don Milani e alla sua lettera fu non il professor Berardi o la professoressa Calderini (considerati due pericolosi «liberali») ma un illuminato giornalista di “Repubblica”, il professor Sebastiano Vassali che demolì, con una serie di articoli sul quotidiano considerato una sorte di “Bibbia laica e progressista”, il mito di don Milani. Papale, papale, verga il professor Giuliano Vassalli: “Povera Italia! E povera Sinistra! Don Milani (...) volle dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, e si scelse un bersaglio di comodo, gli insegnanti. In questo senso (...) il suo libro fu una mascalzonata: attribuiva tutti i mali ai professori («la vostra scuola», «i vostri programmi») istigava al linciaggio morale di un nemico (...) gli insegnanti sembravano messi là apposta per far da bersaglio alla rivoluzione dell’epoca come i poliziotti di Valle Giulia (...) Povera Italia e povera Sinistra, che dal ’68 o forse dal ’45 non ha saputo far altra politica che quella d’applaudire tutte le primedonne che hanno calcato la platea del bel paese» (cfr. Vassalli in “Repubblica” del 4 luglio 1992, pag 34). E sempre su “Repubblica” il professor Vassalli, inesorabile, continua: «Don Milani ci appare oggi come fu davvero: un maestro manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori di un tempo hanno veramente saputo che nella “Lettera” c’è l’apologia della frusta (a pag. 82) e, che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate” e “qualche salutare cignata”?). Un autocrate che non credeva nella pedagogia – in nessuna pedagogia, all’infuori della propria - e che trattava con sufficienza e sarcasmo chi si azzardava a parlargli si sviluppo della personalità degli alunni e di altrettante “sciocchezze borghesi”. Tutto questo in “Esperienze pastorali” ma - scrive ancora Vassalli - «e lo stesso principio era stato da lui sviluppato con molta chiarezza nella Lettera a una Professoressa, dove si delinea: “una concezione collettivistica delle educazione vista come indottrinamento”: una concezione non dissimile - per chi ha ancora memoria di quegli anni - dai modelli educativi della così detta “rivoluzione culturale” cinese”. (cfr. Vassalli in “Repubblica”cit). Tra i miei ricordi di gioventù (avevo allora sedici anni, nda) la mia contestazione a quel gruppo culturale progressista “La Ginestra” che si rifaceva alle idee del prete di Barbiana. E a loro (pretori democratici, presidi, docenti universitari) giocai un tiro maestro e, durante una delle loro riunioni arrivai in compagnia di un giovane, laureato di fresco, già amante degli studi seri, un giovane distinto e preparatissimo: con lui ci recammo al Comune di Borgo San Lorenzo e iniziammo (meglio dire che fu il “giovane professore” a iniziare) con un fuoco concentrico: egli parlò di meritocrazia, quella meritocrazia che, sola, avrebbe salvato gli “ultimi”, parlò di scuola seria che richiedeva sacrifici e non chiacchiere, una scuola che non creasse discriminazioni ma nemmeno odio nei confronti dei “Pierini” ovverosia dei “Signorini attaccati alla scuola media di un tempo” ai quali don Milani voleva trovare un posticino nei confortevoli Gulag dei compagni sovietici. Quel giovanissimo e intrepido professore rispondeva e tuttavia risponde al nome di Franco Cardini che era ed è (anche se lui sembra non crederci) un mio grande amico oltre che uno dei più grandi, se non il più grande studioso del Medioevo a livello mondiale. Fu lui che ebbe per Maestro Attilio Mordini, l’anima del tradizionalismo cattolico non solo a livello fiorentino, un grande mistico di cui, negli ultimi giorni della sua vita, avvenuta lo scorso anno, mi parlava un altro grande mistico: don Divo Barsotti. Fu lo stesso Cardini, in un successivo incontro, a presentarmi Attilio Giulio Schettini (che divenne un caro amico colto prematuramente da “sorella morte”) che iniziò, con la mia collaborazione, una serie di servizi sui “Preti rossi della Toscana” sul settimanale cattolico “Lo Specchio” allora diretto da Giorgio Nelson Page. Anche il servizio su Don Milani (apparso sullo stesso settimanale a firma di uno dei redattori, Pier Francesco Pingitore) posso assicurare che fu preparato da Giulio Schettini. Oggi lo stesso professor Franco Cardini, fa sul quotidiano “La Nazione” l’apologia di Don Milani anche se - come al solito - ha l’onestà intellettuale (merce rara oggigiorno) di ammettere che allora la pensava diversamente: «Si era all’indomani del Concilio Vaticano II - scrive Cardini - che secondo me e secondo quelli del mio gruppo al quale appartenevamo, era stato un grande pericolo per la Chiesa e che alcuni dei suoi interpreti rischiavano di trasformare in una tragedia e in una apostasia». Però Franco Cardini che è un personaggio di grande rilievo e di grande richiamo dovrebbe usare un po’ più di prudenza e astenersi da molte gravissime inesattezze (per esser buoni!) e cercare di rifuggire una certa retorica di cui egli non ha bisogno. Lasciamo perdere l’obbedienza di don Milani, una delle grandi favole, create “ad hoc” da certo sinistrismo (basterebbe andare a consultare il suo carteggio con la Curia!). Don Milani non è vero che - come invece afferma il professor Cardini - scrisse sempre con il permesso della Curia... anzi (a parte la vergognosa parentesi di quell’unico “imprimatur” ottenuto con l’inganno per “Esperienze pastorali”) gli altri libri non ebbero mai l’imprimatur che allora si richiedeva. E queste non sono cose da poco...

TUTTI DENTRO: IL GIUDICE CHIARA SCHETTINI.

Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, ed al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto: questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile. (Aristotele)

«Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». Le parole sono ancora più inquietanti perché arrivano da un Giudice: Chiara Schettini, scrive Giulio Cavalli. Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l’ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata il 12 giugno 2013 per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c’è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l’aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l’avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione…. È veramente una rottura senza limiti… Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo».

Secondo quanto scrivono ‘Il Messaggero’ e ‘Il Fatto Quotidiano’ la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo. L’inchiesta, scrivono ‘Messaggero’ e ‘Il Fatto’, è partita da un esposto presentato da Francesco Taurisano, fino a pochi mesi fa giudice della Fallimentare di Roma, che accusa i suoi ex capi: il presidente di sezione, Ciro Monsurrò e il presidente del Tribunale di Roma, Paolo de Fiore. L’accusa, al vaglio del procuratore capo di Perugia Giacomo Fumo, ha per oggetto le nomine della “procedura fallimentare più grande d’Europa”, cioè la Federconsorzi, la gestione da parte del Tribunale di Roma del crack del gruppo Di Ma-rio (un importante gruppo di costruzioni prima dichiarato fallito, poi rimesso in amministrazione straordinaria e poi recentemente nuovamente dichiarato fallito) e infine le nomine del presidente del Tribunale Paolo de Fiore. Secondo ‘Il Fatto’ un esempio fatto da Taurisino per far capire le procedure che sarebbero adottate nel Tribunale fallimentare, è quello dell’avvocato Giuseppe Tepedino. Avvocato che, secondo l’esposto, avrebbe cumulato incarichi milionari dal Tribunale: Taurisino fa notare che la moglie di Tepedino è la segretaria del presidente del Tribunale di Roma De Fiore e nipote del presidente della sezione fallimentare Ciro Monsurrò. Ma il caso più importante citato nell’esposto di Taurisino è quello di Federconsorzi. Al centro dell’esposto c’è l’ultima tornata di nomine dei commissari Federconsorzi che – almeno stando a quanto denunciato – sarebbe stata oggetto di una disputa durissima tra giudici alla fine della quale un commercialista già nominato (Roberto Falcone) avrebbe rinunciato all’incarico per le pressioni indebite del presidente del Tribunale fallimentare Ciro Monsurrò, che aveva in mente un altro nome e che avrebbe quindi nominato un altro commissario, con cui era, secondo l’accusa, in “ottimi rapporti”.

Chiara Schettini, ex giudice fallimentare del Tribunale Roma, è stata arrestata mercoledì mattina 12 giugno 2013 su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. Il giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede, è stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere. Perquisizioni sarebbero ora in corso da parte dei magistrati perugini a Roma. La giudice è accusata dai pm di Perugia di essere coinvolta in una “cricca di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma”. Insieme a lei, iscritti sul registro degli indagati ci sono anche il presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, e il giudice a latere Nicola Pannullo. Il nome della giudice Schettini era balzato agli onori delle cronache alcuni anni fa in merito alla controversa sentenza, da lei firmata, che diede momentaneamente il via libera all’utero in affitto per una donna che non riusciva ad avere figli. La cricca dei curatori fallimentari, sarebbe secondo l’accusa, di una serie di sentenze pilotate che attraverso la redazione di documenti falsi e scritture notarili con firme “taroccate”, avrebbero lasciato confluire quantità ingenti di denaro su conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro, per poi sparire nei paradisi fiscali.

Chiara Schettini: «Io giudice, più mafiosa dei mafiosi». Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l'ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei, scrive Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c'è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l'aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l'avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione.... È veramente una rottura senza limiti... Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». Pochi dubbi quindi che sui risarcimenti pilotati al fallimentare (dove buone e consolidate relazioni possono tuttora aprire molte porte) tra gli anni 2004 e 2008 - tutte procedure approfondite dagli investigatori coordinati da Nello Rossi - la Schettini avesse un ruolo determinante. Tra i frutti delle perquisizioni eseguite mercoledì 12 giugno 2013, con l'arresto della Schettini, l'affiorare di ulteriore documentazione che proverebbe il coinvolgimento di Grisolia, una sorta di «faccendiere» secondo gli investigatori di Perugia, nelle vicende della giudice. L'interrogatorio di garanzia è previsto per venerdì. La Schettini, assistita da Carlo Arnulfo e Giovanni Dean nega ogni addebito e risponderà alle domande del pm Manuela Comodi.

Sentenze pilotate e giudici sotto inchiesta. Coinvolta Chiara Schettini, famosa per il via libera all'utero in affitto e compagna di un commercialista. L'accusa: «Consulenze d'oro e crediti pagati senza verifiche», scrive Haver Flavio su “Il Corriere della Sera”. Il caso più eclatante è quello della sceneggiatura commissionata da una azienda specializzata nella produzione di olio extravergine d'oliva, liquidata con due milioni e mezzo di euro. E poi ci sono «consulenze d'oro». Sentenze in tempi da «Guinness dei primati» per la giustizia nostrana, appena un giorno. E crediti pagati senza fare verifiche approfondite. L'inchiesta sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare ha registrato nelle ultime ore un clamoroso e, per certi verso inaspettato, salto di qualità: i nomi del presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, del giudice a latere Nicola Pannullo e delle relatrice dei provvedimenti, Chiara Schettini, sono stati iscritti sul registro degli indagati dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi. L'accusa è grave, peculato. Proprio ieri il pm ha interrogato a lungo nel carcere romano di Regina Coeli i personaggi arrestati nella prima fase dell'inchiesta dai colleghi della Capitale, che hanno trasmesso poi per competenza alle toghe della città umbra il fascicolo. E dopo la reiterazione dei provvedimenti di custodia cautelare da parte del gip di Perugia Lidia Brutti, le deposizioni di ieri hanno consentito di delineare con maggiore precisione il quadro di ruoli e complicità utilizzati per arrivare a ottenere «provvedimenti pilotati» su decine e decine di ricchi fallimenti all'esame del Tribunale di Roma. La posizione più delicata è quella del giudice relatore. La Schettini, diventata nota alcuni anni fa per la controversa e contestatissima sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli, è la compagna di uno degli arrestati, quel commercialista Piercarlo Rossi che ? secondo l'accusa ? sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti falsi e scritture notarili con firme «taroccate» che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi ? con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce ? nei paradisi fiscali.Le bancarotte su cui si sono ufficialmente accesi i fari sono tre. Della «Pasqualini», della «Tecnoconsult» e della «Domitia Hospital» le toghe si sono occupate in un lungo lasso di tempo, almeno una decina d'anni fino al 2005. Nel caso del fallimento della prima l'escamotage per dirottare e incassare i soldi liquidati è stato quello che più di altri ha insospettito per le modalità e per la facilità con cui la «cricca» ha proceduto: il commercialista Federico Di Lauro (marito della show girl di origini cinesi Dong Mei, arrestata in un altro procedimento), era riuscito a far inserire tra i creditori gli autori di una sceneggiatura per una serie di fiction televisive dal titolo «Serial giallo». Peccato che le indagini dei pm romani Stefano Fava e Giorgio Orano e del procuratore aggiunto Nello Rossi abbiano portato alla luce ben altra attività: il core business della «Pasqualini» ? è stato ricordato negli ordini di cattura ? era «estrazione, raffinazione e commercializzazione dell'olio di oliva».

Ex giudice fallimentare arrestata a Roma, i soldi finivano a Miami, scrive Valentina Errante su “Il Mattino” e su “Il Messaggero”. Due appartamenti al Colosseo, gli investimenti a Miami e le società lussemburghesi. Poi alcune case a Fregene e una Madonna di Campiglio gestite da società fiduciarie. Era lì che finivano i soldi sottratti ai fallimenti, almeno secondo il gip Lidia Brutti, che due giorni fa ha arrestato il giudice Chiara Schettini con le ipotesi di peculato, falso, corruzione e per le minacce a un avvocato che doveva ritrattare le accuse nei suoi confronti. Un reato commesso in concorso con gli avvocati Antonio Casella e Roberto Clemente, anche loro indagati. L’ordinanza racconta come il giudice, nonostante i procedimenti pendenti «non abbia mai modificato il suo modo di esercitare la giurisdizione, piegandola agli interessi propri e dei professionisti di cui si è di volta in volta servita con una non comune determinazione e scaltrezza e con capacità di determinare altri a delinquere, offrendo loro prospettive di crescita professionale e facile arricchimento». I soldi del fallimento Tecnoconsult, una dei tre curati da giudice e finiti sotto accusa, secondo le indicazioni del compagno della Schettini, Piercarlo Rossi, dovevano essere accreditati sul conto della società lussembrurghese Xtelis international limited o sulla Allegra Investment di Federico Mario Carlo De Vittori, il riciclatore elvetico della coppia. Si legge nell’ordinanza: «Rossi aveva formato le false lettere di incarico per giustificare i crediti, poi aveva provveduto a gestire la pratica relativa alla cessione del credito del Baldi (procuratore all’incasso di tutti i finti creditori) alla società Allegra Investment, riconducibile a De Vittori. Quest’ultimo secondo le indicazioni di Rossi, aveva poi girato le somme alle destinazioni finali: 650mila euro all’acquisto dell’appartamento di via del Colosseo, con somme transitate estero su estero, euro 188mila 459 a Ugo Valenti negli Stati Uniti, destinati agli investimenti immobiliari a Miami». Ma sono due gli appartamenti, in via del Colosseo, acquistati da Rossi e Schettini con i soldi dei fallimenti. Il secondo, del Comune di Roma, viene riscattato dalla vecchia affittuaria con i soldi di Rossi e Schettini. «Appaiono significativi - si legge nell’ordinanza - i molteplici contatti telefonici di Chiara Schettini con vari soggetti nell’imminenza della scadenza della rata Imu di dicembre 2012 che palesavano come, fra non poche ansie, avesse dovuto occuparsi in prima persona delle gestione dei relativi pagamenti». Immobili intestati a società, alcune delle quali collegate a fiduciarie riconducibili a Rossi, e sequestrate al momento dell’arresto del professionista. Case a Fregene e Madonna di Campiglio. «L’indagata giungeva addirittura a ipotizzare di avanzare istanza di restituzione e si preoccupava di precostituire prove della provenienza della provvista utilizzata per l’affitto di Madonna di Campiglio da conto corrente intestato alla madre defunta, nonché della propria partecipazione diretta alle trattative finalizzate alla stipulazione del contratto preliminare». E’ stato il curatore fallimentare Federico Di Lauro a raccontare ai pm com’era andata: «Dopo l’estate 2010 la Schettini mi chiamò e mi disse che voleva regalare un gommone al suo compagno Piecarlo, se potevo aiutarla a trovarne uno. Ci incontrammo all’Eur con l’amico mio andammo a provare l’imbarcazione al Circeo. Dopo qualche giorno la Schettini mi chiamò e mi disse che il gommone le piacevae aveva intenzione di prenderlo. Mi riferì però di dire all’amico mio che, in cambio del gommone, gli avrebbe conferito un buon incarico in una procedura fallimentare. Alla fine la compravendita non andò a termine perché la Schettini, sospesa dala funzione, non garantiva il conferimento dell’incarico».

Era stata trasferita a L'Aquila nel marzo stesso, come pubblicato nel Bollettino ufficiale del Ministero della giustizia. Oggi, è finita agli arresti, scrive “Abruzzo 24”. Si tratta di Chiara Schettini, romana, magistrato ordinario di quinta valutazione di professionalità con funzioni di giudice del Tribunale di Roma, trasferito al Tribunale di L’Aquila con funzioni di giudice. A riportare la notizia del suo arresto è il Corriere della sera nell'edizione romana. L'arresto è avvenuto mercoledì mattina su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento - riferisce il Corriere della sera- sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. La Schettini, secondo quanto riferito dal Corriere, è coinvolta nell'indagine  portata avanti dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi, sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma. La Schettini è salita agli "onori della cronaca" anni fa per la controversa sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli. La Schettini è inoltre la compagna di Piercarlo Rossi, commercialista che — secondo l'accusa — sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti con firme falsificate che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi — con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce — nei paradisi fiscali.

Sull'arresto del giudice Schettini in servizio a Roma, c'è anche una lettera dell'ANM. "In relazione alle odierne notizie di stampa, relative all’avvenuto arresto del magistrato in servizio da quest’anno presso il tribunale di L’Aquila, Chiara Schettini, ivi trasferita fuori concorso dal Consiglio Superiore della Magistratura, la Giunta Distrettuale abruzzese dell’Associazione Nazionale Magistrati prende atto con disagio di quanto accaduto, convinta che, comunque, il merito delle vicende venga affrontato nelle aule di giustizia con i dovuti strumenti processuali. Con riferimento alla copertura del già esiguo e insufficiente organico di giudici del Tribunale di L’Aquila, Ufficio presso cui pendono indagini e processi di natura complessa e delicata, conseguenti alle molteplici conseguenze sociali e giuridiche del sisma del 2009, le cui ferite sono assolutamente aperte e drammaticamente attuali, la Giunta auspica che le prossime scelte di Autogoverno avvengano con particolare attenzione. In questo ambito si pone anche l’attesa di tutti gli operatori di giustizia aquilani per la nomina del nuovo presidente del Tribunale di L’Aquila, che si spera il Consiglio Superiore della Magistratura voglia adottare quanto prima".

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

Con questa importante ed approfondita inchiesta, prende il via la nuova rubrica su la ”INGIUSTIZIA ITALIANA”, che metterà a nudo le disfunzioni, l’inefficienza e l’ingiustizia che caratterizzano lo Stato italiano, i suoi apparati, la sua burocrazia. Un sistema di ingiustizie utile solo a vessare i cittadini, scrive James Condor su “L’Indipendenza”.

LA PALUDE DEI FALLIMENTI. Un Paese dove i processi non finiscono mai. E che in compenso sono fatti malissimo. Un Paese dove la proprietà privata non conta niente, dove lo Stato sottrae illecitamente un minore alle famiglie senza farsi troppi scrupoli, dove la vita delle famiglie è presa a calci. E dove nessuno, per questi abusi, paga mai. Non si tratta di critiche feroci o di sfumature politiche, che anzi attaccano o difendono la giustizia a seconda dello schieramento, ma della fotografia scattata all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo. Strasburgo ha infatti pubblicato i numeri sulle sanzioni in materia di giustizia inflitte ai Paesi della Convenzione dal 1959 al 2010 dal tribunale per i diritti umani, mostrando al mondo cosa sia davvero quella che ancora alcuni fingono di considerare la culla del diritto pur di non cambiare una macchina che miete vittime a ripetizione: la nostra giustizia. Che miete vittime, ma che costa pure tantissimo sotto il profilo economico: in particolare, ed è paradossale, costa eccezionalmente proprio grazie all’artifizio che lo Stato aveva inventato per rimediare ai propri errori rispetto alla Convenzione, la legge Pinto, che ha fatto molto più che decuplicare i costi senza nemmeno riuscire a individuare le cause del “male”. E aggiungendone dell’altro: ulteriori cause a Strasburgo e ulteriori indennizzi. Giusto per farsi un’idea dei dati di Strasburgo, la Spagna in 41 anni ha subito al tribunale per i diritti dell’uomo 91 sentenze, la Germania 193, il Regno Unito 443, la Grecia 613. L’Italia invece ne ha nientemeno che 2121: una valanga, addirittura il doppio della Russia, superata solo dalla Turchia. Ciò che più conta è che in 1617 casi è stata riconosciuta almeno una violazione della Convenzione per i diritti umani e che solo in 51 casi non sono state riscontrate violazioni. La gran parte delle decisioni riguarda, com’è noto, la lentezza dei processi, specie in materia civile, con 1139 condanne. Sotto di noi, l’abisso, con la Turchia al secondo posto con 440 condanne, quasi un terzo, e sotto un nuovo baratro. Meno noto il fatto che 238 nostre violazioni riguardino l’equo processo, sempre all’articolo 6 della Convenzione, ma diretto alle violazioni del diritto ad una giusta difesa. Ossia: è vero che ci mettiamo tanto a fare un processo, però, alla fine, possiamo dire che è stato pure ingiusto. Quanto al diritto alla vita privata e famigliare, in cui l’Italia vanta plurime condanne per sottrazione illecita di minori alle famiglie da parte dello Stato, non abbiamo eguali: 131 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 15 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 297 sentenze sulla protezione della proprietà privata. Tra i Paesi dell’Ue sotto di noi c’è l’abisso, dato che al secondo posto c’è la Grecia con 62 violazioni, quasi un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina. L’aspetto più importante è che 2121 sentenze per violazione dei diritti umani nei processi non significano 2121 casi, perché ogni sentenza può radunarne a gruppi, perfino di centinaia. È questo che può dare l’idea di un fenomeno mostruoso, una metastasi del sistema che continua a divorarlo.

NUOVI RECORD NEL 2011. Dal 31 dicembre 2010 al 30 novembre 2011 la situazione è infatti ulteriormente peggiorata: l’Italia ha continuato imperterrita a rosicchiare percentuali sulla torta dei ricorsi dei cittadini dei Paesi membri, passando dai 10200 ricorsi della fine del 2010, ai 13400 ricorsi di fine novembre, passando così dal 7,5% all’8,8% della torta. Da notare l’assenza dei grandi Paesi occidentali nella torta – se escludiamo un piccolissimo 2,4% del Regno Unito -, tutti sotto la voce “altri 37 Stati”. E che superiamo Romania, Ucraina, doppiamo Polonia e Serbia, quadruplichiamo o quasi la Bulgaria.

LA LEGGE FALLIMENTARE. L’INFAMIA DEL REGIO DECRETO. Ci sono processi e processi. Per comprendere come l’Italia non rispetti affatto le Convenzioni che firma, c’è un processo italiano in particolare che ha comportato negli anni, e in parte ancora comporta, una sfilza infinita, in una volta sola, di una lunga serie di violazioni agli articoli della Convenzione di Strasburgo, e ai suoi successivi protocolli, sui diritti dell’uomo: si va dalla libera circolazione al diritto alla corrispondenza, dal diritto di voto al diritto ai propri beni, dall’accesso al processo al diritto alla vita privata e famigliare. A comportare tutte queste violazioni è il nostro processo sui fallimenti, uno dei più grandi scandali italiani passati sotto silenzio per decenni. E di cui si fa ancora fatica a parlare. Eppure si tratta quasi sempre di un labirinto dal quale, chi ci finisce dentro, non esce più. Ci sono diverse ragioni per le quali si può incappare in un fallimento, specie in uno Stato che ha la pressione fiscale più alta d’Europa e pretende taluni fondamentali pagamenti, come l’iva, anche prima che uno l’abbia incassata. E che chiede tasse in anticipo sulla presunzione di un volume d’affari, come se gli imprenditori avessero la sfera di cristallo. Di certo in questa maglia finisce spesso brava gente, anche per poche migliaia di euro, gente con una faccia e una casa. E quasi mai, invece, chi fa dell’attività societaria un’arma per delinquere, troppo accorto per non sfruttare prestanome o, per usare una frase in gergo, le cosiddette teste di legno. Troppo astuto per avere intestato qualcosa. Ci vorrebbe dunque una legislazione molto accorta, in grado di stabilire con equità caso per caso. Ma in una Repubblica fondata sul lavoro e che fa dunque dell’impresa del lavoro la sua base, la legge fallimentare è regolata unicamente da una legge del Regno: il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942. Una legge rimasta sostanzialmente immutata per 60 anni.

LA SPIRALE DEL FALLIMENTO. Gianna Sammicheli vive a La Spezia. Si è occupata di cause per i diritti umani in Germania, Spagna e in Inghilterra e da qualche tempo si sta confrontando con il sistema giuridico italiano. «La legge 80/2005 e il decreto legislativo 5/2006 hanno dovuto recepire molte delle indicazioni date dalla Corte Europea, per modificare la legge, dopo diverse condanne subite dall’Italia a Strasburgo. Le nuove norme tuttavia hanno finito per applicarsi solo alle procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore della legge. Il fatto è che per tutte le procedure che erano in corso in quel momento le violazioni ci sono già state e quindi restano lamentabili nei sei mesi dalla chiusura dal fallimento, nonostante l’abrogazione delle norme». Quali sono le leggi del nostro codice che per 60 anni hanno violato la Convenzione di Strasburgo? «Sono stati abrogati in particolare gli articoli 48, 49, 50 sulla corrispondenza, la libertà di circolazione, l’iscrizione nel registro dei falliti, dalla quale partivano automaticamente le “incapacità” previste dal codice civile e dalle leggi speciali. Molte erano “incapacità” relative ai diritti civili o politici. Come la perdita del diritto di voto per cinque anni, l’impossibilità di iscrizione agli albi per esempio o di amministrare società. In realtà, già aprire un conto corrente per molti è stato un problema. La corrispondenza del fallito, tutta, andava direttamente al curatore; il fallito non poteva muoversi liberamente e doveva restare sempre a disposizione del curatore. Queste limitazioni persistevano fino alla sentenza di riabilitazione, che poteva essere chiesta dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il che, spesso, avveniva dopo vent’anni dall’inizio del fallimento». Una vita. Vent’anni senza disporre dei propri beni, senza poter verificare che vengano venduti e non svenduti, senza poter avere un fido o accendere un mutuo, spesso senza nemmeno avere un conto corrente. Vent’anni di segnalazioni alle centrali rischi, un marchio d’infamia che ha ottenuto un rimedio. Forse. «La Corte Costituzionale,- prosegue Sammicheli - con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 50 e 142 per il testo anteriore all’entrata in vigore della riforma, nella parte in cui si stabiliva  che le “incapacità personali” derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurassero oltre la chiusura della procedura concorsuale. Questo proprio per chiarire che se anche la riforma non si applica alle procedure vecchie, le “incapacità” di questi vecchi fallimenti cessano con la chiusura. Però…». Però?

IL RIMEDIO É PEGGIO DELLA CURA. «Il problema è che la riforma ha eliminato il Registro dei Falliti e le norme sulla riabilitazione, ma all’eliminazione non è seguita alcuna modifica di legge che permetta di eliminare di fatto tutte le “incapacità” in modo automatico alla chiusura del fallimento». Si spieghi. «In sostanza, abrogando l’istituto della riabilitazione, paradossalmente non si possono più eliminare tutte le conseguenze che derivavano dalla riabilitazione. Con questa si aveva anche l’estinzione degli effetti dell’eventuale condanna penale che talvolta si accompagna alla dichiarazione di fallimento. Il fallito quindi, oggi, chiuso il fallimento, non può semplicemente chiedere ad esempio l’iscrizione al registro delle imprese per l’inizio di nuova attività commerciale, perché non ha alcun documento che attesti il riacquisto delle capacità, né può ottenere direttamente il certificato del casellario che non menzioni i provvedimenti giudiziari relativi al fallimento. L’articolo 24 T.U. 313/2002 infatti lo rende formalmente possibile solo se c’è stata una sentenza di riabilitazione. Di fatto si lascia che i falliti si arrangino da soli, specie se il fallimento è già chiuso». E cioè questo significa che chi ha visto chiuso il proprio fallimento dopo vent’anni deve fare una nuova causa davanti ad un giudice perché una nuova sentenza ne cancelli il nome dal casellario penale. E sembra in effetti dire lo stesso anche la circolare del Ministero della Giustizia del 22 settembre 2008. E che cosa accade in questi casi? Accade che il giudice interpreta. E non è affatto detto che disponga la cancellazione. Una situazione kafkiana.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI? IL CONTRIBUENTE PAGA. Sicchè anche chi è fallito vent’anni fa e il suo fallimento è stato chiuso da tempo immemore, rischia ancora di trovarsi tracce che gli impediscano una nuova vita, anche solo l’accesso ad una banca. Di più. Nonostante le modifiche, prosegue Sammicheli, «il fallito oggi è tuttora privato dell’amministrazione e della disponibilità dei propri beni a partire dalla dichiarazione di fallimento, beni che vengono gestiti esclusivamente dagli organi preposti. È poi il curatore a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di diritto patrimoniale. Inoltre, il fallito non ha né ha mai avuto libero accesso al proprio fascicolo, il che gli impedisce di verificare l’operato degli organi fallimentari. Se è vero che devono essere i creditori ad interessarsene, è anche vero che non se questi lo fanno e il curatore agisce ai danni del fallimento stesso, come è anche successo, difficilmente il fallito potrà saperlo, pur subendone le conseguenze». Nella zona grigia dei fallimenti emergono così storie come quella di un giudice del tribunale fallimentare di Firenze, Sebastiano Puliga, condannato in primo grado, lo scorso novembre 2012, a quindici anni, tre dei quali condonati. Accusato di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta, è stato condannato insieme ad una trentina di persone, tra avvocati, commercialisti, architetti e ingegneri, tutti con pene dai 3 anni e 2 mesi ai 9 anni e 9 mesi. Cuore della vicenda un presunto comitato d’affari per pilotare l’affidamento di perizie e curatele. Il fatto è che le indagini su di lui sono cominciate nel 2002 e la prima sentenza è giunta nove anni più tardi. E riguardava vicende ovviamente precedenti, anni ’90. Significa che, se davvero Puliga è colpevole, ci sono falliti che aspettano giustizia da una vita. «Qualsiasi sia l’esito processuale- dice ancora Sammicheli – è evidente che vicende come queste forse risentono proprio di una eccessiva fiducia accordata originariamente dalla legge agli organi fallimentari. Prima della riforma non c’era alcuna espressa incompatibilità tra i magistrati fallimentari e quelli, ad esempio, incaricati dell’esecuzione sui beni dei falliti. In pratica il giudice del fallimento poteva anche essere giudice delle cause che autorizzava ed in cui stava in giudizio il curatore. La riforma ha cercato quindi di diminuire i poteri del giudice, a favore del comitato dei creditori, aumentando anche i requisiti per essere nominati curatori». Situazione risolta? A sentire il legale no.«Il fallito resta nella situazione precedente. Per ottenere i documenti, in modo da controllare la gestione dei beni, al fallito occorre infatti fare istanza al giudice, che può anche non accoglierla o accoglierla solo in parte. Per esempio le relazioni del curatore anche ora possono non essere date e gli altri documenti dati attraverso il curatore. Il fallito cioè può tuttora non vedere mai il proprio fascicolo e spesso non ha idea di quello che viene fatto».

SUICIDARSI PER NON FALLIRE. E se nessuno vede, e nessuno può controllare, ecco la zona grigia. Dove tutto può succedere, in silenzio. E per anni, tanti anni. Anni in cui il fallito non sa se una sua casa, ad esempio, sia stata venduta a prezzi tali da coprire il debito. Non sa nulla. Solo che pagherà a vita. Con mezzi, beni. E infamia. Di più. «Non solo un fallimento medio anteriore alla riforma è durato almeno dieci anni – conclude il legale -, molti dei quali passati ad aspettare che i beni immobili del fallimento venissero venduti o svenduti, con tutte le conseguenze sulle sue “incapacità”. Ma il fallito, ai sensi dell’art. 120 LF , una volta chiuso il fallimento, ritorna esattamente nella posizione di partenza, ovvero con tutti i debiti non pagati sulle spalle ed è, anche solo teoricamente, di nuovo aggredibile». Punto e a capo. E in una macchina come questa, ecco perché tanti falliti si suicidano. Ed ecco perché in tanti si tolgono la vita piuttosto che fallire.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

Ci sono processi che non cominciano, scrive “Fronte del Blog”. Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso, quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.

LEGGE PINTO. Nel 2001 prese forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle Corti d’Appello. Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo, contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza: la “mora” della mora. Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se non una generica burocrazia. Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro”.

DI CHI È LA COLPA? Eppure i processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di 1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno, che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi. Di certo, stando ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco. Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata pari ad un punto del Pil. Forse. Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo “altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.

EQUO PROCESSO. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. Si tratta sempre dell’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro. Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia, esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto all’arrestato.

SOTTRAZIONE DI MINORI, PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO. «Moltissime – prosegue la Sammicheli – anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata. L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.

COME STANNO LE COSE. I nostri dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta. Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il 1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia? Chi ha pagato per le ingiuste detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto un bambino illegittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare. Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su 1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?

QUARTO GRADO DI GIUDIZIO. In nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva schierato dall’altra. Facile. Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso, stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in sede disciplinare. Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero 113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”, ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio. Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo potrebbe essere rifatto. Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.

AZIONE PENALE. E' VERAMENTE OBBLIGATORIA?

Ma l’esercizio dell’azione penale è veramente obbligatoria? Si chiede Alessio Anceschi. I penalisti lo sanno ... non è così. A quanti cittadini (ed avvocati) capita, e capita sempre più spesso, di vedersi archiviare denunce e querela con le motivazioni più assurde, semplicemente perché, nella pratica (è inutile girarci intorno), i Pubblici ministeri non hanno il tempo, le forze o talvolta "la voglia" di procedere per reati tutto sommato "bagatellari", ancorché (ma questa è una mio opinione) i reati bagatellari non esistono (si suole spesso definire "bagatellari" i reati che capitano "agli altri", fino a quando non coinvolgono NOI). Eppure il dato è allarmante, viene oramai archiviato qualsiasi tipo di denuncia o querela che non rivesta una particolare gravità, con una serialità quasi da "addetti postali al timbraggio". Poi si ci lamenta che tanti reati non vengano neppure più denunciati, soprattutto quando, per sporgere una denuncia, molto spesso bisogna tornare nelle varie caserme almeno 3 o 4 volte di seguito perché una volta manca il maresciallo, un'altra volta ha da fare e la terza non ha la biro. Le motivazioni apposte sono poi le più incredibili e se fossero "serie" allora ci sarebbe ancora più da preoccuparsi. Eppure ... leggo nientemeno che la Costituzione, con la C maiuscola nella quale è scritto che "il Pubblico ministero HA l'OBBLIGO di esercitare l'azione penale"!! Ma si sà, è un obbligo "vuoto", privo di effettiva sanzione. Si ci provi pure a fare opposizione all'archiviazione, con l'obbligo di allegare nuove fonti di prova quando già le prime sono state ignorate. Si aggiungerà una perdita di tempo ad una precedente perdita di tempo (quella di recarsi a far denuncia). Ma si sà, così và il mondo ... quello che finirà presto. Rimane il rammarico, il rammarico di chi crede nella Giustizia (questa sì, con la G maiuscola) e crede che questa serve a difendere il giusto e l'onesto dalle prevaricazioni e dagli abusi altrui, o che i cattivi debbano scontare una qualche tipo di pena. oramai è come credere a babbo Natale!! C'era un tipo, nell'antichità, che si presentò ad un esercito invasore con un libro di leggi in mano. Non vi dico la fine che fece. Speriamo di non fare la stessa !!!

A fronte dell’accoglimento di denunce stupide, si riscontra il fenomeno delle denunce insabbiate. Tralasciando la vicenda del dr Antonio Giangrande, che denunciando dei casi di illegalità territoriale, andando su su in ordine di competenza funzionale giudiziaria,  si è scontrato con il fenomeno dell’insabbiamento delle denunce contro i poteri forti: abusi ed omissioni. Questa attività di ribellione lo ha portato sì inascoltato fin alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma gli ha procurato parecchie ritorsioni da parte delle toghe. Esperienza raccontata nei suoi libri. Ma esemplare è il caso del Maresciallo contro i giudici: «Dieci anni di pratiche insabbiate», scrive “Il Giornale”. Ha scritto al presidente Giorgio Napolitano, è andato a parlare con i funzionari del Quirinale, è stato indirizzato al Consiglio superiore della magistratura e si è presentato anche lì. Ma non è servito a nulla. Fabrizio Adornato, maresciallo dei carabinieri e padre separato da dieci anni, non riesce a ottenere che la magistratura gli dia una risposta. Da anni è ormai vittima di una separazione dolorosa dalla moglie e, come tanti altri genitori, vive con incredibili difficoltà quanto imposto dalla sentenza civile. Sia dal punto di vista economico, sia da quello affettivo nei confronti della figlioletta. Ma soprattutto, Fabrizio Adornato in quasi dieci anni di separazione, ha vissuto lunghe battaglie con la ex moglie e la ex suocera, ha sempre provato a rivolgersi ai magistrati, ma non ha trovato soddisfazione. Da uomo di legge qual è, si è affidato alle denunce, alle segnalazioni. Ha denunciato assistenti sociali e psicologi con nomi precisi e registrazioni di colloqui, ma si è visto archiviare l'indagine peraltro avviata contro «ignoti». Non si è spaventato quando ha trovato porte sbarrate. Certo dell'autonomia dei magistrati, si è anche rivolto ad altri magistrati quando riteneva di aver subito torti. In altre parole, Adornato ha denunciato anche sei magistrati, sempre portando a sostegno delle sue tesi tutte le documentazioni che poteva. Le sue vicissitudini le ha raccontate su un blog senza timore di scrivere anche tutti i nomi dei giudici con i quali si è scontrato. Ma per l'appunto, non ha ancora avuto risposte alle sue richieste di giustizia. Tuttora non riesce a sapere che fine hanno fatto le sue denunce contro i magistrati. Sente dire che gli stessi non sono al di sopra della legge e che anche loro possono essere perseguiti dai colleghi se sbagliano, ma non è ancora riuscito neppure a farsi dire se esiste un procedimento a carico di quei magistrati che lui ha denunciato. Nel novembre scorso ha scritto a Napolitano e un funzionario del Quirinale spiegandoli che colui che presiede il Csm non ha titolo per intervenire, ma che ha girato la pratica all'organo di autogoverno dei giudici. Lì Adornato è andato e si è sentito rispondere che «ci vorrà del tempo» per capire che fine hanno fatto le sue denunce, per verificare se per caso ci siano state omissioni da parte di magistrati. Da mesi aspetta anche questa risposta e ora ha deciso di mettere in atto proteste anche clamorose. «Farò uno sciopero della fame a Roma - spiega il maresciallo dei carabinieri - Qualcuno dovrà almeno chiedersi perché sto protestando. Resto convinto che la magistratura sia in larga parte sana, ma sono preoccupato se nessuno interviene quando ci sono violazioni. Il cittadino si trova a sbattere contro un muro di gomma quando prova a contrastare con i mezzi che gli offre la legge questo potere». Dopo dieci anni, solo silenzi.

Ma la realtà taciuta va oltre ogni ordinaria immaginazione. Ogni giorno a Milano quattro donne denunciano di essere vittima di maltrattamento, scrive Paola D’Amico su “Il Corriere della Sera”. Un numero piccolo, sottostimato, se lo analizziamo dalla prospettiva delle operatrici dei centri antiviolenza, secondo le quali è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno tanto diffuso quanto sottaciuto, trattenuto come un segreto di cui vergognarsi o una verità che non si vuole accettare da molte donne, giovani e meno giovani, italiane e straniere, povere e ricche. Un numero che, invece, s’ingigantisce enormemente se pensiamo, poi, al ruolo che ciascuna donna ha nella società, come figlia, madre, nonna, come lavoratrice, calata nella sua rete amicale, che può come può non essere coinvolta nell’intimità di un tale dramma domestico. Ma le cifre della violenza sulle donne sono anche quelle delle denunce che si chiudono troppo in fretta con richieste di archiviazione dalle Procure, quella di Milano in testa. I dati diffusi dalle volontarie della Casa di accoglienza delle donne maltrattate (Cadmi) di Milano suonano come un grido d’allarme: nell’ultimo anno 945 uomini sono stati indagati per stalking, 1.545 per maltrattamenti in famiglia, 920 per violazione degli obblighi di assistenza familiare. L’elemento più preoccupante «è che nella maggior parte di questi casi le denunce, già in sé non corrispondenti alla totalità “vera” degli episodi, restano senza seguito». Molto spesso, infatti, ha segnalato l’avvocato Francesca Garisto, le indagini si concludono con richieste di archiviazione formulate dalla stessa Procura: 512 su 945 per quanto riguarda lo stalking e addirittura 1.032 su 1.545 per i maltrattamenti in famiglia. «A volte — ha spiegato il legale — la Procura non ritiene sufficiente un solo certificato medico o ritiene le denunce pretestuose». Altre volte è il contesto circostante, a cominciare da amici e parenti, che induce le stesse vittime a minimizzare: «Ma ridurre questi episodi alla semplice conflittualità familiare è sbagliato e tale definizione — insiste l’avvocato Garisto — non fa che occultare il reale fenomeno della violenza familiare, sottovalutando la credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti». Critiche le esperte anche sul ricorso alla mediazione (l’ufficio è gestito dalla Polizia Locale), con vittima e carnefice che vengono «messe sullo stesso piano», pratica definita «poco virtuosa» da chi opera sul campo. Troppo poche anche le misure cautelari richieste dai pm (in un caso ogni otto), considerato che la nostra regione ha il primato nazionale dei femminicidi.Tanto più grave è ritenuto tutto ciò, se si analizza come sta crescendo la consapevolezza delle donne: lo scorso anno le denunce per stalking sono state 945; nel 2009 erano state meno della metà (per l’esattezza 430). Eppure ancora oggi più del 67 per cento delle donne che bussano alla Cadmi in cerca di aiuto finisce comunque per non rivolgersi anche alla magistratura. La presidente Manuela Ulivi ha aggiunto: «La denuncia ancora non appare alle donne uno strumento utile di uscita dalla violenza e di tutela: anzi proprio in seguito alla presentazione della denuncia, purtroppo, spesso si vive il momento di rischio maggiore». Lasciando l’ultima parola ai numeri: tra tutte le telefonate ricevute dalla Casa di accoglienza, la percentuale dei casi di violenza psicologica o fisica oscilla tra il 70 e l’87 per cento, un quarto del totale riguarda situazioni di violenza economica, il 15 per cento è stalking e il 13 per cento violenza sessuale: percentuali che talora si sovrappongono, perché un fatto non esclude gli altri. Ed è un dato di fatto ormai consolidato che i contesti più «pericolosi» sono quelli teoricamente più sicuri: l’86 per cento delle violenze sessuali viene subita da persone che si conoscono, 67 volte su cento tra le mura domestiche. E ancora: il 46 per cento dei maltrattamenti avviene a opera dei mariti, 52 per cento se al conto si aggiungono gli ex mariti. Quanto alle vittime, quasi sette su dieci di quante presentano una denuncia sono italiane e poco più della metà ha un’età compresa tra i 28 e i 47 anni: sei su dieci hanno un lavoro e un livello culturale elevato. Tra le straniere le più colpite risultano essere le romene e le peruviane: ma anche questo dato, naturalmente, è riferito solo a quante denunciano i fatti.

Duro atto d'accusa di avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle maltrattate (Cadmi) nei confronti di tribunale e magistrati del capoluogo lombardo "colpevoli" di ricondurre a manifestazioni di 'conflittualità familiare' i racconti delle maltrattate sottovalutando la credibilità di chi si rivolge alla giustizia, scrive Stefania Prandi  su “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati presentati il 14 maggio, durante la conferenza stampa alla Libreria delle donne, su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate. “La tendenza è di archiviare, spesso ‘de plano’, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di ‘conflittualità familiare’ – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano”. Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: “Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio”. Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. I numeri forniti dalla Cadmi sono consultabili sul sito della procura di Milano, nel rapporto “Bilancio di responsabilità sociale 2011-2012”. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini. “Nonostante le forti critiche, il nostro confronto con le autorità competenti resta aperto – sottolinea Ulivi – Anche perché la sottovalutazione della gravità delle denunce è solo uno dei problemi che ci troviamo ad affrontare quando parliamo di violenza contro le donne. Non dimentichiamo, infatti, che mancano i fondi per le case di accoglienza, che quando ci sono vengono distribuiti a casaccio e che quindi la maggior parte del nostro lavoro resta basato sul volontariato”.

E poi il paradosso. L’assalto degli abusivi, l’inutile denuncia alle forze dell’ordine, la beffa di dover fornire i documenti, mentre loro, i tassisti fuori legge, si allontanano tra la folla, scrive “Il Messggero”. E’ la disavventura capitata alla senatrice radicale Donatella Poretti e alla deputata Pd Paola Concia. «In quel suk della Stazione Termini siamo state trattate come delinquenti dalle forze dell’ordine, solo per aver indicato dei tassisti abusivi. Ci è mancato poco che finissimo in caserma». Il treno che portava le due parlamentari a Roma è arrivato a Termini alle 10.45: Poretti e Concia escono su piazza Cinquecento e si accodano alla lunga fila in attesa dei taxi. Lì vengono «assalite» dai tassisti abusivi, che cercano di convincerle a salire a bordo. «Alle prime - raccontano - abbiamo intimato loro un attenti che vi denunciamo. Poi ci siamo dirette da un carabiniere che era lì e lo abbiamo invitato a intervenire». Le due restano allibite dalla risposta: «Io non vedo niente ci ha detto andate in caserma e sporgete denuncia se credete». Intanto gli abusivi si allontanano, Poretti e Concia si accalorano per la reazione del carabiniere. A quel punto, l'uomo chiede loro i documenti, Poretti e Concia mostrano le tessere parlamentari. «Il carabiniere - racconta Concia - si rende conto di avere tra le mani due tessere parlamentari, prende gli estremi e chiama altri uomini dell'Arma. Ci hanno tenute lì diverso tempo, se fossimo state due semplici cittadine ci avrebbero portate in caserma. Trattate, di fatto, come delinquenti per aver tentato di denunciare dei tassisti abusivi». Non è finita qui. Nel mirino degli uomini dell'Arma, a quanto raccontano Concia e Poretti, finisce anche il ruolo delle due. «Davanti al tesserino da parlamentari - racconta Poretti - un carabiniere ci ha apostrofato: Eccola qua, la solita casta». «Eppure - sottolinea Concia - noi ci siamo rivolte alle forze dell'ordine anche per il ruolo che rivestiamo, non potevamo chiudere gli occhi e far finta di nulla». Più tardi Poretti si è rivolta alla polizia del Senato, da qui la decisione di presentare - come è stato fatto - un’interpellanza al ministro della difesa nella quale si chiede un atto di sindacato ispettivo interno all’Arma ai fini di accertare l’operato del carabiniere, identifiandolo e più in generale delle caserma dei carabinieri della stazione Termini. I carabinieri hanno fatto sapere che dopo l’indagine interna risponderanno all’interrogazione.

 Ed ancora la kafkiana storia di Carlo Carpi raccontata da Laura Marinaro su  “L’Intraprendente”. «Da quando ho denunciato un magistrato per minacce, non  o più pace; perizie psichitriche, perquisizioni, trattamenti sanitari obbligatori...Io reggo perchè ho risorse economiche, ma chi non può?»

È il rampollo di una delle più potenti famiglie di industriali italiani, i Tassara. Il suo trisavolo Filippo Tassara aveva fondato le ferriere di Voltri, più importante industria siderurgica del Regno di Sardegna. Ma è anche un giovane imprenditore che da anni lotta contro un sistema giudiziario kafkiano. Adesso, però, Carlo Carpi, 29 anni, laureato in Scienza delle finanze e oggi agente d’affari nell’azienda siderurgica bresciana fondata dalla Famiglia materna (Metalcam s.p.a) ha deciso di rendere pubblici i retroscena di una vicenda pazzesca che, in diversi modi, coinvolge migliaia di cittadini vittime della malagiustizia. La storia nasce da una circostanza che potrebbe sembrare la più “normale” di questo mondo per un giovane di bell’aspetto e di famiglia ricca della sua età: una relazione sentimentale con una donna piacente, che in seguito scopre essere un magistrato di Genova. «La storia inizia nel 2005 quando io non sapevo che la donna era un giudice – racconta – comunque i problemi iniziano quando lei mi propone della cocaina e di partecipare a dei veri e propri festini insieme a suoi colleghi ed avvocati. Io mi rifiuto e lei minaccia di denunciarmi. Nel novembre del 2007, non sapendo come comportarmi, chiedo consiglio a un avvocato e ad un pubblico ministero genovese e decido di denunciare per minacce e per spaccio di droga lei e gli altri componenti del suo giro. Tutti personaggi noti del tribunale genovese. Ovviamente lei, ospitata da due pm genovesi, lo viene a sapere e mi denuncia per calunnia, diffamazione e minacce gravi». Inizia così un infinito iter giudiziario nel quale è Carpi in primo grado a soccombere e a finire anche condannato per stalking e procurato allarme a 2 anni e 7 mesi. Inizialmente per dimostrare a fini giuridici la sua inattendibilità si tenta in maniera sistematica la strada delle perizie psichiatriche, che riconoscono Carpi come sano, attendibile e in buona fede. Nel frattempo le denunce che lui fa a giudici e compagni finiscono a modello 45 (ovvero come atti non costituenti reato). «In pratica divento vittima di un sistema associativo perpetrato in maniera sistematica, continuativa e coordinata», continua. Accuse pesanti che Carpi sarebbe riuscito a dimostrare una per una, forte di una cultura notevole in campo anche investigativo e di intelligence e di appoggi non comuni, come l’interessamento del senatore Giulio Andreotti. Ma non basta. L’imprenditore subisce una perquisizione domiciliare, viene sottoposto a un tentativo di trattamento sanitario obbligatorio. Poi, con l’entrata in vigore della legge sullo stalking, finisce addirittura al confino: «Vengo condannato per stalking senza prove, ma solo per due incontri casuali con la donna che ho dimostrato documentalmente essere stati tali, uno in pieno centro città fuori dalla banca dove la mia società ha un conto corrente e l’altra presso il centro sportivo dove ho dimostrato essere abbonato con la tessera e un assiduo frequentatore tramite la presentazione di fatture relative a 12 ingressi negli ultimi 2 mesi». Nonostante ciò il tribunale su istanza del procuratore capo Giancarlo Caselli lo obbliga a prendere dimora presso il comune di Sestri Levante, dove vive in un albergo senza lavorare. E con la Digos alle calcagna. «Come se non bastasse mi azzerano la difesa: il mio legale Mario Sossi, famoso magistrato sequestrato dalle Brigate Rosse, viene radiato dall’Ordine degli Avvocati per motivi poco chiari su istanza della mia ex compagna», aggiunge. «Adesso sto aspettando ormai da anni che mi dicano quando mi fissano l’Appello, ma inutilmente. Sono stato condannato sebbene la mia ex si sia rifiutata di sottoporsi al test antidroga, e senza uno straccio di prova concreta, malgrado in aula avessi prodotto prove inequivocabili, tra le quali le fotografie dei coca party che giudici e avvocati facevano con tanto di nomi». «Ma a me non importa di quei festini, quanto mettere in evidenza come il nostro sistema giudiziario non funziona perché non lo si vuole far funzionare. Nel mio caso e non solo nel mio si cerca di dichiarare una persona normale incapace di intendere e di volere per renderla non credibile e si montano le accuse ad arte senza fare indagini. Io posso dimostrare che alcuni magistrati in Italia fanno letteralmente quello che vogliono in base ai loro interessi personali e politici, archiviano, rinviano a giudizio, assolvono e condannano con motivazioni false». Accuse pesanti che Carpi sarebbe riuscito a documentare e con le quali adesso ha intenzione di portare il tema della giustizia alla ribalta mediatica, anche grazie anche al movimento Orgoglio Nazionale che ha costituito e che raccoglie i casi di malagiustizia. «La gente comune travolta da questa malagiustizia soccombe – ha aggiunto – perché non ha i mezzi e la cultura spesso: io finora ho speso 120 mila euro, ma per fortuna sono stato in grado di permettermelo. Per questo voglio andare fino in fondo e lottare fino alla fine e aiutare anche chi non può farcela. Se non si ha una cultura di tecniche imprenditoriali, politiche, di polizia e giudiziarie il sistema per come progettato annienta le persone in termini sociali e di fatto, istigando anche al suicidio». Quale speranza per lui e per le vittime di questo sistema? «Nella giustizia italiana non ho alcuna fiducia: se c’è dolo da parte di alcuni, c’è omertà da parti di altri. Sono consapevoli che in un sistema giudiziario di stampo americano non sarebbero in grado di giustificare il proprio ruolo. Purtroppo oggi vedo la fine di uno Stato, a oggi questo sistema costituzionale non garantisce più ai cittadini il controllo dello Stato. L’unica speranza è comunicare al mondo intero cosa sta succedendo in Italia e protestare in maniera attiva sugli abusi che vengono commessi quotidianamente come perizie psichiatriche, tso, confini, report di polizia giudiziaria propedeutici a compilazioni di sentenze studiate e decise a priori secondo teoremi. Chi ha una coscienza civica deve ribellarsi contro questa dittatura occulta senza indugiare».

Il magistrato che cerca di zittirmi con 13 querele, scrive Michele Inserra su “Il Quotidiano Web”. Il singolare caso di un giornalista e delle scelte di un magistrato. «Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, è querelarlo ben 13 volte»

«Sinora ho mantenuto un profilo basso sulla vicenda che da lunghi mesi mi vede coinvolto. Sono stato in silenzio e ho continuato a fare il mio lavoro. Ma ora sono stanco di essere vittima di una singolare anomalia. Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, che non si limita a pubblicare la velina di turno, sapete quale è? Querelarlo. Mica una volta. Ben tredici querele dalla stessa persona. Caso raro, se non unico in Italia. Querelato non da una persona qualsiasi. Bensì da un magistrato: Alberto Cisterna, l'ex vice dell'allora procuratore nazionale Piero Grasso, oggi presidente del Senato, trasferito dal Csm a fare il giudice a Tivoli, provvisoriamente, per aver agito “al di fuori dei suoi doveri istituzionali”. Non entro nel merito delle varie vicende, né contesto il suo diritto di difesa, che va affrontato nelle sedi deputate a farlo, ma il metodo adottato. Cisterna si è sentito diffamato persino dalle virgole dei miei servizi. Ebbene, delle tredici querele otto sono state archiviate dalla Procura di Cosenza, anche dopo opposizioni di Cisterna. In quattro circostanze sono stato rinviato a giudizio. Ma non finisce qui. Perché tra i quattro rinvii a giudizio ben due sono stati ottenuti su imputazione coatta richiesta da un gip di Cosenza, a fronte di richieste di archiviazione da parte del pubblico ministero. Anche questo un caso raro, se non unico in Italia. Basti pensare che nel corso dell'anno 2012 alla Procura di Reggio Calabria saranno state al massimo tre-quattro le imputazioni coatte. E tutte a persone legate ad ambienti criminali. Su una querela soltanto attendo ancora l'esito. In Italia la più recente giurisprudenza ritiene che le querele pretestuose, fatte solo per intimidire i giornalisti, possono essere soggette ad una penale per chi le presenta. Non mi fermerà di certo questa azione anomala messa in campo da Cisterna. Naturalmente della vicenda informerò l'Ordine dei giornalisti nazionale, il Consiglio superiore della Magistratura, il presidente del Consiglio Letta e il ministro della giustizia Cancellieri. E' giusto che anche il nuovo procuratore di Reggio, Federico Cafiero de Raho, sappia cosa sta accadendo da tempo. Avrei potuto farlo in camera caritatis, ma preferisco farlo pubblicamente, alla luce del sole. Mi auguro a questo punto che la Legge sia davvero uguale per tutti, e non sia questo solo uno dei tanti slogan. Ringrazio sin da ora quei pm e quei gip della Procura di Cosenza che hanno avuto la professionalità e la determinazione di ritenere tutti uguali davanti alla Legge.

Certo che non ci si può esimere dal citare il pensiero di Rita Pennarola che scrive su “La Voce delle Voci”. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell'ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l'arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l'accusa di omicidio, ovviamente, c’è il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo - o più probabilmente, potuto - rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell'altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all'interno dell'esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell'assassinio. «Accade talvolta - dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi - che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d'indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato - che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l'altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent'anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito - spiega Imposimato - non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l'ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell'immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. A disporre l'arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l'omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest'ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l'autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand'anche essi fossero all'interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l'arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all'istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l'uomo che aveva dettagliato l'esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani.

A tal proposito per rimarcare la fondatezza del riferimento si cita l’interrogazione parlamentare “Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272, pubblicato il 17 novembre 2011, Seduta n. 637. LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che: il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato; l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno; successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio; dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma; pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano; i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito; si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti; -considerato che: la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati; in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986; secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima; la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato; tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta; sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione; in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa; della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano; nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli; considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere: di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa; quali iniziative di competenza intenda adottare.”

Il 9 agosto 2011 Giovanni Cirillo lascia da un giorno all'altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d'Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un'intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l'incarico: «da due ore - esordisce - non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l'ordinanza di custodia cautelare del pm Monti), l'idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto”, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l'amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all'ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com'è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania - dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l'indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sè». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l'addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell'ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell'ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l'ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l'immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell'esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell'area il 18 aprile, a quell'ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

Poi c'è un'altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell'esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all'eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall'Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall'Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un'indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall'Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l'arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un'altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall'Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall'Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l'arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell'inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio - commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra - quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l'hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent'anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è  stato in qualche modo complice?. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E' la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»

Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc.  Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.   

Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.

«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»

Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.

«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi,  ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».

Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!

«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà  dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.  Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»

Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?

«Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»

A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?

«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede  Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»    

Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?

«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»

Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?

«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad  aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho  raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende.  Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.

Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.

«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare.  Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese.  Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.» Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.  In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini  afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»

Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?

«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».

Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?

«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»

Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?

«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e  servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico  Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»

Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?

«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011  dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”

A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?

«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.  Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla  di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il  7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,  rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea  della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»

Va bene. Allora presenti lei Avetrana.

«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»

La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?

«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara  “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»

La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?

«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.  Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»

E sui magistrati in generale cosa ha da dire?

«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»

Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?

«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità  e l’esito differenziato dei processi  in virtù del giudice che ha deciso sulle cause.  Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere  di una persona,  il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo  Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»

Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?

«Non  dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso  un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti,  si asteneva,  tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»

Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?

«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO

Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,

avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.

Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto  riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

MAGISTRATI SOTTO INCHIESTA.

«Per l'ennesima volta apprendo dalla stampa delle iniziative giudiziarie prese nei miei confronti dalla Procura di Lecce: dall'iscrizione nel registro degli indagati (giugno 2011 sulla base di un esposto anonimo), passando per i due avvisi di chiusura indagine (25 settembre 2012 e 10 gennaio 2013)»: comincia così il commento del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati a poche ore dalla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Lecce che lo ha indagato con l'accusa di aver ostacolato le indagini sul giro di escort che Giampaolo Tarantini reclutava per le feste nella residenza romana di Silvio Berlusconi. Rinvio a giudizio che riguarda anche il suo sostituto, Giuseppe Scelsi.  «Questa mattina - aggiunge Laudati - dopo aver letto che la Procura di Lecce ha inviato nella tarda serata di ieri, 18 marzo 2013, a Roma all'Ufficio di presidenza del Csm la richiesta di rinvio a giudizio a mio carico ho immediatamente chiamato il mio avvocato di Lecce, scoprendo che anche lui ne era a conoscenza solo per aver letto il quotidiano La Repubblica. Le indagini preliminari a mio carico non hanno garantito né celerità né riservatezza, come la normativa impone - conclude il capo della procura di Bari - A questo punto, confidando nella correttezza della Magistratura della quale mi onoro di far parte, sto valutando tutte le iniziative da prendere».

Non è così con i magistrati di Taranto. Si sta bene attenti a svelar le denunce contro di loro. Pochi giornalisti se ne occupano.

I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?

Avevano promesso collaborazione istituzionale, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Il presidente del siderurgico chiede ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Nella denuncia non ci sono i nomi né del procuratore capo Franco Sebastio, né quello dei sostituti che stanno svolgendo l'inchiesta, né tantomeno quello del gip Patrizia Todisco. Sono ricostruiti passo per passo però i loro provvedimenti, dal sequestro dell'area a caldo avvenuto nel luglio scorso sino al blocco della produzione deciso a novembre 2012.  L'Ilva segnala come nonostante i provvedimenti legislativi di fatto concedessero la facoltà d'uso all'impianto (seppur legandolo a una serie di restrizioni previste dall'Aia), Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda. In particolare fanno riferimento al miliardo di euro di acciaio prodotto che è rimasto bloccato in azienda per mesi: il Governo aveva ordinato di venderlo, il provvedimento era stato impugnato alla Corte Costituzionale così come il primo decreto, la Procura aveva incaricato i custodi di commercializzarlo fin quando il Riesame non ha dato ragione all'Ilva restituendo il materiale e la facoltà di venderlo all'azienda. Ferrante ha inoltre contestato il provvedimento che ha portato alla sua iscrizione nel registro degli indagati: in qualità di custode non avrebbe, così come prescritto, evitato la produzione durante la fase del sequestro. Per questo Ferrante era stato poi rimosso. Ma l'Ilva ne ha anche per i custodi attualmente in carica (gli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento; il commercialista Mario Tagarelli) accusati di non svolgere correttamente il proprio incarico. Anche per questo l'azienda ha chiesto al tribunale di Taranto la revoca dell'incarico dei custodi. Quella di Ferrante di attaccare i giudici appare un cambio di strategia chiaro: altro che strategia del dialogo, piuttosto sembra un ritorno al modo di fare dei Riva e di quel Girolamo Archinà oggi ancora in carcere. Non è un caso che contemporaneamente alle denunce ai giudici sono partite richieste di risarcimento danni nei confronti di Repubblica e Fatto: i due giornali avevano parlato della diatriba con la Provincia sulle fideiussioni rilasciate per le discariche di servizio, fideiussioni che la Provincia aveva ritenuto non convincenti con una lettera finita anche all'attenzione della magistratura: nei documenti presentati mancava, diceva l'ente, la data di scadenza delle garanzie e la dichiarazione che attestasse l'identità dei sottoscrittori e dei loro poteri. L'Ilva ha chiesto 100mila euro a ciascuno dei due quotidiani.

La legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. "Le sentenze della Corte costituzionale si rispettano e non si commentano", il commento del procuratore, Franco Sebastio; "la decisione impegna tutti a proseguire con rigore e rapidità nel programma per il risanamento ambientale", quello del ministro dell'Ambiente, Corrado Clini. Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. Le conseguenze immediate potrebbero essere il dissequestro dei prodotti finiti e la ripresa della piena attività della fabbrica di acciaio pugliese, ferme restando le difficoltà della vendita più volte denunciate dall'azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. La sentenza arriva nel giorno della protesta a Roma di cittadini e ambientalisti, che hanno manifestato davanti Montecitorio proprio contro quella norma ribattezzata "legge vergogna". E a pochi giorni dal referendum per la chiusura parziale o totale dello stabilimento jonico che si svolgerà domenica a Taranto. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. La decisione è stata deliberata, tra l'altro - è spiegato in una nota - in base alla considerazione che "le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull'accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall'inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell'autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall'ordinamento". La corte ha, altresì, ritenuto che "le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Nella prima fase dell'udienza, è stata valutata la costituzione delle parti. Sono stati ritenuti inammissibili gli interventi del Wwf, di Confindustria e di Federacciai. I giudici, invece, avevano ammesso l'intervento "ad adiuvandum" di tre allevatori tarantini, rovinati da diossina e pcb. Il loro gregge è stato abbattuto il 10 dicembre del 2008, quando complessivamente vennero uccisi 1200 animali.  Lo scorso 26 luglio 2012 il gip Patrizia Todisco aveva ordinato il sequestro preventivo degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, ritenendoli, sulla scorta di perizie compiute nelle forme dell’incidente probatorio e dunque nel pieno contraddittorio delle parti, che fossero causa di malattia e morte per gli operai e i cittadini. L’Ilva propose ricorso al tribunale del riesame che però confermò il provvedimento del gip. Non fu proposto ricorso in Cassazione, e dunque su quel sequestro preventivo si formò il cosiddetto giudicato cautelare. Non potendo intervenire su quel sequestro divenuto definitivo, il ministro dell’Ambiente Clini prima rivide l’Aia concessa all’Ilva nel 2011 (provvedimento ora al centro dell’indagine della Guardia di Finanza), poi, con la legge 231 del 2012 (la salva-Ilva, appunto), fermo restando il sequestro, ridiede l’uso degli impianti all’azienda, concedendo 36 mesi di tempo per l’attuazione delle prescrizioni previste dalla nuova autorizzazione integrata ambientale. Il sequestro degli impianti c’è, insomma, e non è stato revocato - né poteva d’altronde esserlo - dalla Consulta, ma quegli stessi impianti possono comunque essere usati, pur se ritenuti causa di malattia e morte per i tarantini, perfino nelle more del loro rifacimento.

E' partito dallo scorso luglio il lungo conflitto sull'Ilva che è stato all’esame della Consulta e che vede contrapposti da un lato i magistrati di Taranto che hanno disposto il sequestro di parte degli impianti e dei beni prodotti dallo stabilimento tarantino e dall’altro il governo e il parlamento che con la legge 'salva Ilvà hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell’attività del siderurgico. Queste le principali tappe della vicenda.

- 26 luglio 2012: su richiesta della Procura, il gip di Taranto dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva, nominando quattro custodi giudiziari. Otto le persone arrestate, tra le quali Emilio Riva, il figlio Nicola e l’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso.

- 26 novembre 2012: scatta una seconda ondata di arresti sulla base dell’inchiesta per disastro ambientale e di un’altra parallela chiamata 'Ambiente svendutò. Sei le persone arrestate. Il gip fa sequestrare il prodotto finito e semilavorato giacente sulle banchine perchè ottenuto utilizzando gli impianti che erano sotto sequestro (1,8 mln di tonnellate di acciaio per un valore di un miliardo di euro).

- 3 dicembre 2012: il governo emana il decreto legge 207 che autorizza l’Ilva a produrre e reimmette l’azienda nel possesso dei beni, nonostante i decreti di sequestro.

- 5 dicembre: la Procura restituisce gli impianti ma dà parere negativo sulla restituzione dei prodotti e rimanda la decisione al gip.

- 11 dicembre 2012: il gip Todisco rigetta l’istanza di dissequestro dell’Ilva, la merce sulle banchine non può essere movimentata.

- 20 dicembre 2012: il decreto legge del 3 dicembre viene convertito con modificazioni nella legge 231 cosiddetta 'salva Ilvà che entrerà in vigore il 4 gennaio successivo. L’Ilva viene autorizzata a commercializzare i prodotti finiti e semilavorati che erano stati posti sotto sequestro.

- 31 dicembre 2012: viene depositato alla Consulta il ricorso della procura di Taranto per conflitto di attribuzione nei confronti del governo sul decreto poi convertito nella legge 231. Successivamente la procura presenta ricorso per conflitto di attribuzione anche contro la legge di conversione.

- 15 gennaio 2013: i giudici del Tribunale di Taranto sollevano dubbi di costituzionalità sulla legge e in particolare sull'art.3 che consente all’Ilva di commercializzare i prodotti finiti e semilavorati posti sotto sequestro.

- 22 gennaio 2013: anche il gip del Tribunale di Taranto, accogliendo la richiesta della Procura, solleva la questione di legittimità costituzionale della legge 231 'Salva Ilva' e invia gli atti alla Consulta. In particolare, dice il gip, con gli articoli 1 e 3, la legge si pone «in stridente contrasto con il principio costituzionale della separazione tra i poteri dello Stato».

- 13 feb 2013: La Consulta giudica non ammissibili i due ricorsi sul conflitto di attribuzione presentati dalla procura in quanto superati dalla questione di illegittimità costituzionale sulla legge posta prima dal Tribunale e poi dal gip.

- 9 aprile 2013: la Consulta decide sulle due questioni di illegittimità.

Il braccio di ferro fra Ilva e magistratura tarantina approda in procura a Potenza, scrive il tarantino “Il Corriere del Giorno”. Il presidente Bruno Ferrante ha presentato un esposto nei confronti dei magistrati tarantini che conducono l’inchiesta sul disastro ambientale. Firmatario, stando a indiscrezioni, sarebbe anche l’ex direttore generale dello stabilimento siderurgico Adolfo Buffo. Da quanto si è appreso, nell’esposto si fa riferimento a presunti abusi relativi all’inchiesta condotta dalla procura tarantina, sfociata, il 26 luglio 2012, nel sequestro degli impianti dell’area a caldo e nell’arresto di Emilio e Nicola Riva (entrambi sottoposti ai domiciliari), dell’ex direttore generale dello stabilimento siderurgico Luigi Capogrosso e di cinque dirigenti dello stabilimento siderurgico (poi rimessi in libertà dal Riesame). L’inchiesta sul disastro ambientale è sfociata nell’esecuzione di nuovi provvedimenti restrittivi, il 26 novembre, nei confronti, fra gli altri, dell’ex addetto alle relazioni esterne Girolamo Archinà e del perito della procura, professor Lorenzo Liberti. Contestualmente ai provvedimenti cautelari, il gip Patrizia Todisco, su richiesta del procuratore capo Franco Sebastio, dell’aggiunto Pietro Argentino e dei pm Mariano Buccoliero, Remo Epifani e Giovanna Cannarile, ha emesso anche il decreto di sequestro dei prodotti finiti e semilavorati, un milione e 700.000 tonnellate di acciaio (del valore di un miliardo, secondo l’azienda). Al provvedimento, che ha inasprito lo scontro, si è aggiunta la decisione della procura di chiedere la vendita coatta dei prodotti, affidandola ai custodi giudiziari, per sottoporre a sequestro i proventi. L’ordinanza emessa dal gip è stata poi annullata dal tribunale del riesame che ha accolto il ricorso di Ferrante. Alcune doglianze, a quanto pare, riguarderebbero nello specifico il provvedimento relativo al sequestro dei prodotti in seguito al quale sono finiti sul registro degli indagati lo stesso Ferrante e Buffo per non aver impedito l’inquinamento degli impianti. La querela, presentata attraverso uno dei legali milanesi dell’Ilva, l’avvocato Marco De Luca, per conto di Ferrante, è stata depositata dall’avvocato Donato Pace, del foro potentino. Saranno adesso i magistrati di Potenza (competenti ad indagare sui magistrati in servizio a Taranto) a vagliare i fatti illustrati dal massimo esponente dell’Ilva. Ferrante ha puntato il dito contro la procura ma anche contro i custodi giudiziari dei quali, nelle scorse settimane, ha chiesto la revoca.

Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?

Per alcuni capi d'accusa è già intervenuta, mentre per gli altri, uno in particolare, è questione di mesi, scrive Leo Amato su “Il Quotidiano Della Basilicata”. Una mezza sicurezza, per intendersi, a maggior ragione se il dibattimento dovesse ricominciare da zero a causa del rinnovo del collegio giudicante. Sembra avviarsi alla prescrizione il processo alla «legge» di Castellaneta. Questo il nomignolo che qualcuno avrebbe assegnato al pm di Taranto Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari e attualmente sospeso dall'incarico in magistratura. A causare il probabile azzeramento del lavoro svolto nelle udienze che da sei mesi a questa parte impegnano il Tribunale di Potenza tutti i giovedì potrebbe essere il trasferimento di due dei giudici a cui era stato assegnato il caso. Con l'arrivo dei loro sostituti le difese avranno tutto il diritto di chiedere il rinnovo delle attività compiute finora, e anche se si sono dette orientate in senso contrario, è tutt'altro che da escludere la possibilità che cambino idea. Risultato? Come minimo andranno risentiti i testi che sono già sfilati nelle scorse udienze e in qualche caso hanno confermato le dichiarazioni fatte ai carabinieri di Potenza, e in qualche caso le hanno smentite finendo sulla lista nera dei possibili indagati per falsa testimonianza. Contro questa evenienza nei giorni scorsi si è opposto il legale che assiste le parti offese del processo, tra cui l'ex senatore e sindaco di Castellaneta Rocco Loreto. L'avvocato Fausto Soggia ha infatti depositato un'istanza di applicazione dei due giudici in partenza che permetterebbe a entrambi di tornare nel loro vecchio ruolo per completare il dibattimento. Di Giorgio è stato anche arrestato per gli stessi fatti per cui oggi si trova a processo a novembre del 2010, al termine di una serie di attività investigative - coordinate dalla procura della Repubblica di Potenza (che è la sede competente ad indagare sui reati commessi dai magistrati di Taranto) - durate circa due anni, e avviate dopo le denunce di cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Per lui l'accusa era di concussione perchè avrebbe compiuto atti contrari ai suoi doveri d'ufficio, ricevendo in cambio diverse utilità, ma mai denaro contante. In particolare, il pm tarantino - che era stato raggiunto dall'ordinanza assieme ad altre due persone, - avrebbe minacciato di un «male ingiusto» un consigliere comunale di Castellaneta, che è il suo comune di residenza, costringendolo alle dimissioni. La cosa avrebbe creato le condizioni per una crisi del consiglio e le nuove elezioni dove avrebbe prevalso un candidato a lui vicino. E quelle dimissioni sono proprio l'episodio a rischio prescrizione più a breve.Di Giorgio avrebbe anche agito per permettere a un bar, aperto illegalmente, di continuare a operare in cambio della revisione della sua testimonianza rispetto a una lite avuta tempo prima con l'ex senatore dei Ds Rocco Loreto. Un episodio da cui sarebbe scaturito nel 2001 l'arresto di Loreto per calunnie nei confronti di Di Giorgio, su richiesta del pm Henry John Woodock all'epoca ancora in servizio per la procura a Potenza, che a distanza di nove anni è poi dovuta tornare sui suoi passi.

Se sarà confermato ciò che si legge negli atti del processo che andiamo a raccontare, c’è da scommettere che Montesquieu non si stia limitando a rivoltarsi nella tomba ma l’abbia già ridotta in pezzi, scrive Peppe Rinaldi sul quotidiano "Libero" del 27 marzo 2013 riportato da “Eolo News”.  Veder sommate in un unico soggetto attività politica e giurisdizionale sarebbe troppo perfino per tipi à la Flores D’Arcais: pare, invece, sia successo, seppur con forme e contenuti ormai ridotti a cronaca giudiziaria. Stiamo parlando del famoso «processo alla Legge» -come l’ha definito qualcuno tra Puglia e Basilicata - dove per «Legge» è da intendersi il sostituto procuratore Matteo Di Giorgio figura di primo piano della vita politica, amministrativa e giudiziaria del tarantino, in particolare della città di Castellaneta: almeno fino a quando i suoi colleghi di Potenza, competenti sui magistrati pugliesi, si sono presentati a casa per ammanettarlo. Pesantissime le accuse: concussione, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, favoreggiamento e mutamento del titolo di reato. E’ una vicenda complicata a giudicare dalle 175 pagine della richiesta cautelare del pm Laura Triassi, siglata dal gip Gerardina Romaniello il 10 novembre 2010 e quasi integralmente richiamata nel decreto di rinvio a giudizio dell’aprile 2012 dal giudice Michela Tiziana Petrocelli. Incredibile perché? Al netto dell’ovvia presunzione d’innocenza, il racconto merita perché difficilmente si è sentito di un pm che - nell’esercizio delle funzioni e all’interno del territorio di competenza - avrebbe partecipato a riunioni politiche, dettato la linea da seguire ad amici ed accoliti di una lista civica (area di centrodestra) e brigato per far sottoscrivere da sindaci, assessori e segretari di partito documenti in suo favore per ottenere la candidatura alla presidenza della Provincia di Taranto. Di pm paracadutati in politica in virtù di indagini rumorose ne son piene le cronache: proprio la Puglia ne contempla almeno una mezza dozzina temporaneamente occupati a garantire il bene della collettività. Ma come quello di Matteo Di Giorgio - sempre che tutto regga fino alla fine del processo - non risulterebbero altri casi. La vicenda parte da lontano: siamo nel 2001 quando un senatore degli allora Ds, Rocco Loreto, sindaco in carica di Castellaneta e nemico acerrimo di Di Giorgio, manda a Potenza un esposto sul pm. Il fascicolo finisce nelle mani di John H. Woodcock, ancora in servizio in Lucania, il quale non trova nulla contro il collega di Taranto e, pertanto, vira direzione mettendosi ad indagare su chi la denuncia aveva presentato. Fino ad arrestare il senatore Loreto cinque giorni dopo la perdita dell’immunità, con l’accusa di calunnia. Il Riesame annullerà tutto: la custodia cautelare per quel tipo di reato è inammissibile. Dal “palo” preso dal pm di Vallettopoli, Savoiagate, dei casi De Gregorio, Finmeccanica, P4 e chissà cos’altro, discende l’ambaradàn di questi giorni. Perché, trasferito Woodcock a Napoli, la palla passa al pm Laura Triassi che indaga fino a chiudere il cerchio. Negli atti si leggono fatti, circostanze, intercettazioni telefoniche ed ambientali, dichiarazioni testimoniali (alcune poi ritrattate e per le quali è in corso separato procedimento) allarmanti: Di Giorgio, ad esempio, per far cadere la giunta di Castellaneta guidata da Loreto, avrebbe convinto l’undicesimo consigliere comunale (quello mancante cioè) a firmare la sfiducia dopo che a questi viene prospettata la possibilità che sua nipote e suo fratello, coinvolti in un giro di droga all’interno di una discoteca, non vengano arrestati. Così avviene: i due giovani, pur essendo i «capi» dello spaccio, sono gli unici a non finire dentro. Il consigliere, intanto, aveva firmato la sfiducia e la giunta era andata a casa. Ancora: il sindaco subentrato, un avvocato, emergerebbe dal processo come uno strumento nelle mani del pm. Si legge di episodi paradossali, con il pm che convoca riunioni nelle stanze municipali, di urla e strepiti per aver dato incarichi esterni senza il suo permesso o per averne rinnovati altri ai suoi nemici. «L’ho fatto piangere, si è accasciato sulla poltrona chiedendomi scusa» dice ad un’amica Di Giorgio in un’intercettazione, riferendosi al sindaco che «ha tradito l’amicizia». In un altro caso, avrebbe obbligato una vittima d’usura a non denunciare lo strozzino, suo parente. Ancora: in un residence turistico della zona lavorava come guardiano una persona legata a Loreto e, per obbligare il proprietario a mandarlo via e rifiutare la successiva offerta al ribasso per il servizio dallo stesso ripresentata, Di Giorgio avrebbe garantito che un suo amico pm (Buccoliero, quello del caso Scazzi) non gli avrebbe sequestrato l’impianto. Le indagini hanno chiarito che il sequestro avvenne e intanto Di Giorgio avrebbe goduto di trattamenti al risparmio per le vacanze. Un quadro complesso, sempre che venga confermato dal giudizio. Il punto è qui: rischia di prescriversi tutto nonostante il tribunale abbia proceduto con udienze straordinarie. Giovedì 21 marzo due giudici hanno ufficializzato il loro trasferimento: quindi sarebbe tutto da rifare, con testimoni da risentire e via dicendo. In pratica il processo “alla Legge” rischia di saltare. Accade spesso quando di mezzo c’è un magistrato. Come succede di rado che in calce ad un’ordinanza di custodia cautelare un gip si premuri di disporre che «nell’esecuzione del provvedimento e nella traduzione dell’arrestato vengano evitate inutili forme di disagio e forme indebite di pubblicità». Sacrosanta affermazione, rara avis nelle misure in danno di chi magistrato non è.

E’ interessante, però, conoscere quanto ha da dire su tutti i risvolti della vicenda Michele Imperio. Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Ci siamo già occupati di questa vicenda e rimandiamo il lettore alla lettura dei precedenti post. Ora questa ignobile storia si è arricchita – sempre secondo noi - nei giorni scorsi di un nuovo inquietante capitolo. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La notizia è riportata dalla Rete in questi termini: Rinviato a giudizio il maresciallo Leoenardo D’Artizio. Avrebbe trattato da “reclute”, con offese, umiliazioni e finanche minacce, 21 militari alle sue dirette dipendenze. Uno di questi, il brigadiere Sergio Colaci, 46 anni, nativo di Lecce, si suicidò nella sua abitazione, sparandosi con la pistola d’ordinanza (era sposato con figli). La disgrazia risale al 3 giugno del 2004. Sarà un processo a fare luce su un presunto caso di mobbing alla compagnia dei carabinieri di Castellaneta. Il giudice dell’udienza preliminare Ciro Fiore ha rinviato a giudizio il maresciallo Leonardo D’Artizio, 54 anni, nato a Grassano, ex comandante del Nucleo Operativo e Radiomobile della compagnia di Castellaneta, Il sottufficiale risponde di maltrattamenti, violenza privata, morte come conseguenza di altri reati (in relazione al suicidio del brigadiere Colaci), abuso d’ufficio e falso ideologico. Il capitano Massimiliano Conti, attuale comandante della compagnia di Castellaneta, al quale sono contestati i reati di maltrattamenti e violenza privata per un comportamento “omissivo” (secondo l’accusa, pur essendone a conoscenza, non avrebbe impedito le presunte vessazioni nei confronti dei militari), sarà invece giudicato con il rito abbreviato. Nel capo d’imputazione si parla di continue offese al prestigio, all’onore e alla dignità dei carabinieri «in presenza di altri civili e militari in luogo pubblico, con continui e immotivati richiami alla disciplina militare, con ripetuti e ossessionanti controlli alle pattuglie operanti su strada ed infine con gratuite e ingiuste minacce». Le presunte vittime, insomma, sarebbero state costrette a subire «un continuo stato di tensione, apprensione e umiliazione». L’abuso d’ufficio è contestato a proposito della redazione delle cosiddette note caratteristiche, una sorta di pagella sulle capacità e le attitudini dimostrate dai carabinieri. D’Artizio, secondo l’accusa, avrebbe violato i doveri di obiettività nella valutazione del rendimento e dei servizi prestati dai militari mobbizzati. Ebbene a fronte di così gravi e pesanti accuse e di fronte a una richiesta del Pubblico Ministero (Petrocelli) è stato assolto dal Tribunale di Taranto. Il dato singolare è che a distanza di pochi giorni anche la Corte di Appello di Taranto, con insolita celerità, ha riformato la sentenza di condanna a sei mesi di reclusione del capitano Massimiliano Conti superiore in grado di D'Artizio. Assolto pure lui. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. Ormai alcune Procure sono gestite da alcuni Magistrati come se fossero un loro dominio personale, nelle quali loro stessi stabiliscono chi può stare e chi no. Ma, ricapitoliamo per chi non ha letto i precedenti post, tutta la storia. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D. e un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. In un paese normale le due personalità avrebbero trovato un modus vivendi. Invece fin dall'anno 2000 per il Magistrato Matteo Di Giorgio viene fatto oggetto di un’incredibile odissea. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Addirittura lo fa pedinare e lo fa filmare nei suoi spostamenti. Già a primo acchito le denunce appaiono fantasiose o quanto meno condizionate dal pettegolezzo paesano. In esse infatti il parlamentare accusa il giudice di aver utilizzato le indagini di cui era titolare «per orientare il voto del 16 aprile 2000 a Castellaneta»; di aver partecipato ad un incontro segreto nel quale «sarebbe stato concordato un piano per distruggerlo politicamente»; di aver divulgato notizie coperte da segreto istruttorio, in quanto «anche nei supermercati veniva pubblicamente annunciato da signore amiche di famiglia del dottor Di Giorgio che tra giovedì e venerdì sarebbe scoppiato un botto che avrebbe spazzato via dalla città il parlamentare»; di avere, infine, strumentalizzato le indagini con intento e finalità persecutorie nei suoi confronti. Ci sono in base a queste convinzioni anche momenti di grave tensione fra il parlamentare e il Magistrato. Quando lo incontra per strada il parlamentare non sa trattenersi e aggredisce pubblicamente il Magistrato con epiteti del tipo: "Stronzo! Mascalzone!" In un’occasione si deve far ricorso perfino alla forza pubblica perchè il parlamentare intende passare a vie di fatto. Nei comizi e nelle interviste rilasciata a giornali e televisioni il Magistrato veniva letteralmente stracciato: e definito di volta in volta "un capocantiere", "un arruolato nelle file di Forza Italia", "un miscuglio tra magistratura, polizia giudiziaria e sezione di Forza Italia"; "un uomo indegno di indossare la toga", "parente e amico di funzionari della ASL di Taranto", "legato a esponenti di Forza Italia", autore di «un complotto, mirato a far fuori dalla scena politica esponenti del centro-sinistra», autore di iniziative giudiziarie che sono «autentiche cazzate» volte a delegittimarlo nel momento della scelta delle candidature per le imminenti elezioni amministrative o «vendette giudiziarie annunciate». Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Questi si difende con tenacia, dicendo che aveva espresso su Di Giorgio solo giudizi garantiti dall’inopinabilità delle dichiarazioni parlamentari ma Woodckock lo insegue come un segugio fino alla Corte Costituzionale e si fa dare ragione: l’inopinabilità dei giudizi di un parlamentare non giustificano le calunnie - dice la Corte. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente mobilitati dal parlamentare e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). Invece pare che le cose non stiano andando così. La questione avrà tempi lunghi perché si è capito che alcuni Magistrati di M.D. vogliono mantenere lo stato di cattura di Di Giorgio almeno fin quando non si vedrà che fare dell’inchiesta sui parchi eolici di Castellaneta sui quali il parlamentare ha fatto alcune denunce che però coinvolgono anche l'ignaro governatore della Regione Puglia Nichy Vendola. Sulla vicenda della cattura del dott. Di Giorgio intanto è calato un silenzio spettrale. Nessuno ne parla più. Né giornali, né televisioni né giudici suoi colleghi, né suoi antagonisti. Nessuno. Il Magistrato è ormai da più di quaranta giorni chiuso in causa in un silenzio tombale. Senza motivo. Si dice che potrebbe inquinare le prove. Ma quali prove se è stato già inquisito per oltre due anni? Per quanto tempo deve essere inquisito ancora? L’unica notizia correlata è che nel giro di pochi giorni – stranamente - il Tribunale di Taranto ha assolto dai reati di maltrattamenti il maresciallo Leonardo D’Artizio, uno dei protagonisti della vicenda, denunciato da Di Giorgio e il suo superiore Massimiliano Conti. Il maresciallo dei Carabinieri Leonardo D’Artizio - lo ricordiamo - era accusato di aver fatto mobbing con 20 suoi subalterni uno dei quali per via di questi maltrattamenti si era suicidato, lasciando moglie e due figli. A carico di D’Artizio erano scaturiti due processi, uno ordinario, uno militare. Il Tribunale militare di Napoli lo ha condannato a un anno di reclusione. Quello ordinario – come abbiamo detto - lo ha assolto. Non so fino a che punto le due sentenze siano compatibili ma – secondo me – uno dei due Tribunali ha sbagliato. Peraltro nel processo ordinario il P.M. Vincenzo Petrocelli aveva chiesto la condanna di D'Artizio a ben cinque anni di reclusione. D’Artizio pur sospeso dal servizio, aveva collaborato - come detto - con la Procura di Potenza e aveva quindi indagato abusivamente sul giudice Matteo Di Giorgio. Però ora con l’assoluzione c'è da scommettere che qualcuno dirà che l’espulsione dall’Arma era ingiusta e che dunque le indagini sono legittime.

MAGISTRATI INDIPENDENTI?

In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. É un tema, quello dei rapporti tra la sinistra e le scalate bancarie, che oggi è sulle prime pagine dei giornali grazie all'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena. Ma in quegli anni il clima era diverso. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». Da lì iniziò il suo isolamento. Per l'intervista a Annozero, la Forleo è già stata ingiustamente punita: il Csm la trasferì a Cremona per «incompatibilità ambientale», con una decisione annullata dal Consiglio di Stato. É tornata a Milano, fa il giudice di tribunale. Mercoledì sera, a sorpresa, il Csm è tornata a fargliela pagare. Con una maggioranza risicata - dodici voti contro dieci - è stata giudicata indegna degli avanzamenti che le sarebbero spettati. Tra i più duri, il consigliere del Csm Guido Calvi, che all'epoca del caso Bnl-Unipol era l'avvocato dei Democratici di sinistra.

DAL CASO FORLEO AL CASO LAUDATI-SCESI. LA MAGISTRATURA E’ VERAMENTE INDIPENDENTE ? Questo si chiede Michele Imperio. La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Dopo il 1992 dalemiani e finani, consci di essere sostenuti dai servizi segreti americani, agiscono come se fossero i padroni del sistema, pretendono di fare porcherie in quantità, non accettano di essere sottoposti al controllo della Magistratura, come già in passato accadde per altri gruppi politici. Il valoroso Magistrato Clementina Forleo ebbe l’ardire di mettersi contro sia finiani che dalemiani ed è stato il magistrato più massacrato d’Italia degli ultimi venti anni dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riepiloghiamo e riesaminiamo il suo caso. La Procura della Repubblica di Milano, nel corso dell’inchiesta sulle scalate bancarie, aveva intercettato delle telefonate di imprenditori sotto inchiesta per reati finanziari e alcune di queste telefonate erano dirette a parlamentari. La Legge Boato imponeva in questo caso che le intercettazioni non potessero essere usate come prova senza che il Parlamento avesse concesso l’autorizzazione. La Procura passò quindi le telefonate al g.i.p. Clementina Forleo, la quale doveva valutarne la rilevanza penale ed eventualmente richiedere al Parlamento il permesso di usarle. Clementina Forleo chiese l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni, che coinvolgevano alcuni parlamentari del PD (Piero Fassino, Massimo D’Alema, Nicola Latorre, Salvatore Cicu) e del PDL (la buonanima di Romano Comincioli), tuttavia ebbe l’inaccortezza di scrivere nella sua ordinanza che le intercettazioni potevano servire non soltanto come prova contro gli imprenditori inquisiti, ma anche come materiale indiziario per poter eventualmente inquisire alcuni gli stessi parlamentari che, secondo quanto scrisse nella richiesta, “appaiono [...] consapevoli complici di un disegno criminoso”. Apriti cielo! Per il solo fatto di avere ventilato una possibile incriminazione di D’Alema (che comunque doveva essere sempre formalizzata dai P.M. per cui il suo era un semplice parere) dopo quella ordinanza la Forleo racconta di essere stata circondata da Gerardo D’Ambrosio e da altri magistrati di M.D. i quali le dissero: “Lascia perdere D’Alema! lui è uno che aiuta noi magistrati!“. Anche la reazione di D’Alema fu durissima e perfino Giorgio Napolitano le si mise contro. D’Alema ci tiene molto alla sua reputazione e non ammette di essere indagato. Dopo questa ordinanza Clementina Forleo è stata letteralmente massacrata, minacciata con plurime lettere anonime con proiettile incorporato, telefonate mute, attentata alle proprie cose con aggressioni incendiarie alle sue fattorie, rimasti sempre a opera di ignoti, privata della scorta, perfino fatta segno di un tentativo di omicidio in autostrada, sottoposta a procedimento disciplinare e trasferita di sede.

Clementina Forleo pretese pure di disporre intercettazioni sul conto di Antonio Fazio un santone roman-democristiano passato sotto la protezione di Gianfranco Fini e ne arrestò il figlioccio Giampiero Fiorani. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale.

Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. Ora Alberto Santacaternia si trova in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Abbiamo già dissertato a lungo sull’inopportunità che questo magistrato ricopra un incarico così delicato. Ora possiamo aggiungere che al tempo il CSM voleva respingere la sua proposta di promozione. “Amici” però ci hanno riferito che i Magistrati di M.I. sono stati perentori nel sostenerlo e hanno letteralmente imposto al CSM che Alberto Santacaterina dovesse a forza ricevere questo incarico. “O il CSM fa passare questa nomina - dissero – o il CSM non lavora più“. All’epoca il vicepresidente dei M.I. era il noto Giovanni Tinebra, l’ex Procuratore capo di Caltanisetta che depistò le indagini sulla strage di via D’Amelio (quella in cui fu assassinato Paolo Borsellino) e che recentemente si è rifiutato di deporre nel processo Mori-Obinu che si sta celebrando dinanzi il Tribunale di Palermo. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce ora vorrebbero – forse – incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del chiacchieratissimo magistrato dalemiano sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese di marca dalemiana. La Procura di Lecce però è bipartisan. Non si conoscono per ora gli orientamenti politici del magistrato incaricato Antonio De Donno per cui ancora non si può dire se l’indagine intende colpire gli integerrimi Magistrati baresi Antonio Laudati, Ciro Angelillis ed Eugenia Pentassuglia oppure intende perseguire le gravi calunnie loro rivolte dal Sostituto Procuratore generale in forza alla Corte di Appello di Bari Giuseppe Scelsi. Nelle intercettazioni disposte nel processo sulla malasanità pugliese inizialmente gestito personalmente proprio da Giuseppe Scelsi ci sono intercettazioni in cui il principale indagato, l’allora assessore regionale del PD. Alberto Tedesco, parla di lui Giuseppe Scelsi e addirittura con lui e discute della opportunità di nominare il fratello del magistrato Michele Scelsi a primario del Servizio immunotrasfusionale dell’ospedale “San Paolo”. Incredibilmente Giuseppe Scelsi non si astenne dall’incarico. Antonio Laudati allora gli affiancò altri due magistrati in modo da costituire un pool. È Alberto Tedesco che nel 2006 porta in Consiglio Regionale una legge per istituire il Coordinamento regionale delle attività trasfusionali e al vertice nomina proprio Michele Scelsi e gli fa gestire i fondi per la raccolta del sangue, la sensibilizzazione alla donazione, un budget di diversi milioni di euro per ogni anno. Poi c’è la Commissione tecnico-scientifica, della quale hanno fatto parte l’assessore regionale Alberto Tedesco e il responsabile del Crat Michele Scelsi, lavorando gomito a gomito. E ancora: Alberto Tedesco delega Michele Scelsi (il medico) a rappresentare la Puglia nella Consulta tecnica permanente istituita presso il Ministero della Salute. Va altresì rilavato che il magistrato “dalemiano” Corrado Lembo già chiacchierato Vice Procuratore nazionale Antimafia nel 1993 al tempo delle stragi, di cui non sono stati mai scoperti i mandanti occulti, oggi Procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere, aveva già provveduto ad inviare un messaggio di chiara matrice mafiosa ai Magistrati di Bari che si occupavano della malasanità, arrestando clamorosamente il 25 ottobre 2010 il g.i.p. del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis, per il possesso irregolare di una sola carabina di una collezione privata di armi composta da ben 1.350 pistole. Giuseppe De Benedictis non era un g.i.p. qualsiasi ma era il g.i.p. che aveva autorizzato tutti i mandati di cattura e aveva scritto tutte le ordinanze sulla malasanità pugliese e sulle operazioni illecite del senatore del PD Alberto Tedesco configurando un quadro che pacificamente consente di contestare a tutti il grave reato di associazione per delinquere finalizzata al peculato all’abuso d’ufficio e alla truffa. La malasanità pugliese ha dato origine a ben sette procedimenti penali e ora sta dando causa anche ad alcuni strani suicidi. Già il giorno dopo l’arresto, il CSM ha trasferito a passo di carica il giudice Giuseppe De Benedictis al Tribunale di Matera, ma il trasferimento, chiaramente illegittimo, è stato annullato dal T.A.R. del Lazio, organo giudiziario non infestato, come quelli penali, da Magistrati politicizzati. Successivamente i magistrati di Bari hanno ricevuto un altro messaggio mafioso perchè Giuseppe De Bendictis è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio in quanto, secondo il Procuratore Generale della Cassazione, Vitaliano Esposito la sua posizione nel processo della carabina si sarebbe aggravata. Vitaliano Esposito è stato eletto a suo tempo Procuratore Generale della Cassazione con il voto decisivo del noto stragista democristiano Nicola Mancino, allora immeritatamente vicepresidente del CSM, e di lui si dice in alcune intercettazioni contenute nel processo a carico del Magistrato Corrado Carnevale che sia amico di alcuni camorristi.

Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio mafioso attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Ma non sono solo questi i fatti gravissimi che si stanno sempre più frequentemente verificando nei distretti giudiziari di Bari, Taranto e Lecce. Ve ne sono altri forse ancora più gravi di cui disserteremo nel prossimo post.

IL PARTITO DEI GIUDICI.

Esiste in Italia il partito dei giudici? Certo che sì, risponde “Il Messaggero”. Potremmo definirlo così: il partito dei giudici è quel fronte trasversale che, con l’alibi di una emergenza che cambia faccia a seconda delle stagioni (terrorismo, mafia, corruzione, malapolitica), sostiene la necessità che la magistratura svolga un ruolo di supplenza, quando non di vera e propria sostituzione, rispetto alla politica. Chi fa parte del partito dei giudici? Magistrati, ovviamente. Ma non solo: a loro si sono sempre affiancati partiti e associazioni, giornali e riviste, più quella magmatica forma di opinione pubblica che nella mitologia amica ha assunto di volta in volta la definizione di popolo dei fax, popolo della Rete, popolo viola e altre improbabili declinazioni di popolo. Il partito dei giudici non nasce con Tangentopoli, a differenza di quanto pensano i più, bensì alla fine degli Settanta, quando si sperimenta il primo laboratorio del giustizialismo e si creano alcuni dei circoli viziosi che hanno portato alla situazione attuale. E nasce a sinistra, il che spiega in parte perché è diventato egemonico in un pezzo rilevante dell’elettorato di quel versante, quando i vertici del Pci decidono che occorre aprire un canale diretto con alcuni magistrati per orientare le indagini contro il terrorismo e massimizzare i risultati della repressione giudiziaria. È in questa fase che in nome dell’obiettivo di fondo - la difesa della democrazia e dell’agibilità politica - si comincia a sorvolare sulla liceità degli strumenti messi in campo: si forza il diritto (arresti preventivi di massa, cambio in corsa dei capi di imputazione, sforamento dei tempi d'indagine e di fermo), si perseguono i fenomeni anziché i singoli reati, si usano i mezzi di stampa amici per enfatizzare le inchieste e mitizzare l’azione dei pm, si promulgano leggi speciali e altre se ne invocano, in una rincorsa all’emergenzialità nella quale la politica sceglie di farsi ancella delle richieste che arrivano dalle Procure. D’altra parte, questo collateralismo finisce per orientare politicamente molte inchieste. Lo sconfinamento dei poteri giudiziari prodotto negli anni della lotta al terrorismo viene quindi trasferito in blocco negli anni Ottanta verso la nuova emergenza e per un’altra causa in sé nobilissima: la lotta alla mafia. Sono gli anni in cui si estremizza l’uso barbaro del pentitismo (non occorre citare il caso Tortora), brandito come una clava e con la pretesa di utilizzare i collaboratori senza alcuna garanzia in tutte le fasi dell’azione giudiziaria. I giudici cominciano a diffidare pubblicamente la politica dal mettere mano a riforme che ripristinino le condizioni dello Stato di diritto. La situazione esplode poi con Tangentopoli, quando la molla della nuova emergenza, la sacrosanta lotta alla corruzione, unita all’indebolimento del collante sociale dei partiti, proietta i magistrati nella lotta politica senza più mediazioni e dissimulazioni. Si ripropone il solito catalogo di svarioni giuridici ma ormai sdoganato, con la teorizzazione esplicita della carcerazione preventiva come mezzo di pressione per estorcere confessioni, della gogna per gli imputati, delle condanne mediatiche come alternativa rapida alle condanne giudiziarie. Non è un trattamento che colpisce solo potenti e famosi (come se poi, in una società liberale, fosse lecito accanirsi su alcune categorie), e casomai il torto di molti garantisti part time è di accorgersi di questo stato di cose solo quando colpisce i più noti. E così, mentre i pm vanno in tv a chiedere di bloccare questo o quel provvedimento governativo, si comincia a vaneggiare di governo dei giudici (una proposta cui è dedicato un famigerato numero monografico di Micromega). Quindi, con l’arrivo delle intercettazioni e della loro allegrissima trascrizione in tempo reale sui quotidiani la magistratura diventa soggetto politico a tutto tondo, anzi di più: capace di imporre l’agenda politica, distruggere carriere, orientare scalate di Borsa. Intendiamoci, questo non è il ritratto della magistratura italiana. È il ritratto di un suo pezzo che ha completamente smarrito il senso della propria missione, appoggiandosi a sponde politiche e sociali sempre più aggressive nelle loro crociate di presunta moralizzazione. In un’Italia segnata da scandali e malaffare, il partito dei giudici ha potuto avanzare e rafforzarsi, ha miscelato umori reazionari e insoddisfazione democratica, ha reso primitivo il dibattito pubblico sulla giustizia. Argomentare contro il partito dei giudici non è difficile. È inutile. Vuoi regolamentare l’uso dei pentiti? Sei colluso con la mafia. Critichi Mani pulite? Vuoi difendere la politica corrotta. Sei a favore di una legge che limiti la pubblicazione delle intercettazioni? Vuoi proteggere Berlusconi e i criminali. Fino all’ultimo caso: se difendi Napolitano dai vergognosi attacchi di cui è oggetto è perché non vuoi la verità sulla trattativa Stato-mafia. Né vale ricordare agli ultras delle manette i molti flop dei lori beniamini. Se un’inchiesta del partito dei giudici fa flop, questo viene negato o comunque giustificato con lo scatenarsi di forze ostili. Nessuna buona causa può diventare una ragione per pretendere che uno dei poteri dello Stato invada il campo degli altri o per giustificare comportamenti totalmente fuori dal dettato costituzionale, oltre che dal codice di procedura penale. Purtroppo l’idea che questo sconfinamento sia non solo necessario ma addirittura auspicabile ha trovato invece terreno fertile, proliferando in una opinione pubblica che si considera ultrademocratica nonostante sostenga tesi che spingono in direzione esattamente opposta.

La provocazione di Vittorio Feltri - «Silvio, diventa compagno se vuoi salvarti!» - è certamente fondata, ma Berlusconi, prima deve recitare il “mea culpa” per non essere riuscito a riformare l’ordinamento giudiziario, che è la causa principale non solo dei suoi guai ma dei guai di tutti i cittadini, spiega Titta Sgromo su “L’Opinione”. La giustificazione, “non ci sono riuscito per colpa di Fini e di Casini”, lascia il tempo che trova, posto che quando si da luogo ad un partito che coinvolge altri due partiti che in proposito hanno idee diverse e due leader ambiziosi quali erano Fini e Casini, si deve andare avanti con i piedi di piombo. Invero i risultati sono stati quelli che sono evidenti a tutti. Il partito dei giudici, che si chiama Anm, sotto la guida di magistrati appartenenti a varie correnti, ma con egemonia di quella di estrema sinistra, determina e condiziona la carriera dei magistrati, a seconda non del valore dimostrato degli stessi, ma dell’appartenenza ad una corrente anziché ad un'altra. Tutto ciò, lo ripeto per l’ennesima volta, a causa della sciagurata riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalle Camere a maggioranza catto-comunista nel 1973, e che porta il nome di un deputato democristiano, il cui nome, Breganze è ignoto a tutti anche agli attuali politici, a qualsivoglia schieramento appartengano. I magistrati, prima del 1973, per fare carriera dovevano affrontare prove durissime contraddistinte dalla eccelsa preparazione giuridica e non solo, anche dalla solerzia nel lavoro che dava luogo a pronunciamenti rapidi e giusti. Di quei magistrati ormai si è conservato solo il ricordo, ragione per cui per avere una sentenza in primo grado non sono sufficienti cinque anni, per un giudizio di appello non ne bastano nove e per una pronuncia di legittimità ne passano quattro se non cinque. In questo contesto il Csm, composto come noi addetti ai lavori sappiamo, sotto la Presidenza di fatto del vice Presidente Vietti, lo ricordo per l’ennesima volta voluto dal Cavaliere, per far piacere a Casini, difende le toghe, ed avalla una dichiarazione che definire sconcertante è poco, per una carica istituzionale:«Scellerato attaccare le toghe». Ma non è più che scellerato che alcuni magistrati, sull’esempio nefasto dell’inimitabile Di Pietro, si giovino dell’arma letale delle indagini, condotte per lo più con le intercettazioni telefoniche, per intervenire nell’agone politico condizionando in modo pestante l’esercizio del potere legislativo e del potere esecutivo. Cosa ha fatto il Csm, quando il Dott. Ingroia, indossando ancora la toga, partecipava a congressi e convegni di partito, violando chiaramente i principi cardine della funzione del magistrato, sia inquirente che giudicante, l’autonomia e l’indipendenza. Nulla se non un timido richiamo. Vigente il vecchio ma incisivo ordinamento giudiziario, Ingroia sarebbe stato allontanato dalla magistratura.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI. L’IMPUNITA’ DEI MAGISTRATI.

Sorvoliamo sulle denunce a carico dei Magistrati che regolarmente vengono insabbiate dai loro colleghi, ma che è difficile dimostrare, e concentriamoci sui procedimenti disciplinari.

La legge non è uguale per i magistrati: ecco le statistiche della loro impunità, scrive “Qelsi”. Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e  non superiore a due anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza.

Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm.

E noi adesso lo diremo. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui. Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio.

Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri.
Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa). Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);

- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);

- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%);

- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);

- 2 sono stati i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio dle Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

PRIVILEGI E POTERE. PER CHI SUONA LA CAMPANA?

Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati? Si chiede “Pocavista”. Vi ricordate le toghe rosse, celebrate dalla stampa e dalla TV berlusconiana? Ebbene si è scoperto che le toghe indossate dai magistrati sono dotate di particolari cellule, i cromatofori, come le seppie, i polpi e i camaleonti. Per un fenomeno non ancora chiarito, i magistrati sarebbero in grado di cambiare il colore delle proprie toghe a seconda dell’imputato che si trovano di fronte : se l’imputato è di destra, la toga presenta pigmenti porpora; se di sinistra, la toga vira al nero. Quando l’imputato è di centro, come nel caso di Totò Cuffaro in carcere per mafia, le toghe assumono di nuovo un colore rossastro. Il fenomeno è stato scoperto recentemente da Libero con l’articolo “La toga rossa che inchioda i compagni”, dedicato a quel PM di Monza – esponente di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra della magistratura – che indaga su Penati e la tangentopoli rossa. Finora i mezzi di informazione vicini a Berlusconi sembravano ignorare che c’erano magistrati – rossi o neri che fossero – che mandavano in galera il presidente democratico della Regione Abruzzo, l’ex-socialista Del Turco; che mettevano sotto inchiesta il Sindaco di Bologna, Del Bono; il PD Bassolino; la famiglia Mastella; il verde Pecoraro Scanio; l’assessore alla sanità della Regione Puglia e così via. Era molto più comodo definire “rossi” tutti i magistrati, per preparare il terreno a una riforma che mettesse la giustizia di fatto sotto il controllo dell’esecutivo. Dopo aver diffuso per anni la bufala che la magistratura è tutta di sinistra, che il pool di Mani Pulite ha voluto salvare l’allora PCI dalle inchieste e che perseguita Berlusconi solo da quando è entrato in politica, adesso i giornalisti di destra tessono elogi di un PM “rosso” che diventa “nero” mettendo nei guai il PD. Una parentesi : il Pool di Mani Pulite ha salvato l’allora PCI? Ricordiamo che tra i primi arresti di tangentopoli ci furono Soave e Li Calzi del PCI; la direzione del PCI di Milano, con Barbara Pollastrini & co (la Pollastrini venne poi assolta dalle accuse pochi anni dopo) fu totalmente decapitata; mentre il compagno Greganti, tesoriere del PCI, si fece diversi mesi di galera.

Altri esempi di trasformazione cromatica dei magistrati. La potenza dei mezzi di informazione, specie TV, è tale da colorare di rosso o di nero magistrati di volta in volta scomodi o che invece portano acqua al proprio mulino. Gerardo D’Ambrosio, definito “nero” negli anni 70 dopo aver scagionato sia il commissario Calabresi per la morte dell’anarchico Pinelli, sia Pino Rauti per la strage di Piazza Fontana, appena membro del Pool di Mani Pulite divenne improvvisamente una “toga rossa” perché colpiva i corrotti di Tangentopoli. Pierluigi Davigo, esponente della corrente conservatrice della magistratura e considerato la mente giuridica del Pool di Mani Pulite, diviene improvvisamente per la stampa berlusconiana un pericoloso rivoluzionario di sinistra. Stessa sorte per Antonio Di Pietro, allora assai vicino a esponenti del MSI. Pochi ricorderanno che Berlusconi, nel formare il suo primo governo nel 94, lodava l’operato di Mani Pulite (che allora andava di moda e che gli aveva spalancato le porte del governo) e aveva chiesto invano a Davigo e Di Pietro di entrare al governo come Ministri della Giustizia e dell’Interno. Circostanza poi negata successivamente da Berlusconi. Ilda Bocassini, divenuta rossa per aver incriminato Previti e le toghe sporche da lui corrotte per consegnare la Mondadori a Berlusconi, poi definita da alcuni “nera” quando indagava sulle nuove BR, sventando tra l’altro un attentato a Paolo Berlusconi e a “Libero”. Oggi è di nuovo” rossa”, da quando si occupa del caso Ruby. Paolo Ielo, il magistrato “rosso” accusato di avere insabbiato le indagini di Titti Parenti sul PCI, oggi sembra virare al nero, perché indaga sullo scandalo ENAV di esponenti vicini a Bersani e D’Alema. Il giudice Mesiano, quello che ha condannato La Fininvest a risarcire De Benedetti per averlo scippato della Mondadori, ha i cromatofori perfino nei calzini, che diventano pervinca all’occorrenza. E si potrebbe continuare.

Se Sparta piange, Atene non ride. Notiamo solo che ogni volta che un esponente del PDL o della Lega passa dei guai giudiziari, gli organi di informazione berlusconiani e leghisti parlano di “persecuzione delle toghe rosse”, si fanno approvare leggi ad personam e si punta alla prescrizione. Quando a finire nei guai è invece uno di centrosinistra, si usa esprimere una rituale“fiducia nella magistratura” e talvolta si fa dimettere l’indagato: ma per chi ha posto al centro della propria azione politica la “questione morale” e ha rivendicato una propria “superiorità morale” non rimane che l’imbarazzo. Imbarazzo che è ormai della maggioranza degli italiani. Tuttavia tra chi a destra ha fatto della protervia e del vittimismo il proprio stile di potere e chi a sinistra manifesta imbarazzo quando viene colto con le mani nella marmellata, preferiamo chi è ancora capace di arrossire.

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un cazzo”.

Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! Così scrive Massimo Melani su “Totalità”. La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano, i tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che -di fatto- potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido ( pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere.

Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario. Uno strano decreto sui magistrati fuori ruolo. Nel decreto del governo, la possibilità di aggirare i limiti di tempi e di assumere incarichi nell'esecutivo scrive Milena Gabanelli, Luca Chianca su “Il Corriere della Sera”. Uno strano decreto sui magistrati fuori ruolo

Nel decreto del governo, la possibilità di aggirare i limiti di tempi e di assumere incarichi nell'esecutivo

Milena Gabanelli, Luca Chianca

Prima di esalare l’ultimo respiro il Governo Monti deve completare l’approvazione delle norme che riguardano il famoso decreto anticorruzione. Nell’ambito di questo decreto ce n’è una che riguarda i magistrati fuori ruolo, ovvero quei magistrati chiamati a ricoprire temporaneamente un incarico presso l’ufficio legislativo dei vari ministeri, Capo gabinetto, le Autorità indipendenti, la Presidenza del Consiglio, ecc.

Nella maggior parte dei casi questi incarichi prevedono un nuovo stipendio senza perdere quello originario, fermo restando l’obbligo a ritornare al loro posto dopo 5 anni.

Cosa significa? Che dopo l’approvazione della norma il magistrato potrà fare il Direttore delle Agenzie, per esempio l’Agenzia delle Entrate, delle Dogane, oppure il capo dipartimento dei Ministeri, per esempio dell’Agricoltura o dello Sviluppo Economico, aprendo così la strada ad una possibile situazione di conflitto permanente di interessi fra organi dello Stato.

Ma perché un magistrato dovrebbe poter gestire il portafoglio dell’industria italiana? Non dovrebbe essergli consentito poiché appartiene alla funzione giurisdizionale, che per sua natura è super partes e per definizione è organo terzo rispetto agli interessi pubblici da gestire. La legge non dovrebbe pertanto consentire al magistrato di assumere ruoli di gestione che spettano all’esecutivo! Dovrebbe prima dimettersi, e poi, da libero cittadini, va a fare quello che vuole.

E come viene superato il limite massimo dei 10 anni in fuori ruolo? Scrivendo nella norma: “i magistrati ordinari contabili, amministrativi, militari, gli avvocati e i procuratori dello Stato che ricoprono cariche apicali o semiapicali presso organi o enti partecipati o controllati dallo Stato sono comunque collocati obbligatoriamente in aspettativa senza assegni”.

Un linguaggio ambiguo e furbo che permette di superare ogni vincolo temporale, poiché sull’“aspettativa senza assegni” la legge anticorruzione non ha apposto nessun limite. In altre parole: se oggi il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Antonio Catricalà, sarebbe costretto a tornare a fare il giudice perché ormai sono passati 10 anni da quando è in fuori ruolo, con questa norma potrebbe fare il Presidente di Eni o Finmeccanica, o all’Enel, o alla Rai, senza tagliare il cordone ombelicale con la magistratura.

Ma chi in Presidenza del Consiglio ha predisposto il decreto legislativo in corso di approvazione? Sappiamo che Catricalà “filtra” le carte da portare a Monti, sappiamo che il ministro della Funzione Pubblica (Filippo Patroni Griffi), che annovera tra le sue competenze quelle di carattere ordinamentale come la norma in esame, è lui stesso un Consigliere di Stato in fuori ruolo, come lo è il suo capo gabinetto (consigliere Garofoli), ma chi abbia “cucinato” questo piattino, e in quali stanze .. impossibile saperlo.

Se poi si considera che i magistrati in fuori ruolo sono 227, e che gli uffici di provenienza sono il Tar, il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, non si può eludere la domanda: con quale indipendenza verranno giudicati i ricorsi contro gli atti di gestione approvati da magistrati che saranno al contempo Capi dipartimento di Ministeri o Presidenti di Società a partecipazione pubblica? Magistrati in palese conflitto di interessi e che abdicano alla loro funzione di terzietà. Siamo sicuri che lo spirito che animava il decreto anticorruzione era questo?

Monti si è rivelato un tecnocrate, un amministratore ante litteram che nulla ha a che fare con l’innovazione e la progettualità necessaria ad uno Stato moderno. Un tecnico fuori luogo che si è comportato come farebbe un medico che infierisse con una cura da cavallo ad un paziente che non ne ha bisogno. Un burocrate alla corte della signora Merkel, poco interessata all’Unione Politica Europea e molto presa, di contro, dall’imporre la leadership economica e finanziaria della sua Germania su tutti. Fatta questa premessa, scrive Francesco Saverio Di Lorenzo su “Mondo Libero On Line”, senza pregiudizio alcuno e per essere il più possibile asettico mi sono voluto togliere lo scrupolo di esaminare da vicino le svariate iniziative parlamentari presentate dal Governo Monti. Così facendo mi sono imbattuto, con un’autentica sorpresa, nella “propina”. Un termine nuovo che ho abbinato immediatamente ad un medicinale od a qualcosa di simile. No, non lo è. E’ un emolumento, manco a dirlo un’indennità particolare percepita solo da pochi eletti. Vi chiederete: possibile? E chi sono i fortunati? Presto detto, sono gli ottomila della Magistratura Ordinaria, ma anche quelli in organico dell’Avvocatura dello Stato, del Tar, della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato. E quindi, si va dal rigorosissimo Giuseppe Esposito, magistrato del Tar di Napoli, che partecipa a incontri con le scolaresche di Vico Equense e devolve gli 800 euro di compenso alla biblioteca scolastica. Al ben diverso caso del Consigliere di Stato Gabriele Carlotti che, oltre allo stipendio regolare, riceve dall’Autorità per l’Energia 100 mila euro l’anno, in quanto responsabile della Direzione degli Affari Giuridici. Dalla lettura degli atti si evince che nell’ultimo anno il CSM ha autorizzato 1423 incarichi a tempo parziale. Nella gran parte si tratta di incarichi di docenza, per lo più lezioni universitarie di Magistrati che incassano poche migliaia di euro, ma li incassano. Di ben altro tenore e spessore sono gli incarichi dei 516 Giudici della Magistratura Amministrativa, dei 456 della Contabile e dei 360 dell’Avvocatura dello Stato. Gli emolumenti incassati da questi ultimi ammontano a 54 milioni di euro, decurtati per le misure di solidarietà a 53 milioni (grazie!). A questi vanno aggiunti altri 55 milioni di euro per un’indennità particolare detta “propina”. Per fare dei casi esplicativi, il Capo Ufficio dell’Avvocatura Generale dello Stato, sua eccellenza Filippo Ignazio Caramazza, gode di un trattamento fondamentale di 289 mila euro a cui va aggiunta la “propina” di altri 324 mila euro. Caramazza risulta avere un incarico extragiudiziale in quanto membro della commissione di accesso ai documenti amministrativi. Pierluigi Di Palma, Vicesegretario Generale della Difesa, Giudice dell’Avvocatura di Stato incassa 179 mila euro di trattamento fondamentale e 186 mila di “propina” e nel corso del 2011 anche 70 mila euro come consulente giuridico dell’Agenzia Spaziale Italiana. Non basta, risulta essere anche presidente del collegio arbitrale per una vertenza tra Anas e Asfalti Sintex, ma qui non sappiamo l’ammontare dell’emolumento. La categoria dei Giudici Amministrativi, provenienti dal Tar e dal Consiglio di Stato, rappresenta la spina dorsale dei ministeri. Sono moltissimi quelli che hanno il doppio incarico di Giudice e di Capo Ufficio Legislativo o Capo di Gabinetto. Il più noto è forse Filippo Patroni Griffi, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. In quanto Ministro alla Pubblica Amministrazione è colui che ha portato questi dati in Parlamento e doverosamente ha inserito anche i dati che lo riguardano. Patroni Griffi comunica quindi di essere fuori ruolo dal momento della nomina nell’Esecutivo. Da quella data guadagna 17 mila euro al mese in quanto Ministro. Ha appena esaurito anche l’incarico extragiudiziario di Presidente del Consiglio arbitrale in una vertenza tra Fiat e Tav, percependo 76.950 euro netti. Vi sono poi, una raffica di doppi incarichi: Michele Buonauro cumula l’incarico di Giudice del Tar con la consulenza giuridica all’Autorità per le Comunicazioni e che per due giorni a settimana di impegno incassa 35 mila euro lordi; Paolo Carpentieri ottiene 60 mila lordi come Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero per i Beni Culturali; Giuseppe Caruso prende 58 mila lordi in quanto membro della Commissione di Valutazione dell’Impatto Ambientale al Ministero dell’Ambiente; il Sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà è fuori ruolo e incassa 25 mila euro netti dalle funzioni di Segretario del Consiglio dei Ministri; Claudio Contessa incassa 73 mila euro per l’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro; Roberto Garofoli ottiene 70 mila euro lordi in quanto Capo di Gabinetto del Ministro per la Pubblica Amministrazione. I dati sugli emolumenti, sulla “propina”, di moltissimi altri alti funzionari non sono ancora giunti, perché il Ministero si è riservato di comunicarli. Eccovi serviti. Non viene l’amaro in bocca e la rabbia nel verificare quanti sperperi ci siano ancora in giro e quanti altri ancora probabilmente esistono? Perché, Monti nel provvedimento “Salva Italia”, non ha inserito ed annullato la “propina”, anzi che tassare e propinare a noi sacrifici e balzelli? Il Professore in loden, il Senatore della Repubblica, l’uomo che ha la presunzione di aver risollevato le sorti del Paese, forte con i deboli e debole con i forti, ha adoperato due pesi e due misure. Peccato, la sua poteva essere un’operazione di glasnost senza precedenti. Per la prima volta nella storia si era creata la concreta possibilità di incidere profondamente sui mali della politica ed in ciò che ha ingenerato, Si poteva riformare seriamente lo Stato tranciando le sue cancrene ed offrire al Paese delle riforme profonde, stabilendo un giusto freno ad alcuni titolati, già di per se privilegiati ed intoccabili. Invece? Nulla. La strategia è stata banale, tipica del “Centolaqualunque”. Nelle Aule Parlamentari presentava provvedimenti chiedendo il voto di fiducia con la formula del decreto di necessità ed urgenza, come la famigerata IMU, il taglio alla spesa pubblica, la riforma delle pensioni, quella sul lavoro e le tasse che hanno vessato le famiglie ed i ceti medio bassi. Mentre le liberalizzazioni, l’abolizione degli Ordini Professionali, i tagli alle caste (tra queste quella della politica), l’abolizione delle Province (ridotte, poi, a semplice accorpamento di alcune di esse) faceva seguire un iter più complesso ed usuale attraverso il disegno di legge. Ecco, in estrema sintesi la realtà.
Potrà sempre dire il buon Monti che non ha avuto tempo a sufficienza per condurre a termine il proprio lavoro, perché nel frattempo è stato sfiduciato. Non ci rimane che attendere la prossima puntata ed “incazzatura”, trasparenza e Movimento 5 Stelle permettendo!

MAI DIRE CSM.

IL CSM E GLI GLI SPRECHI DELLA MAGISTRATURA.

Consiglio Superiore della Magistratura, 35 milioni di costi e bilancio inaccessibile. Tante lacune nel rendiconto annuale. Per i membri del Csm settimana corta da 4 giorni, indennità varie e auto blu. Al vice presidente Vietti quasi 300mila euro lordi all'anno e una Maserati, scrive Alberto Crepaldi  da Il Fatto Quotidiano del 2 aprile 2013. Per l’autogoverno dei magistrati, esercitato dal Consiglio Superiore della Magistratura, lo Stato mette a disposizione del Csm ben 35 milioni di euro. Amministrati sotto il controllo della Corte dei conti e di tre revisori esterni, i conti del Csm sono quasi introvabili. Giusto qualche indizio nella Gazzetta Ufficiale, dove è pubblicato il rendiconto di ogni anno. Un documento di poche paginette, lontano parente di un bilancio vero e proprio. Il sito web del Csm non offre alcun dettaglio su come vengono amministrati i 35 milioni di euro. Manca anche la lista dei 7 incarichi esterni conferiti ad altrettanti addetti, nonché quella relativa alle imprese a cui vengono affidati una serie di servizi. Solo attraverso la consultazione di una serie di leggi che regolano il funzionamento del Csm, è possibile scoprire che la pianta organica prevede 243 unità: tra queste spiccano i 53 funzionari amministrativi, i 30 addetti a “servizi ausiliari e di anticamera”, gli otto dattilografi dell’ufficio studi, la ventina di uscieri e 20 autisti. Il numero di questi ultimi, diminuito negli anni, nell’originaria organizzazione fissata da una legge del 1958, era pari addirittura a 40 unità. Il conto finale dei costi sostenuti nel 2011 per tutto il personale in servizio al Csm è salato, seppur in lieve calo: 19 milioni di euro. Gli oneri relativi ai componenti del Csm (24 eletti e 3 di diritto) nel 2011 poco meno di 4,9 milioni di euro. “Lavoriamo moltissimo – ci ha detto un consigliere – per la mole di atti che dobbiamo studiare e le delibere da redarre”. Infatti nel 2011 è stata pagata la bellezza di 630 mila euro di straordinari ai dipendenti del Csm. Senza sindacare sulla intensità del lavoro intellettivo profuso dai consiglieri, resta il fatto che le settimane di lavoro istituzionale, presso il Palazzo dei Marescialli, sono tre. Anche se i mesi di settimane ne contano almeno quattro. E i giorni lavorativi sono al massimo 15 al mese. Le commissioni si riuniscono dal lunedì al giovedì, quattro volte alla settimana. E solo chi fa parte di quella disciplinare rimane a Roma fino a venerdì. I 4,9 milioni di euro di compensi comprendono il cospicuo assegno del vicepresidente (Michele Vietti), pari a poco meno di 300 mila euro lordi all’anno. Così come l’appannaggio annuale degli altri 7 consiglieri eletti dal Parlamento, circa 115 mila euro: quasi 8 mila euro al mese per 14 mensilità. Tutti i consiglieri percepiscono inoltre 75 mila euro all’anno come indennità di presenza. A quelli che non risiedono a Roma viene poi riconosciuta una indennità di missione giornaliera di 220 euro per ogni giorno di presenza effettiva, oltre al rimborso delle spese di viaggio. Tra rimborsi e indennità varie, la spesa annua vale 2,2 milioni di euro. Tra i benefit ci sono le auto blu, per tutti i consiglieri: 300 mila euro nel 2011. Sono 23 le auto a disposizione e prima della lieve cura dimagrante del 2011 erano 31. Vietti viaggia su una Maserati Quattroporte. “Per gli altri consiglieri – racconta un altro componente del Csm – dal primo aprile l’auto blu sarà una semplice Fiat Punto”. Il Csm investe molto in formazione: 6,5 i milioni di euro per “spese per incontri di studio, formazione, convegni e conferenze”. Risorse che dovrebbero diminuire dopo l’avvio della Scuola Superiore della Magistratura. Ma sono ben altri i capitoli di spesa che incuriosiscono. Il CSM ha pagato, sempre nel 2011, quasi 250 mila euro per stampare pubblicazioni, acquistare carta e materiale di cancelleria, riviste, giornali e altre pubblicazioni. Sono ammontati invece a 433 mila euro i costi per pulizia, traslochi e facchinaggio e per la smacchiatura di tappeti e tendaggi. Degni di menzione sono i 17 mila euro di “spese per la fornitura di capi d’abbigliamento al personale autista ed ausiliario in servizio”. Ma soprattutto i 703 mila euro sborsati per incarichi professionali, traduttori e interpreti, sui cui nomi e profili nulla è dato sapere.

Pochi euro per acquistare la Nutella con soldi pubblici affidati ai partiti? Uno scandalo. Pochi euro, del finanziamento pubblico alla politica, per il bar o una videocassetta per i bambini? Una vergogna. Ed altri soldi stanno costando le inchieste, gli interrogatori, le perquisizioni. Ma 16.287 euro pubblici per acquistare foulard e cravatte da regalare in un convegno? Una spesa assolutamente legittima. Dove sta la differenza? Nei primi casi a spendere erano stati dei politici, di tutti gli schieramenti. Nell’ultimo la spesa, con soldi pubblici, era stata affrontata da un magistrato, scrive Augusto Grandi su “Quelsi”. Cravatte e foulard erano stati regalati dai contribuenti italiani agli avvocati, magistrati, diplomatici e pure ai politici, che avevano partecipato ad una conferenza sulla giustizia penale militare. E tanto per non farsi mancare nulla, sui regali era pure stata stampata la firma del magistrato che era stato così generoso con i nostri soldi. Ma, ovviamente, nel suo caso tutto era legittimo. Tutto era stato fatto per il bene della comunità. E guai a pensare che ci siano due pesi e due misure, in Italia. Come, magari, per le intercettazioni telefoniche ed ambientali. Pubblicate per tutti le inchieste che tocchino una parte politica, ma rigorosamente oscurate quando le indagini riguardano – guarda la combinazione – il Pd. I media ci informano su ogni particolare delle telefonate tra politici ed amici o amiche – anche sui particolari più intimi che, evidentemente, hanno una valenza sociale – ma non esce una parola sulla vicenda MontePaschi. Che, magari, dovrebbe avere una rilevanza maggiore rispetto ai nomignoli affettuosi tra innamorati. Evidentemente, però, l’occupazione dei posti chiave nella giustizia e nell’informazione garantisce una situazione di questo tipo. Che poi si possa parlare di informazione e di giustizia, vista la realtà italiana, è tutto da dimostrare. Ma quando non si vuole intervenire, o non si è capaci di farlo, bisogna rassegnarsi e tacere.

E che dire degli sprechi delle Consulenze esterne? Inchiesta sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati: notate bene il loro costo orario. Pubblicato da Gianluca Abate su “Il Corriere del Mezzogiorno”. C’è il procuratore che «collabora» con la Presidenza del consiglio dei ministri (Cataldo Motta). Quello che insegna nelle università di mezz’Italia, compresa la prestigiosa Luiss Business School (Antonio Laudati). Quello che siede nel comitato etico del Centro oncologico della Basilicata (Vicenzo Russo). E poi ci sono i magistrati che tengono lezioni in facoltà, scuole, corsi di specializzazione. Eccole qui le toghe che, per dirla con il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, collaborano con la società civile e con le istituzioni» . Fanno i docenti, i consulenti, gli analisti. E sono tutti autorizzati dal Csm. Il Corriere del Mezzogiorno ha letto l’ultimo aggiornamento disponibile dell’elenco degli incarichi extragiudiziari autorizzati dal Consiglio superiore della magistratura nel primo semestre del 2011. Ecco chi sono i 67 magistrati pugliesi «impegnati nel sociale» . E cosa fanno. Bari L’elenco, in ordine alfabetico, inizia con Luigi Agostinacchio, giudice d’appello che fino all’ 11 luglio insegnerà procedura civile alla scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Bari: l’impegno previsto è di 13 ore, il compenso lordo di 1.300 euro. Presso lo stesso ateneo insegneranno un altro giudice d’appello, Michele Vincenzo Ancona (lezioni giuridiche fino al 30 giugno, 6 ore, 100 euro lordi l’ora) e il giudice del tribunale Salvatore Casciaro (corsi di diritto civile fino al 30 dicembre, 16 ore, 100 euro lordi l’ora). Daniele Colucci, giudice, fino al 30 giugno insegnerà invece diritto del lavoro all’Università del Molise (6 ore, 100 euro lordi l’ora), mentre il suo collega della corte d’appello, Marcello De Cillis, fino al 15 luglio terrà lezioni di procedura penale all’Università di Bari (13 ore, 100 euro lordi l’ora). Incarichi di docenza presso la stessa Università sono stati autorizzati anche per il pm Giuseppe Dentamaro (fino al 28 ottobre sarà «tutor» di procedura penale, 40 ore, 1.500 euro), il giudice Sergio De Paola (fino al 15 luglio tiene corsi di diritto penale, 14 ore, 100 euro l’ora), e il giudice d’appello Adriana Doronzo, (lezioni di procedura civile fino al 15 luglio, 13 ore, 100 euro l’ora). Pietro Errede, giudice del tribunale, fino al 30 giugno 2011 terrà invece corsi sulla gestione dei beni confiscati presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (96 ore, 150 euro lordi l’ora, per un totale di 14.400 euro). Incarico gratuito invece per Patrizia Famà, giudice del lavoro che fino al 31 dicembre svolgerà esami di diritto penale del lavoro all’Università di Bari, per un totale di 8 ore. Giuseppe Gatti, pm, fino al 29 luglio insegnerà invece diritto costituzionale agli studenti del liceo ginnasio «Aristosseno» di Taranto (7 ore, 80 euro lordi l’ora), mentre fino al 31 dicembre terrà lezioni di diritto penale alla Scuola forense di Capitanata (16 ore, 200 euro ogni novanta minuti di lezione): il 31 maggio è terminato l’incarico all’Università di Foggia, dove ha insegnato diritto commerciale (8 ore, 200 euro lordi l’ora). Il sostituto pg Giuseppe Iacobellis fino al 6 agosto terrà corsi di diritto penale alla «Legione allievi» della Finanza (20 ore, 20.66 euro lordi per ogni lezione). Francesca La Malfa, presidente di sezione del tribunale, fino al 10 luglio insegnerà invece diritto penale all’Università di Bari (14 ore, 100 euro lordi l’ora). Sono invece terminati i cinque incarichi autorizzati da Palazzo de’ Marescialli per il procuratore Antonio Laudati: fino al 31 gennaio ha tenuto lezioni alla Scuola di perfezionamento per le forze di polizia (25 ore, 123.95 euro lordi l’ora), fino al 31 marzo ha svolto docenze sul contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata alla Scuola di polizia tributaria della Finanza (10 ore, compenso lordo orario di 120 euro), l’ 11 aprile ha insegnato diritto tributario alla Luiss Business School (4 ore, compenso lordo di 500 euro), il 15 aprile ha tenuto lezione all’Università romana di Tor Vergata (8 ore, 150 euro lordi l’ora) e fino al 29 aprile ha insegnato diritto penale al Suor Orsola Benincasa di Napoli (4 ore, 70 euro lordi l’ora). Fino al 30 ottobre, invece, Giuseppe Mastropasqua, magistrato di sorveglianza, terrà corsi di legalità al centro di orientamento «Don Bosco» di Andria (8 ore, docenze gratuite), mentre termineranno il 30 novembre le lezioni di diritto penale all’Università di Bari (14 ore, 100 euro lordi l’ora): il giudice ha anche insegnato diritto penale nello stesso ateneo (12 ore, incarico gratuito), diritto penale nel carcere di Bari (14 ore, 70.95 euro lordi l’ora) e il 16 aprile ha tenuto una lezione all’associazione «Cercasi un fine» (3 ore, compenso gratuito). Docenza all’Università di Bari pure per i giudici Pietro Mastrorilli (diritto del lavoro, fino al 30 dicembre, 10 ore, compenso lordo di 100 euro l’ora) e Valeria Montaruli (diritto penale, fino al 15 luglio, 14 ore, 100 euro lordi l’ora), e per il pm Renato Nitti, (diritto penale, fino al 30 giugno, 14 ore, 100 euro lordi l’ora): il pm tiene anche lezioni di diritto ambientale (20 ore, 80 euro lordi l’ora), di polizia giudiziaria (5 ore, 200 euro lordi l’ora) e diritto commerciale (4 ore, 200 euro lordi l’ora). Lecce Insegna procedura civile all’Università del Salento Annafrancesca Capone, giudice del tribunale: l’incarico, che durerà fino al 30 giugno per un totale di 20 ore, è «gratuito» . Alessio Coccioli, pm, terrà invece corsi di legalità all’istituto «Liside» di Taranto fino al 21 maggio 2012 (10 ore, compenso orario lordo di 80 euro), mentre il giudice Agnese Di Battista fino al 30 giugno insegnerà diritto penale all’Università del Salento (6 ore, incarico gratuito). Maria Silvia Dominioni, magistrato di sorveglianza, fino al 31 maggio 2012 terrà corsi di legalità all’istituto statale di Acquarica del Capo (10 ore, 800 euro lordi). Francesco Antonio Esposito, giudice d’appello, fino al 30 maggio svolgerà esercitazioni di diritto civile all’Università del Salento (10 ore, incarico gratuito), e sempre presso lo stesso ateneo insegneranno la sua collega Lucia Esposito (procedura civile, 50 ore, compenso non indicato), il presidente della sezione lavoro del tribunale Valentino Mario Fiorella (diritto del lavoro, 25 ore, compenso non definito) e i giudici Sergio Memmo, (10 ore, incarico gratuito) e Michele Toriello (20 ore, incarico gratuito). Cataldo Motta, procuratore della Repubblica, farà invece il «collaboratore» della Presidenza del consiglio dei ministri «in qualità di esperto» : il Csm l’ha autorizzato a partecipare (fino al 21 settembre 2012) a un tavolo tecnico sulla vittime della tratta, anche in questo caso l’incarico è gratuito. Trani Lezioni fino al 22 dicembre in una scuola media, la «Baldassarre» , per il pm Ettore Cardinali (progetto «Le(g) ali al Sud» , 10 ore, compenso unico di 800 euro). Paola Cesaroni, giudice del tribunale, fino al 30 giugno sarà «tutor» di procedura civile all’Università di Bari (40 ore, compenso lordo di 1.500 euro), e fino a quella data insegnerà diritto penale alla Jean Monnet anche Marco D’Agostino, pm: l’incarico è di 15 ore, il compenso di 100 euro lordi l’ora. Bruna Carmela Manganelli, pm, fino al 15 settembre farà tutorato di diritto penale all’Università di Bari (40 ore, 1.500 euro lordi). Foggia e Lucera Incarico all’Università di Foggia per il pm Giacomo Enrico Infante, che fino al 30 giugno insegnerà diritto penale (12 ore, compenso lordo di 2.400 euro), dopo aver terminato il 17 marzo il suo incarico all’istituto «Blaise Pascal» di Foggia (lezioni sul bullismo, 5 ore, 80 euro lordi l’ora). Vincenzo Russo, procuratore della Repubblica, è stato invece autorizzato fino al 28 febbraio 2013 a far parte del comitato etico del «Centro di riferimento oncologico» della Basilicata: l’impegno richiesto prevede la partecipazione alle riunioni (tre ore, una volta al mese), l’incarico è a titolo gratuito. A Lucera invece il giudice Michele Nardelli insegnerà diritto commerciale all’Università del Molise fino al 30 settembre (12 ore, compenso orario lordo di 40 euro) e terrà lezioni di procedura civile alla Scuola forense di Foggia fino al 31 dicembre (tre lezioni, 200 euro lordi per ognuna). È cessato il primo marzo, invece, l’incarico autorizzato per il procuratore Domenico Angelo Raffaele Seccia, che ha insegnato all’Università di Foggia (8 ore, compenso unico lordo di 1.600 euro). Gli altri incarichi Ecco i magistrati che nel corso del primo semestre del 2011 hanno invece portato a termine gli incarichi per cui erano stati autorizzati: Giuseppe Alfredo Allegretta (giudice a Trani, 36 ore, incarico gratuito), Ciro Angelillis (pm a Bari, 5 ore di lezione il 23 febbraio, 200 euro lordi l’ora), Achille Bianchi (giudice a Bari, 40 ore, 800 euro lordi), Giuseppe Biondi (giudice a Lecce, 8 ore, compenso gratuito), Giorgio Lino Bruno (pm a Lecce, 28 ore, compenso non specificato), Genantonio Chiarielli (giudice a Brindisi, 10 ore, 64 euro lordi l’ora), Danilo Chieca (giudice a Foggia, ha avuto due incarichi: uno di 4 ore il 9 marzo, 800 euro lordi, e uno di 3 ore, 200 euro lordi l’ora), Pasqualina Rita Curci (giudice a Foggia: un incarico di 3 ore, per 250 euro lordi, e un altro di 4, con compenso orario di 80 euro lordi), Giuseppe Nicola De Nozza (pm a Brindisi, 8 ore in due giorni, 60 euro lordi l’ora), Mirella Delia (giudice a Bari, 10 ore, 1.000 euro lordi), Grazia Errede (giudice d’appello a Lecce, 10 ore, compenso gratuito), Giacomo Marco Ferrucci (giudice a Lucera, 8 ore, 1.600 euro lordi), Rossana Giannaccari (giudice a Lecce, 25 ore, compenso gratuito), Luciano Guaglione (giudice d’appello a Bari, ha avuto tre incarichi: uno di 15 ore con compenso di 2.000 euro lordi, uno di 9 ore con compenso di 2.400 euro lordi, e uno di 16 ore con compenso di 600 euro), Antonio Laronga (pm a Foggia, 8 ore, 200 euro lordi l’ora), Giuseppe Infantini (giudice a Trani, 2 ore, 400 euro lordi), Valentino Lenoci (giudice a Bari, 20 ore, 2.000 euro lordi), Gennaro Lezzi (giudice a Foggia, 2 ore, 500 euro), Ada Luzza (presidente del tribunale per i minorenni di Lecce, 15 ore, compenso gratuito), Caterina Mainolfi (giudice d’appello a Lecce, 20 ore, compenso non indicato), Antonia Martalò (giudice a Lecce, 5 ore, 80 euro lordi l’ora), Valeria Elsa Mignone (pm a Lecce, 5 ore, 80 euro lordi l’ora), Simone Orazio (giudice a Taranto, 10 ore, 80 euro l’ora), Michele Parisi (giudice a Bari, 8 ore, compenso orario lordo di 200 euro), Gabriele Protomastro (giudice d’appello a Bari, 8 ore, 200 euro lordi l’ora), Paolo Rizzi (giudice a Foggia, ha avuto due incarichi: uno da 3 ore l’ 8 aprile, con compenso unico lordo di 250 euro, e un altro di 4 ore, 200 euro lordi l’ora), Maria Cristina Rizzo ((procuratore minorile a Lecce, 15 ore, incarico gratuito), Carmela Romano (giudice a Bari, 6 ore, 200 euro lordi l’ora), Pasquale Sansonetti (giudice a Lecce, 20 ore, compenso gratuito), Vincenzo Pietro Scardia (giudice d’appello a Lecce, 5 ore in due giorni, 80 euro lordi l’ora) e Alessandro Silvestrini (presidente di sezione del tribunale di Lecce, nominato vicepresidente della commissione di concorso per l’esame di notaio).

Il Presidente della Repubblica bacchetta il CSM. Quel monito sui ritardi del Csm, scrive Vladimiro Zagrebelsky su “La Stampa”. Breve, secco, durissimo è il richiamo che il Presidente della Repubblica ha inviato al Consiglio Superiore della Magistratura. Il Presidente nota, ancora una volta, che molti uffici giudiziari rimangono molto a lungo privi dei loro magistrati dirigenti: presidenti di corte d’appello, procuratori generali, presidenti di tribunale e procuratori della Repubblica, presidenti di sezione delle corti e dei tribunali. Responsabile del ritardo è il Csm, nella cui competenza costituzionale ricade l’assegnazione dei magistrati alle diverse funzioni. Il Presidente sottolinea che il ritardo del Csm contrasta con il dovere costituzionale di assicurare il buon andamento della amministrazione della giustizia ed è tale da avere pesanti ricadute sul prestigio della istituzione. Per restaurare la prima e per ricostituire il secondo c’è da augurarsi una pronta, autocritica e concreta risposta da parte del Csm. Il rispetto che si è guadagnato il vice-presidente Vietti gli consente di agire per indurre il Consiglio ad operare in sintonia con i suoi doveri costituzionali e con il richiamo del Presidente. Da tempo i ritardi del Csm sono noti e criticamente vissuti entro e fuori della magistratura. Lo è anche il merito delle scelte nelle nomine dei capi degli uffici, come è naturale che sia in un campo che richiede difficili valutazioni (previsioni) di attitudini direttive di magistrati che spesso non hanno ancora avuto modo di manifestarle. Ma ora è questione dei ritardi, che il Presidente connette anche “al trascinarsi di contrasti e/o di tentativi di accordo tra le diverse componenti della rappresentanza della magistratura in seno al Csm”. Non si tratta quindi di pigrizia o disorganizzazione, ma di un difetto che riguarda il metodo che produce le decisioni. Un metodo che incide sui tempi ed anche sul contenuto delle decisioni. Quanto ai tempi, basta vedere l’ordine del giorno del Consiglio di questa settimana. Le deliberazioni sull’attribuzione di incarichi direttivi - tra cui quella di procuratore generale di Palermo - riguardano tutte posti che sono vacanti da più di un anno. Il Csm è stato previsto dalla Costituzione per assicurare la autonomia della magistratura da ogni altro potere dello Stato e tutelare la indipendenza dei magistrati. Una missione che il Csm ha nel tempo garantito come effetto della sottrazione di competenze prima della Costituzione assegnate al governo e al ministro della giustizia. Ma tolta l’influenza governativa, incompatibile con i principi della separazione dei poteri e dello stato di diritto, si sono nel tempo manifestate derive negative di altro (ma talora simile) tipo. Il Csm è composto da due terzi di magistrati eletti dai loro pari e da un terzo di professori o avvocati eletti dal Parlamento. I magistrati sono eletti con metodo proporzionale su liste che nella loro quasi totalità sono presentate dalle varie “correnti” della Associazione nazionale magistrati. I componenti “laici” sono eletti per spartizione tra i partiti presenti in Parlamento. Gli uni e gli altri, i componenti “togati” e quelli “laici” operano nel Csm con maggiore o minore autonomia dal gruppo che ne ha sostenuto l’elezione, a seconda del loro carattere, del loro senso istituzionale, delle loro aspettative. Per quel che riguarda la magistratura, a partire dagli Anni 60 del secolo scorso, i gruppi si sono formati ed affrontati sulla base di importanti e talora radicali differenze sulle concezione del ruolo della magistratura nel sistema disegnato dalla Costituzione. Nel tempo le differenze si sono affievolite. I gruppi si sono articolati e divisi. La loro identità o, come amano dire, le loro “sensibilità culturali” si sono diluite e mescolate. Ciò che rischia di rimanere è la gestione del potere, con l’avvertenza che non si tratta di una chiave di lettura univoca e da sola capace di spiegare tutto, oscurando l’area del funzionamento virtuoso dell’istituzione. E chi nel Csm è interessato a gestire il potere trova la massima occasione di impegnarsi nell’attribuzione degli incarichi direttivi (e di qualche altro incarico importante) negli uffici giudiziari. Naturalmente questa degenerazione non riguarda i soli componenti eletti dalla magistratura. D’altronde la parabola dei partiti politici non è stata molto differente. Basta vedere, tra gli esempi più recenti, come i partiti in Parlamento hanno creduto di poter adempiere al loro dovere di rinnovare la composizione delle varie Autorità Indipendenti. Se il criterio di scelta del candidato da sostenere per l’assegnazione di un incarico direttivo è quello dell’appartenenza, allora la lottizzazione è la naturale conseguenza, indifferente o quasi al merito. E la ricerca dell’accordo, che spesso richiede che numerose pedine siano sul mercato, trascina le pratiche di rinvio in rinvio. Discutibili quindi i risultati ed anche tardivi.

Che fare? Nulla può pretendere il mondo della politica. La autonomia dell’ordine giudiziario e la indipendenza dei magistrati non è nella disponibilità dei partiti, né del Parlamento. E nella esperienza storica che viviamo, essi non offrono un modello cui si possa far riferimento. Ma nella magistratura cresce l’insofferenza. Il monito del presidente Napolitano, che avverte la caduta del prestigio del Csm, dovrebbe dar forza a una reazione del corpo stesso della magistratura. E’ la magistratura che elegge i componenti del Csm, che ne sono i rappresentanti. La scarsissima partecipazione dei giovani magistrati alla vita associativa e alla discussione sul ruolo del potere giudiziario è un segno inequivoco della mancanza di idee - e di ideali - per cui valga la pena dedicare tempo e energia. Per questo la nostalgia della vivacità dei primissimi decenni di vita della Costituzione repubblicana non è solo il frutto dell’avanzare dell’età di chi in quegli anni ha avuto la fortuna di iniziare il suo servizio in magistratura.

Gli imbarazzi del CSM. «Sono certo di non imbarazzare il Csm, altrimenti me ne sarei già andato». Il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo spiega di rimanere sereno anche dopo le voci apparse sui giornali che mettono in luce la sua parentela con Manuela Romei Pasetti, l'ex giudice passata a Finmeccanica e il cui nome è finito nelle carte dell'inchiesta a carico dell'ex presidente dell'azienda Giuseppe Orsi. Con i cronisti il magistrato si mostra sereno: spiega che i rapporti con la suocera di suo figlio si sono interrotti prima che scoppiasse il caso Finmeccanica. E al plenum del Csm di ieri al quale partecipa come componente di diritto, incassa la solidarietà del vice presidente Michele Vietti: «Desidero rassicurare tutti e innanzitutto il presidente Lupo che il Csm non è per nulla imbarazzato nè per le sue parentele nè per null'altro». È comunque il giorno in cui al Csm la vicenda Finmeccanica irrompe con tutta la sua forza. La consuocera di Lupo (che non è indagata) è uno degli ex giudici a cui si sarebbe rivolto Orsi che sperava che il Csm nominasse procuratore di Busto Arsizio un magistrato diverso dal troppo «zelante» pm Eugenio Fusco, titolare dell'inchiesta su Finmeccanica. E nelle carte dell'inchiesta si parla di telefonate che Romei Pasetti avrebbe fatto per quella nomina a un ex membro del Csm Luisa Napolitano e soprattutto ad Alessio Orlando, assistente del consigliere in carica Paolo Corder. La diretta interessata ha escluso categoricamente nei giorni scorsi di aver cercato di influire sulla nomina per estromettere Fusco, spiegando che al contrario la sua preoccupazione era che un magistrato così preparato restasse a capo di un'inchiesta così delicata. E oggi anche Corder, indignato dalle «strumentalizzazioni diffamatorie» ha respinto ogni coinvolgimento nella vicenda. La nomina del procuratore di Busto Arsizio è comunque ancora ferma al Csm. E il presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, Riccardo Fuzio ha chiesto che l'ordinanza e gli atti dell'inchiesta siano sottoposti al Pg della Cassazione Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati.

Io giudice vi svelo le vergogne della casta. Il codice non scritto prevede "vivi e lascia vivere". Decisivi gli appoggi politici al Csm, scrive Iudex su “Il Giornale”. Quando entri in magistratura, è come dischiudere uno scrigno segreto e misterioso. Hai l'impressione d'essere stato ammesso in un regno proibito. Con le sue leggi, i suoi codici di comportamento. Rigorosamente non scritti, prima regola. Nulla di ufficiale. Quello che è ufficiale è demandato a Note, Circolari, Protocolli, utili per giustificare l'esistenza di un grande apparato. Quando entri in magistratura, resti allibito; poi, lentamente, ne assorbi il clima, le consuetudini. Ti arriva subito forte e chiaro un messaggio: vivi e lascia vivere, camperai cent'anni. Il tuo ego cresce a dismisura, tanto quanto il peso della toga. Scopri come sia importante la difesa dei tuoi privilegi: questione di sopravvivenza. Non muovere le acque, non rompere gli equilibri, non discutere le tradizioni: ne puoi trarre vantaggio al pari degli altri. E, dunque, perché agitarsi? Non sei d'accordo? Finirai a smaltire l'arretrato dei colleghi lavativi. Sarai tollerato come un diverso, insidioso e pericoloso. Alla prima occasione, fuori.

Quando il tribunale si svuota, il collega del Sud che se ne va, vedendomi ancora chino sul lavoro, mi canzona ridendo: «Tanto, lo stipendio è sempre uguale...». In effetti non esistono orari d'ufficio. A che ora vengo a lavorare? Quando tieni udienza. Quando tengo udienza? Lo decidi tu. Perché non si lavora al pomeriggio? Perché manca il personale. Perché convochiamo testi, sapendo che l'udienza va rinviata? Il teste ha l'obbligo di comparire. Perché la stanza del mio collega è sempre vuota? Lavora da casa, s'è portato via i fascicoli, stende le sentenze nel tinello, dove può concentrarsi di più. Perché a Natale, a Ferragosto, a Pasqua i tribunali sono vuoti? Non ci sono attività istituzionali. Perché il collega è assente? È indisposto. Ha mandato il certificato medico, almeno? No, lo porterà al rientro. Perché il procuratore viene al lavoro con l'auto blindata partendo da casa sua, che dista decine di chilometri dall'ufficio? È stato autorizzato.

E ancora. Perché esiste la sospensione dei termini feriali e quindi non possiamo fissare udienze dal 31 luglio al 15 settembre? Perché gli avvocati vogliono andare in ferie. Perché non decidi subito sull'istanza di scarcerazione? Il codice mi assegna cinque giorni, dunque me li prendo tutti, così posso passare il fine settimana in famiglia. Perché non scrivi subito la sentenza? Devo farla decantare, ho fissato un termine di sei mesi, come il codice mi consente. Vorrei fare domanda di trasferimento: devo andare al Csm a parlare con il consigliere che ho votato. Devo progredire in carriera: devo andare al Csm a parlare con il consigliere che ho votato. Ho un procedimento disciplinare in corso: devo andare al Csm a parlare con il consigliere che ho votato. Vado: «Sta' tranquillo, ho già parlato con gli altri colleghi della commissione disciplinare, andrà tutto per il meglio, nessuna sanzione». Il Consiglio superiore della magistratura salva i magistrati. È lì apposta. Ma perché ho in ballo un procedimento disciplinare? Trattasi di atto dovuto: ho messo in galera una persona per errore. E che sarà mai! Al Csm entri nella guardiola esibendo il famoso tesserino verde, quello che ti frutta il rispetto sociale, i favoritismi, la visibilità sui mass media. Il clima è ovattato, esoterico. Cammini su tappeti rossi. Fai anticamera. Svolazzano di qua e di là tante impiegate, altrettante fanno capannello alla macchinetta del caffè. Commessi impettiti che potresti scambiare per presidenti di qualche tribunale. Il cortile sembra una concessionaria della Lancia, vi sono schierate decine di auto minacciosamente blu, appena uscite dall'autolavaggio. Quando finalmente entri nella stanza del «tuo» consigliere, ti accorgi che gli hai interrotto una serie interminabile di telefonate e vedi dalle pile di fascicoli sulla sua scrivania, tutti blasonati col logo ministeriale o del Csm, che in quella stanza si discutono incarichi direttivi o semidirettivi in Procure e ministeri. Sei una nullità, con quella tua banale richiesta di poterti trasferire nella località di residenza dei tuoi genitori. In realtà, in quella stanza si decide chi sarà il procuratore generale della Cassazione o di Torino o di Palermo; chi dirigerà il tribunale di Roma o di Milano. Una specie di gioco a scacchi in cui le pedine si muovono in base a degli scambi. Per ogni posto importante vi è già tutta la filiera degli aventi diritto, concordati e spartiti fra le correnti. Come la «dinastia sabauda», così viene definita la cordata dei giudici piemontesi.

Te ne vai via dal Csm quasi subito con una bella stretta di mano rivestita dall'accento palermitano o napoletano. Riprendi il tuo trenino per il Nord. Hai vissuto una grande giornata, sei entrato anche tu, con tanto di tesserino spillato sulla giacca, nel Palazzo che decide il destino dei grandi magistrati, quelli potenti. Per la cui nomina si scomoda persino il capo dello Stato. Per te non si scomoderà nessuno. Anzi, devi stare attento alle prossime elezioni, il Csm si rinnova. Bisogna capire in fretta a quale corrente conviene aderire. (*) Iudex è lo pseudonimo di un magistrato.

Quattro allegati, tutti di fonte prestigiosa e tutti centrati sulla necessità di usare il carcere in maniera più prudente possibile: il primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo, il procuratore generale Gianfranco Ciani, il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati e infine il suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario a palazzo Grimani lo scorso 26 gennaio 2013. E un’accompagnatoria brevissima, inviata a tutti i capi delle procure venete: «Invio la nota in oggetto con invito a farne oggetto di apposita direttiva di carattere generale nella auspicabile prospettiva di adeguare l'esercizio di richiesta e assenso delle misure cautelari personali all'art 27 comma 2 della Costituzione». Firmato Pietro Calogero, procuratore generale della Corte d’appello di Venezia. Il quale dunque chiede ai pubblici ministeri di arrestare meno, visto lo stato «disumano » — termine usato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano—delle carceri italiane. «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», dice infatti l’articolo 27 della carta fondamentale dell’Italia e Calogero, che oggi preferisce non commentare — «non ho nulla da aggiungere rispetto a quanto ho scritto» —, l’aveva già citato appunto un mese fa, aprendo l’anno giudiziario del Veneto.

Csm, nomine e spartizioni: ecco cosa può accadere a chi straccia la tessera dell'Anm scrive Peppe Rinaldi sul “Quotidiano "Roma" del 9 febbraio 2013. Alfredo Greco noto magistrato salernitano, è stato definitivamente cancellato dalla corsa: non potrà fare il capo della procura di Nocera Inferiore, lì deve rimanere l’attuale procuratore Gianfranco Izzo (foto in basso a destra). Fine della storia. L’ha «detto» anche Paola Severino, ministro della Giustizia, che sulla pratica contestata non ha dato il suo «concerto», cioè il lasciapassare tecnico che ratifica le decisioni sulle funzioni e sugli uffici che le toghe devono ricoprire. Sembrerebbe una delle tante vicende che accompagnano la vita delle professioni, un esempio dell’altalena dondolante sulla scacchiera delle nomine, dove c’è chi vince e chi perde, chi gioca sporco e chi no, chi fa il furbo e chi meno, chi è più bravo e meno bravo. Sembrerebbe, appunto, perché a raccontarla tutta questa storia assume il connotato di un «delitto perfetto», seppur appeso alle corde della formale legittimità di ogni passaggio. Il caso di Greco non è il primo, non è il solo e di certo non sarà l’ultimo. Se noi giornalisti ponessimo attenzione a ciò che accade nell’universo togato in misura analoga a quella che mettiamo quando si tratta di crocifiggere politici o altri, probabilmente ne verrebbe fuori un quadro diverso della realtà. Ma questa è un’altra storia. Partiamo dal peccato originale: Greco non ha più la tessera dell’Anm, il sindacato che ha in mano vita, opere e carriere di ogni magistrato. Aveva anni fa quella di Unicost, poi la stracciò sbattendo la porta. Cose che capitano. Ma fu il momento in cui probabilmente il suo destino venne segnato. Il sindacato condiziona da sempre le scelte del Csm, specie la “corrente dei pm”: si commerciano posti, incarichi e funzioni a seconda degli equilibri politici del momento. Uno a te di Md, un altro a te di Area, poi un paio a Mi, un altro paio a Unicost e Movimento per la Giustizia, etc: insomma al Csm fanno esattamente le stesse cose che fanno i politici con la differenza che, in questo caso, non lo si può dire apertamente. Quattro anni fa, tra i tanti, c’era da coprire il posto della procura di Nocera. I contendenti erano Greco e l’attuale procuratore capo Izzo, stimato magistrato di Cassino. La Commissione incarichi direttivi dell’epoca vede Greco prevalere a maggioranza: due voti per Izzo e tre per lui. Ma quando l’esito giunge al plenum dell’aula per la definitiva votazione, il tavolo viene rovesciato e, nonostante Greco avesse punteggi migliori rispetto all’antagonista (merito, anzianità, esperienza, conoscenza del territorio) gli fu preferito Izzo. Non restava che rivolgersi alla giustizia amministrativa. E così fu: Greco va al Tar ma il tribunale conferma la delibera ammettendo una delle motivazioni addotte dallo stesso Csm: «Greco era stato sottoposto ad un procedimento disciplinare dal quale però era stato assolto». Garantisti, no? Se uno viene assolto viene assolto, altrimenti è colpevole: evidentemente ai magistrati è consentito anche ribaltare logica e significato dei termini. Mentre tutto ciò avviene, scoppia il famoso scandalo della «P3» dove, al di là della vicenda del dossier su Caldoro e l’affaire del fotovoltaico in Sardegna (erano coinvolti anche Denis Verdini, Dell’Utri e altri), la procura di Roma aveva individuato una strana manovra sul Csm per l’assegnazione delle poltrone. Nell’ordinanza è contenuta un’intercettazione in cui l’ex sindaco di Cervinara (Av) Pasqualino Lombardi parla con Celestina Tinelli, membro laico del Csm in quota Pd. Lombardi preme per far assegnare la procura di Nocera ad Izzo, la Tinelli replica: «Non te lo posso garantire,vedremo». Alla fine Izzo andrà esattamente dove le presunte pressioni della cricca volevano. Per molto meno è successo il finimondo: manette, avvisi di garanzia, sputtanamento mediatico, etc. Stavolta niente. La circostanza, comprensibilmente, viene rappresentata nel ricorso che Greco affiderà alla perizia dell’avvocato Lorenzo Lentini: infatti il Consiglio di Stato ribalta tutto, annulla la decisione del Tar ed ordina che al posto di Izzo debba andarci Greco. La sentenza (la n. 281 dell’11/10/2011, depositata il 23/01/2012) è chiara: il Csm ha «sistematicamente obliterato» i titoli di Greco, le relazioni sui candidati erano frutto di una sorta di copia e incolla di altre, segno che i curriculum manco li avevano considerati. E se non li avevano considerati, giocoforza dovevano esserci altre ragioni. E’ fatta allora? In un paese normale sarebbe andata così, cioè nel volgere di qualche settimana ci sarebbe dovuto essere il passaggio di consegne. E invece? Invece niente, passa addirittura un anno senza che il Csm esegua quanto disposto da una sentenza dello stato. Un normale cittadino viene arrestato e sbattuto in galera se non è conseguente al giudicato di una sentenza: forse il Csm gode di extraterritorialità. In un anno la vicenda sarebbe stata messa all’ordine del giorno dei consigli superiori un paio di volte ma non si è mai riusciti ad arrivare alla discussione. Strano o meno, è un fatto. Così come è un fatto l’altrettanto strana circostanza che nei 12 mesi in cui si attendeva che il Csm desse seguito alla sentenza, siano spuntati fuori nei confronti di Greco un paio di procedimenti disciplinari e addirittura un procedimento penale. Senza scendere nel merito delle contestazioni (basti sapere che Greco ha dovuto difendersi in tribunale e dinanzi alla Disciplinare del Csm per aver dato, durante un’udienza, dello «scorretto» ad un avvocato!) va aggiunto che pure in questi tre nuovi casi è stato assolto. Rimessa la questione all’odg del Csm sulla base delle recenti acquisizioni, la scena si ripete: Greco vanta titoli maggiori e bla bla bla, ma, purtroppo, ci dispiace, se non ci fossero stati questi tre procedimenti il posto sarebbe stato suo, quindi Izzo resta dov’è. Paola Severino, dinanzi a ciò, certo non poteva fare diversamente: e sarebbe, pare, la prima volta che accade una cosa del genere. Se abbiamo capito bene funziona così: non importa che tipo di ombra ci possa essere sul tuo curriculum (nel caso di Izzo, la presunta raccomandazione ricevuta da una presunta associazione a delinquere), l’importante è che tu rappresenti un pezzo del nostro sistema. Se invece non lo rappresenti, anche l’aver dato dello «scorretto» ad un avvocato può significare la fine del tuo sogno. E chissà, a questo punto, pure di una carriera lunga ed onorata come quella del magistrato Alfredo Greco.

I FLOP GIUDIZIARI ED I PALADINI DELLA GIUSTIZIA.

Inchiesta dopo inchiesta: ecco tutti i flop di Woodcock. Dal vipgate al Savoiagate passando per Vallettopoli e per la P4: il pm napoletano ha fatto molti buchi nell'acqua, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Recita il teorema di Woodcock: quando un cittadino è indagato da un magistrato giustamente si preoccupa, ma quando a indagarlo è la toga anglo-napoletana si preoccupa molto meno. Perché le probabilità di un proscioglimento o di un'assoluzione sono assai alte. È il curriculum di Woodcock a dirlo, non certo noi. Le sue inchieste sono spesso spettacolari e ancora più spesso si concludono con un buco nell'acqua. Nascono da prima pagina e finiscono nel cestino della carta straccia. È bene tenerne conto parlando dell'inchiesta napoletana che vede Silvio Berlusconi indagato per corruzione. Il primo flop risale al 2000. Henry John Woodcock, classe 1967, lavora da pochi mesi alla Procura di Potenza e imbastisce un'inchiesta sulla Banca Mediterranea. Una storia di falsi in bilancio svuotata nel 2001 da una legge che depenalizza alcune fattispecie di quel reato. Woodcock farà ricorso al la Corte Costituzionale ma inutilmente. Parziale il fiasco della successiva inchiesta sulle tangenti che sarebbero state intascate da alcuni dirigenti dell'Inail: dei 20 arrestati sei sono liberati dal Tribunale del Riesame. Il primo grave smacco nella carriera di Woodcock arriva con il cosiddetto «Vipgate»: un'inchiesta-calderone partita nel 2003 che coinvolge a vario titolo 78 persone tra cui i politici Franco Marini, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice tv Anna La Rosa. Le accuse (associazione per delinquere per la turbativa di appalti, corruzione, estorsione e tante altre) si sgonfiano presto e il tribunale di Roma, cui l'inchiesta è approdata dopo che Potenza si è dichiarata incompetente, archivia il feuilleton giudiziario per impossibilità di sostenere l'accusa in giudizio. È così che Woodcock inizia a farsi la fama di «mister flop». Una fama consolidata da successive e non meno sfortunate inchieste: la cosiddetta «Iene 2», che nel 2004 ipotizza link tra esponenti politici lucani e criminalità organizzata e finisce con 51 arresti respinti; e il «Savoiagate» che inquadra nel mirino Vittorio Emanuele di Savoia, arrestato con le accuse tra le altre di associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione e alla concussione. Anche in questo caso non appena l'inchiesta lascia la procura di Potenza per approdare in quella di Como, competente perché al centro c'è il casinò di Campione d'Italia, si affloscia e nel 2010 il reale viene assolto con altri imputati perché il fatto non sussiste. All'ex sindaco di Campione Roberto Salmoiraghi, arrestato e costretto alle dimissioni, è riconosciuto un risarcimento di 11mila euro. Non finisce qui. Woodcock si imbarca in una nuova inchiesta glamour, la cosiddetta «Vallettopoli». Al centro, un giro di ricatti nel mondo dello spettacolo. Da prima pagina alcuni personaggi coinvolti: la soubrette Elisabetta Gregoraci, il portavoce di Gianfranco Fini Salvatore Sottile, Lele Mora, Fabrizio Corona, l'allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio. L'inchiesta approda al tribunale dei ministri di Roma, ma finisce in una bolla di sapone, salvo che per la condanna a Milano di Corona. Un flop autocertificato è quello dell'inchiesta sulla massoneria, con Woodcock stesso che fa marcia indietro per inconsistenza dell'accusa. Nel 2009 Woodcock si trasferisce a Napoli ma non perde il vizietto dell'inchiesta tanto-rumore-poca-sostanza. Nel 2011 fanno scalpore le intercettazioni sulle quali si basa l'inchiesta sulla P4, il «sistema informativo parallelo» allestito dal mediatore Luigi Bisignani. Alfonso Papa del Pdl diventa il primo parlamentare italiano a finire in carcere per reati non violenti, con l'accusa di aver fornito a Bisignani informazioni sensibili ottenute con l'aiuto del maresciallo dei carabinieri Enrico La Monica. Dopo 157 giorni di reclusione Papa viene scarcerato dal Tribunale del Riesame che afferma l'inesistenza di prove del rapporto con La Monica. Non solo: la Cassazione e il riesame di Napoli sanciscono l'insussistenza degli indizi in relazione al reato di associazione per delinquere.

Viaggio tra i flop di De Magistris, il pm moralizzatore, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. È davvero finita, se persino Marco Pannella ha detto realmente che il togato Luigi De Magistris «non lo hanno fatto lavorare»: abbiamo perso la memoria o abbiamo perso Pannella, cioè uno che conosce Napoli - si pensava - e che tuttavia, adesso, sostiene un perfetto erede di quel genere di magistrati che distrussero Enzo Tortora. Faccia pure, Pannella, si turi il naso, se lo mozzi, ma prima legga qui. Perché peggio dell’informazione che non c’è - sacrosanta lagnanza dei radicali - c’è il non conoscere la poca informazione che c’è. La clinica degli orrori. Poco si sa, infatti, della reale carriera di Luigi De Magistris, un uomo che in fin dei conti andrebbe giudicato per le sue opere. Il candidato sindaco fu nominato magistrato di tribunale l’8 luglio 1996 e giunse a Catanzaro quell’anno stesso, 29enne; si presentò ai colleghi incitando sin da subito alla «moralizzazione della cosa pubblica» e quest’ultima espressione comparirà nell’ordine d’arresto della sua prima inchiesta importante, la 1471/96, un’indagine grazie alla quale ventuno incensurati di una clinica privata, Villa Nuccia, finirono in galera con le accuse più turpi: violenza contro un centinaio di malati mentali, omicidio dei medesimi, favoreggiamento di latitanti, falsi certificati per esonerare dei figli di mafiosi dal militare, cose così. De Magistris mostrò già allora un’indubbia disinvoltura nel contestare il peggio: sequestro di persona, omicidio, falso, maltrattamenti, associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Il clamore mediatico fu enorme, e la stampa prese finalmente conoscenza del personaggio: su Raidue, La vita in diretta si soffermò sul caso per settimane. Tutto era fondato sulle confidenze rese a De Magistris da Mario Ammirato, un ex infermiere; oltre alle sue parole, il nulla. Le richieste d’arresto iniziavano così: «Nell’ambito dell’attività di indagine rivolta alla moralizzazione della cosa pubblica... ». Era già partita la lunga rincorsa di Luigi De Magistris verso fantomatiche lobby di potere da perseguire a tutti i costi. Tra gli arrestati principali c’era il primario Antonino Bonura, già medico militare pluridecorato con diverse missioni all’estero alle spalle: peraltro era medico legale nella stessa Procura che l’aveva arrestato, e dopo la carcerazione gli venne un infarto. De Magistris, a un anno dal primo arresto, lo incarcerò una seconda volta: fu l’unico errore di cui il magistrato ebbe a scusarsi pubblicamente. È di allora anche un primo tentativo di coinvolgere in qualche modo Giuseppe Chiaravalloti, ai tempi avvocato generale presso la Corte d’Appello e futuro presidente della Regione: il pm lo tirò in ballo sul presupposto che in clinica avesse abbracciato Antonino Bonura. De Magistris chiese i rinvii a giudizio del caso, ma l’udienza preliminare sfociò in una sentenza di non luogo a procedere per tutti: Vittoria Palazzo, Corrado Decimo, Vincenzo Lombardi, Achille Tomaino, Massimo Aria, Giuseppe Giannini, Francesco Trapasso, Alfonso Colosimo, Salvatore Moschella e Giovanni Ferragina. Prosciolti. De Magistris impugnò la sentenza, ma il 22 gennaio 1999 la Corte d’Appello di Catanzaro confermò i proscioglimenti in toto. La vicenda, complicatissima, si inerpicherà in un totale di undici processi in dieci anni, e alla fine saranno assolti tutti gli imputati tranne uno: Mario Ammirato, proprio lui, il confidente di De Magistris. Il cardiopatico Bonura e il trapiantato di fegato Salvatore Moschella, invece, ricevettero rispettivamente 50mila e 180mila euro per ingiusta detenzione. Ma la clinica era ormai sputtanata e dovettero cederla. La Corte d’Appello liquidò ingenti riparazioni anche per gli altri. Sono di allora i primi scontri con Giancarlo Pittelli, avvocato dei succitati e negli anni a venire parlamentare di Forza Italia: per De Magistris una sorta di nemico pubblico. Sempre in campo sanitario, Pittelli fronteggerà il magistrato in molti altri procedimenti tra i quali uno discretamente demenziale: De Magistris accusò di falso alcuni farmacisti comunali che a suo dire non avevano obliterato alcune fustelle, ossia i talloncini dei prezzi che ci sono sulle scatole dei medicinali; tuttavia verrà fuori che i farmacisti non avevano potuto obliterare le fustelle perché De Magistris, per altro procedimento, gli aveva già sequestrato l’apparecchietto per l’obliterazione. Archiviato tutto. L’abuso che non c’era. Il secondo clamoroso buco nell’acqua fu il procedimento 496/97, dove De Magistris accusò di abuso d’ufficio gli amministratori comunali Giovanni Alcaro, Giuseppe Mazzullo, Lucia Rubino, Valerio Zimatore, Domenico Tallini, Michelino Lanzo, Costantino Mustari e Fausto Rippa. L’accusa, in sostanza, fu quella d’aver riassunto in comune questo Fausto Rippa con una delibera irregolare. A stabilire che lo era, regolare, c’era già una sentenza del Tar, la numero 864 del 5 settembre 1995: ma De Magistris chiese il rinvio a giudizio lo stesso, e il 15 dicembre 1997 il giudice decise per il non luogo a procedere. Motivazione: insussistenza del fatto. L’appello di De Magistris verrà dichiarato inammissibile. Ma la sua clamorosa carriera - fatta, appunto, di clamori - era appena incominciata. L’indagine sulla costruzione del nuovo palazzo di giustizia di Catanzaro (procedimento n.609/96) fu naturalmente un altro plof della carriera di Luigi De Magistris: fu lui a ipotizzare dei generici «tentativo di abuso d’ufficio» e «tentativo di truffa aggravata» ai danni di tre persone, cioè Giuseppe Gatto, Antonio Rinaldi e Valerio Zimatore, continua Filippo Facci. L’impostazione accusatoria, tra l’altro, implicava necessariamente la complicità dei vertici della magistratura catanzarese, ma formalmente non furono neppure mai indagati, era ancora presto per quel genere di cose. Il sequestro del palazzo in costruzione venne subito revocato dal Tribunale della libertà, ed è qui che attorno a De Magistris cominciarono a succedere delle prime stranezze; la trascrizione delle intercettazioni telefoniche dell’indagato Giuseppe Gatto, infatti, fu artefatta: non solo la frase «provveditore generale» fu sostituita con «procuratore Generale», ma tra parentesi qualcuno appuntò - non è chiaro chi - anche il nome di Giuseppe Chiaravalloti, il citato Procuratore Generale a Reggio Calabria. Quest’ultimo, stupito, trasmise una rimostranza al Comando Generale dei Carabinieri, e il risultato fu che fu inquisito per calunnia e diffamazione ai danni del capitano responsabile della trascrizione telefonica. Chiaravalloti, comunque, sarà prosciolto in udienza preliminare e anche in Appello, mentre il capitano responsabile della trascrizione, invece, se la cavò con delle sanzioni disciplinari. In pratica fu un buco nell’acqua, a cui si aggiungerà la richiesta di De Magistris di processare i succitati Gatto e Rinaldi e Zimatore: ma il giudice, il 25 febbraio 1998, decise di non processare nessuno. De Magistris fece appello, ma fu respinto. Finita? Macché: De Magistris trasmise alla Procura di Messina (competente su Reggio Calabria) una nota dove si ipotizzava che il procuratore Chiaravalloti avesse rivelato dei segreti d’ufficio: ma il giudice archiviò anche questa. Dalla sentenza, peraltro, si evinse che le indagini su Chiaravalloti erano cominciate quando il medesimo era ancora avvocato generale a Catanzaro, cioè nella stessa sede giudiziaria dove operava De Magistris: era accaduto che una procura, in altre parole, aveva indagato su se stessa. Molti giovani avvocati, oggi, ricordano De Magistris anche se non l’hanno mai incontrato in vita loro: è per via della sua inchiesta catanzarese su alcune presunte irregolarità negli esami di procuratore legale. Più che presunte, le irregolarità erano certe: risultò infatti evidente, su 2301 partecipanti all’esame, che ben 2295 avevano copiato. Il problema è che De Magistris, pur indagando praticamente tutti e 2000 i candidati, non ebbe modo di dimostrarlo: il procedimento finì in nulla, e restò memorabile la pretesa che i commissari d’esame aprissero anzitempo le buste degli elaborati, davanti al carabinieri, col rischio che fossero invalidate tutte. Era un De Magistris ancora acerbo. Certe sue fisse apparenti, come quella d’inquisire soprattutto politici e magistrati, sembravano tuttavia già ben delineate: ma ecco che ogni volta andavano a sbattere contro i controlli di legittimità dei suoi colleghi. Giudici, gip, gup, tribunale del riesame, Appello, Cassazione, e annullamenti, assoluzioni, proscioglimenti: tutto sembrava complottare contro di lui. Il De Magistris che tornerà a Catanzaro nel 2002 - dopo un interregno poco significativo nella natia Napoli - risolverà questo problema adottando con frequanza un genere di provvedimenti che per essere spiccati non abbisognano neppure della fastidiosa convalida di un giudice: cioè perquisizioni, sequestri probatori, interdizioni e fermi di polizia. Anche la sua propensione a intercettare mezzo mondo, alleandosi con le fantasie spionistiche dei vari Gioacchino Genchi, sino ad allora era rimasta in sonno: ma di lì in poi comincerà a scatenarsi con varie inchieste infarcite di perquisizioni e fermi di polizia e soprattutto sequestri, tutti atti che appunto non abbisognavano di verifiche da parte dei colleghi. Tra le sue nuove fisse, il sequestro di grandi alberghi o maxi strutture turistiche ancora in costruzione, con annessi danni economici e lavoratori che finirono a spasso. Nel 2003, per esempio, sequestrò due villaggi turistici a Botricello (Catanzaro) e mise sotto indagine diciotto persone. Il sequestro durò quattro anni e ogni finanziamento europeo del caso - circa nove miliardi di lire - andò perso. Ma il 13 maggio 2007, dopo quasi tre anni di udienza preliminare, il giudice Tiziana Macrì proscioglierà tutti i malcapitati e ne citerà semmai la «condotta corretta e trasparente». Ma va detto che De Magistris non mancherà di coinvolgere Tiziana Macrì in altri procedimenti, questo a dispetto del suo noto impegno in processi contro la criminalità organizzata. Due altri sequestri, nel marzo 2004, furono quello dei cantieri per la costruzione del paese-albergo di Davoli Marina e poi quello di una struttura abitativa in località Berenice: De Magistris si concentrò sulla concessione edilizia n. 15 del 23/5/2003 e indagò un bel po’ di persone. Orbene: il Tribunale della libertà revocò il sequestro per totale insussistenza dei presupposti, e il dissequestro divenne definitivo anche perché De Magistris, come moltissime altre volte, non fece neanche ricorso. I danni alle imprese, e ai titolari del progetto, furono ovviamente incalcolabili.

LA LOBBY DELL'INCHIESTA FACILE.

La lobby dell'inchiesta facile. Subito dopo il voto Berlusconi indagato da Woodcock. Lui: "Uccidono le larghe intese sulla mia pelle", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sarebbe facile dire: i giudici ce l'hanno con Berlusconi e ogni volta che lo vedono sull'orlo di cavarsela non resistono alla tentazione di mandargli un nuovo avviso di garanzia. Per qualcuno di loro sarà anche così. Ma la costanza e la puntualità con cui si aprono i nuovi fronti giudiziari per il Cavaliere sembra funzionale anche a un'esigenza più generale dell'apparato giudiziario, per come lo abbiamo conosciuto in questi vent'anni. Ed è una esigenza sostanzialmente di autotutela. Il Berlusconi imputato permanente è funzionale a un modo di fare magistratura del tutto originale, rispetto ad altri Paesi ma anche rispetto alla storia della giustizia italiana fino al 1992. Di fatto, l'emergenza permanente della caccia al Caimano rende inattaccabile la magistratura ed impraticabile qualunque tentativo di limitarne i poteri. Fin quando esiste l'emergenza Berlusconi, qualunque ipotesi di intervento, anche la più blanda, viene considerata un favore al Grande Imputato, ed è quindi destinata a morire prima di nascere. I magistrati italiani sanno bene che i rischi veri, per la loro autonomia, arriverebbero il giorno che l'emergenza Berlusconi dovesse finire in archivio. Lo si vide bene ai tempi dei primi governi di centrosinistra, che cercarono di mettere argine al potere delle toghe e ne uscirono con le ossa rotte: memorabile la battuta di un pm milanese su Cesare Salvi, responsabile giustizia del Pds, colpevole di timide ipotesi di riforma («è il Previti della sinistra, gli somiglia anche fisicamente»). Ma questa riottosità irriducibile a qualunque argine può avere spazio solo in un Paese dove la scena giudiziaria è dominata da uno scontro irriducibile e senza quartiere. Il partito dei pm, per dirla in soldoni, ha bisogno di Berlusconi. In un Paese normale, si potrebbe parlare serenamente (ci ha provato recentemente il presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, ed è stato quasi sbeffeggiato pubblicamente) di obbligatorietà dell'azione penale, di carriere distinte, di meritocrazia negli avanzamenti. Ma ai pm e ai giudici questo fa paura. Anche per questo serve che l'emergenza continui. Per questo anche i magistrati culturalmente lontani dagli ultras dell'avviso di garanzia tacciono o si adeguano.

DALLA TOGA ALLA POLTRONA E VICEVERSA.

Dalla toga alla poltrona e viceversa: ecco tutti i magistrati che sono scesi in campo con la sinistra, dalla Finocchiaro e Di Pietro e fino a Ingroia. Candidarsi è un diritto per ogni cittadino. I magistrati però posso avere conflitti d'interesse e possono incrinare la fiducia nella giustizia. Se politicizzata. La loro aspettativa per la candidatura va regolata. Troppo facile fare il salto per poi tornare indietro, scrive “Libero Quotidiano”. Anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso scende in politica. Il magistrato ha infatti chiesto al Csm l’aspettativa per motivi elettorali. Solo qualche giorno fa Grasso non si allea con il massimo teorico della trattativa tra Stato e mafia, ma con il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani. I magistrati, i pm, i procuratori antimafia ormai hanno deciso di abbandonare il loro mestiere per fare politica. C'è chi come Ingroia si mette in pole position per guidare un intero movimento. La lista arancione in pratica se la sta cucendo addosso. Poi c'è chi la politica la fa da tempo con la toga appesa nell'armadio. Finocchiaro, Violante, Di Pietro e tanti altri come Caliendo, Centaro, Giuliano, D'Ambrosio, Della Monica, Nitto Palma, Maritati, Ferranti, Tenaglia, Lo Moro, Papa, Palomba, Emiliano. E non dimentichiamo De Magistris che è traino politico di Ingroia. Il salto dalla poltrona alla toga è semplice. Fai due-tre inchieste rigorosamente risolte con archiviazione e poi ti arriva la chiamata per la lista. Di sinistra, quasi sempre. Però i magistrati mica sono fessi. Il rischio della politica è alto. Può anche succedere che ci sia un flop dietro l'angolo. E allora come mettersi al sicuro?. Basta chiedere l'aspettativa elettorale. Un'aspettativa che è un bel paracadute se le cose vanno male. Il potere giudiziario, insieme a quello legislativo, ed esecutivo costituiscono l'ossatura dello Stato e sono essi stessi bilancini per garantire l'indipendenza dei vari settori istituzionali. Quando qualcuno salta da un carro ad un altro è in palese conflitto d'interessi. C'è poco da fare. Non si può indagare su qualcuno con un'inchiesta politicizzata e dalla sera alla mattina entrare a piedi uniti in politica. Verrebbe a mancare la fiducia da parte dei cittadini nella magistratura che dovrebbe essere al di sopra delle parti. Quindi garantire l'aspettativa ad un magistrato o ad un pm che va in politica è altrettanto grave. Il motivo? Chi ha la toga addosso ha una grande responsabilità. Se poi sceglie di fare una campagna elettorale per candidarsi ne ha un'altra, personale in quel caso, di sicura importanza. Durante le campagne elettorali si possono avere nemici, si può attaccare politicamente qualcuno, si contestano legittimamente le idee dell'avversario. Insoma per dirla in una parola: ci si scopre. Se poi le cose non vanno bene e non si viene eletti rindossare la toga ancora una volta potrebbe essere ulteriore segnale di poca coerenza. Ovvero si lascia sempre il sospetto che gli avversari politici in campagna elettorale possano essere perseguitati usando il potere giudiziario. Tutti hanno diritto ad avere un'aspettativa per motivi elettorali. Ma andrebbe eliminata se l'incarico professionale riguarda uno dei poteri indipendenti dello Stato. L'aspettativa per i magistrati tutela in pratica il conflitto d'interessi. Un architetto che chiede l'aspettativa per fare politica, qualora rientrasse a lavoro non ha nel il potere nè il modo per consumare "vendette". Un magistrato sì. Sta sempre nella fiducia nella giustizia l'equilibrio di questa piccola anomalia. Il cittadino ha fiducia o meno nei magistrati e ne accetta sempre il verdetto. Ma di quelli che sono scesi in politica per poi risalire in magistratura, forse è un pò meno semplice da digerire.

TOGHE ROSSE E TOGHE NERE. UN DISCORSO SU VISITE FISCALI E SEGRETO ISTRUTTORIO.

“I magistrati italiani, qualunque cosa facciano, comunque si comportino, sono impuniti, anzi impunibili, come i media a loro affratellati, e costituiscono una casta intoccabile e irresponsabile, che cresce all’ombra di una cultura che non è quella della giurisdizione bensì quella di una rivoluzione etica e di una riscrittura storica parziale e faziosa della vita della Repubblica. I magistrati d’assalto senza l’aura mediatica e il tradimento dei chierici sarebbero stati nulla. I media intesi come gogna del cittadino e della rappresentanza politica, senza giudici sarebbero stati nulla”. Queste le parole di Giuliano Ferrara su “Il Gionale.  "I ripetuti comportamenti processuali di una parte della magistratura, che è mossa da un pregiudizio politico, non sono più tollerabili. La magistratura si è trasformata da ordine dello Stato in un potere assoluto, onnipotente e irresponsabile. I magistrati si sono costituiti in correnti con chiaro orientamento ideologico e politico. Non si può più consentire che nei confronti di un protagonista politico di centrodestra possano scendere in campo pm appartenenti alla stessa corrente di sinistra e che poi anche il collegio giudicante sia composto da due o addirittura tre giudici appartenenti alla sinistra. Con me ci si è sempre comportati così e le conseguenze si continuano a vedere". Queste le parole di Silvio Berlusconi in una lunga intervista che il settimanale Panorama pubblicherà nel numero in edicola dal 14 marzo 2013.

Ah già, la giustizia. La questione-Berlusconi non riguarda solo il Cavaliere, ma pure il Pd e il futuro dell'Italia. Eppure Bersani tra i suoi 8 punti non parla nemmeno di processo penale, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Facciamo pure che l’andazzo non ci piaccia, facciamo pure che la marcia del Pdl sul Tribunale sia parte di quel meccanismo che in vent’anni ha trasformato i garantisti e i liberali - da minoranza prestigiosa che erano - nella minoranza sputtanata che sono. Dall’altra però che cosa abbiamo? Abbiamo un Pd che, nei suoi famosi otto punti, non cita neppure il processo penale. Non-lo-cita. Non è che semplicemente la sinistra è in disaccordo col centrodestra sul fatto che i magistrati siano parte del problema Giustizia così come i politici, per esempio, fanno parte del problema politica; macchè: il Pd evidentemente pensa che tra i problemi del Paese non ci siano il processo penale e civile, i tempi del giudizio, il bizantino sistema di impugnazioni, le farraginosità che bloccano tutto, gli abomini del sistema carcerario, le troppe leggi. Secondo il Pd, i problemi della Giustizia sono il conflitto d’interessi, il falso in bilancio e altri improvvisati ammiccamenti ai ragazzotti Cinque Stelle. Neppure una parola sulla Giustizia che danneggia l’economia e che scoraggia chiunque voglia investire in Italia. Niente di niente. Ecco, è questo che spaventa: che il Pd faccia il pesce in barile come se un caso Berlusconi non esistesse, come se non fosse lo specchio di niente, come se si trattasse ordinaria fisiologia giudiziaria verso un ricco e riottoso impunito, null’altro. Berlusconi pensa a se stesso, è vero. Ma anche noi.

Le visite fiscali non sono uguali per tutti. Cecilia Carreri, il giudice che in malattia girava in barca per il Mediterraneo, è stata condannata ad una lieve multa (e senza visita fiscale), scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”.

Per una settimana non si è fatto altro che discutere sulle verifiche fiscali disposte dai giudici del Tribunale di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi, in quel palazzo di giustizia imputato in tre diversi processi. La questione è stata usata, a sinistra, come ennesimo strumento per denigrare il leader del centrodestra. La sua «uveite», una non banale affezione oculare, è stata declassata a congiuntivite. Si è ironizzato sul fatto che il San Raffaele avesse garantito una copertura medica al desiderio dell’imputato di sottrarsi al giudizio invocando la malattia come legittimo impedimento. In realtà fin qui la polemica ha eluso un dato di fatto inequivocabile. Le verifiche fiscali sono un’eccezione, nel nostro sistema di controlli. E chiederle per un ricovero in ospedale è stata sicuramente una forzatura. Lo ha spiegato anche Alberto Capotosti, ex presidente della Corte costituzionale: «Il giudice non è obbligato a disporre la visita fiscale, anche perché nel comune sentire il controllo nasconde il sospetto che il certificato medico sia opera di medici compiacenti». Certo, per restare in tema di malattie e di magistrati, e di verifiche fiscali la mente corre a un altro caso, a suo modo parallelo. Il caso di un giudice per le indagini preliminari di Vicenza, Cecilia Carreri, che nel 2005 si era assentata dal tribunale per 10 mesi e mezzo lamentando una lombosciatalgia («regolarmente» certificata). Si è poi scoperto che il giudice in realtà andava in barca a vela e girava il mondo. A Cecilia Carreri, però, non è andata poi male: dopo l’archiviazione dell’inchiesta penale per falso e truffa e una sanzione soft del Csm (trasferimento e perdita di un anno di anzianità), nel 2011 è stata condannata dalla Corte dei conti per «colpa grave», ma ha dovuto pagare un risarcimento di appena 6.714,28 euro: meno di un mese di stipendio. Carreri, secondo i certificati medici, soffriva di «lombartrosi spiccata con discopatie multiple». Una malattia invalidante per il lavoro, anche perché aggravata da «stato depressivo, disturbi del sonno e cefalea ricorrente», tanto da sconsigliare «la stazione eretta prolungata, come il rimanere a lungo seduta», e richiedere «costantemente cure mediche, trattamenti riabilitativi, training di rilassamento, ginnastica dolce e stretching».
Questo suo disastroso stato di salute non impediva a Carreri, come poi fu costretta a rilevare «con disagio» l’Associazione nazionale magistrati, di veleggiare e di fare regate. A bordo del 60 piedi «Mer Verticale», per esempio, la malata partecipò alla impegnativa Rolex fasten race: dall’isola di Wight, nel sud dell’Inghilterra, a Dunkerque, nella Francia del Nord.
Carreri in tribunale ha sostenuto che «l’attività ludica» non era controindicata, anzi «faceva parte di un percorso di recupero della potenzialità personale e di verifica delle capacità di autostima», tanto da averle portato «beneficio psichico». E ha sostenuto che proprio le regate «hanno consentito il pronto recupero psicofisico, con efficace rientro in servizio». In quel caso, però, nessuno ordinò una visita fiscale. Forse, a proposito di segreto istruttorio, si potrebbe ricordare che la notizia del rinvio a giudizio per Silvio Berlusconi - nell’autunno 2012 - era online sul Corriere della Sera prima ancora che il relativo provvedimento giungesse sul tavolo del pm Maurizio Romanelli e del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Oppure, siccome viene sempre riportato che l’intercettazione Fassino-Consorte fu pubblicata quando non era ancora stata trascritta né depositata agli atti, si potrebbe ricordare che è esattamente quello che è successo in settembre con l’intercettazione Lavitola-Berlusconi, quella dove quest’ultimo suggeriva che il primo, non ancora indagato, se ne restasse tranquillo fuori dall’Italia. Però, allora, nessun gip promosse un’indagine perché la pubblicazione «avrebbe leso l’immagine di Silvio Berlusconi», come pure è stato stabilito per il buon Piero Fassino. Indagini del genere sono rarissime, e, se anche ci sono, non arrivano a giudizio praticamente mai. (...). La condanna di Silvio Berlusconi nel caso Unipol per la telefonata Fassino-Consorte, come spiega Filippo Facci su Libero di venerdì 8 marzo 2013, delinea un clamoroso paradosso giudiziario: il Cavaliere, l'uomo più spiato al mondo, viene punito come spia. Sono decine, infatti, le intercettazioni di Berlusconi pubblicate contro la legge, ma la vittima di tante violazioni finisce per essere il primo condannato.

MAGISTRATI MAFIOSI?

Una manifestazioni "silenziosa" interrotta solo dalle note dell'Inno di Mameli, intonate davanti alla scalinata del Tribunale l’11 marzo 2013. Durissimo il messaggio lanciato dall'ex guardasigilli: "Noi abbiamo un interlocutore di cui ci fidiamo, è il presidente della Repubblica. A lui affidiamo la nostra preoccupazione per questa emergenza democratica".

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa».«In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio.

LA MAFIA DELLE ASTE. LE VENDITE GIUDIZIARIE NELLE MANI DI COMITATI D’AFFARI, PARTITI E LOGGE OCCULTE CHE CONTROLLANO DA NORD A SUD IL RACKET DEI FALLIMENTI E DELLE ASTE, IVI COMPRESA UN’ALTA PERCENTUALE DELLA MAGISTRATURA DI REGIME.

Un’associazione a delinquere di stampo massomafioso, finalizzata a sovvertire l’Ordinamento democratico e la legalità, è in grado di condizionare l’attività giudiziaria da nord a sud del Paese, attraverso la collusione di intranei ai centri di comando delle istituzioni, sino alla Corte di Cassazione, al C.S.M. e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che, ignorando svariate migliaia di denunce inviate ogni anno da cittadini e imprenditori italiani, garantiscono l’impunità di magistrati corrotti, collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti, logge massoniche e criminalità organizzata, scrive “Avvocati senza frontiere”. Dopo oltre 25 anni di attività abbiamo compreso che il sistema delle aste è strutturalmente marcio e privo di dialettica interna e controlli esterni: solo una rivoluzione civile dal basso potrà cambiarlo, trattandosi di un sistema autoreferenziale, dove ogni rimedio giurisdizionale interno è vanificato, a causa dell’assoluta discrezionalità nell’interpretazione ed applicazione delle leggi. A partire dal caso eclatante del Tribunale di Milano, i media già 10 anni fa diedero grande risalto alla dilagante corruzione giudiziaria legata alle vendite giudiziarie e ai fallimenti. Lo stesso Tribunale di Milano fece pubblicare varie pagine a pagamento sui maggiori quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli arresti di alcuni avvocati e pubblici funzionari di quella che fu definita la “compagnia della morte“, si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l’acquisto degli immobili pignorati e svenduti a valori vili “agli amici degli amici”.
Istituzioni e media di regime si affannarono a spiegare ai cittadini che per svariati anni una banda di “professionisti” aveva potuto agire impunemente, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di una tangente (o “pizzo”) pari al 10-15% del valore dell’immobile pignorato, ovvero pilotando l’assegnazione su prestanomi, professionisti e società, i cui interessi, ci veniva però sottaciuto, risultavano spesso riferibili agli stessi magistrati o loro parenti, come nei casi da noi vanamente denunciati, tra quello dell’allora Presidente della Sezione Esecuzioni immobiliari, dr.ssa Gabriella D’Orsi, tuttora applicata presso altra sezione del Tribunale di Milano, senza che il CSM e la Procura di Brescia abbiano adottato alcun provvedimento a quanto risulta neanche di carattere disciplinare. Si trattò infatti solo di un’operazione di maquilllage per cercare di ridare credibilità al volto corrotto della giustizia italiana e del sistema delle aste, solo a fini di marketing. Lo dimostrano l’alto numero di denunce che interessano pressoché tutti i tribunali italiani, senza trovare risposta e soluzione da parte degli organi giurisdizionali interni e sovranazionali. Gli immobili per lo più pignorati dalle banche continuano a venire svenduti a valori infimi a società vicine o soggetti privati legati a doppio filo agli interessi degli stessi istituti di credito e alle loro clientele politico-affaristiche dedite alla speculazione e allo strozzinaggio, come insegna il caso eclatante dell’associazione a delinquere denominata Monte dei Paschi di Siena, anello di congiunzione tra il malaffare berlusconiano e quello delle cooperative rosse, su cui si arenò anche “mani pulite”. Attraverso gli sportelli MPS, come di altri Istituti bancari accreditati ad aprire agenzie all’interno dei tribunali italiani, passano, tra l’altro, senza alcun controllo, il riciclaggio e l’autoriciclaggio di ingenti capitali di illecita provenienza, con il beneplacito degli stessi magistrati che dispongono la vendita e l’assegnazione degli immobili pignorati, grazie a una legislazione costruita ad hoc che, dopo le recenti riforme, nonostante la crisi economica, ha ristretto sempre più le possibilità e gli strumenti di difesa dei cittadini esecutati, lasciati in balia delle mafie locali che controllano i tribunali, seppure spesso risultino oberati da pretese illegittime e tassi usurari. I casi da noi raccolti e in parte pubblicati nella mappa della malagiustizia vedono tra i tribunali più corrotti Milano, Treviso, Alessandria, Brescia, Firenze, Lucca, Roma, Perugia, Napoli, Palermo, etc. Lo stesso dicasi per quanto attiene l’ambito delle procedure fallimentari controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano (Radio 101), da cui furono sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, misero a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all’insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ’80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione del tassativo obbligo di registrazione delle denunce nel Registro delle notizie di reato. A riguardo, basti ricordare i ben 26.000 procedimenti mai registrati e occultati in soffitta, sotto la reggenza dell’ex Procuratore di Brescia, Francesco Lisciotto, che anche dopo il ritrovamento, dietro nostra denuncia, sono rimasti inesaminati, portando al mero trasferimento-promozione del magistrato con tessera P2, salito, per dirla come Monti, alla Corte di Cassazione. Analoghi insabbiamenti sono toccati alle denunce di onesti magistrati fallimentari romani, come nel caso del Dott. Paolo Adinolfi, il quale è stato addirittura fatto sparire fisicamente.

Un caso di lupara bianca insabbiato dalla Procura di Perugia ad alta densità massonica, trattato anche dalla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”. Secondo quanto riferito dal magistrato Giacomo De Tommaso, Adinolfi gli confidò il timore di essere seguito e spiato. La moglie di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, rivelò che il marito aveva acquisito prove e documenti che avrebbero potuto far affondare l’intero Tribunale di Roma. Inoltre Adinolfi pochi giorni prima della sua scomparsa aveva chiesto ed ottenuto un appuntamento con il P.M. di Milano Carlo Nocerino, davanti al quale avrebbe voluto testimoniare come persona informata sui fatti. Le uniche indagini possibili in questo Paese sono solo quelle rivolte nei confronti di coloro che denunciano con prove alla mano i misfatti del potere, accusandoli a scopo eminentemente persuasivo e dissuasivo, come ai tempi del fascismo, di reati ideologici, quali “diffamazione, calunnia, oltraggio a magistrato in udienza, resistenza a pubblico ufficiale…”, molto spesso in relazione agli stessi scritti difensivi e alle denunce mai esaminate delle incolpevoli vittime delle mafie. La vastità e gravità del fenomeno che non riguarda le sole zone del sud a forte concentrazione criminale ci ha portati a coniare la definizione di “mafia giudiziaria”, in quanto abbiamo rilevato trattarsi di una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e alle modalità di gestire le funzioni giurisdizionali, a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici, ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, corporazioni, logge massoniche, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di indebito arricchimento e fonte di finanziamento illecito, in base ad un “codice non scritto“, secondo cui vince chi ha le giuste aderenze e si sottomette alle logiche dominante, che hanno messo in ginocchio l’intera nazione, entrando a fare parte del “giro” dei vari comitati d’affari. Un codice criminale e perverso imposto dalla politica e dalla cultura del potere che lega larghi settori della magistratura di regime alla criminalità organizzata, dando luogo ad un fenomeno di elevatissima pericolosità e allarme sociale, che possiamo definire come “mafia giudiziaria”, il cui fine è quello di arricchirsi indebitamente, fare carriera negli apparati della burocrazia statale e attingere, consenso, protezione, scambio di favori e illeciti vantaggi, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata. Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un’ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto ed alimentato da banche, partiti, colletti bianchi e mafie locali che controllano il territorio. Un malaffare legalizzato e tollerato dallo Stato-mafia, che pur cercando di mostrare il volto legale dei propri tribunali, non riesce a celare, alla prova dei fatti, il largo coinvolgimento nel racket delle aste e dei fallimenti da parte di magistrati ed infedeli funzionari. A riguardo, basti dire che l’ex Presidente della sezione esecuzioni immobiliari del Tribunale di Milano, dr.ssa Gabriella D’Orsi, indicata nel succitato articolo del quotidiano “La Repubblica”, come una sorta di eroina, che avrebbe denunciato il controllo delle aste giudiziarie da parte della “compagnia della morte”, risultava essa stessa indagata dalla Procura di Brescia per avere favorito la vendita di un appartamento, a prezzo irrisorio, in favore della figlia, quando è notoriamente vietato dall’Ordinamento Giudiziario a magistrati e pubblici funzionari di partecipare, anche tramite terzi, alle aste giudiziarie….

"Nessuno contesta il diritto di manifestare e di manifestare anche in materia di giustizia. Ma se si sollecita una manifestazione contro la magistratura o volta a condizionarne l'azione, è inaccettabile". Così l'Anm replica alle parole di Silvio Berlusconi sulla manifestazione contro le toghe del 23 marzo 2013, annunciata dal Tribunale di Milano, dove si trovava per rilasciare le dichiarazioni spontanee nel processo d'appello Mediaset. Continua l'Associazione nazionale magistrati: "Invocare la piazza in un momento come questo è molto pericoloso, vuol dire screditare l'istituzione magistratura in un sistema complesso e unitario come lo Stato, significa indebolire lo Stato stesso e le istituzioni tutte". Berlusconi ha ripetuto quanto detto più volte negli attacchi alla magistratura: "Parte della magistratura - ha detto - è una patologia e un cancro per la democrazia". E proprio in risposta alle parole dell'ex premier Berlusconi, i vertici dell'Anm hanno spiegato: "Oggi la magistratura, o una parte di essa, viene equiparata al cancro, sabato scorso eravamo peggio della mafia, ma non abbiamo replicato perché il giorno prima delle elezioni. Sono parole che andrebbero liquidate come sciocchezze, ma sono molto offensive per chi ha pagato il prezzo della criminalità mafiosa e per i malati". Così i vertici dell'Anm in risposta alle parole dell'ex premier Berlusconi. Favorevole alla manifestazione, Augusto Minzolini, giornalista e senatore Pdl. "C'è un problema giustizia che è collegato strettamente al problema di informazione: quello che ti tolgono non te lo ridà nessuno. Andrò in piazza non per la vicenda ma perché in questo Paese c'è un problema giustizia".

Se l’ANM replica a Berlusconi il CSM va oltre. A scatenare il Csm è la volontà del Cavaliere di portare in piazza il popolo di centrodestra contro «sinistra e magistrati». Tanto basta per scatenare le toghe, riunite in plenum il 6 marzo 2013. A dar fuoco alle polveri, Paolo Carfì, magistrato di sinistra ed ex giudice del processo a Cesare Previti. «Berlusconi ha superato il limite con una escalation di disprezzo di un'istituzione che può avere conseguenze gravi sulla tenuta sociale e morale del Paese - mette in guardia la toga - Tacere di fronte a questo sarebbe colpevole». A seguire, l'intervento del laico di centrosinistra Glauco Giostra: «Evocare la piazza contro i magistrati è agli antipodi della democrazia, si tratta di attacchi scellerati». C'è chi, poi, come il togato di Area (schieramento di cui fanno parte Magistratura democratica e il Movimento per la Giustizia, ovvero le due correnti di sinistra delle toghe) Francesco Vigorito, chiede di «reagire a una barbarie, con una risposta forte a tutela di uno dei valori fondanti del sistema democratico, cioè l'autorità e l'indipendenza dei magistrati». E il collega Roberto Rossi: «I magistrati di Napoli e di Milano sono colpevoli soltanto di fare il loro dovere. Non si può accostare il lavoro dei magistrati a quel terribile male che è il cancro». Fuori dal coro il togato di centrodestra, Bartolomeo Romano: «Forse non tutti i magistrati hanno avuto nel loro comportamento una serietà tale da ottenere rispetto». Naturalmente dal Pdl parte la controffensiva. Il primo è Andrea Costa: «Il Csm è talmente avvolto dalla nebbia delle correnti e dei loro traffici d'influenza che invece di occuparsi di chi usa i tribunali a fini politici, censura chi richiama l'attenzione a questa triste realtà. Questo fa perdere credibilità alla giustizia. Non altro». A seguire Capezzone: «I comizi di numerosi consiglieri del Csm contro Berlusconi hanno due soli effetti: danno la sensazione di una supercasta che si autoprotegge, e minano agli occhi dell'opinione pubblica l'imparzialità della magistratura».

I MAGISTRATI COME TUTTE LE ALTRE ISTITUZIONI DEVONO CAPIRE CHE IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE.

“Sono i magistrati a decidere l'agenda della politica. Fino a che ci saranno sentenze come quella di ieri sul caso Unipol - la condanna di Berlusconi a un anno per la pubblicazione della famosa intercettazione di Fassino - e' evidente che il tema giustizia campeggerà fino a quando non sarà risolto. Il disagio sociale e le soluzioni da discutere; la riforma del sistema istituzionale; il rapporto con l'Europa sono destinati a passare in secondo piano fino a che le toghe non comprenderanno che non e' affare loro decidere chi governa il Paese”. E’quanto scrive Francesco Storace, segretario nazionale de La Destra, sul sito del partito e su Il Giornale d’Italia, così come ripreso da “Il Velino”. “E' oggettivamente una situazione sgradevole quella in cui viviamo in questo momento – aggiunge -. Partiti dei giudici con pochi consensi e partiti con molti consensi asserragliati dai giudici. Per carità, i reati - se ci sono - vanno perseguiti. Ma quel che appare tristemente evidente e' una situazione in cui emerge il classico due pesi e due misure. Da oggi in poi ciascuno di noi sarà autorizzato a chiedere eguali processi e condanne per qualunque pubblicazione di intercettazioni leggeremo. E non ci si dovrà adontare se se ne chiederà conto anche a quei politici informatissimi abituati - come fece D'Alema tempo addietro - a preconizzare "scosse" altrui, dando l'idea di essere molto informati su fatti di palazzo di giustizia. Potremo d'ora in avanti essere legittimati a mettere in discussione l'operato del magistrato che si candida alle elezioni nel territorio dove ha indagato fino al giorno prima? E' da accertare o no la serenità di quella giudice di Vendola che festeggiava con lui e il parentado prima - e chissà se anche dopo - della sentenza di proscioglimento per la sanità pugliese? Ecco – conclude Storace - questo Paese viene disturbato anche da questi atteggiamenti giudiziari. Per cui a uno tocca quello che agli altri non capita mai. Il presidente Napolitano - che del Consiglio superiore della magistratura e' presidente - farebbe bene a inviare il suo ultimo atto proprio ai giudici, scrivendo loro che e' sbagliato continuare così. Così l'Italia esce a pezzi”.

Lettera di Francesco Storace a Napolitano sulla malagiustizia. Troppi anni prima di avere sentenze rispettose delle persone oneste, scrive su “Il Giornale d’Italia”. “Illustre Presidente, le chiedo pochissimo tempo per segnalare alla Sua autorevole attenzione la felice conclusione del procedimento giudiziario per corruzione intentato dalla magistratura romana nel 2007, al quale è stato posto fine ieri con il proscioglimento mio e dell’imprenditore Giampaolo Angelucci, decretato dal giudice dell’udienza preliminare, dr. Ebner. In questi giorni, Ella si è trovato costretto ad intervenire sul delicatissimo tema della giustizia, con l’equilibrio che Le è riconosciuto da larghissima parte della pubblica opinione. Credo che ricordi anche la positiva conclusione del giudizio d’appello su un altro procedimento che mi ha riguardato, il cosiddetto Laziogate, anch’esso terminato con la mia assoluzione con formula piena. Apparentemente dovrei esaltare il funzionamento del sistema giustizia, visto che in entrambi i casi è stata riconosciuta la mia innocenza. Ma i tempi sono stati enormi. Nel caso del Laziogate, esploso nel 2005 in coincidenza con la campagna elettorale per le elezioni regionali e col mio coinvolgimento nel 2006 e le contestuali dimissioni da ministro della Repubblica, ho dovuto attendere ben sette anni, dopo la condanna in primo grado inflittami dalla giudice Bonaventura. Nel caso conclusosi ieri, i fatti risalivano addirittura al 2004, l’apertura dell’indagine su di me al 2007, ma nonostante due proposte di archiviazione formulate dall’ufficio del pubblico ministero, la giudice Bonaventura – sempre la stessa…. – dispose comunque l’udienza davanti al Gup. Mai, in tutti questi lunghissimi anni, mi si è chiesto di rendere interrogatorio. E non mi sono avvalso della prescrizione. Signor Presidente, ho fiducia nelle istituzioni, ma il sistema giustizia non funziona se nessuno chiama a rendere conto per gli errori che si commettono. La mia stessa attività politica, ne converrà, è stata turbata da questi procedimenti e trovo profondamente ingiusto tutto questo e non credo che sia comprensibile che sempre lo stesso magistrato debba imbastire una specie di crociata nei miei confronti. Vorrei, come tanti cittadini, avere ancora fiducia nella giustizia. Ma le vicende personali che mi riguardano, e anche quelle che vedono pesantemente accusato il presidente Berlusconi, dovrebbero imporre una seria riflessione al Consiglio superiore della magistratura. Nessuno chiede impunità per chi fa politica, ma diventa intollerabilmente presente in ciascuno di noi la sensazione – che va spazzata via con azioni efficaci – che si faccia politica per via giudiziaria. La ringrazio fin d’ora per l’attenzione che vorrà prestare a queste mie considerazioni. Cordialmente, Francesco Storace”.

Casi di malagiustizia a confronto. Crolla il castello accusatorio contro Del Turco e Storace, scrive Federico Colosimo su “Il Giornale d’Italia”. A fare le spese delle gesta di magistrati "intoccabili, cittadini e personaggi onesti, prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi. Che un magistrato sia infallibile, sempre in buona fede e comunque in sé, è una leggenda da sfatare. Sono uomini come tutti, i giudici, con i loro limiti e convinzioni. Molte volte, sbagliate. A fare le spese, delle loro gesta, però, sono sempre comuni cittadini e personaggi “scomodi”, prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, potere e un’immunità che non ha pari al mondo. Si sentono i padroni dell’Italia, i magistrati, e infatti, lo sono. Processi “pilotati”, alcuni, “montati” ad arte con un obiettivo ben preciso: distruggerti. Indagini costruite ad hoc, molte, per fare carriera, per vivere un momento di gloria. A pagare, il più delle volte, innocenti. Sbattuti in carcere e sulle prime pagine dei giornali - sulla bocca di tutti - come tanti delinquenti. La vendetta, alcune volte, arriva dopo 10 anni, con un’assoluzione o un proscioglimento. Un epilogo giusto, veritiero, che non cancellerà mai i torti e le ingiustizie subite e patite nel corso di queste lunghissime agonie. La domanda è semplicissima: dove è lo scandalo? Cosa c’è di così assurdo nel volersi rivalere sul giudice che sbaglia? Solo nella patetica mente di una sinistra allo sbando può ancora albergare il pensiero che i magistrati siano “intoccabili” e debbano essere lasciati liberi di sbagliare. Gli “intoccabili” vanno protetti e la sinistra, come sempre, si “prostra” di fronte alle toghe. Dai medici ai poliziotti, tutti pagano – forse in minima parte - anche penalmente. I giudici nulla, nemmeno civilmente. Adesso basta. Un esempio lampante, di oggi, è quello dell’ex Procuratore Capo della Repubblica di Pescara, Nicola Trifuoggi. Il protagonista e il regista del processo “farsa” a Ottaviano Del Turco, l’ex governatore d’Abbruzzo che, 5 anni fa, come un delinquente qualunque, è stato rinchiuso in carcere, con l’accusa di concussione, associazione a delinquere e corruzione. Come “strumento” contro Del Turco, nel 2008, Trifuoggi aveva utilizzato l’ex re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Angelini. All’epoca dei fatti, per Del Turco, “un uomo disperato” che, di fronte alla prospettiva di salvare se stesso non gli restava che una possibilità: offrire in pasto Del Turco alla Procura di Pescara. Così facendo, Angelini, ha evitato qualsiasi misura restrittiva e provvedimento cautelare. Ha gettato fango e cattiverie, Angelini, stringendo “alleanza” con i magistrati. “Do ut des”. Io ti do, affinchè tu mi dia. E’ così che è andata. Foto false, che mai e poi mai, comunque, hanno dimostrato nulla. Con dei complici, i familiari e l’autista. Tante voci, bugiarde, che hanno portato all’arresto e alla rovina di Del Turco. Nessuno stralcio di prova, mai. Nessuna mazzetta a casa Del Turco. Nessuna persona in quegli scatti – poco visibili – mai è stata riconosciuta. Cinque anni dopo, la verità. Che manda all’aria un processo dalle fondamenta d’argilla. Foto false, scattate non il famoso 2 novembre 2007 – come contestato all’ex governatore – ma nel settembre 2006, un anno prima. Quelle foto, per l’euforico procuratore capo Trifuoggi, erano “lampanti, decisive e schiaccianti”. Con tutta probabilità, ora, Del Turco verrà assolto. Ma l’ex governatore, oggi, ha perso tutto. Soldi, prestigio, immagine. Ha subito un’umiliazione pubblica, lui e la sua famiglia. Nessuna assoluzione lo ripagherà mai per i torti e le sofferenze subite. Gli è rimasto poco. Una pagina “facebook” e quegli amici (che poco non sono), che gli hanno sempre creduto. Tutto per colpa di un magistrato “intoccabile”, Trifuoggi (ora in pensione), storico amico di Gianfranco Fini, con il quale il 6 novembre del 2009, alla giornata conclusiva del “Premio Borsellino”, si è reso protagonista di una delle pagine più vergognose degli ultimi anni. Fini parla con il Procuratore del “pentito” Spatuzza e di Silvio Berlusconi. Nel 2009, il conto alla rovescia per Berlusconi è già iniziato. Un fuorionda incredibile che riprende Trifuoggi a pronunciare la seguente frase: “E’ nato con qualche millennio di ritardo (Berlusconi ndr), voleva fare l’imperatore romano”. Una fine, quella dell’ex premier, già annunciata nel 2009 da parte di Trifuoggi a Fini. Oltre a Del Turco, un altro esempio lampante di calvario giudiziario, lo ha subito Francesco Storace. A cui hanno tolto la Regione, il Ministero, “ma non la dignità”. Prima assolto nella vicenda “Laziogate” – dopo oltre 7 anni – ora prosciolto – dopo altri 9 anni – perché “il fatto non sussiste”, da un’orrenda accusa di corruzione per la presunta tangente, mai esistita, versata in suo favore – per gli inquirenti - da Gianpaolo Angelucci, proprietario del San Raffaele alla Pisana, punto di riferimento nella ricerca e nel panorama della sanità nazionale. “Rovinati, torturati”, messi con le spalle al muro e poi assolti. Ma i magistrati … non pagano mai.

"I giudici che sbagliano devono pagare". Intervista al noto penalista Bruno Naso che, dopo il "Laziogate", ha vittoriosamente difeso Storace anche nel processo per corruzione. Intervista a cura di Federico Colosimo su “Il Giornale d’Italia”. Il legale: Noi avvocati vorremmo che la meritocrazia si inserisse anche nella valutazione del magistrato. Avvocato di lungo corso, certamente uno dei migliori penalisti in circolazione. Senza peli sulla lingua, uomo tutto di un pezzo: Lui, è Bruno Naso. Storico legale romano, difensore, tra gli altri, di Francesco Storace. Con il Giornale d’Italia, Naso, parla del secondo calvario giudiziario di cui è stato vittima, per 9 anni, l’ex Presidente della Regione e dice la sua sulla responsabilità civile dei magistrati.

«Avvocato Naso, per Francesco Storace, dopo l’assoluzione al processo “Laziogate”, il proscioglimento da un’infamante accusa di corruzione. Nove anni per accertare che, anche questa volta, “il fatto non sussiste”. Perché tutto questo tempo?»

«Oggi non me la posso prendere con il pubblico ministero che, per ben due volte, nel corso di questi lunghissimi anni, ha chiesto l’archiviazione per il mio assistito. La colpa è da attribuire alla pervicacia e alla ostinazione di un giudice per le indagini preliminari che già aveva condannato a 1 anno e 6 mesi Storace nel processo “Laziogate”».

«A fare le spese delle gesta di magistrati “intoccabili”, innocenti. Come Storace e, non ultimo, Ottaviano Del Turco. Tutti pagano i propri errori, avvocati per primi, perché le toghe no?»

«La responsabilità civile dei magistrati è un problema serissimo. Noi avvocati ne abbiamo discusso proprio questa mattina con il guardasigilli Severino. I giudici sono gli unici operatori pubblici che non rispondono dei propri errori, salvo che per dolo o colpa grave. Tutto questo va risolto. Nel 1987, dopo il caso Tortora, ci sono stati tre Referendum popolari. L’81% ha detto “sì”, anche i giudici devono “pagare”. Promotore e sostenitore, Bettino Craxi. Tutti, però, abbiamo visto la fine che ha fatto. Bisogna intervenire: sia da un punto di vista economico (civile) ma anche e soprattutto da un punto di vista professionale. Noi avvocati vorremmo che la meritocrazia si inserisse anche nella valutazione del magistrato. Chi sbaglia, deve pagare. Oggi è sufficiente superare un concorso per diventare presidente della Cassazione. Non è giusto».

« “Strumento” dei giudici, uomini disperati, nonché “pentiti” che, di fronte alla possibilità di salvare se stessi, offrono in pasto alle diverse Procure personaggi “rilevanti”. E il principio del contraddittorio va a farsi benedire?»

Qui paghiamo errori culturali che rimontano all’epoca del terrorismo. Era lì che andavano affrontati questi temi. Dove c’erano “pentiti” capaci di vendersi anche la propria anima per “scamparla”. Le chiamate in correità vanno prese in considerazione, ma queste, da sole, senza alcuna prova, non possono assolutamente bastare. Possono solo essere lo spunto investigativo di una indagine».

«Favorevole o contrario alla riforma della giustizia?»

«Assolutamente favorevole. Soprattutto per quelle riforme a costo zero che non implicano alcun sacrificio economico».

Che ne pensa della carcerazione preventiva?»

«E’ una delle ferite più sanguinanti di questo corpo martoriato della giustizia. Purtroppo, però, non prevedo miglioramenti. Se il compito del processo è quello di realizzare un problema sociale, la custodia cautelare è un mezzo necessitato, un’anticipazione della pena., Il sistema non vuole questo, la Corte Costituzionale neanche. Eppure, oggi, il 42% dei detenuti, rientra nella categoria dei “presunti” innocenti».

«Può bastare l’applicazione dell’amnistia per superare il tema del sovraffollamento delle carceri? O sarebbe meglio ricorrere a misure alternative?»

«L’amnistia è sicuramente necessaria, ma può servire solo per reati “minori”. Quest’ultima non può e non deve essere l’unica “medicina”. Servono sicuramente delle pene alternative concrete e rieducative».

"Io, vittima per sempre della giustizia politica", scrive Giovanni Terzi su “Il Giornale”. L'ex assessore milanese fu arrestato nel 1998 e scagionato dopo tre mesi di carcere. «Mai più libero. Osservo con attenzione quasi maniacale ogni evento legato alla Giustizia, lo osservo da quel 13 ottobre del 1998 quando alle sei di mattina vennero a «catturarmi», così era scritto nell'ordinanza di custodia cautelare, a casa. Avevo, all'epoca dei fatti, poco più di trent'anni, un figlio di cinque che, presente all'arresto, passò qualche anno a nascondersi sotto il letto ogni qualvolta il campanello suonava. Passai tre mesi in carcere fin quando una sentenza della Suprema Corte della Cassazione mi liberò ritenendo errata la tesi accusatoria e stigmatizzando come «delirio di onnipotenza» gli atti fatti dalla Procura di Milano. Tre mesi che furono suddivisi tra isolamento giudiziario ad Opera e massima sicurezza nel carcere speciale di Novara. Ricordo gli occhi lucidi di mio padre alla prima visita in carcere ad Opera, ricordo il suo sguardo triste e stanco quando, spostato al carcere di Novara, veniva di sabato a trovarmi in treno per portarmi conforto. In quei tre mesi di carcere mio padre si ammalò, una ciste visibile appena sotto l'orecchio, divenne sempre più grande. Era un tumore. Quando uscii dal carcere, mio padre fu operato ma non ci fu più nulla da fare. Da lì a poco morì e non riuscì mai a vedere la mia definitiva assoluzione dal reato di corruzione così come non vide mai la nascita del suo secondo nipote, Giulio Antonio. Di questo la responsabilità, da cristiano, non è della Provvidenza ma della Giustizia che sommariamente aveva costruito un impianto accusatorio senza senso pensando che il carcere preventivo potesse diventare uno strumento per recuperare prove e notizie che avallassero le loro tesi. Così da quel 13 ottobre del 1998 io non mi sono mai più sentito un uomo libero. Ogni qualvolta vedo un blindato della polizia penitenziaria mi viene in mente quando mi legarono mani e piedi per trasferirmi dal carcere di Opera a quello di Novara. Quando sento un campanello suonare penso che possa essere ancora per me; per portarmi via. Ma soprattutto ho dentro il cuore lo sguardo di mio padre al colloquio in carcere che mai saprò interpretare correttamente. È la giustizia, con la "g" minuscola, che tende a costruire tesi accusatorie e dispensare avvisi di garanzia e richieste di custodia cautelare con una facilità disarmante. È quella Giustizia che viene utilizzata dai tuoi nemici quando hanno voglia di farti fuori da qualsiasi momento della vita civile, sociale, politica. Intanto nulla cambia e le vittime di malagiustizia sono state, nel 2011, 2369 con una spesa dello Stato di circa 40 milioni di euro. A nulla serve il riconoscimento economico per ingiusta detenzione (io ricevetti dallo Stato circa 30mila euro) perché la ferita per chi ingiustamente è stato accusato non è rimarginabile. La mia è la condizione privilegiata di una persona che ha avuto al suo fianco amici, parenti e che ha potuto ricostruire la propria dignità sociale anche grazie all'aiuto di persone che non hanno mai smesso di credere in me. Il nostro Paese purtroppo è colpito da una doppia ingiustizia che costruisce spesso due vittime, sia chi ingiustamente è accusato di un reato sia le famiglie vittime del reato stesso che non avranno mai il vero colpevole. A questo la politica ha l'obbligo di dare delle risposte legislative in caso contrario ogni nuovo parlamentare deve ritenersi complice delle morti di malagiustizia che ogni anno purtroppo ci sono.»

Intanto i magistrati dei processi Ruby e Mills, che hanno coinvolto Silvio Berlusconi, saranno soggetti ad azioni disciplinari, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. E' la decisione della Cassazione contro le toghe Fiorillo e Vitale, oltre ad altre toghe milanesi. Il motivo? Troppo esuberanti, sopra le righe, in alcuni casi indisciplinati o irrispettosi dei ruoli, delle istituzioni e dei colleghi. Cose che, per altro, i commentatori dei processi-bomba contro il Cavaliere hanno scritto e detto più volte, ma questa volta è un giudice a metterle nero su bianco. Le ombre di Ruby - Si comincia, ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, con Annamaria Fiorillo, pm della Procura dei minori di turno la notte del 27 maggio quando dalla Questura di Milano chiamarono per una certa Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori. Il commissario Giorgia Iafrate sostiene di aver concordato con Fiorillo la consegna di Ruby a Nicole Minetti, dopo le telefonate di Berlusconi. Fiorillo, al contrario, non ricorda di aver mai dato tale autorizzazione. Nel novembre 2011 l'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni annuncia azioni contro "chi ha gettato fango sulla polizia" visto che quella notte di maggio "tutto si è svolto secondo le procedure". La Fiorillo, allora, sbotta: "Voglio che si sappia che non ho mai autorizzato l'affido alla Minetti, perché se Ruby è la nipote di Mubarak (come affermato da Berlusconi nella sua telefonata in Questura, ndr) io sono Nefertiti regina del Nilo". La Fiorillo si disse "indignata" sia per la parole del ministro ("Ha calpestato la legalità e insultato gli italiani") sia con il procuratore capo di Milano Bruti Liberati, la cui nota ispirò le dichiarazioni di Maroni. Frasi ripetute sia ai cronisti sia in tv, da Lucia Annunziata a In mezz'ora. Intollerabile, per la Cassazione, che ha spedito il magistrato davanti al Csm il prossimo 15 marzo. Prima, il 4 marzo, dovrà deporre in Aula proprio riguardo al processo Ruby. Piccolo particolare: a difendere la Fiorillo nel processo disciplinare sarà Nello Rossi, tra i grandi capi di Magistratura Democratica. Caso opposto quello di Francesca Vitale, presidente del collegio del Tribunale milanese che nel 2012 ha prosciolto Berlusconi per prescrizione nel processo per corruzioone dell'avvocato inglese David Mills. Il giudice scrisse da sola la motivazione, senza farla leggere alle colleghe Lai e Interlandi. E in quelle righe, c'erano passaggi a giudizio della Cassazione "scorretti" nei confronti del pm De Pasquale (di cui la Vitale sottolinava le "inopportune, reiterate sollecitazioni" sul calendario delle udienze) e dei tre precedenti giudici del processo Mills, Gandus, Dorigo e Caccialanza. Il precedente collegio, scriveva nella sentenza la Vitale, avrebbe avuto la "colpa" della prescrizione perché nel 2008 stralciò "con motivazioni oscure" il processo a Berlusconi con l'entrata in vigore del Lodo Alfano.

Il rischio è concreto per Susanna de Felice, la giudice di Bari che ha assolto a ottobre Nichi Vendola: non solo un trasferimento d’ufficio, ma anche un processo disciplinare, scrive Anna Maria Greco su “Panorama”. L’accusa alla gup di aver favorito il presidente della Regione Puglia per la presunta amicizia con la sorella Patrizia, appare più consistente al Csm dopo l’audizione davanti alla prima commissione dei pubblici ministeri titolari dell’indagine, Desirée Digeronimo e Francesco Bretone, oltre che del capo dell’ufficio gip-gup, Antonio Diella e del procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno. Sulle loro testimonianze del 12 febbraio 2013 c’è ancora il massimo riserbo, ma da Palazzo de’ Marescialli trapela che soprattutto le dichiarazioni di Bretone sarebbero state molto pesanti e circostanziate, tali da mettere nei guai la De Felice e gettare le basi di un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Il Csm si è mosso, su richiesta di due consiglieri del cartello delle correnti di sinistra Area, per verificare se esistano i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale . Ma a questo punto, ci potrebbe essere di più di questo.

Il caso è esploso dopo la lettera riservata nella quale a novembre Digeronimo e Bretone manifestarono i loro dubbi sull’imparzialità della giudice, appunto per la sua presunta amicizia con Patrizia Vendola. Si rivolsero al procuratore generale Antonio Pizzi, al procuratore di Bari Antonio Laudati e per conoscenza all’aggiunto Giorgio Lino Bruno, per «consentire di attivare, ove lo ritengano, i poteri loro attribuiti di vigilanza e controllo». Succedeva subito dopo l’assoluzione del governatore, il 31 ottobre, dall’accusa di abuso d’ufficio, insieme all’exdirettore generale dell’Asl Bari Lea Cosentino. Per Bretone e Digeronimo, la De Felice e la Vendola sarebbero legate da «un’amicizia diretta» e da «frequentazione di amici in comune» e dunque la giudice si sarebbe dovuta astenere dal processo. I due pm scrissero la lettera ai superiori solo dopo l’assoluzione perchè, spiegarono, avevano avuto notizie precise sul rapporto tra la giudice e la sorella di Vendola. La voce girava da tempo a Bari e in Procura, tanto che a settembre la stessa De Felice aveva scritto al capo del suo ufficio, Diella, di conoscere la sorella del governatore ma solo superficialmente, incontrandola ad un paio di cene, senza un rapporto di vera amicizia. E non aveva giudicato necessario astenersi dal caso Vendola.

D’altra parte ci sono le contraddizioni in seno allo Stato: la Cassazione civile ha contraddetto la Cassazione penale. Credo sia successo poche volte nella storia della Repubblica, scrive Giulietto Chiesa. Questa volta, comunque, è un fatto storico. Riguarda la strage di Ustica. Il DC 9 Itavia fu abbattuto da un missile della Nato. Adesso una suprema corte ci fa sapere che lo Stato italiano fu doppiamente colpevole. La prima volta per non avere protetto la vita di cittadini inermi e innocenti. La seconda, se possibile più grave, per avere invece coperto e protetto i colpevoli nel corso di 33 anni. Lo si sapeva: a questa conclusione era già giunto il giudice Rosario Priore, nel 1999, dopo avere analizzato le registrazioni delle tracce radar che mostravano ad abundantiam la presenza, in quel cielo, in quel momento, di almeno sei aerei della Nato. Quei puntini volteggianti sugli schermi dell'aviazione civile e militare dicevano che c'era stata un'operazione militare in grande stile, che aveva intersecato la rotta di un aereo civile carico di passeggeri. Quale fosse il significato di quell'operazione militare Rosario Priore non fu in grado di scoprire. Non per colpa sua. Cominciarono subito le operazioni diversive di chi aveva commesso l'errore. Soprattutto entrarono in azione quei poteri militari, italiani e stranieri, che si proposero di eliminare ogni possibile sospetto di una responsabilità dell'Alleanza in quella strage: il risultato politico sarebbe stato devastante per chi ha incatenato l'Italia a un'alleanza militare che serviva e serve esclusivamente per tenerla incatenata. Si disse, si ipotizzò, fin da subito, che quegli aerei, francesi, e americani, fossero all'inseguimento di un Mig libico. O di un altro aereo libico che forse stava trasportando Muhammar Gheddafi e che si era trovato in coda alla rotta del DC 9 dell'Itavia. Se fosse stato così, si sarebbe trattato di un'azione illegale e criminale, dell'assassinio progettato di un capo di Stato straniero. Ma di questo non c'è prova, poiché i depistatori hanno cancellato le tracce. In 33 anni di duro lavoro si può cancellare quasi tutto. Sappiamo adesso che i piloti che inseguivano quel fantasma sbagliarono mira. Questo lo rivelò,  nel 2007, uno che di cose ne sapeva fin troppe, che era stato presidente della Repubblica e si chiamava Francesco Cossiga. Adesso comincerà una disputa giuridica infinita, nella quale non voglio entrare. La cosa che m'interessa è sapere se qualcuno (tra i fedeli servitori dello Stato) deciderà di mettere in fila i nomi e i cognomi dei giudici che, anno dopo anno, inchiesta dopo inchiesta, sotto la pressione dei parenti delle vittime, mandarono assolti cinque generali e ammiragli che palesemente mentirono, depistarono, affossarono, cancellarono fatti, documenti, tracce. Ripeto: la questione centrale non è soltanto la ricerca dei colpevoli materiali della strage. La questione è individuare chi furono coloro che assolsero i capi felloni; con quali sentenze, con quali trucchi, con quali menzogne le verità che venivano acquisite furono sepolte e eliminate.

Vorrei che qualcuno scrivesse sulle prime pagine dei giornali il nome di colui che, nel governo italiano, incaricò, personalmente, con la sua firma, l'Avvocatura dello Stato di agire a sostegno dei generali felloni. I denari pubblici usati per nascondere la verità ai cittadini che avevano pagato le tasse. E, di nuovo, alti tribunali della Repubblica recepirono il messaggio mafioso e assolsero contro ogni evidenza. Io penso che un futuro governo democratico di questo paese dovrà assumersi, pubblicamente, senza equivoci, il compito di accompagnare la caccia ai colpevoli delle stragi di Stato con la caccia a coloro che, annidati come avvoltoi a diversi livelli dei gangli cruciali dello Stato, permisero loro di restare impuniti. Se si ripercorre l'intera storia della strategia della tensione: dalla bomba nera di Piazza Fontana a Milano, fino al rapimento di Aldo Moro e all'uccisione dei cinque ufficiali della sua scorta, fino ai giorni nostri, alle stragi di Via Capaci e di Via Amelio, non è difficile scorgere un filo di catrame di complicità che s'attorciglia all'interno delle magistrature che avrebbero dovuto sancire verità storiche e politiche e che, invece, le cancellarono. Certo i felloni e i criminali furono molti e, appunto, furono piazzati a diversi piani della macchina del falso che doveva cancellare il sangue. Dov'era la prigione in cui Aldo Moro rimase prigioniero? C'era, ai vertici, chi lo sapeva mentre Moro era ancora vivo, ma tacque. Chi furono, nei servizi segreti, coloro che muovevano gl'infiltrati all'interno delle Brigate Rosse? Chi diede ai capi delle BR la sede di via Gradoli? Leggo l'ultimo libro di Ferdinando Imposimato, che ripercorre criticamente tutte le indagini sulle stragi impunite per farci toccare con mano come moltissime verità essenziali fossero state scoperte da inquirenti intelligenti e onesti, per poi essere occultate, nascoste, da giudici complici. E' questa la grande indagine sulle stragi che dovrebbe essere riaperta. Da anni siamo governati da "delinquenti abituali" e meno abituali (ma non per questo meno assidui) che accusano le "toghe rosse" di avere esercitato una giustizia di parte. Ma noi vediamo – perché è ormai impossibile non vedere, perché davvero, talvolta, funziona il proverbio che dice che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, come la sentenza della Cassazione civile su Ustica dimostra - che noi siamo stati per cinquant'anni in preda alle "toghe nere". Ho detto "siamo stati"? Mi devo correggere: siamo ancora. Se ci sono voluti 33 anni per restituire un po' di giustizia agli 81 morti di Ustica, se Licio Gelli gira ancora, libero, in Italia, è perché lo siamo ancora. E' in questo groviglio di fili, in questo brodo di liquame, che la democrazia italiana è affogata. Quando, come parlamentare europeo, partecipai alla Commissione Straordinaria d'indagine sulle carceri segrete della Cia in Europa, scoprii che i servizi segreti di tutta l'Europa altro non erano che delle succursali agli ordini diretti della Cia. Questa era anche la nostra "sovranità". Il nostro servizio segreto, allora guidato da Niccolò Pollari, era in prima fila a portare il caffè ai capi d'oltre oceano. E adesso? Lo stesso giorno della notizia di Ustica i giornali italiani ci hanno fatto sapere, alla trentesima pagina, che un terzo governo italiano - dopo quello di Prodi e quello di Berlusconi è stata la volta di Mario Monti - ha confermato il segreto di stato sui documenti del sequestro di Abu Omar. Chi hanno coperto i nostri primi ministri? Segreti nostri e segreti altrui. Segreti sporchi. Questi capi di governo dovrebbero essere processati per alto tradimento degl'interessi nazionali dell'Italia. Invece due di loro ce li troviamo in lizza per il prossimo parlamento, uno dei due senatore a vita. Mandarli via tutti sarà indispensabile, ma prima li si dovrebbe chiamare a rispondere di quello che hanno fatto o hanno permesso che si facesse.

SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?

Chi mangia sulle carceri-lager, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Mentre in galera le condizioni sono sempre più disumane, emergono le spese folli dei super dirigenti: foresterie con Jacuzzi in terrazzo, tivù da sessanta pollici e tappeti persiani (ma anche scopini da bagno pagati 250 euro l'uno). Il vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena. Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell'amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano. Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l'incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto-terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idromassagio, in salotto ci sono tv da sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno. L'elenco di queste spese "fuori norma" è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana. I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone. «Più volte ho denunciato l'insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto», ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l'unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l'amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare«non una ma dieci volte». A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l'amministrazione penitenziaria, ma l'88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni. Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze. Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per il circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri. La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l'emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d'Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l'anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria. La cronica carenza di stanziamenti oggi ha azzerato gli investimenti per nuovi padiglioni e l'assenza di manutenzione ha determinato la chiusura o il completo abbandono di intere sezioni che «attualmente si trovano in condizioni strutturali e igieniche assolutamente incompatibili con le finalità penitenziarie per cui gli spazi a disposizione dei detenuti si sono ulteriormente ridotti». Ma invece di fare passi avanti, si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c'è «un numero eccessivo di istituti»: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l'Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni. Tutt'altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobiche, con tre-quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce. Anche il primato nel rapporto tra detenuti e agenti penitenziari resta teorico: si continua a discutere della carenza di personale di custodia mentre una moltitudine di agenti è in servizio nel ministero di via Arenula, negli uffici periferici regionali o viene distaccato ad altri incarichi, lasciando sguarniti i raggi delle celle. «E' assolutamente chiaro che si sia sbagliato qualcosa», si legge nella relazione del Dap al Consiglio d'Europa, «così com'è chiaro che proprio ragionare su questi apparenti paradossi costituisca il corretto approccio per provare, almeno, ad allineare il sistema penitenziario italiano a quello degli altri Stati europei». Nell'ultimo anno i vertici del Dap hanno cercato di cambiare la rotta. Con investimenti limitati, evitando gli sprechi, hanno ristrutturato alcune sezioni degli istituti, realizzando 4.630 nuovi posti. La nuova legge sugli arresti domiciliari, che permette di scontare in casa condanne inferiori ai dodici mesi, ha fatto uscire quasi novemila detenuti. Su altri 6.000 con pene fino a due anni si devono pronunciare i giudici di sorveglianza. Nonostante questo l'emergenza continua. Ad affollare le carceri sono soprattutto gli extracomunitari: ben 24 mila, con una predominanza di cittadini marocchini e tunisini. La maggioranza dei detenuti è accusata o condannata per reati contro il patrimonio: 34.583 sono finiti dentro per furti, rapine, estorsioni, ricettazione, usura, frodi, riciclaggio. Altri 26.160 hanno commesso reati legati alla droga; 24.090 sono accusati di crimini contro la persona come violenze e omicidi; 10.425 invece devono scontare pene per armi. I colletti bianchi in cella per reati contro la pubblica amministrazione come corruzione e concussione invece sono 8.307. Su 65mila reclusi, solo 604 sono laureati, di cui 176 stranieri: altri 21 mila hanno la licenza di scuola media inferiore. E gli unici a potere contare su celle comode, con uno o due letti per stanza, sono mafiosi e terroristi sottoposti a regime di media e massima sicurezza: settemila persone, tra cui 133 donne. Ma questa esigenza ha provocato un altro squilibrio, con la necessità di riservare numerose sezioni a questi sorvegliati speciali, aumentando la ressa nelle altre. Dopo l'indulto varato dal governo Prodi nel 2007, i cui effetti sul sovraffollamento sono stati vanificati nel giro di tre anni, di fatto non ci sono stati interventi. Con la solita logica emergenziale, nel 2010 il ministro Angelino Alfano ha elaborato un piano straordinario per l'edilizia carceraria. E' stato nominato un commissario con ampi poteri e risorse finanziarie: nei proclami iniziali si parlava di 700 milioni di euro, poi i soldi sono spariti. Oggi sono in fase di avvio i lavori per costruire un paio di padiglioni mentre tutto il programma iniziale è stato riesaminato secondo criteri di efficienza dal nuovo commissario straordinario. Nel piano Alfano, oltre alla nomina di consulenti amici del politico, sono stati pianificati tanti cantieri ignorando le situazioni più urgenti o le esigenze dei territori. Come il caso del carcere che si voleva edificare a Mistretta, nel Messinese, eliminato in fretta dalla mappa. Un vecchio vizio: negli anni Ottanta lo scandalo delle carceri d'oro ha dimostrato come i nuovi penitenziari erano stati edificati solo in base a logiche politiche, di collegio elettorale o di tangente, senza guardare alle necessità dei detenuti. Che spesso sono obbligati a rimanere concentrati negli istituti più vicini alle sedi dei processi. Ma anche in tempi recenti le nuove prigioni sono diventate l'occasione per rapidi arricchimenti. Durante la gestione del Dap guidata da Franco Ionta ha destato curiosità la figura del "responsabile unico di progetto" che a norma di legge intascava il 2 per cento dell'opera. A firmare era sempre lo stesso funzionario, un tecnico, sostituito poi da un magistrato: lo stesso Ionta. Oggi nella campagna elettorale la questione delle carceri è stata ignorata. Solo i Radicali hanno continuato senza sosta a proporre il problema. E ora toccherà al nuovo Parlamento dare risposte concrete per uscire da quella che il presidente ha definito una «situazione mortificante», ribadendo senza mezzi termini: «Sono in gioco l'onore e il prestigio dell'Italia».

Il lavoro dei detenuti? E' un business, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”.

La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali. Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354. Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono 'empirici') ma è anche un'opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d'opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. E' un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano. La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall'associazione Antigone, 'Senza dignità', il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: "Nel primo semestre 2012" recita il report "a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi". Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario. "Quello che si tende a dimenticare" spiegano dall'osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane "è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio". Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese. La mercede viene calcolata da un'apposita commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria. "Questa è la teoria" continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti "la pratica è un po' diversa. Tanto per cominciare la commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro". Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all'interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perchè il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010, ai 9,3 del 2011 ai 3,2 del 2012. Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante. Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del CCNL (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa. Un silenzio difficile da scalfire. "Solo da poco siamo riusciti a penetrare l'ambiente del carcere" conferma Corrado Mandreoli, della CGIL di Milano "Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione". Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un'industria metalmeccanica. "Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l'azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l'orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi". Un altro problema riguarda la buona fede delle cooperative. Se la stragrande maggioranza di loro offre lavoro, istruzione e reale riscatto, altre approfittano della situazione e non negano di aver trovato la "Cina in Italia". La ragione è semplice. Per ogni detenuto impiegato ricevono, per effetto della legge Smuraglia, 516 euro di credito di imposta. In questo modo non solo hanno un lavoratore che costa poco e che non si lamenta, ma anche la cui sola presenza consente loro di risparmiare su tutti gli altri. Un quadro difficile pensato per aiutare i carcerati e che invece, nei casi peggiori, può degradarne ancora di più la situazione. "Il problema del lavoro dei detenuti c'è" conferma il vice direttore del DAP Luigi Pagano "e ha grandi dimensioni. Non riguarda solo i singoli abusi di singoli datori di lavoro in malafede, ma in senso più ampio il sistema. Il lavoro penitenziario va profondamente ripensato e riformato, e soprattutto agevolato. La legge Smuraglia, per la quale sono arrivati ora, in modo rocambolesco e che non sapremo se si ripeterà, 16 milioni di euro, non basta. Spesso per le aziende far lavorare i detenuti è complesso e costoso, dunque se possono, evitano. Allo stesso modo per i detenuti lavorare è incompatibile con gli obblighi carcerari e legali della loro condizione, come l'ora d'aria o i colloqui". Ad oggi però di riforma non si parla, anzi, si valuta un nuova legge che porti a 1000 euro il credito di imposta per le aziende, e renderebbe ancora più appetibile la forza lavoro dietro le sbarre, con il pericolo di attirare ancora di più i"furbetti dell'esenzione fiscale", in cerca di agevolazioni. I carcerati però devono lavorare e con compensi adeguati. Lo prevede la legge, lo richiede il loro benessere e la sicurezza di tutti. Dunque come fare? La soluzione, forse un po' naif, la propongono proprio gli analisti e i volontari di Ristretti Orizzonti: "Bisogna disinnescare il meccanismo che rende il lavoro dei detenuti, con i mille limiti del caso, un business per le imprese e non un'opportunità vera per i detenuti. Se questi soldi fossero gestiti direttamente dallo Stato e non dalle cooperative o dai privati sarebbe meglio per tutti: per le casse dello Stato che non dovrebbero elargire esenzioni, per i detenuti, i cui diritti sarebbero più al sicuro e anche per le imprese che non si sobbarcherebbero l'onere retributivo di dipendenti che, per motivi oggettivi di orario e altro, spesso rendono meno di altri".

GIUDICI O MEDICI?

Giudice che vai, cura che trovi. Caos sulle terapie per sentenza. Il caso più recente: i magistrati di Torino negano a una donna affetta da un raro morbo il rimedio concesso al fratello. Ma sono centinaia i destini di malati appesi a un verdetto, scrive Gioia Locati su “Il Giornale”. La vita appesa a un giudice. Succede quando si è affetti da malattie rare, valutate incurabili dalla medicina ufficiale. Come la piccola Sofia, tre anni e mezzo, affetta da leucodistrofia metacromatica, che porta a progressiva paralisi e cecità.  Su di lei la cura Vannoni - iniezioni di cellule staminali mesenchimali - messa a punto nei laboratori Stamina di Brescia, aveva portato a sorprendenti miglioramenti. Ma dopo il primo trattamento, un giudice di Firenze aveva imposto di interrompere la terapia. Troppe le perplessità dell'Aifa e del ministero, su Stamina è stata aperta un'inchiesta. Il caso è arrivato in televisione, alla trasmissione Le Iene, ne ha scritto pure Celentano. E lunedì 11 marzo 2013 un altro giudice ha dato il via libera alla terapia per Sofia: la piccola potrà curarsi con il metodo Vannoni negli Spedali di Brescia. Altra malattia, stessa richiesta, sentenza opposta. Il 12 marzo, a Torino, la Corte d'Appello ha rifiutato il metodo Vannoni a una donna colpita dal morbo di Niemann Pick. E pensare che soltanto pochi giorni prima, lo stesso tribunale, l'aveva autorizzata al fratello della donna. Il padre, Luigi Bonavita, si dice «esterrefatto». Tribunale che vai, cura che trovi. Il motto vale anche per i malati di tumore che scelgono di curarsi con il metodo Di Bella. In questo caso, dopo la sperimentazione del 1998 che ne decretò l'inefficacia (e dunque la non rimborsabilità da parte del sistema sanitario), nelle aule di giustizia si discute se concedere o meno i soldi spesi per i farmaci. Fra provvedimenti d'urgenza, sentenze passate in giudicato, appelli e ricorsi in Cassazione, sono centinaia i casi arrivati nelle aule di giustizia. E sono quindici anni che la legge non è uguale per tutti. C'è chi ottiene la terapia gratis subito, chi la «vince» in appello, chi deve sudare fino alla Cassazione. Al contrario, chi deve pagare tutto di tasca propria, nonostante il reddito basso. Clamorosa e recentissima la vicenda di Flora Nardelli, 49 anni. La corte d'Appello di Bologna (sentenza di marzo 2013) ha richiesto alla donna 113mila euro, i soldi spesi per curarsi da un mieloma con la cura Di Bella, dopo che una sentenza del 2006 aveva invece stabilito che aveva diritto alle cure. Nei vari gradi di giudizio i «giudici oncologi» sono uno contro l'altro. «C'è chi prende in considerazione una legge del 1996 che ammette le prescrizioni off label, ossia fuori prontuario - spiega l'avvocato bolognese Cristina Bergamini - e c'è chi proprio non la considera (Di Bella prescrive medicine off label)». E ancora: ci sono togati che si affidano a periti medici per valutare se il paziente effettivamente ha avuto un miglioramento con la terapia discussa e chi invece la boccia tout court, improvvisandosi oncologo. A Cosenza, il 16 luglio 2012, un malato ha ottenuto il rimborso della terapia in appello, dopo che la richiesta gli era stata rigettata in primo grado. L'uomo, colpito da un tumore del naso e della gola inoperabile, aveva presentato, come prova di riduzione del tumore, gli esami eseguiti allo Ieo, l'Istituto oncologico di Umberto Veronesi. Nel caso del metodo Di Bella può essere determinante risiedere in Puglia. Per risparmiare le spese dei ricorsi in tribunale, la Asl di Taranto, dal 2007 al 2012, ha diramato una circolare ai distretti sanitari chiedendo di distribuire gratuitamente i farmaci «ai cittadini che ne facciano regolare nonché certificata e appropriata richiesta, visto che «la questione della cura Di Bella è per questa azienda una problematica non ancora risolta». E a Foggia, Myriam Infede, 37 anni, ha ottenuto il risarcimento della terapia, perché «i farmaci utilizzati sono approvati dall'Aifa e regolarmente in commercio». E quando le sentenze dei malati di tumore arrivano in Cassazione? Le più recenti, del 2011, affermano che «non compete ai giudici interferire con le decisioni prese dagli organi tecnico-scientifici dello Stato». E così, anche davanti a remissioni da metastasi, i giudici scrivono che «il signor tal dei tali non avrebbe dovuto curarsi con la cura Di Bella perché nel '98 si decise che non funzionava». Il costo di sette anni di cura Di Bella. Per la corte di Bologna una paziente dovrà versarli alla Asl. Ed ancora. Barbara Bartorelli ha sconfitto un tumore e ora è stata condannata in appello a rimborsare la sanità pubblica, scrive Valeria Baroncini su  “Il Resto del Carlino”. Sette anni dopo, la giustizia ha il sapore di una tortura. E della beffa. Barbara Bartorelli, una piccola imprenditrice di 40 anni di Castel San Pietro Terme, è guarita da un tumore grazie alla terapia Di Bella, ma i giudici la costringono a pagare le cure all’Ausl di Bologna. MOTIVO: una sperimentazione ministeriale «stabilì che quella terapia era inefficace» e che «nel 1998 non venne testato il suo linfoma, ma un altro, il non Hodgkin». Eppure la Bartorelli, piccola imprenditrice, è completamente guarita dal linfoma di Hodgkin, quindi la terapia funzionò eccome. Quasi non crede alla sentenza del tribunale d’appello che, a sorpresa, ha ribaltato quanto deciso nel 2006 dai giudici di primo grado. «La gioia per essere guarita è devastata dall’amarezza per il nostro sistema burocratico e giudiziario. Mi sono ammalata nel 2003 e mi sottoposi a quattro cicli di chemioterapia — racconta la donna —. Fu tutto inutile, e non volevo rischiare con un trapianto. Così optai per la cura Di Bella». Lì la rivoluzione: in pochi mesi Barbara inizia a stare meglio e, nel giro di poco tempo, il linfoma di Hodgkin è solo un lontano ricordo. Per pagarsi le cure deve andare da amici e parenti, c’è anche chi organizza tornei di beneficenza: un carico troppo gravoso, tanto che, grazie agli avvocati Lorenzo Tomassini e Luca Labanti, fa causa all’Ausl. Nel 2004 ottiene un decreto d’urgenza e nel 2006 la conferma nel merito: l’Ausl deve pagare, anche perché Barbara, all’epoca, non aveva il reddito per sostenere quelle spese. Ci sono anche le perizie di un gruppo di oncologici a rinsaldare la decisione dei giudici, ma l’Ausl impugna la sentenza e, pochi giorni fa, ottiene il ribaltone in Appello. Comportamento, a dir la verità, tenuto da quasi tutte le Ausl. Ma Barbara Bartorelli non si fermerà e, oltre a un sicuro ricorso in Cassazione, si rivolgerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo: «E’ ingiusto questo sistema che ti obbliga a pagare se guarisci: ho la colpa di essere guarita? Non è uno Stato quello che ti impedisce di curarti», s’interroga. Paradosso: e se Barbara non si fosse curata con la terapia Di Bella? «Non so dove sarei ora», dice lei. «Tra l’altro l’Ausl avrebbe pagato molto di più per le cure tradizionali», è indignata. «Ma non sono i giorni della spending review?». 

GIUDICI OD AVVOCATI?

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

Come dicevo, ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Categoria di sfruttati sono i praticanti avvocati: sono gli schiavi degli studi legali, pagati una miseria, quando sono pagati, per fare i lavori burocratici necessari per preparare le cause. Ritirare i documenti nei tribunali o dai giudici di pace, chiedere atti. Le agenzie si farebbero pagare 10-15 euro, per ogni atto: ma perché spendere questi soldi quando un praticante può farlo gratis e nessuno controlla. Quella degli avvocati è una casta che non può essere scalfita dal vento delle liberalizzazioni. In teoria dovrebbero essere pagati, dagli studi, durante il praticantato. In pratica, devono pagare l’ordine forense e sperare solo di passare l’esame di Stato. Nel 2012 si sono create 500.000 nuove partite Iva segno che è il mercato che non assume più a contratto per pagare meno le persone.

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, lo dice la Costituzione. Repubblica e lavoro sono, stando al dettato della suprema Carta, due cardini dello Stato italiano. Il verbo fonda non è casuale ed in esso echeggia il motto popolare per cui il lavoro nobilita l’uomo. Lavoro vuol dire produzione e compenso, equivale a disponibilità economica e affermazione sociale e morale. In questo senso lavorare significa, in una massima esemplificazione difficilmente contestabile, null’altro che vivere; del resto è un fatto non contestabile che più si lavora meglio si vive. Naturalmente nel rapporto tra lavoro e vita non è ininfluente la qualità del lavoro: un buon lavoro, sufficientemente retribuito e abbastanza soddisfacente concorre all’umana soddisfazione sino al punto di rendere felice l’uomo lavoratore. Ma cos’è la felicità? È il buon vivere. Vive bene chi fa ciò che ama, chi dispone di denaro a sufficienza per sopperire con decoro alle esigenze personali e familiari. Vive bene chi non subisce l’umiliazione della miseria e la pena della fame. Lavoro e buon vivere camminano di pari passo, diversamente dove non c’è lavoro o c’è crisi si fanno spazio stenti e difficoltà e la qualità della vita si abbassa. “Presa Diretta”, trasmissione di inchiesta di Rai 3, domenica 17 marzo 2013 ha acceso finalmente i riflettori sugli stenti e le difficoltà di una delle categorie professionali più vessate d’Italia: i praticanti avvocati. È praticante avvocato il laureato in giurisprudenza che, concluso il percorso di laurea, apprende i segreti della professione forense sotto la guida di un cosiddetto Dominus, compiendo un iter di preparazione all’esame di Avvocato (esame indispensabile per l’iscrizione nel magistrale albo degli avvocati). Partiamo da un presupposto indefettibile: è giusto chiarire che ogni albo, quello degli avvocati come quello dei praticanti, ha i suo costi, naturalmente a carico dell’iscritto. L’albo deve essere sostenuto dai suoi iscritti che di anno in anno pagano una “tassa” meramente finalizzata a “custodire molti nomi professionali nell’albo stesso”. La “tassa” condiziona la qualifica professionale certificata dall’iscrizione all’albo e di fatto deve essere versata, ciò malgrado il fatto che la “citazione all’interno di un albo” non assicuri di per sè alcuno spazio professionale e quindi non assicuri nessun guadagno certo. Le telecamere di “Presa Diretta” immortalano i 4mila praticanti avvocati che alla Fiera di Roma tentano il grande salto dall’albo dei praticanti a quello degli avvocati, salto di qualità per il quale è appunto indispensabile passare il famigerato esame di Stato. 4 mila solo a Roma tra migliaia di candidati sparsi per ogni Corte di Appello della penisola. Dopo la laurea, legalmente conseguita presso le Università per gli Studi del nostro Paese, i giovani laureati in giurisprudenza non sono avvocati e nemmeno praticanti. Di fatto per raggiungere il traguardo dell’avvocatura il neo laureato deve passare faticosamente per la trafila della pratica forense. Legalmente l’istituzione della pratica forense nasce con l’intento nobile di offrire ai neolaureati una piattaforma operativa funzionale all’acquisizione delle competenze professionali. La legge dice che il praticante avvocato, guidato da un avvocato di esperienza, cosiddetto Dominus, deve esercitare l’attività professionale per 18 mesi sotto forma di praticantato presso uno studio legale. I primi 6 mesi di pratica forense non possono essere retribuiti, la legge stessa vuole che siano gratis, diversamente i restanti 12 andrebbero retribuiti: l’avvocato dovrebbe pagare il praticante. Il compenso è però un fatto sconosciuto ai praticanti avvocati, e così, per una prassi radicata, nessun praticante riceve alcun compenso. In questo modo giovani divengono come “manovalanza gratuita” alla mercé degli avvocati e, pur svolgendo mansioni lavorative ampie, non ricevono alcuna retribuzione. “Presa Diretta” denuncia che dei 4 mila laureati sotto esame alla Fiera di Roma solo il 30% passerà l’esame, tutti gli altri resteranno praticanti … nel migliore dei casi lo saranno almeno per un anno ancora. Dinnanzi agli uffici dei Giudici di Pace si incontra il popolo dei praticanti più “sfruttati” d’Italia. “Presa Diretta” descrive la lunga giornata tipo dei praticanti sempre a piedi … sì a piedi! Perché senza un dignitoso compenso non c’è benzina per le quattro ruote e i chilometri si consumano con scarpe comode e faldoni tra le braccia, il tutto condito da molte speranze e tanta pazienza. Da sempre si dice che certe professioni sono “Caste”, circoli elitari chiusi in districabili intrecci di poteri familiari. Ed ecco che ritorna un vecchio grido di libertà: liberalizzazione delle professioni e abolizioni degli albi professionali. Tra i due scandali, quello dei giovani sfruttati e lo choc della rinuncia agli albi, l’abolizione delle classi professionali potrebbe essere il male minore, c’è un unico rischio: il merito potrebbe trionfare sul nome e i meritevoli potrebbero cambiare il sistema Italia. Tutto sommato però è probabilmente giunto il tempo di correre questo grande pericolo. “Presa Diretta”, nella puntata andata in onda domenica sera del 17 marzo 2013 con il titolo “Controriforma”, pur nelle sue intenzioni di criticare il Ministro Elsa Fornero e la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori con la creazione di nuovo precariato, ha scoperto, però di fatto, il vaso di Pandora rivelando anche che il medesimo lavoro svolto gratuitamente (o quasi) dai praticanti avvocati è fornito pure da agenzie e delegati. Ma chi sono queste agenzie? Si tratta di agenzie di servizio che disbrigano le pratiche burocratiche dietro compenso. Di fatto effettuano i medesimi adempimenti dei praticanti avvocati ma non lo fanno gratis, prendono 10\15 euro per ciascuna pratica … non è un caso che i praticanti siano molti e le agenzie poche, a conti fatti un praticante fa risparmiare ad un avvocato 50\60 euro ogni 5\6 pratiche adempiute. Gli uffici dei Giudici di Pace aprono i battenti alle 9:00 ma le prenotazioni per gli adempimenti partono molto prima per accaparrasi il numero 1 si può arrivare anche alle 6:00. Naturalmente le lunghe code sono animate dai praticanti e qualche volta dalle agenzie, i primi lavorano nella speranza di esercitare un giorno una professione, le seconde lavorano dietro compenso economico, ovvero lavorano, nel senso proprio del termine, per guadagnarsi il pane. Intanto Facebook pullula di praticanti avvocati disperati. Lo Stato non li vede e pare ignorare anche le 500mila nuove partite iva aperte in Italia. C’è da aggiungere, però, che gli stessi praticanti (ben pochi per dire la verità, gli altri omertosamente tacciono) che oggi gridano allo sfruttamento e alla partecipazione ad un esame di abilitazione truccato, sono quelli che domani saranno i dominus che con unghie e denti difenderanno i loro privilegi castali. Intanto in Italia cresce il numero delle partite Iva e decresce il numero dei contratti di lavoro dipendente, questi due fenomeni sono slegati? Il datore lavoro dinnanzi ad un professionista pretende che questi abbia una sua partita iva e che si faccia pagare attraverso di essa, in questo modo riduce le assunzioni con contratto dipendente, al momento più sconvenienti economicamente. La partita Iva diventa un escamotage per pagare di meno il lavoro ma toglie nel contempo garanzie al lavoratore e di fatto svilisce il disposto costituzionale che fonda sul lavoro il nostro bel Paese. Questo vale per tutti, ma non per i praticanti avvocato, che senza abilitazione non possono aprire alcuna partita iva. Saranno per sempre dei lavoratori sfruttati o malpagati ed a nero, con evasione fiscale e contributiva da parte di una categoria che si vanta di tutelare la legalità. Già, come i fratelli magistrati.

TOGHE BOCCACCESCHE.

Inchiesta imbarazzante. Agli atti dell’inchiesta ci sono decine di messaggi e mail di «fuoco» che i due magistrati si sono scambiati mentre la loro relazione terminava, pare, in modo piuttosto modo burrascoso. Parole pesanti, minacce e denunce reciproche che il 28 maggio 2013 approderanno davanti al Tribunale di Lecce. Sul banco degli imputati, citati direttamente a giudizio dal pm salentino Carmen Ruggiero, due magistrati già in servizio presso il Tribunale di Trani. Il giudice M.G.C., ex gip di Trani (trasferita dal Csm a Matera, a seguito della vicenda) che deve difendersi dalle accuse di lesioni e atti persecutori nei confronti del magistrato M. N.. Quest’ultimo, oggi in servizio presso il Ministero della Giustizia, è imputato, invece, per minacce nei confronti della stessa Caserta.

Il giudice M.G.C., ex GIP di Trani, è stata trasferita a Matera e per questo motivo è balzata agli onori della cronaca, anche se a suo dire, gli articoli a lei dedicati sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro. Stesso trattamento, d'altronde, riservato ai poveri cristi, che non si possono nemmeno lamentare. Gogna e mancato ristoro in caso di assoluta estraneità ai fatti.

Fin qui la sintesi della vicenda, che da sè sarebbe già allarmante e poco etica. Ma c'è un seguito. Il resoconto è il coordinamento sintetico  di articoli pubblicati da vari giornali (di destra e di sinistra, locali e nazionali) con il link di riferimento. Nell'occasione si è omesso il nome della protagonista, che si trova sugli articoli originali, e si sono saltate le questioni più scabrose. Nonostante ciò, con spirito di rivalsa e di censura, la signora, anziché far oscurare le pagine dei quotidiani che riportano gli articoli ha pensato di inviare alla nostra redazione questa diffida: «Spett.le  Redazione "ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE" ONLUS C. F. 90151430734 SEDE LEGALE: AVETRANA (TA), VIA PIAVE 127 in persona del responsabile del SITO WEB dott. GIANGRANDE ANTONIO, Ad ogni effetto, la sottoscritta, dott.ssa M.G.C., Magistrato Ordinario, nel proprio interesse e con riferimento agli articoli di cui all’oggetto, comparsi sui siti web in indirizzo; considerato che gli articoli riportati nei suindicati siti web sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro; impregiudicata ogni azione a tutela della propria onorabilità nella sede penale e civile DIFFIDA Il responsabile del sito web in indirizzo affinché provveda all’immediata rimozione dal web degli articoli di cui all’oggetto. Rappresenta sin d’ora che in difetto, si vedrà costretta a convenire in giudizio il responsabile per inibire con urgenza la detta pubblicazione, con ogni conseguenza e riserva, anche a fini di rettifica. Addì, 03 aprile 2012      Dott.ssa M.G.C».

Ed in quest’ottica, non potendo operare azione di censura nei confronti di tutte le altre testate, continuo la mia opera di rettifica ed integrazione sui miei scritti, così nei modi e nei tempi come in precedenza, appuntando il nome del giudice e pubblicando ulteriore sollecito di rimozione da parte del giudice in oggetto. “Ho ricevuto mandato dalla dott.ssa M. G. C., Magistrato, al fine di assisterla nella tutela legale per l’intrapresa di azioni a ristoro dei danni cagionati alla sua immagine personale e professionale dalla permanenza sul web di articoli di contenuto diffamatorio e non conforme agli accertamenti giurisdizionali effettuati nei suoi confronti. Allo scopo, segnalo che sul motore di ricerca Google risultano indicizzate le pubblicazioni sopra indicate e contenenti circostanze non veritiere e manifestamente offensive nei confronti della Dott.ssa M. G. C., da me assistita. Il contenuto di quegli articoli è smentito dagli accertamenti giurisdizionali medio-tempore compiuti in quanto la dott.ssa C. è stata assolta da ogni addebito con sentenza del novembre 2013 e, in quanto, con distinto provvedimento del 19/12/2014, il Consiglio Superiore della Magistratura ha prosciolto la mia assistita dagli addebiti mossi in sede disciplinare. Per di più ella risulta attualmente persona offesa dai reati di calunnia, diffamazione e false informazioni al P.M. I procedimenti pendono dinanzi alla Procura della Repubblica di Lecce. La permanenza sul web dei detti articoli (che riportano notizie smentite da una sentenza definitiva) determina una incalcolabile lesione della immagine professionale della dott.ssa C. e ove essi non vengano immediatamente rimossi, mi vedrò costretta ad adire l’autorità giudiziaria per il ristoro dei danni patiti dalla mia assistita. Confido che rimuoverà sollecitamente dal web i pezzi richiamati in oggetto e tutti quelli ad essi collegati. Cordialmente Avv. R. M."

Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica. Non è certo il tono usato, però, che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conoscono i miei libri, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta e i nostri canali you tube. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato alla signora per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è la signora che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta a livello istituzionale letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. Gli articoli citati dalla signora sono inseriti in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per la signora siano inveritieri e diffamatori, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono frutto di ricerca e di didattica su materiale altrui su cui va indirizzata la volontà repressiva. In questo caso gli articoli citati sono: 

La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 novembre 2011

La Repubblica del 15 novembre 2011

“Il Giornale” del 16 novembre 2011 di Gian Marco Chiocci (articolo completo in PDF)

“Il Giornale” del 5 febbraio 2012 (articolo completo in PDF)

"Il Giornale" del 5 febbraio 2012 (articolo completo in PDF)

"Il Giornale" del 6 febbraio 2012 (articolo completo in PDF)

A questi si aggiungono gli aggiornamenti.

Trani, toghe a luci rosse: sms piccanti e minacce tra pm e gip. La Procura di Lecce indaga per stalking e molestie reciproche. Lei scriveva: "I tuoi figli sono str... come te". Lui: "Io ti distruggo".

Lui è il pm M. N., lei il gip M.G.C.. Nei verbali conversazioni durissime e scenate di gelosia. Una storia d'amore (finito) e di coltelli (volati) all'ombra della Procura di Trani, quella per intenderci che vuole alla sbarra le agenzie di rating Fitch e Standard&Poor's. Protagoniste due toghe, lui pm e lei giudice per le indagini preliminari, ex amanti con contorno di sms proibiti, minacce, colluttazioni, schiaffi e aggressioni in pubblico. Un dossier scottante già preso in carico dalla Procura di Lecce, nel quale erano finiti anche dettagli ancora più caldi ma fin qui senza riscontri: video hard, rapporti lesbo, membri del Csm coinvolti. La vicenda la riporta Gian Marco Chiocci sul Giornale e ripresa da “Libero Quotidiano” e la definizione data al Tribunale, "boccaccesco", è decisamente azzeccata. Il pm M. N. e il Gip M.G.C. sono entrambi imputati e parti lese. La giudice risponderà di "minacce e molestie" nei confronti dell'ex amante sposato: lei, trasferita in provincia di Matera per "carenza di equilibrio", avrebbe procurato a N. un "perdurante e grave stato di ansia" generando "timore per l'incolumità sua, di sua moglie e dei figli". Sì, anche dei figli, visto che negli sms di fuoco inviati dalla Caserta ci sarebbero accuse anche nei loro confronti: "I bambini? - scriveva al cellulare la Gip - Sono stronzi, non sono bambini, figli di puttana come il padre, come te". E ancora, riferendosi alla figlia 11enne del pm: "Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa da quanti sarà colto". A verbale, N. ha poi parlato di "cinquanta o sessanta aggressioni fisiche": "All'interno di un ristorante e di un centro commerciale, alla presenza di più persone". E poi, riporta Chiocci, il fattaccio in strada a Sassari, quando la Caserta avrebbe colpito violentemente alla testa l'ex amante con una borsettata in fronte. Altri magistrati e un avvocato generale dello Stato avrebbero cercato di fermare la donna, ricevendo una brusca risposta: "Me ne fotto di chi sei, fatti i cazzi tuoi, io sono un gip". N. parla di vero e proprio stalking, con la collega che lo avrebbe addirittura "pedinato in vacanza", soggiornando nello stesso albergo della sua famiglia. Dal canto suo, la Caserta ribatte sostenendo di essere stata minacciata dall'uomo, "anche di morte, di persona, in conversazioni telefoniche e con sms". Per esempio, il gip cita un messaggio piuttosto pesante inviatole da N.: "Non ti permettere mai più di chiamarmi, io non ti mando più messaggi, io non ti scrivo più e tu non mi contattare più. Ma sappi che io ti distruggerò".

Quegli ex amanti in toga che imbarazzano il Csm, scrive Gian Marco Chiocci  su “Il Giornale”. Odio e amore a Trani, nel Tribunale delle grandi inchieste. Nelle stanze giudiziarie più gettonate dai media, in origine fu il gossip, poi la passione, dopodiché subentrò la gelosia e dunque l'odio. Seguirono minacce, ripicche, sms irripetibili, pedinamenti e appostamenti sotto casa. Quindi i due amanti in toga, perché di questo si tratta, passarono agli schiaffi, alle urla, i pestaggi. Col tempo arrivarono traumi e ferite, ricoveri in ospedale accompagnati da denunce e controdenunce. Di contorno al regolamento di conti venne volantinato anche un esposto anonimo dove si favoleggiava di presunti video hard, mentre nell'inchiesta finivano i pettegolezzi su presunti rapporti «ravvicinati» di un certo tipo con membri del Csm, chiacchiericcio che potrebbe divenire pubblico a breve. Per non parlare di quel che man mano usciva a margine degli accertamenti disposti dall'imbarazzata procura di Lecce: i veleni su storie lesbo, carabinieri amanti di giudici, molestie tra giudici e giudici, tra questi ultimi e avvocati: tutto questo nel boccaccesco tribunale di Trani dove però, scava scava, alla fine non s'è trovata prova di quel che un Corvo raccontava con dovizia di particolari. È da brividi la lettura delle migliaia di carte dell'inchiesta di Lecce che ha portato alla citazione diretta a giudizio di due magistrati protagonisti di una lite sentimentale senza precedenti: di qua il gip M.G.C., di là il pm M. N.. Oggi i due sono reciprocamente imputati e parti lese di un intreccio giudiziario che a maggio esploderà pubblicamente in Tribunale. La giudice, trasferita d'urgenza dal Csm da Trani in provincia di Matera per «carenza di equilibrio», deve rispondere di aver «minacciato e molestato» l'ex amante (sposato), reo di aver voluto interrompere la relazione, procurandogli «un perdurante e grave stato di ansia» tale da «ingenerare in lui fondato timore per l'incolumità sua, di sua moglie e dei figli». Anche e soprattutto per effetto della valanga di sms reciproci - trascritti nel procedimento leccese - dove la giudice a sua volta ha riversato perizie tese a dimostrare che in realtà era lui che la martellava e che «le esternazioni erano per lo più reciproche, espresse nell'ambito di una litigiosità ad armi pari». N. a verbale fa ripetutamente presente come i messaggi prendevano di mira non solo lui ma anche e soprattutto i suoi più stretti congiunti («I bambini? Sono stronzi, non sono bambini, figli di puttana come il padre, come te». Oppure: «Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa (la figlia di 11 anni, ndr) da quanti sarà colto». A leggere i reati contestati, il pm è stato aggredito verbalmente e pure picchiato tre volte. «All'interno di un ristorante e di un centro commerciale, alla presenza di più persone» e in strada, a Sassari, «colpito alla fronte con la borsa da passeggio» (per quest'ultima ferita, testimonieranno la furia della gip altri magistrati presenti e un avvocato generale dello Stato che racconterà di essere intervenuto per fermare la donna, ricevendo in cambio il seguente complimento: «Me ne fotto di chi sei, fatti i cazzi tuoi, io sono un gip»). A verbale il magistrato ferito preciserà di aver subito «cinquanta o sessanta aggressioni fisiche». L'ira della toga- stalker, continua N., era incontenibile e improvvisa. Esplodeva nelle più impensabili circostanze, a qualsiasi ora del giorno e della notte, tant'è che, dice, «sono stato costretto a pagare un vigilantes per prendere mia figlia a scuola». Non solo: a imperitura memoria, «temendo le azioni vendicative e criminali della Caserta» il poveretto fa presente di essersi mandata una mail al suo indirizzo di posta elettronica: «Non so che fare - scriveva - che Dio mi aiuti e illumini la mente di questa folle». In una di queste mail viene riportata anche una dissertazione della gip sul «Berlusconi dittatore». E ancora. Leggendo gli atti si scopre che la gip l'ha addirittura seguita in vacanza, la famigliola del pm, «soggiornando nel medesimo albergo e pedinando lui e i suoi familiari». Un pressing asfissiante. A cui N. decise di porre fine denunciando l'ex amante. Solo che, controquerelato a sua volta dalla Caserta, pure lui è finito alla sbarra per «eccesso di legittima difesa». Le risposte piccate di quest'uomo stravolto sono state ritenute «condotte intimidatorie» nei confronti dell'ex amante, minacciata «anche di morte, di persona, in conversazioni telefoniche e con sms» del tipo: «Non ti permettere mai più di chiamarmi, io non ti mando più messaggi, io non ti scrivo più e tu non mi contattare più. Ma sappi che io ti distruggerò». Al pm che l'ha interrogato, N. ha parlato del desiderio di troncare la relazione quando si è reso conto che il rapporto non era poi così rose e fiori, e che poteva finire male per i suoi figli. Di segno opposto, ovviamente, le dichiarazioni rese a verbale dalla Caserta, che agli investigatori ha raccontato di un N. «ossessivo e opprimente», che le impediva «le frequentazioni con colleghi e amici» per cercare così di isolarla. Aggiungendo pure quello che, a suo dire, sarebbe stato un doppio gioco sulla reale situazione con la sua famiglia. «Troppe bugie, così ho deciso di troncare». E sul pestaggio di Sassari? La gip la mette così: «È vero, gli ho dato un calcio, avevo una borsa e la tiravamo quando l'ho mollata, e l'ho colpito (involontariamente) al volto. Ma poi lui, successivamente, mi ha detto che è inciampato probabilmente urtando contro un cassonetto». Sia come sia, è finita male. Laconica la «chiusa» di N. in ogni memoria presentata: «È questo un magistrato che può rappresentare lo Stato e lo può amministrare con autorevolezza?» (ha collaborato Simone Di Meo).

Relazioni pericolose tra magistrati, gip e pm sott'inchiesta: ascoltateci. L'amicizia finita in stalking, minacce e lesioni, con accuse reciproche dei protagonisti finiti indagati, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. Se ne sono dette di tutti i colori, dopo la fine della loro amicizia molto intima. Il giudice M.G.C. e il sostituto procuratore M. N. si sono minacciati reciprocamente di morte, poi querelati a vicenda, sono finiti sui giornali e i loro nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati, persino il Csm ha deciso di occuparsi di loro, ma hanno ancora voglia di parlare. Questa volta, però, davanti agli inquirenti salentini nel corso di formali interrogatori che saranno effettuati nei prossimi giorni dai carabinieri. A chiedere di essere sentiti sono stati gli stessi protagonisti di una brutta vicenda, iniziata come lite personale e sconfinata in farsa che ha avuto come palcoscenico d'eccezione il tribunale di Trani, dove entrambi prestavano servizio fino a pochi mesi fa. N. e la Caserta, che qualche giorno fa hanno ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini preliminari firmato dal pm Carmen Ruggiero, hanno sollecitato l'interrogatorio per tentare di discolparsi dalle accuse di minacce aggravate contestate a lui e di stalking e lesioni addebitate a lei. Il loro ascolto potrebbe modificare il quadro accusatorio, migliorando o peggiorando la posizione degli indagati (che risultano anche parti offese), e aprendo nuovi scenari investigativi relativi a presunti illeciti che potrebbero essersi consumati negli uffici giudiziari di Trani. Proprio N., infatti, nelle sue denunce aveva ventilato la possibilità che la Caserta fosse venuta a conoscenza di notizie riservate nell'ambito dell'inchiesta sul caso Berlusconi-Agcom-Annozero, per cui non è escluso che gli inquirenti leccesi vogliano approfondire tale aspetto. Di sicuro gli interrogatori imprimeranno una veloce accelerazione all'indagine di cui N. e la Caserta sono attualmente protagonisti, nata da denunce incrociate dopo la burrascosa fine di un'amicizia molto stretta. Il primo a denunciare è stato il pm, all'epoca in servizio a Trani oggi a Roma, che ha raccontato di liti furibonde e di colpi di borsetta sferrati in faccia, allegando alla querela sms della Caserta dai toni inequivocabili ("ci penseranno gli altri a fartela pagare", "non smetterò di respirare finché non ti avrò visto nel fango". Il giudice, dal canto suo, ha risposto tirando fuori le presunte minacce subite da N. ("se ti incontro per strada ti devo murare viva") e le prove di vere e proprie aggressioni fisiche. I messaggi al veleno e le testimonianze di diverse persone informate sui fatti sono finiti all'attenzione del pm Ruggiero, che ha ritenuto di formulare contestazioni precise nei confronti di entrambi. Dopo gli interrogatori il magistrato dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio oppure l'archiviazione della posizione dei due colleghi. Le determinazioni della Procura di Lecce dovranno essere inviate anche alla Procura della Cassazione, che ha avviato il procedimento disciplinare nei confronti dei due querelanti-indagati. La Caserta è già stata trasferita da Trani a Pisticci "per aver leso l'immagine della magistratura", ma dopo il trasferimento cautelare potrebbero arrivare ulteriori sanzioni, dalle quali anche N. potrebbe non essere immune.

La casta dei magistrati: stipendi scandalosi per 4,2 ore di lavoro al giorno, mentre il popolino si concentra sul costo della politica indotto da un’informazione spergiura.

Sono la lobby più forte nel paese, l’ultima corporazione rimasta intatta negli anni, con poteri e privilegi immutati nel tempo. Hanno le paghe più alte d’Europa, pensioni d’oro, 51 giorni di ferie l’anno e i privilegi di un sistema unico (in quanto ad anomalie) nel mondo. Parliamo dei magistrati, una categoria che fa dello spreco uno status.

Prendono il doppio dei colleghi francesi grazie a un sistema di scala mobile che non esiste altrove e possono arrotondare lo stipendio con incarichi extragiudiziari. La loro carriera è praticamente automatica: apprendistato poi 2 anni dopo il decreto di nomina sarà magistrato di tribunale, dopo 13 consigliere d’appello, dopo 20 in cassazione e dopo 28 idoneo alle funzioni superiori della suprema corte.

Tutti passaggi automatici che comportano i relativi aumenti di stipendio, ultra sostanziosi.

Gli stipendi dei magistrati italiani sono quasi un segreto, spesso coperti persino da omissis nei documenti ufficiali. Ma qualcosa si incomincia a scoprire.

Ecco l’esempio di un magistrato di corte d’appello. Il neopromosso parte da 54249 euro lordi e arriva dopo 8 classi e 20 scatti a 120433 ai quali si aggiungono 12669 di indennità giudiziaria e 12182 di indennità integrativa. Totale 145000 euro

Il bello è che per mettere insieme 28 tra classi e scatti (biennali secondo la norma) ci vorrebbero 56 anni di servizio. E invece in appello si arriva solo 13 anni dopo il reclutamento, tramite un formidabile meccanismo moltiplicatore per lo stipendio. Senza contare le migliaia di incarichi extragiudiziari che nel 99% dei casi ricevono il sì del Csm.

Il tutto lavorando di media 1560 ore l’anno…Una vergogna immodificabile…

TOGHE CON LE GONNE.

La rivincita delle donne. Il 09/02/1963 viene approvata la legge n. 66 e le donne sono ammesse in magistratura. Stanno per diventare più degli uomini, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Chissà che direbbe oggi il presidente di tribunale Antonio Romano, classe 1895, a vedersi circondato da tante toghe indossate sopra una gonna. Non possiamo saperlo. Sappiamo invece quel che disse l’11 novembre 1947 dai banchi dell’Assemblea costituente dov’era stato eletto nelle liste della Democrazia cristiana, mentre si discuteva della possibilità di aprire al mondo femminile le porte dell’amministrazione della giustizia. «Da alcuni s’è detto — proclamò Romano — che potendo le donne esercitare la professione di avvocato, debbono poter essere anche magistrati. In verità, io invito a meditare sull’opportunità di questa norma. Oggi, chi per un verso chi per altro, tutti si concordano per allontanare la donna dal focolare domestico. La donna deve rimanere la regina della casa, più la si allontana dalla famiglia, più questa si sgretola». Il verbalizzante d’aula rilevò gli applausi di alcuni deputati, e Romano proseguì: «Con tutto il rispetto per le capacità intellettive della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte di giudicare. Questa richiede grande equilibrio, e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni fisiologiche». La sua collega di partito Maria Federici, insegnante di lettere nata nel 1899, lo interruppe: «È un antiquato». «Meglio così», rispose Romano fra le proteste delle (poche) signore presenti in aula. Finché il magistrato concluse: «Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa». Allo stesso modo la pensava l’altro costituente democristiano Giuseppe Cappi: «La ragione della diffidenza diffusa di fronte a una donna giudicante sta nella prevalenza che nelle donne ha il sentimento sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve prevalere il raziocinio sul sentimento». E l’avvocato Salvatore Mannironi, pure lui della Dc: «Nella sua costituzione psichica la donna non ha le attitudini per fare bene il magistrato, come dimostra l’esperienza pratica in un campo affine, cioè nella professione dell’avvocato. Tutti avranno notato quale scarsa tendenza e adattabilità abbia la donna per questa professione perché le manca, proprio per costituzione, quel potere di sintesi e di equilibrio assoluto che è necessario per sottrarsi agli stati emotivi». Gli stessi giudici erano contrari all’integrazione dei sessi nel loro ambiente, come ricordò il socialista Mancini. Il quale, pur sostenendo la tesi opposta, non sfuggì a certi stereotipi: «La magistratura vuole chiudersi in una casta senza sesso, in una torre d’avorio… Disdegna che un gentile sorriso venga a rompere l’austerità e la grinta (per non dire la mutria!) di certi magistrati… L’uomo si umanizza vicino alla donna… Dal naso di Cleopatra fino all’imperatrice senza impero, la duchessa di Castiglione, vi è una dorata catena di vezzi che insidiano il movimento storico!… Quale cuore più generoso e più gentile del cuore di una donna, che valuta i fatti umani e vivifica col sentimento la dura norma della legge?». Alla Costituente intervennero anche le deputate (piccola minoranza rispetto ai deputati, ovviamente), per affermare le ragioni della parità. Dalla stessa Maria Federici alla comunista Maria Maddalena Rossi. Senza successo. L’Assemblea decise di non decidere: fu tolta la preclusione, ma l’accesso femminile all’ordine giudiziario venne rinviato alla legge ordinaria. Giunta con quindici anni di ritardo. Prima ci volle una sentenza della Corte costituzionale, che nel 1961 cancellò la norma del 1919 con cui le donne venivano espressamente escluse «dall’esercizio della giurisdizione». E solo nel 1963, con la legge numero 66 varata il 9 febbraio, il Parlamento repubblicano decretò la svolta. Articolo 1: «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera». Accadeva cinquant’anni fa. Ne trascorsero altri due per arrivare al primo concorso aperto a tutti, superato da otto donne che s’intrufolarono tra i 5.647 magistrati dell’epoca. Lo 0,14 per cento. Mezzo secolo più tardi, febbraio 2013, su 8.948 toghe in servizio, 4.209 sono indossate da donne. Il 47 per cento. La metà è quasi raggiunta, e la quota aumenta di anno in anno. Il sorpasso è solo questione di tempo, visto che tra i nuovi ingressi è già avvenuto da qualche anno. Al concorso del 2009, su 325 vincitori, i due terzi (210) erano donne. E nel 2010 sono salite a 214, sempre su 325 ammessi all’ordine giudiziario. Dunque in mezzo secolo la situazione s’è capovolta, imprimendo una svolta al modo di esercitare la giurisdizione. Paola Di Nicola, magistrato figlia di magistrato (sono tanti i figli di magistrato vincitori del concorso in magistratura), nata quando le porte dei tribunali s’erano appena aperte all’altra metà del cielo, ha voluto raccontare in un libro (La giudice, edizioni Ghena, pp. 190) la sua esperienza di donna (e di moglie, e di madre) in toga. Partendo proprio dal dibattito alla Costituente, che riletto oggi può apparire persino surreale, per arrivare a episodi che spiegano meglio di qualunque dissertazione i cambiamenti avvenuti nel mondo della giustizia. Grazie alle femmine chiamate a giudicare un universo quasi esclusivamente maschile, come dimostrano le cifre su imputati e condannati nei processi penali. Nel microcosmo di quelli finiti in carcere, alla fine del 2012, su 65.701 detenuti solo 2.804 erano donne. Appena il 4 per cento. La giudice De Nicola rievoca il processo per stupro svoltosi a Latina nel 1978, divenuto famoso perché ripreso dalle telecamere della televisione pubblica, dove il giudice chiamato a decidere «consente, troppo spesso, domande tanto morbose quanto irrilevanti, toni sprezzanti nei confronti della vittima, atteggiamenti percepiti come scherzosamente complici» tra gli uomini che partecipano al giudizio. Fino a far sbottare l’avvocata Tina Lagostena Bassi: «Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia». Trent’anni dopo, sempre a Latina, ecco un altro processo per presunto stupro. Ma il tribunale è composto da tre signore (tra cui Paola Di Nicola), il pubblico ministero è una signora e pure l’avvocato. L’unico maschio è l’imputato, assolto per mancanza di prove dopo un dibattimento in cui si percepisce, grazie al tenore degli interventi di accusa e difesa «l’attenzione a evitare, nelle minime sfumature, qualsiasi lesione della dignità della donna che denuncia e dell’uomo che si difende». Se le donne magistrato hanno ormai raggiunto il numero degli uomini, negli incarichi direttivi la situazione è ancora molto sbilanciata: siamo all’81 per cento di maschi negli uffici giudicanti e all’89 per cento in quelli requirenti (i pubblici ministeri). Perché solo da poco le donne hanno raggiunto un’età e un’esperienza che offre loro la possibilità di essere nominate ai vertici di procure, tribunali e corti, ma anche perché la maggior parte di esse ha scelto di diventare madre e sobbarcarsi la vita familiare. Sottraendo tempo alle pubblicazioni scientifiche e al conseguimento di altri titoli necessari per accedere a ruoli dirigenziali. «Non ci sono pregiudizi — spiega Paola Di Nicola —, si tratta di uno scoglio superabile solo con l’adozione di criteri diversi per le nomine. Al momento anche il numero di domande delle colleghe, per concorrere a posti di maggiore responsabilità, è inferiore a quelle degli uomini, proprio perché non abbiamo sufficiente tempo extralavorativo da mettere a disposizione della carriera. È una scelta, non un’imposizione, dettata però dalle regole attuali». Chissà se un giorno cambieranno, portando a termine la rivoluzione cominciata cinquant’anni fa.

PARLIAMO DELLA CORTE DEI CONTI

G8, arrestato ex della Corte dei Conti. L'accusa per Colosimo è concussione, scrive “La Repubblica”. Il nome dell'ex magistrato era stato fatto dall'imprenditore edile Francesco Maria De Vito Piscicelli nel corso degli interrogatori della procura di Roma. Secondo i pm di Roma avrebbe ricevuto 200 mila euro di tangenti. Alla base dell'ordinanza di custodia emessa dal Gip, testimonianze e verifiche bancarie. Antonello Colosimo, ex consigliere della Corte dei Conti, è stato arrestato dai carabinieri del Ros di Firenze. L'ex magistrato, secondo i pm di Roma avrebbe ricevuto 200 mila euro di tangenti. A Colosimo, proprio per avere ricevuto soldi, in forza del suo ruolo, è contestato dal giudice per le indagini preliminari di Roma, Maurizio Caivano, il reato di concussione. Colosimo, insieme ad altri cinque alti funzionari dello Stato, era finito nell'inchiesta, condotta dai pm, Ilaria Calò e Roberto Felici, sugli appalti del G8 e di altri Grandi Eventi gestiti dal provveditorato ai Lavori pubblici. L'indagine sui funzionari statali era partita dopo le rivelazioni fatte lo scorso giugno, nel corso di una dichiarazione spontanea, dal costruttore Francesco Maria De Vito Piscicelli. Si tratta dell'imprenditore che rise del terremoto dell'Aquila del 2009. Alla base dell'ordinanza di custodia emessa dal gip Ci sono le dichiarazioni di Piscicelli e i riscontri effettuati dagli inquirenti della Procura di Roma, come testimonianze e verifiche bancarie. Francesco Maria De Vito Piscicelli, due mesi di carcere, undici giorni ai domiciliari, è l'imprenditore edile consegnato all'opinione pubblica, "per sempre", dall'intercettazione telefonica in cui ride con il cognato del terremoto dell'Aquila, discorrendo con lui dei nuovi lavori che porterà la futura ricostruzione. Cinquanta anni, napoletano, è stato uno dei quindici costruttori scelti dalla cricca della Ferratella per lavorare al soldo della Protezione civile di Bertolaso. È diventato un collaboratore di giustizia. In otto interrogatori, assistito dall'avvocato Giampietro Anello, ha consegnato alla Procura di Roma il racconto della corruzione pubblica italiana dal 2000 al 2010. Tra questi anche il magistrato della Corte dei Conti Antonello Colosimo, già capo di gabinetto del ministro dell'Agricoltura Catania. "Credevo fosse un amico, mi ha taglieggiato dal 2004 al 2008. Ha sempre preteso una tangente, a volte anche del 15%, su tutti i lavori pubblici che facevo e questo perché è stato lui a presentarmi Angelo Balducci", aveva raccontato Piscicelli in un'intervista a Repubblica il 20 ottobre. "Per anni gli ho pagato auto, autista, l'affitto dell'ufficio in via Margutta. Quando ho smesso mi ha scatenato contro la finanza. Nel 1992 la politica chiedeva agli imprenditori soldi, ma dava benefici. Oggi la politica, e alcuni funzionari potenti, ti chiedono soldi per non farti male. Alla Ferratella c'è un'impiegata che solo per mandare tre righe di giustificazioni della spesa in Banca d'Italia chiede a ogni imprenditore una tangente di 1.000 euro. Tre righe digitate al computer, mille euro". Il filone investigativo sull'ex consigliere della Corte dei Conti Antonello Colosimo, è legato all'inchiesta sugli appalti per i Grandi Eventi che ha portato di recente alla condanna di Angelo Balducci, ex presidente del provveditorato ai Lavori pubblici, e Fabio De Santis, ex provveditore delle opere pubbliche della Toscana.

PARLIAMO DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA.

Napoli, arrestati anche giudici tributari in un'operazione della guardia di finanza, scrive “La Repubblica”. Decine di persone in manette, vari i reati contestati: dal concorso esterno in associazione camorristica al riciclaggio alla corruzione in atti giudiziari. Sequestrati bene per un miliardo di euro. Decine di persone - tra le quali anche 16 giudici tributari - vengono arrestate in queste ore nel napoletano dalla Guardia di Finanza. Agli arrestati sono contestati vari reati: dal concorso esterno in associazione camorristica al riciclaggio, dalla corruzione in atti giudiziari al falso. Le misure cautelari, richieste e ottenute dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, sono complessivamente 60: per 22 persone è stata disposta la custodia in carcere, per 25 gli arresti domiciliari, per 13 il divieto di dimora a Napoli. L'inchiesta giudiziaria riguarda "affari" di esponenti di rilievo del clan camorristico Fabbrocino, ritenuto egemone nell'area vesuviana e del Nolano, in provincia di Napoli. Attraverso la indagini della Guardia di Finanza si è poi progressivamente allargata a numerose operazioni illecite, fino a coinvolgere imprenditori operanti nei settori della commercializzazione del ferro, della compravendita immobiliare e della gestione di alberghi; ed ha infine chiamato in causa giudici tributari e diversi funzionari pubblici per numerosi episodi di corruzione. Nell'inchiesta, inoltre, risulta coinvolto un noto gruppo imprenditoriale campano con interessi sull'intero territorio nazionale.  

Pilotavano le sentenze tributarie: 17 arresti a Bari, anche un giudice, scrive Mara Chiarelli su “La Repubblica”. Operazione della Guardia di finanza nel capoluogo. Sei giudici indagati, uno arrestato. In cella anche quattro commercialisti componenti delle commissioni tributarie provinciale e regionale. Tredici, fra imprenditori e professionisti, ai domiciliari: tutti i nomi. Sono sei i giudici tributari indagati dalla Procura di Bari nell'indagine sul pagamento di presunte tangenti per aggiustare sentenze della Commissione tributaria regionale. Un solo giudice dei sei magistrati onorari indagati, il commercialista barese Oronzo Quintavalle, è stato arrestato. Con lui in carcere anche i commercialisti Gianluca Guerrieri, Michele Di Fonzo e Franco Balducci, tutti componenti della commissione tributaria. Per i cinque giudici tributari indagati a piede libero, la procura di Bari ha chiesto al gip l'interdizione dai pubblici uffici. Si tratta di Aldo D'Innella, di 72 anni; Francesco Ferrigni, di 70; Vittorio Masiello, di 73; Francesco Paolo Moliterni, materano di 67, e Giuseppe Savino, di 71, di Sammichele di Bari (Bari). Per questo motivo, il giudice per le indagini preliminari Sergio Di Paola fisserà nei prossimi giorni l'udienza nel corso della quale procederà all'interrogatorio degli indagati. All'esito dell'udienza il giudice deciderà se emettere, come chiesto dalla pubblica accusa, il provvedimento interdittivo, che potrà avere la durata massima di due mesi. Altre 13 persone, tra cui noti professionisti, sono agli arresti domiciliari. Questi i nomi: Elvira Bellomo, funzionaria della commissione tributaria regionale; Donato Radogna, commercialista e consigliere comunale, eletto con la lista Simeone Di Cagno Abbrescia, poi passato all'Udc e ora all'Api; Angelo Piccinino e Giorgio Grimaldi, imprenditori; Edmondo Caccuri (figlio di Franco), imprenditore e commercialista; Paolo Centrone, commercialista di Polignano; Alessandro Carbone, avvocato con studio legale a Gravina; Giuseppe Elefante, commercialista di Castellana Grotte; Leonardo Mariella, commercialista barese; Sisto Quintavalle, funzionario di banca in pensione e fratello del giudice arrestato; Sabino Romano, direttore della commissione tributaria di Bari; Francesco Della Corte, commercialista di Noci; Giuseppe Signorile, commercialista di Bari. Nell'operazione della Guardia di Finanza, chiamata "Gibbanza", un termine dialettale barese con cui si indica genericamente una tangente, sono poi 47 le persone indagate. I provvedimenti restrittivi sono stati emessi dal gip del Tribunale di Bari Sergio Di Paola su richiesta del pm inquirente, Isabella Ginefra. I reati contestati a vario titolo sono di corruzione continuata in atti giudiziari, falsità materiale e ideologica, frode processuale in concorso, riciclaggio, sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, responsabilità amministrativa degli enti. Le indagini, condotte dalla Gdf e dalla procura di Bari, hanno consentito di portare alla luce un sistema di corruzione, utilizzato per pilotare sentenze relative a processi tributari che erano scaturiti da verifiche fiscali effettuate dalla Guardia di Finanza. Un sistema che avrebbe garantito un esito favorevole ai contribuenti, causando un danno all'Erario per oltre 100 milioni. Quintavalle è accusato di numerosi episodi di corruzione. Uno di questi riguarda presunte tangenti e utilità ottenute dal commercialista Gianluca Guerrieri (anche lui arrestato) che ha permesso al giudice di ottenere incarichi in collegi sindacali, lattine di olio, biancheria intima e incarichi di consulente della procura di Bari in tre procedimenti, in cambio della decisione favorevole (depositata nell'aprile 2009) nella controversia tributaria davanti alla commissione regionale per la società 'Ingross Levante spa' per un importo di circa 59 milioni di euro per gli anni d'imposta 1999-2003. "Questa è una vicenda che incide su uno dei fattori più allarmanti attualmente per la società, l'evasione fiscale", ha detto il procuratore di Bari Antonio Laudati. "Una clamorosa evasione fiscale - ha proseguito - fatta da grandi gruppi imprenditoriali. Parliamo di accertamenti fatti dalla Gdf per milioni e milioni di euro: un lavoro enorme che veniva vanificato attraverso una possibilità di aggiustamento in contenzioso delle commissioni tributarie". "L'indagine è ancora in corso - ha concluso il procuratore - quindi possono esserci ulteriori sviluppi". Nel corso dell'operazione i militari del nucleo di polizia tributaria delle Fiamme Gialle hanno anche sequestrato beni mobili e immobili per un valore di mercato pari a circa 200 milioni tra cui complessi aziendali, appartamenti e terreni.Tra le aziende sequestrate spiccano i nomi della Giovanni Putignano e figli srl di Noci, Ingros Levante cash&carry di Molfetta, Clinica Duo Salus di Bari, Consorzio Coimba trasporti di Bari.

PARLIAMO DEI GIUDICI DI PACE.

Condizionavano processi, arrestati tre giudici di pace, scrive “La Repubblica”. Sono accusati di corruzione in procedimenti giudiziari su sinistri stradali. Nominavano consulenti tecnici d'ufficio scelti per favorire avvocati conniventi dietro pagamento. I carabinieri della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e di Caserta hanno eseguito tre ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari emessi nei confronti di tre giudici di pace in servizio a Sessa Aurunca (Caserta), accusati di corruzione per atti contrari ai loro doveri d'ufficio e corruzione in atti giudiziari. Le indagini - avviate inizialmente dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e, successivamente condotte, per competenza, da quella di Roma - hanno consentito di appurare che i giudici hanno commesso, condizionando alcuni processi civili assegnatigli e relativi a sinistri stradali, "atti contrari ai doveri del proprio ufficio tra cui la nomina di consulenti tecnici d'ufficio (C.T.U.) su indicazione di terzi per favorire avvocati conniventi dietro corresponsione di denaro ed altre utilità".

A Bari invece, scrive “Il Corriere della Sera”, aragoste, salmone, caviale e champagne per le festività natalizie, il tutto in cambio della restituzione della patente revocata ai sorvegliati speciali. L’aspetto più clamoroso ed evidente di una fitta serie accordi e scambi di favore che tra il 2006 e il 2008 avrebbero «aiutato e orientato nelle decisioni» alcuni giudici di pace tra Bari e provincia. Quello ipotizzato dal sostituto procuratore della Repubblica di Lecce, Elsa Valeria Mignone, è un vero e proprio «sistema» clientelare, fatto di regali, intese, promesse reciproche e sentenze pilotate. Sono 28 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari notificati nei giorni scorsi dalla Procura del capoluogo salentino. Ventinove, invece, i capi d’imputazione a carico degli indagati, tra cui associazione a delinquere, falso, abuso d’ufficio e corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante delle modalità mafiose. Nell’inchiesta sono coinvolti 14 giudici di pace in servizio tra Bari, Bitonto, Corato e Modugno e almeno tre avvocati del Foro di Bari. Secondo quanto ipotizzato dall’accusa, in alcuni casi le sentenze emesse sarebbero state scritte di comune accordo con gli avvocati degli attori. In altri erano semplicemente «aggiustate» o «pilotate» per fare un favore a qualche amico. C’era poi chi, come Vito Squicciarini, insieme ai gdp Letizia Serini, Angelo Scardigno e Rocco Servodio (in servizio a Bitonto, dove la prima era coordinatore), Roberto Cristallini (di Corato), Pietro Mascolo e Roberto Sorino (di Bari, il primo ex vice coordinatore), si sarebbe fatto redigere le sentenze dagli avvocati, gli stessi che erano pronti a ricambiare il favore quando indossavano la toga in una diversa giurisdizione. Le sentenze aggiustate sarebbero centinaia, e sarebbero state utilizzate come moneta di scambio. Un sistema semplice e redditizio secondo la Dda di Lecce, in cui a guadagnarci erano sia gli avvocati, poiché si sarebbero assicurati un esito positivo della controversia, sia il giudice, che incassava senza fatica i 56,81 euro di compenso previsti dalla legge. Quello della restituzione della patente ad alcuni sorvegliati speciali è solo uno dei casi finiti sotto la lente della magistratura. Sarebbero state concordate anche sentenze più importanti, come quelle emesse dal Got di Altamura, Deborah Semidoppio: il giorno che nella sua aula si presenta Squicciarini (in qualità di avvocato di persone arrestate per furti o per detenzione di armi e droga), il giudice avrebbe emesso «provvedimenti di assoluto favore» come il ritorno in libertà e la restituzione dei beni sequestrati. In cambio il got avrebbe ricevuto bottiglie, aiuti per un trasloco e «provvedimenti di favore a vantaggio di persone di suo interesse». Nell’inchiesta anche l’ex giudice del Tribunale civile di Bari, Domenico Ancona (arrestato a febbraio 2008 con l’accusa di concorso in concussione), indagato con l’avvocato Vincenzo Sergio. Il legale avrebbe redatto le sentenze per l’ex magistrato assicurandosi così «la piena soddisfazione delle ragioni e la liquidazione delle spese in suo favore rispettivamente un euro 3.562 e 6.370». Almeno otto gli episodi contestati nel periodo tra febbraio e luglio 2006. A dare avvio all’inchiesta la Procura della Repubblica di Bari, con il sostituto procuratore Desirèe Digeronimo, nell’ambito delle indagini sul boss Bartolomeo Dambrosio, assassinato il 6 settembre 2010 nelle campagne di Altamura, nella Murgia barese. L’inchiesta, trasferita per competenza nel capoluogo salentino, è stata portata a termine dopo due anni di indagini condotte da parte della Direzione distrettuale antimafia leccese. Un’inchiesta che ha scoperchiato un vaso di Pandora di presunti illeciti e corruzione giudiziaria, e in cui presto potrebbero presentarsi numerose parti offese.

SFATIAMO UN TABU’ E ROMPIAMO L’OMERTA’. PARLIAMO PURE DEI MAGISTRATI TOGATI.

A come Alessandria: Due ore bastano a chiudere il caso: l'ex procuratore di Tortona Aldo Cuva, difeso dagli avvocati Giulio Bianchi e Sergio Badellino, il pm Giovanna Ichino e il gip Luisa Savoia concordano, fra le 10 e mezzogiorno, che un anno e dieci mesi saldano il conto con la giustizia del magistrato che indagò sui sassi dal cavalcavia di Tortona, accusato di falso e violenza privata. Cuva, precipitato dalle stelle alle stalle per aver catturato la (presunta) banda del cavalcavia che uccise Maria Letizia Berdini e pasticciato con le prove per incastrarla, lascia il settimo piano del Palazzo di Giustizia di Milano e ogni ambizione. Ha riconosciuto d'aver manipolato nastri e verbali, di aver indotto due impiegate a manomettere le prove di interrogatori un po' troppo serrati, ma la collega che lo accusa accetta di cancellare un'aggravante: quella di aver spinto Loredana Vezzaro, l'ex supertestimone, a calunniare se stessa e i suoi amici. Il ritocco al capo d'imputazione richiede la presenza in aula dell'ex procuratore. Cuva passa sotto le forche caudine delle telecamere e beve fino in fondo la coppa del disonore.

A come Ancona: Su un blog anonimo metteva alla berlina le sentenze impresentabili. E per un titolo impresentabile il Csm non lo ha confermato procuratore generale di Ancona. A dispetto del parere unanime e altamente positivo inviato al Csm dal consiglio dei colleghi del suo distretto. Per questo Gaetano Dragotto lascia la magistratura.

B come Bari: Sei i giudici del tribunale di Bari sono indagati dalla procura di Lecce (insieme con dieci imprenditori, avvocati e commercialisti) nell'ambito di una inchiesta su presunte irregolarità che sarebbero avvenute nel 2009 nella sezione fallimentare. Le ipotesi di reato sono corruzione per atto d'ufficio, peculato e usura. Ad agosto il pm inquirente, Antonio Negro, ha chiesto e ottenuto dal gip di Lecce Alcide Maritati la proroga per sei mesi delle indagini. Scrive “Il Corriere della Sera”. Tra gli indagati figurano l'attuale presidente della sezione fallimentare del tribunale, Franco Lucafò i suoi colleghi Enrico Scoditti e Anna De Simone. C’è poi il predecessore di Lucafò, il giudice Luigi Claudio, che ora guida la sezione Lavoro, nonché Maria Luisa Traversa, presidente della Terza sezione civile ed in precedenza addetta alle esecuzioni immobiliari. Ancora, il giudice Michele Monteleone, altro ex della Fallimentare barese che ora presiede la sezione Civile a Benevento. L’inchiesta della Procura di Lecce è partita lo scorso gennaio, dopo che a novembre 2011 Bari aveva trasmesso per competenza uno stralcio dell’indagine sull’avvocato Gaetano Vignola, indagato per peculato nell’ambito della sua attività di curatore fallimentare: i finanzieri, coordinati dal pm Ciro Angelillis, contestarono a Vignola di aver falsificato numerosissimi mandati di pagamento, con la presunta complicità di alcuni giudici e cancellieri. Il presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, interviene con una nota sulla notizia dell'inchiesta della Procura di Lecce nei confronti di alcuni giudici della Sezione Fallimentare del Tribunale precisando che «non è dato conoscere riferimenti specifici di reati ai singoli giudici, che si tratta di accertamenti in svolgimento, e che gli accertamenti sono derivati da denunzie puntuali presentate dagli stessi giudici (specificamente dal presidente della sezione Franco Lucafò in servizio alla sezione fallimentare da gennaio 2009)». Nella nota, Savino precisa, inoltre, che «senza imputazioni formali e in contesto di indicazioni approssimative e generiche, non è corretto pubblicare riferimenti titolati, tali da determinare pubblico discredito per l'attuale svolgimento della attività giurisdizionale dei magistrati facenti parte della sezione fallimentare da me apprezzata per competenza, professionalità e moralità, impegnati d'altronde nella gestione di complesse ed importanti procedure fallimentari e concordatarie». «La divulgazione sulla stampa di notizie sommarie in merito a indagini doverosamente avviate a Lecce, su denuncia peraltro del Presidente della Sezione Fallimentare di Bari Franco Lucafò, e ancora in fase di approfondimento», rischia «di ingenerare ingiustificato discredito sull'operato di una intera importante Sezione del Tribunale di Bari». Lo afferma in una nota il presidente della sezione barese dell'Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro. L'Anm parla di «frettolose, incaute indicazioni giornalistiche in ordine a un possibile personale coinvolgimento di magistrati in servizio alla stessa sezione fallimentare, senza però alcuna precisazione di fatti e circostanze o imputazioni a loro carico». Secondo Casciaro, si «rischia di ingenerare ingiustificato discredito sull'operato di una intera importante Sezione del Tribunale di Bari, e sui magistrati alla stessa addetti, ledendone il prestigio e alimentando, com'è agevole intuire, falsi convincimenti nell'opinione pubblica». Il commento:  come mai quando vengono divulgati notizie di accertamenti di privati cittadini l'Anm non prende la stessa posizione? E' l'occasione affinché la stessa possa proporre serie sanzioni disciplinari per la fuga di notizie nei confronti dei PM dal cui ufficio escono le stesse? Sarebbe credibile il rilievo se si andasse a tutto campo. Solo la casta va protetta? E la responsabilità patrimoniale del PM che sbaglia? Ma se è coinvolto un magistrato se ne può dare notizia? Ma un'inchiesta penale che riguarda i magistrati è una notizia che si può diffondere oppure no?" con questa domanda retorica il presidente dell'Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso, ha stigmatizzato le recenti iniziative di magistrati baresi che hanno richiesto ingenti risarcimenti in sede civile a giornalisti e testate locali, a seguito di notizie pubblicate ritenute lesive per giudici e ordinamento giudiziario". "Facciamo nostre le preoccupazioni dei colleghi che si occupano di cronaca giudiziaria che, nel regolare esercizio delle loro funzioni professionali si sono imbattuti in notizie riguardanti magistrati - ha detto Lorusso - ma evidentemente qualcuno si è sentito più 'cittadino' degli altri e ha adito alle vie legali Il riferimento è in particolare a una richiesta di risarcimento di un milione e 560mila euro ai danni di giornalisti ed editori delle tre principali testate regionali, dalla Gazzetta del Mezzogiorno alla Repubblica e Corriere del Mezzogiorno. A chiederlo con un'azione civile pendente presso il Tribunale di Lecce alcuni magistrati coinvolti nell'inchiesta sulla sezione Fallimentare del Tribunale di Bari, alcuni dei quali poi prosciolti o archiviati "come peraltro correttamente riportato dai colleghi stessi - ricorda Lorusso che ha citato l'articolo 3 della Costituzione sull'uguaglianza dei cittadini - e il diritto insopprimibile per i giornalisti di dare notizie e svolgere la loro funzione con lealtà e correttezza - concludendo con un invito ai colleghi interessati - a continuare a svolgere in serenità il proprio lavoro". Anche il neoeletto presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Puglia Valentino Losito, ha espresso la solidarietà dell'Ordine ai colleghi "che hanno fatto il loro mestiere di cronisti. Noi vigiliamo sul rispetto delle regole deontologiche da parte della nostra categoria ma anche quando viene messo in discussione il diritto di cronaca e di critica dei poteri forti - ricordando il detto - noi non siamo contro il Palazzo, siamo fuori dal Palazzo". Ed ancora. Sei magistrati del Tribunale di Bari sono stati rinviati a giudizio con l'accusa di falso in atto pubblico e peculato, in seguito ad un'inchiesta approfondita condotta dalla stessa Procura di Lecce che ha preso avvio da una querela nei confronti di un avvocato, Gaetano Vignola, indagato per peculato riguardo all'attività di curatore fallimentare, scrive “Oggi Notizie”. Il sostituto procuratore Ciro Angelillis ha coordinato le indagini della Guardia di Finanza che in precedenza aveva contestato a Vignola l'accusa basata sulle prove di una falsificazione di numerosi attestati di pagamento, con la presunta complicità di alcuni giudici e cancellieri del tribunale. Dallo scorso settembre l'inchiesta è passata nelle mani del pubblico ministero Antonio Negro, il quale ha richiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari, Alcide Maritati, una proroga di sei mesi per giungere alla conclusione delle indagini che si erano suddivise in due branche. Una prima indagine ha coinvolto l'ex presidente del tribunale fallimentare, Luigi Claudio (attualmente passato al Tribunale del Lavoro) nonché il presidente della IIIa Sezione Civile, Maria Luisa Traversa e Michele Monteleone giudice del tribunale di Bari e quindi di Benevento e legato all'avvocato Vignola. Secondo l'accusa, il giudice Monteleone è quello la cui posizione sarebbe più compromessa, in quanto, all'epoca in cui era giudice fallimentare, nel 2003, aveva determinato una spaccatura all’interno del Consiglio Giudiziario della Corte d’Appello di Bari. L'assegnazione dell'ufficio di giudice fallimentare era infatti molto contesa con una concorrente, il giudice Anna De Simone, a sua volta indagata, e il caso era finito anche al Consiglio Superiore della Magistratura. Per il giudice Monteleone, originario di Foggia, i capi d'accusa sono di truffa, peculato e falso in atto pubblico, in relazione ai presunti illeciti legati alla gestione Vignola. In totale l'inchiesta ha portato alla luce una decina di procedimenti fallimentari che sarebbero stati illecitamente gestiti da Vignola, con un ammanco di oltre 10 milioni di euro. Le indagini si sono poi concentrare anche su una serie di fallimenti avvenuti fino al 2009, che includono la vendita di immobili. Per i magistrati Traversa e Claudio le accuse ipotizzate non si estendono a tutti i capi d'imputazione, mentre risulterebbe differente la posizione dell’attuale presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Bari, Franco Lucafò, e dei colleghi Anna De Simone ed Enrico Scoditti. Nell’ambito dell’inchiesta il pm Negro ha nominato alcuni consulenti di parte per una serie di verifiche il cui esito non è ancora stato depositato. Oltre ai sei giudici, sono indagate altre dieci persone fra professionisti, imprenditori, commercialisti e avvocato, che farebbero parte, secondo le indagini accusatorie, di una vera e propria associazione a delinquere. Un ipotesi che tempo fa era già stata proposta dal procuratore di bari, Antonio Laudati, e quindi dal sostituto Ciro Angelillis, i quali hanno evidenziato un meccanismo incentrato sul rapporto venditore-acquirente nel caso di una compravendita di un immobile. Le Fiamme Gialle avevano a loro volta ipotizzato un giro di tangenti a molti zeri, fra imprenditori e professionisti e curatori fallimentari. Un secondo filone di indagine ha portato gli investigatori dalla Puglia all'Emilia Ramagna, a Rimini e San Marino, seguendo le tracce di un ex dirigente di un noto marchio della vallata del Rubicone e del fratello, Franco e Sergio Rossi. Con loro indagati anche i due commercialisti Lorenzo Ferrari ed Enzo Zafferani, oltre all'avvocato riminese Michele Di Lella. Ed ancora. C´è il racconto della vittima, le dichiarazioni dell´imprenditrice che, ha spiegato, per ottenere l´esecuzione di un decreto ingiuntivo avrebbe dovuto pagare una tangente di 15 mila euro, scrive Gabriella De Matteis su “La Repubblica”. Ma nell'inchiesta che ha portato all'arresto del giudice Domenico Ancona e del geometra Domenico Lorusso ci sono anche le testimonianze di cinque avvocati. Civilisti che al sostituto procuratore Guglielmo Cataldi hanno raccontato degli strani rapporti tra il magistrato e il professionista, consulente del Tribunale. Le deposizioni dei legali, ragiona il gip Ercole Aprile, «confermano l'esistenza di un'anomala e sospetta forma di "connubio" tra il giudice Ancona ed alcuni professionisti baresi, tra cui il geometra Lorusso, da tanti notati nel mentre "stazionavano" con abitualità nei locali dove il primo tiene le sue udienze civili, da questo beneficiati di ripetuti conferimenti di incarichi come consulenti tecnici d'ufficio e di successivi provvedimenti di liquidazioni di onorari di eccessiva entità». Domenico Ancona, quindi, era un giudice chiacchierato. Di lui, nei corridoi del Palazzo di Giustizia di piazza De Nicola, si parlava anche per la precedente inchiesta, quella per la quale era stato rinviato a giustizia. Indagine che il giudice, nell´ordinanza di custodia cautelare, cita. Parlando di Domenico Ancona e Domenico Lorusso, il gip Aprile parla di una «"professionale" propensione al malaffare nel settore giudiziario e ad una loro abituale tendenza all´abuso della qualità e ad un distorto esercizio dei poteri connessi ad un ruolo, quello di giudice, cui, invece, si riconnette un corretto ed equilibrato mantenimento della democratica e civile convivenza civile». Domenico Ancona ora è stato sospeso, un provvedimento automatico dopo la notifica del provvedimento cautelare. Mercoledì sarà ascoltato dal gip. «Chiariremo tutto» spiega il legale Alfredo Margilio. Lunedì, invece, sarà interrogato Domenico Lorusso (difeso dall´avvocato Michele Colaleo). Parlando del geometra, il giudice ricorda la precedente inchiesta, quella conclusasi per Ancona con un rinvio a giudizio e per il professionista e per il giudice Michele Salvatore con una condanna a quattro anni. Era ancora una volta la brutta storia di una tangente, pretesa dai due magistrati e da Lorusso, nel ruolo di intermediario. È il geometra, secondo la ricostruzione dell´accusa, a mostrare alla vittima una copia del provvedimento, oggetto della "mazzetta". «Manoscritto che - scrive il gip Aprile - in occasione di una perquisizione eseguita nella sua abitazione da ufficiali di polizia giudiziaria, aveva tentato di distruggere, mettendolo in bocca e masticandolo». Per Domenico Ancona e Domenico Lorusso, la procura di Lecce, competente ad indagare sui magistrati del distretto del capoluogo pugliese, aveva chiesto la custodia cautelare in carcere. Il gip ha scelto i domiciliari, «misura che - scrive - allo stato, sembra adeguata a recidere i legami tra i due e l´ambiente giudiziario nel quale operano». E poi....Il Csm: "Così la Digeronimo aveva contrasti con i colleghi". Le accuse: "Improprie commistioni personali", scrivono Gabriella De Matteis e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Una lettera di convocazione di otto pagine. Una relazione con la quale la prima commissione del Csm contesta al pubblico ministero Desirèe Digeronimo "l'intervenuta impossibilità di continuare a svolgere con piena indipendenza ed imparzialità le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica di Bari". E' un vero e proprio atto di accusa quello che il Csm mette nero su bianco per spiegare l'apertura di una procedura di incompatibilità per il magistrato barese. "Dalle dichiarazioni rese davanti alla Prima commissione emerge, come dato costante, il suo isolamento all'interno della procura". La relazione è suddivisa in capitoli. C'è quello ad esempio che riguarda i "rapporti con i colleghi dell'ufficio". Spiega la prima commissione: "Non pochi risultano essere anche i contrasti con i colleghi che lei tende a giustificare con implicazioni politiche delle sue indagini o con sentimenti di invidia nei suoi confronti". Il Csm ha ascoltato dieci, tra magistrati e giudici. E così riassume il senso della maggior parte delle audizioni. "Nelle difficoltà incontrate dai colleghi nell'approccio con lei, vi sono evidenti ricorrenze: "La collega di fronte al dissenso o all'obiezione è portata ad attuare un retropensiero, a pensare che il dissenso sia per ragioni diverse"; "viola gli accordi presi ed arrogante nei modi", "ci sono state delle discussioni molto aspre, io assolutamente non lo posso negare", "ho dovuto dar ragione a chi da anni mi diceva: "Attenta, è una accentratrice, è una collega che non ha rispetto degli altri, che non collabora con gli altri"". E ancora, la prima commissione fa notare: "Più di uno ha riferito di una vicenda riguardante la dottoressa Ginefra, in lacrime per essere stata aggredita ed umiliata da lei". Così conclude allora il Consiglio Superiore della Magistratura: "Fa riflettere, inoltre, la circostanza che i suoi più importanti rapporti amicali si siano interrotti, a dire delle interessate, non già come - come lei sostiene - per la delicatezza e la rilevanza politica delle indagini da lei svolte, bensì per il suo modo di interpretare la sua funzione e di relazionarsi alle persone". Nella relazione della prima commissione, c'è anche un capitolo che riguarda i "rapporti con giudici e avvocati". Un rapporto che "sembrerebbe difficile, a volte conflittuale". "Anche la sua condotta in udienza non sembrerebbe caratterizzarsi per sobrietà e rispetto degli altri attori del processo. "E' nota la sua pretesa di essere sentita sempre per prima, com'è noto che quando non vengono eseguite le sue indicazioni arriva in udienza (...) sbatte i suoi fascicoli, si siede sbuffando al banco presso cui il pm esercita le proprie funzioni (...)... alcune volte ha rapporti anche abbastanza conflittuali con il collegio"". Agli atti degli accertamenti preliminare, condotti dal Csm, c'è anche l'esposto presentato da un avvocato al Consiglio dell'Ordine e alla Camera Penale. Secondo l'avvocato, dopo uno screzio in aula, la pm avrebbe esclamato un "A' la guerre comme a la guerre" promettendo di "non voler soprassedere" più su "fantomatiche intercettazioni telefoniche" in suo possesso che riguardavano avvocati. Ma è l'ultimo il capitolo più delicato, quello che la prima commissione così introduce: "Improprie commistioni tra i suoi rapporti personali e la funzione svolta". Ed il riferimento è "alle relazioni con Patrizia Vendola, sorella del presidente della Regione Puglia, con la dottoressa Cosentino, direttore dell'Asl di Bari, con la dottoressa Paola D'Aprile, medico personale di quest'ultima". Un magistrato, ad esempio, ha assistito ad una telefonata tra la D'Aprile e la Cosentino. D'Aprile che poi avrebbe passato il cellulare alla Digeronimo. "Anche altro giudice ha riferito di incontri tra lei, la dottoressa Cosentino e la dottoressa D'Aprile che, per modi e circostanze, le sembrarono strani, tanto da sentire la necessità di parlarne ad altri colleghi". Ora la Digeronimo fornirà la sua versione dei fatti nell'audizione dinanzi alla prima commissione fissata il 9 luglio. Poi il Csm deciderà se disporre il trasferimento o archiviare il caso. Digeronimo contro tutti “Vittima del complotto”, scrive “Gabriella De Matteis” su “La Repubblica”. Una Memoria di 18 pagine. Con allegate anche le foto scattate a due feste di compleanno. Il pm Desirèe Digeronimo chiede il trasferimento, ma alla prima commissione del Csm che ha aperto una pratica di incompatibilità trasmette una relazione. È il suo punto di vista, la sua difesa dalle contestazioni messe nero su bianco dal Csm nell'atto di incolpazione. Digeronimo nega un suo «isolamento» all'interno della procura. O meglio, scrive nella memoria, «esso risale all'estate del 2009 e solo ed esclusivamente in ragione delle maldicenze e calunniose affermazioni che hanno visto protagonisti un ristretto numero di colleghi, ben individuabili del resto alla luce di quanto emerso nelle stesse audizioni espletate dalla commissione». Le foto, quindi. Come le immagini scattate alle feste, organizzate per due suoi compleanni, nel 2005 e nel febbraio del 2009 e ora allegate alla memoria. «Almeno sino alla primavera del 2009 - dice la Digeronimo - allorquando prendeva avvio l'inchiesta sulla sanità regionale pugliese con il coinvolgimento dell'ex assessore regionale Tedesco Alberto, i rapporti in ufficio e con gli stessi che oggi mi accusano erano improntati ad assoluta cordialità». E non solo, secondo il pubblico ministero, all'interno delle aule di giustizia. «Ancora prima in occasione della festa per il mio 40° compleanno nel 2005, le fotografie mostrano la presenza affettuosa e divertita di quasi tutti i magistrati del circondario di Bari da me frequentati per motivi di lavoro e amicizia in quel momento. Presenze assolutamente ricorrenti alle mie feste e cene compresa l'ultima del febbraio del 2009». Motivando la decisione di aprire una pratica di incompatibilità, il Csm aveva scritto: «Nelle difficoltà incontrate dai colleghi nell'approccio con lei, vi sono evidenti ricorrenze: "La collega di fronte al dissenso all'obiezione è portata ad attuare un retropensiero, a pensare che il dissenso sia per ragioni diverse"; "Ho dovuto dar ragione a chi da anni mi diceva: "Attenta, è una accentratrice, è una collega che non ha rispetto degli altri, che non collabora con gli altri». Contestazioni alle quali il pubblico ministero Digeronimo risponde così: «Il numero di procedimenti Dda co-assegnati (57) dimostrano in modo ampiamente significativo il rapporto di costante e serena collaborazione professionale con tutti i colleghi co-assegnatari». Il magistrato parla anche di una «costante e reiterata campagna giornalistica di deligittimazione nei miei confronti», condotta a suo dire da Repubblica e da un suo cronista. «È evidente - continua - che il giornalista goda di fonti informative spregiudicate e interne agli uffici istituzionali che cooperano con lui in una incessante e mirata distruzione dell'immagine della procura di Bari e della sottoscritta». Nell'atto di incolpazione della prima commissione c'era anche il riferimento a un episodio: «Più di uno ha riferito di una vicenda riguardante la dottoressa Ginefra, in lacrime per essere stata aggredita e umiliata da lei». Episodio che lei nega, parlando della Ginefra come di una collega «con la quale a oggi godo di ottimi ed affettuosi rapporti. Del resto - prosegue - far assurgere il "si dice" di un pettegolezzo di corridoio al livello di prova dei miei comportamenti scorretti e impropri non appare degno agli occhi di un operatore superiore di giustizia di ulteriore considerazione». La prima commissione del Csm aveva definito «difficile, a volte conflittuale» il rapporto con giudici e avvocati. «Descrizione assolutamente inventata» risponde il pm Digeronimo che aggiunge: «Non vedo come avrei potuto, con il comportamento che mi contesta, condurre a conclusione delicatissimi processi, ottenendo più di 600 condanne in primo grado». E sul capitolo, più delicato le «improprie commistioni tra i suoi rapporti personali e la funzione svolta», il magistrato dice: «Tutto ciò che è evidenziato nella comunicazione relativa alla mia amicizia con la D'Aprile, amica della Cosentino, evidentemente ritenuta strumentale a favorire la Cosentino, sarebbe interessante comprendere in che modo io abbia favorito la Cosentino, da me al contrario rinviata a giudizio, e per la quale non ho mai speso una parola nei confronti di nessuno». Il pm Digeronimo che ha inviato un esposto alla procura di Lecce ha concluso la memoria invocando il trasferimento, richiesta che sospenderà la procedura per incompatibilità. Assolti se a giudicare è un’amica. I pm che hanno sostenuto l'accusa contro Nichi Vendola per il caso della sanità in Puglia (dove è stato assolto) hanno scritto una lettera alla Procura di Bari per chiedere che si faccia chiarezza sulla presunta amicizia fra la sorella del governatore Patrizia Vendola e il giudice Susanna De Felice. I due pm infatti sostengono che Patrizia Vendola e il gup che ha prosciolto il leader di Sel con formula piena siano legati da "un'amicizia diretta" e da "frequentazione di amici in comune". Insomma, la De Felice avrebbe dovuto evitare di giudicare Vendola ma non l'ha fatto. Scrivono: "Dopo l'assoluzione che ha smentito in toto l'impianto accusatorio, siamo stati contattati da molti amici e colleghi che ci hanno chiesto come fosse stato possibile che a giudicare il governatore fosse stata un'amica della sorella". Sei i giudici del tribunale di Bari sono indagati dalla procura di Lecce (insieme con dieci imprenditori, avvocati e commercialisti) nell'ambito di una inchiesta su presunte irregolarità che sarebbero avvenute nel 2009 nella sezione fallimentare. Le ipotesi di reato sono corruzione per atto d'ufficio, peculato e usura. Ed ancora. Sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini per abuso d'ufficio al procuratore di Bari, Antonio Laudati, e al suo ex sostituto Giuseppe Scelsi. Il caso riguarda il procedimento penale sulle escort che l'ex imprenditore barese, Gianpaolo Tarantini, ha portato dall'ex premier Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Non è tutto. Il gup del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis è stato arrestato per detenzione illegale di armi. Ma non è solo questo. Dopo circa due ore e mezzo di camera di Consiglio, il Tribunale di Lecce ha emesso ieri sera la sentenza nei confronti dell'ex giudice onorario aggregato Italo Ferrieri Caputi, di 71 anni di Bari, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari. E poi, la polizia giudiziaria di Lecce ha arrestato il 19 febbraio 2008 un giudice del tribunale civile di Bari con l'accusa di concussione. Lo hanno riferito a Reuters fonti della polizia giudiziaria di Lecce che ha eseguito stamani l'ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Procura salentina, competente sulle indagini sui magistrati della Corte d'Appello di Bari. Il giudice, Domenico Ancona, è stato arrestato assieme al geometra Domenico Lorusso, perito del tribunale barese.

B come Biella: Fra i 40 e i 50 milioni di lire. Tale sarebbe stata la richiesta di Mario Conzo, ex presidente del tribunale di Biella, per favorire una transazione proposta da Francesco Franceschini, fondatore dell' omonimo Euromercato di Calenzano, nel fallimento del mobilificio Piemonte, già Aiazzone, di cui nel '97 aveva acquisito il marchio. Incastrato dalla moglie tradita, che il 28 marzo 2003 spifferò ai magistrati della procura di Biella la storia della tangente, il giudice Conzo, che nel settembre 2002 era andato prudentemente in pensione, ha ammesso di aver incassato da Viscomi il 3 gennaio 2002 l'equivalente in euro di 30 milioni.

B come Bologna: Chiamatelo pure l'armadietto della vergogna. Un normale mobile da ufficio a due ante, addossato ad un muro nella cancelleria della Procura di Bologna. Anonimo, probabilmente grigio. A stupire è il contenuto, 2.321 fascicoli di indagine per i quali il Tribunale aveva fissato la data d'inizio del processo. Ma invece di procedere con le citazioni a giudizio, ovvero le notifiche alle parti interessate, quei procedimenti sono stati messi sotto chiave. Ad ingiallire fino al sopraggiungere, nella maggioranza dei casi, della morte naturale, ovvero la prescrizione. Senza che nessun pubblico ministero sentisse la necessità di chiedere dove fosse andata a finire la sua inchiesta.

B come Bolzano: Un noto magistrato bolzanino in servizio da anni nel comparto penale è stato denunciato dalla moglie per percosse. La querela, decisa nell'ambito di una drammatica quanto difficile separazione coniugale (chiesta dalla donna), è finita sul tavolo del procuratore capo della Repubblica Cuno Tarfusser che ha inviato gli atti, per competenza, alla Procura della Repubblica di Trieste.

B Come Brescia: Tra i venti amministratori, funzionari ed appartenenti al corpo della Polizia Municipale di Castel Volturno, coinvolti nell'indagine della Squadra Mobile di Caserta, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia partenopea, figurano anche l'ex sindaco Francesco Nuzzo, magistrato alla Procura Generale di Brescia, che era a capo di una giunta di centrosinistra e l'attuale sindaco, Antonio Scalzone, del Pdl. Ed ancora. Non stava bene, il giudice. E non da ieri. A dire il vero, erano anni che aveva la testa altrove. Cinque anni. Così preso dai suoi problemi familiari, il magistrato, da accumulare fascicoli sulla sua scrivania. Un monte di carte. Però non s’è arreso. O meglio, non ha mollato la presa. Quell’ufficio l’ha tenuto occupato, pur facendo poco o nulla di quanto gli veniva richiesto. E anche se a mezzo servizio (e forse anche meno), ogni mese è passato all’incasso. Stipendio e anzianità di servizio. Insomma, quel che si dice una carriera. Finché il giocattolo si è rotto. Finché, cioè, qualcuno non ha presentato un esposto al Csm e una denuncia penale. Così il magistrato è stato rinviato a giudizio dal gip di Brescia con l’accusa di omissione in atti d’ufficio. Con il pubblico ministero che ne ha chiesto la condanna a 4 mesi. E con l’imputato che ha ammesso che era vero, aveva accumulato ritardi, ma il fatto è che la moglie l’aveva lasciato e per questo non riusciva più a lavorare. E per dire quanto stava male, ha spiegato che il problema non riguardava solo il caso per cui si trovava a processo, ma qualcosa come 300 (trecento!) fascicoli. E com’è andata a finire? Assolto nel giro di una mattinata. Per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè, mica colpa sua. È che da quando la consorte l’ha mollato non ce l’ha più fatta. La storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice della sesta sezione civile del Tribunale di Milano, parte da lontano.

B come Brindisi: La vicenda ha dell’incredibile ed a poco più di un mese dall’inizio del processo per direttissima a carico del reo confesso attentatore di Copertino Giovanni Vantaggiato, responsabile dell’esplosione del 19 maggio 2012 alla ‘Morvillo Flacone’ di Brindisi, forse è meglio che sia tutto stato archiviato. Il Procuratore Capo Marco Di Napoli, a pochi giorni dall’attentato e dalla morte di Melissa Bassi, era finito nel registro degli indagati per i reati di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. L’uomo, prima del Procuratore, capace di commuoversi di fronte alla morte di Melissa e al dolore delle famiglie se non dell’intera Italia, indagato dopo la segnalazione di alcuni poliziotti della DDA di Lecce, che avevano intercettato una telefonata del 13 giugno tra l’Avvocato di Vantaggiato, Franco Orlando e la moglie del presunto stragista. Dinapoli fu iscritto nel registro degli indagati perché invitò nel suo studio il legale della difesa l'avvocato Orlando per parlare del ricorso al riesame che lo stesso stava per presentare per il suo cliente, lo stragista Vantaggiato. La telefonata di invito fu intercettata e scoppiò il caso. Perchè lo fece dato che la competenza fu spostata a Lecce, dove se ne doveva occupare il procuratore dell'Antimafia Cataldo Motta, ravvisata, come fu, la potenzialità terroristica dell'atto di Vantaggiato, nonostante le tante perplessità negli uffici alti del tribunale brindisino? Uno scontro fra procure, insomma, dove la giustizia c'entra poco. Dinapoli secondo il pm della Procura di Potenza, Eliana Franco, che si è occupata del caso, fu 'inopportuno' ma non commise reato. Nella telefonata, il legale dice che Di Napoli l’ha cercato nel suo studio, ma lui non c’era. Agli inquirenti, quindi, Orlando dichiarerà poi di aver parlato con Di Napoli, dopo essere stato invitato in Procura, del ricorso del Riesame sul punto di essere depositato. Indaga la Procura di Potenza, con il PM Eliana Franco che giudica l’iniziativa di Di Napoli singolare ed inopportuna. Ma evidentemente non abbastanza per un rinvio a giudizio. La posizione del Procuratore Capo è stata così archiviata, ma restano i dubbi sul braccio di ferro, a questo punto ancora più evidente, tra le Procure di Brindisi e Lecce, già ai ferri corti sulle competenze del caso. Per la DDA si tratta di terrorismo. Non per la Procura di Brindisi, che non ha ravvisato l’aggravante nei confronti del 58enne di Copertino. La chiave di svolta del processo, con una confessione piena da parte di Vantaggiato, si gioca fondamentalmente, su questo piano. Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione. L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia. Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti. L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari verso alcuni organi di stampa". "In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. Ed ancora. Il gip Celementina Forleo perde la sua battaglia in tribunale. Aveva denunciato per negligenza il pm titolare delle indagini sulle misteriose telefonate che precedettero la morte dei genitori e poi aveva fatto ricorso in appello contro l'assoluzione. “La Repubblica” ne dà conto. Rigettato il ricorso in appello del gip di Milano Clementina Forleo contro il collega della procura brindisina Alberto Santacatterina. Il pm, oggi in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, era accusato di negligenza nella conduzione delle indagini sulle misteriose telefonate anonime che precedettero la morte di Gaspare Forleo e Stella Bungaro, i genitori di Clementina Forleo che morirono in un incidente stradale il 28 agosto del 2005. Ma lo stesso Santacatterina che il pubblico ministero dott. Alberto Santacatterina, in sede di requisitoria di altro processo, non solo ha chiesto l'assoluzione di tutti gli imputati, ma sembra aver loro espressamente e pubblicamente "chiesto scusa per l'inchiesta assurda che a suo giudizio non doveva neanche essere iniziata", testualmente aggiungendo: "mi vergogno di essere il rappresentante della pubblica accusa".

C come Cagliari: All'indomani della morte di Luigi Lombardini, il procuratore Giancarlo Caselli, tornato a Palermo con i suoi collaboratori, replica alle polemiche sull'interrogatorio dopo il quale il magistrato cagliaritano si è sparato: "Nessuno è stato torchiato"."Ci voleva il suicidio di Lombardini perché decidessero di occuparsi di quel che succede qua", commentava ieri, con sardo disincanto, un magistrato isolano. Eh sì, perché il palazzo di giustizia di Cagliari si chiama da molti anni "palazzo dei veleni". Proprio come quelli di Roma e di Palermo. Con una differenza: i veleni mafiosi palermitani e quelli politici romani sono sempre diventati, nel momento stesso della loro sintesi chimica, veleni nazionali, mentre i veleni sardi, fino al suicidio Lombardini, sono sempre rimasti sardi. Eppure con quelli nazionali avevano molti punti in comune. In alcuni casi li hanno anticipati.

C come Caltanissetta: A processo il magistrato che passava le carte al "Fatto". Gozzo, l'accusatore di Dell'Utri, a giudizio per violazione del segreto d'ufficio, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Finisce nei guai il procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, il pm - già accusatore di Marcello Dell'Utri - che coordina le nuove indagini sulle stragi del '92. Il Gip di Catania lo ha rinviato a giudizio per un reato difficilmente contestato alle toghe, violazione del segreto d'ufficio. Secondo l'accusa, sostenuta dal collega procuratore aggiunto degli uffici etnei Carmelo Zuccaro, sarebbe stato lui a «passare» al Fatto quotidiano le notizie relative ad alcune conversazioni intercettate, in carcere, tra il superboss Totò Riina e i suoi familiari. La prima udienza del processo si svolgerà a ottobre. Una bomba. Anche perché Nico Gozzo è uno dei magistrati di punta della Procura di Caltanissetta, il pm che sta riscrivendo la storia delle stragi, smantellando di fatto i primi processi sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio viziati dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. Processi istruiti quando a Caltanissetta era procuratore capo Giovanni Tinebra, che a propria volta adesso è procuratore generale a Catania, dove ora Gozzo dovrà presentarsi nell'insolita veste, per lui, di imputato. Che sulla pubblicazione di quelle intercettazioni (in una di esse Riina diceva: «Quest'anno la Juve è una bomba», frase letta come minaccia di attentato a uno dei pm della trattativa Stato-mafia) ci fosse una linea dura si era capito immediatamente. A ottobre del 2013, quando erano stati pubblicati gli articoli sul Fatto e sul quotidiano online LiveSicilia, era scoppiato il putiferio. E nel mirino in prima battuta erano finiti i giornalisti, i cronisti del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, e il cronista di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, sottoposti a perquisizione a casa e nelle redazioni. Proprio nell'abitazione di uno dei cronisti del Fatto sarebbero stati rinvenuti dei file che attestavano contatti col procuratore aggiunto nisseno. Immediata era stata l'apertura dell'inchiesta, trasferita a Catania per competenza, visto che è la procura etnea ad occuparsi di fatti che riguardano i magistrati nisseni. Ora l'udienza preliminare contro Gozzo. E il rinvio a giudizio del magistrato, che sarà difeso dall'avvocato palermitano Francesco Crescimanno. Il procuratore Gozzo indagato per aver passato notizie ad “Il Fatto Quotidiano”, scrive Emiliano Stella su “L’Ultima Ribattuta”. Che “Il Fatto Quotidiano” fosse un organo di stampa vicino alla Magistratura lo si era intuito. Scoop, esclusive, rivelazioni non si ottengono per caso. E l’indagine che vede coinvolto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo suona come una conferma di questo sospetto. Il giudice è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi (la Procura etnea è competente per le indagini sui colleghi nisseni), e su di lui pende la pesante accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procedimento è stato avviato dopo la pubblicazione di alcune conversazioni, intercettate in carcere, intercorse tra Totò Riina ed i suoi familiari. I dialoghi erano finiti sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, in articoli a firma di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed erano costituiti da frasi in apparenza innocue tipo: “Quest’anno la Juve è una bomba”. Passaggi attenzionati dagli inquirenti in quanto potenzialmente messaggi in codice, riferiti probabilmente al proposito di togliere rumorosamente di mezzo un magistrato palermitano che indaga sulla trattativa Stato-mafia. A seguito di questa pubblicazione furono perquisiti gli appartamenti dei due giornalisti de “Il Fatto”, in cui venne rinvenuto un pc contenente un file che indicherebbe Gozzo come l’autore della fuga di notizie. “Il Fatto Quotidiano”, nel dare la notizia, ha tracciato un profilo di Gozzo. “Per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo”. Un modo per rendere giustizia ad un Magistrato scivolato su una buccia di banana o l’ipotesi, nascosta tra le righe, che lo si voglia incastrare per un peccato veniale e sottrarlo alle sue scomode indagini?

C come Campobasso: Il dottor Antonio La Rana, sostituto procuratore presso la Corte d'Appello di Campobasso, è stato rinviato a giudizio con una serie di accuse. L'alto magistrato è accusato di di concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento personale, accesso abusivo al sistema informatico della procura di Vasto e rivelazione di segreti d'ufficio. Il rinvio a giudizio è stato disposto dal giudice per l'udienza preliminare di Bari, competente per i reati contestati ai magistrati in servizio in Molise. Insieme a La Rana sono state rinviate a giudizio altre 14 persone, tra cui tre carabinieri. Secondo il quadro accusatorio, il magistrato avrebbe interferito nelle attività amministrative del Comune di Vasto e nell'attività giudiziaria del tribunale della città adriatica. Il procuratore della Repubblica di Isernia, Antonio La Venuta, è indagato per abuso d'ufficio dalla magistratura barese. L'inchiesta riguarda presunti comportamenti messi in atto per ostacolare l'attività investigativa dell'allora comandante dei Carabinieri di Venafro, Antonio Bandelli. Il quale condusse le indagini che, nel 2004, portarono agli arresti su presunti abusi nella costruzione della variante di Venafro, appaltata dall'Anas per 80 milioni di euro.

C come Caserta: Il giorno degli arresti, due distinti signori si aggiravano nei corridoi della Procura colloquiando amabilmente con i giornalisti, chiedendo loro notizie sull'inchiesta, e soprattutto da quali fonti le avessero apprese. Erano due carabinieri in incognito, incaricati da uno dei magistrati titolari dell'indagine di prendere informazioni e redigere la relazione di servizio. C'è un'aria pesante al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e non da ieri. Sospetti, faide tra pubblici ministeri, denunce di abusi. E accuse di strabismo giudiziario nelle inchieste su appalti e sanità formulate dall'interno al procuratore capo Mariano Maffei, molto simili a quella che giungono ora da Clemente Mastella.

C come Catania: Chiese aiuto per nomina, Csm processa Pg Tinebra. Giovanni Tinebra davanti alle telecamere di Report si giustificava per la condotta dicendo “Tu hai un amico, gli parli dei tuoi problemi, non c’è niente di male”, scrive Sigfrido Ranucci su “Il Corriere della Sera”. Il procuratore generale di Catania, Giovanni Tinebra, il 17 luglio 2014 sarà sottoposto a un procedimento disciplinare con l’accusa di avere fatto un “uso strumentale” della propria qualità di pg della città etnea “per conseguire un ingiusto vantaggio e per condizionare il libero esercizio delle funzioni costituzionalmente previste” del Csm sul conferimento degli incarichi direttivi. In particolare, si legge nell’atto di incolpazione nei confronti di Tinebra, firmato dalla Procura generale della Cassazione, il magistrato “sollecitava” Massimo Ponzellini, all’epoca presidente della Banca popolare di Milano e un suo uomo di fiducia, Antonio Cannalire, perché “si attivassero presso persone di fiducia per contattare” il laico del Csm, Ettore Albertoni (Lega) “al fine di indurlo ad esprimere il voto favorevole” alla nomina di Tinebra a capo della Procura di Catania, incarico poi andato a Giovanni Salvi. Lo stesso Tinebra davanti alle telecamere di Report aveva sminuito l’importanza della sua condotta dicendo: “Tu hai un amico, gli parli dei tuoi problemi, non c’è niente di male”. E in risposta alla domanda di cosa c’entrasse Ponzellini con il Csm, Tinebra replicò: “niente. Lui ha un sacco di amici, a un certo punto ha detto ‘vabbè’...dico io chi sei, illustro la tua personalità”. E concludendo osservo’: “ma poi non sono pressioni...il Csm, si parte cosi’, funziona così” Di parere contrario invece la procura generale della Cassazione che ritiene che si è trattato comunque di una condotta “gravemente lesiva dell’immagine di magistrato” e dello stesso Csm”. L’accusa è pesante: aver chiesto aiuto, “avvalendosi dell’autorità derivante dal proprio ruolo istituzionale”, all’allora presidente della Banca popolare di Milano Massimo Ponzellini perché attraverso suoi contatti inducesse il consigliere laico del Csm Ettore Adalberto Albertoni (Lega) a sostenere la sua nomina a procuratore di Catania, scrive “Blitz Quotidiano”. E rischia di gettare un’ombra a fine carriera su uno dei magistrati più noti anche ai non addetti ai lavori: il procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra, che ha guidato a lungo la procura di Caltanissetta, da dove ha gestito le indagini sugli omicidi di Ciaccio Montalto, Antonino Saetta e Rosario Livatino e sulle stragi di Capaci e via D’ Amelio. E che in seguito è stato anche a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Da questa contestazione, formulata dalla procura generale della Cassazione, il Pg di Catania dovrà difendersi il 17 luglio prossimo davanti alla sezione disciplinare del Csm. E a difenderlo sarà un’altra “toga” di una certa visibilità: il pm della procura nazionale antimafia Antonio Patrono, che è stato presidente dell’Associazione nazionale magistrati negli anni di più acuto scontro tra giudici e politica. La vicenda che fa finire l’alto magistrato sotto processo disciplinare risale a tre anni fa, quando il Csm doveva appunto nominare il nuovo procuratore di Catania. Ma è venuta alla luce un anno dopo, a seguito delle intercettazioni compiute dalla procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex numero uno della Bpm. Secondo la ricostruzione contenuta nel capo di incolpazione, fu lo stesso Tinebra a sollecitare “in numerose occasioni”, Ponzellini e il suo uomo di fiducia Antonio Cannalire (poi finito anche lui sotto inchiesta), perchè “si attivassero” per arrivare ad Albertoni. Lo scopo era preciso: indurre il consigliere della Lega “a esprimere il voto favorevole alla nomina di Tinebra”, nella partita che lo vedeva contrapposto a Giovanni Salvi e a Giuseppe Gennaro. L’obiettivo era dunque quello di alterare “a proprio vantaggio, a seguito di pressioni di ambienti politico-finanziari del tutto estranei all’ordine giudiziario, la scelta dell’organo di autogoverno”. Un piano che comunque non riuscì: alla fine il plenum scelse sia pure sul filo di lana, Salvi, che passò per un pugno di voti, non rispetto a Tinebra, che ne prese solo due, ma rispetto al terzo concorrente Gennaro. Si è trattato comunque di una condotta “gravemente lesiva dell’immagine di magistrato” – sottolinea la procura generale della Cassazione – di cui peraltro lo stesso Tinebra parlò, “minimizzandola”, nel corso di un’intervista a Report: “tu hai un amico, gli parli dei tuoi problemi, non c’è niente di male”, disse allora il Pg. E in risposta alla domanda di cosa c’entrasse Ponzellini con il Csm, Tinebra replico’: “niente. Lui ha un sacco di amici, a un certo punto ha detto ‘vabbe’…dico io chi sei, illustro la tua personalità”. Il Pg escluse però che si trattasse di “pressioni” perchè “il Csm funziona così”.Tra 15 giorni si vedrà se la sua tesi reggerà davanti al “tribunale delle toghe”, come auspica il suo “difensore” che si dice “fiducioso” su un esito favorevole per il suo assistito.Una fotografia di diversi anni fa pubblicata oggi dal Fatto Quotidiano, a margine di un articolo firmato da Giuseppe Giustolisi, ha riacceso i riflettori sul cosiddetto “caso Catania”, una vicenda giudiziaria attraversata da ibride connessioni tra criminalità e frange della magistratura etnea. Nell'immagine riprodotta si distingue l'attuale procuratore aggiunto di Catania, Giuseppe Gennaro, seduto accanto all'imprenditore di San Giovanni La Punta (CT), Carmelo Rizzo, affiliato al potente clan Laudani e ucciso da Cosa Nostra nel 1997. Immediata è scattata la polemica e la relativa levata di scudi da parte del diretto interessato che ha annunciato querela per l'autore dell'articolo. Se ciò non bastasse. Dall'inchiesta svolta dalla Commissione Parlamentare Antimafia nel corso della XIII legislatura sul cosiddetto "caso Catania" sono emerse ipotesi gravissime di rapporti tra magistrati della Procura della Repubblica di Catania, esponenti politici ed associazioni mafiose che hanno dato luogo all'apertura di fascicoli d'indagine a carico di detti magistrati presso la competente Procura della Repubblica di Messina; Dal 27 marzo 2000, con atto ispettivo n. 4-29179 l'interrogante ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti; infatti, il tribunale di Messina è sede di inchiesta su alcuni magistrati catanesi; il tribunale di Reggio Calabria è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e catanesi; il tribunale di Catania è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e reggini; all'interrogante appariva, ad esempio, già allora inquietante la circostanza che uno degli inquirenti catanesi, titolare delle indagini sui colleghi messinesi e reggini, fosse egli stesso indagato a Messina; durante i lavori svolti dalla Commissione nazionale antimafia nella XIII Legislatura era già emerso il "caso Catania", con il coinvolgimento di magistrati della procura della Repubblica di Catania per i quali era stata aperta una fase di indagine da parte della procura della Repubblica di Messina.

C come Catanzaro: "Vivo e lavoro in Calabria, il luogo delle regole capovolte, la terra dell'inenarrabile che tuttavia vorrei provare a narrare. Perché da noi non accade nulla di diverso da quanto accade altrove, accade semplicemente di più. Siamo sempre dieci passi avanti nel declino civile, politico, istituzionale e forse potremmo descrivere il paesaggio dietro la curva che non avete ancora imboccato ...". Comincia così il racconto di Emilio Sirianni, giudice del lavoro a Cosenza. Calabrese, 47 anni, di cui 11 trascorsi nelle Procure della Regione, è un "giudice di frontiera", come si dice di chi lavora nelle "sedi disagiate" impegnate nella lotta alla mafia. Luoghi dove spesso si finisce non per scelta ma per necessità, con la speranza di andarsene, prima o poi, in una sede "agiata". Il suo è un racconto inedito, anche se qualche tempo fa lo ha in parte anticipato in un Congresso di "Magistratura democratica", gelando la platea. È il racconto della magistratura che in Calabria vive e lavora, ma non quella che solitamente finisce sulle pagine dei giornali, eroica o collusa a seconda dei casi. Una parte rilevante della magistratura calabrese non è affatto estranea al sistema criminale che gestisce affari in Calabria. Lo ha detto Luigi De Magistris, giudice del Riesame di Napoli, in un’intervista a Sky Tg24 del 18 ottobre 2008. E ha continuato: «Senza una parte della magistratura collusa, la criminalità organizzata sarebbe stata sconfitta. E il collante in questo sistema sono i poteri occulti che gestiscono le istituzioni. Io stavo indagando su questo fronte e ritengo che uno dei motivi principali del fatto che io sia stato allontanato dalla Calabria risiede proprio in questi fatti».

C come Cosenza: Foto pedopornografiche nel pc, Pm radiato dalla magistratura. Il Csm espelle il pm che aveva immagini pedopornografiche sul pc. Remer era accusato in particolare di aver scaricato da Internet un file con contenuto pedopornografico e di aver tenuto nel computer fisso e in quello portatile immagini di bambini nudi "ritratti in pose oscene e in attività sessuali anche con soggetti adulti". Per questa vicenda era stato condannato in sede penale in primo e secondo grado, ma la Cassazione ha annullato la sentenza d'appello, dichiarando i reati estinti per prescrizione. A carico del pm pendono un altro procedimento penale e un parallelo disciplinare per fatti analoghi. Il magistrato ha ribadito la sua innocenza, sostenendo di essersi imbattuto per caso in quelle immagini e di non averle mai cercate volontariamente. Il pm Paolo Remer si era salvato in Cassazione perché il reato era andato in prescrizione. Ma il suo ordine lo butta fuori: "Non è più credibile", scrive “Libero Quotidiano”. Pm radiato perchè in possesso di immagini pedopornografiche: Il Consiglio superiore della magistratura ha espulso dall'ordine giudiziario Paolo Remer, toga in servizio alla Procura di Rossano Calabro, già sospeso dalle sue funzioni per 3 anni per le grane giudiziarie in cui è caduto. Sui computer fisso e portatile del magistrato erano state trovate immagini di bambini nudi "ritratti in pose oscene e in attività sessuali anche con soggetti adulti", circostanza che gli sono valse una condanna in prima e secondo grado, prima che la Cassazione annullasse la sentenza della Corte d'Appello perché nel frattempo sopravvenuta la prescrizione. Ciò non ha però impedito che la sezione disciplinare del Csm ritenesse ormai irrecuperabile la perdita di credibilità di Remer, comminandogli la radiazione a termine di poco più di un'ora di riunione della camera di consiglio. L'ormai ex pm ha sempre sostenuto la propria innocenza ("Immagini scaricate in maniera involontaria"), è atteso dagli sviluppi di un altro procedimento penale e un secondo procedimento disciplinare. La sanzione più dura nel verdetto della sezione disciplinare del Csm. Paolo Remer, in servizio a Rossano Calabro, da tre anni era sospeso dalle funzioni, accusato di aver scaricato le immagini da Internet nei suoi computer. Il magistrato ha affermato di essersi imbattuto per caso in quei file. Ma per la Procura Generale della Cassazione, la sua credibilità era ormai irrecuperabile, scrive “La Repubblica”. - La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha radiato dall'ordine giudiziario il pm Paolo Remer, in servizio a Rossano Calabro e da 3 anni sospeso da funzioni e stipendio dopo che nel 2004 nel suo computer erano state trovate foto di pedopornografia. In dettaglio, Remer era accusato di aver scaricato da Internet un file con contenuto pedopornografico e di aver immagazzinato nel computer fisso e nel portatile immagini di bambini nudi "ritratti in pose oscene e in attività sessuali anche con soggetti adulti". Per questa vicenda, il magistrato era stato condannato in sede penale in primo e secondo grado, ma la Cassazione aveva annullato la sentenza d'appello, dichiarando i reati estinti per prescrizione. A carico del pm pendono un altro procedimento penale e un parallelo disciplinare per fatti analoghi. A chiedere la radiazione per Remer è stata, in rappresentanza della Procura generale della Cassazione, il sostituto Pg Betta Cesqui, che ha definito "irrecuperabile" la perdita di credibilità del magistrato. Remer ha invano ribadito anche oggi la sua innocenza, dicendo di essersi imbattuto per caso in quelle immagini e di non averle mai volontariamente cercate. Il verdetto della Sezione disciplinare, presieduta da Annibale Marini, è arrivato al termine di una camera di consiglio durata poco più di un'ora. L'ormai ex magistrato Remer rimase invischiato in un'inchiesta sulla pedopornografia nel 2004, che aveva coinvolto altre centinaia di persone che in tutta Italia avevano scaricato immagini pedopornografiche da un sito Internet. Gli investigatori avevano trovato immagini pedopornografiche nei due computer in uso a Remer. Che difeso dall'avvocato Franco Morozzo Della Rocca, nel corso dell'udienza davanti alla sezione disciplinare del Csm ha respinto le accuse. "E' una vicenda che ho subito - ha detto Remer al Csm - mi sono imbattuto in quelle immagini, ma nessun elemento oggettivo e soggettivo può stabilire che io abbia cercato, procacciato o salvato quelle immagini. Sono il primo a ritenere ripugnanti quelle foto di pedopornografia". "La tutela e il rispetto dell'innocenza dell'infanzia sono tra i più profondi e sentiti - ha detto nel corso dell'udienza il sostituto pg, Elisabetta Cesqui -. E la violenza dell'adulto su un minore si realizza nel momento in cui con immagini viene ripresa. Vi è inoltre una rinnovazione della violenza ogni volta che qualcuno la vede, la ricerca e l'acquisisce. Il reato espone in ogni caso l'autore rispetto alla propria credibilità e al proprio prestigio". Angela Napoli, chiede un'ispezione ministeriale presso il tribunale di Cosenza. Dopo il servizio del settimanale "L'Espresso", che si è occupato della questione parentele nel palazzo di Giustizia cosentino. La deputata di An, componente della commissione nazionale antimafia, con una specifica interpellanza, chiede al ministro della Giustizia, di mandare gli ispettori al tribunale di Cosenza, per accertare se vi sia o meno l'ipotizzata "parentopoli" ovvero l'intreccio di parentele fra magistrati, politici e imputati, situazione che avrebbe condizionato vari processi penali e civili. Si sollecita, dunque, un'ispezione "per accertare l'esistenza di situazioni di potenziali incompatibilità a carico di magistrati in servizio presso
 quel tribunale".[...]

C come Cremona: Il togato di Unicost Fabio Roia, ha chiesto al Comitato di presidenza del Csm di aprire una pratica per indagare sui pm che si sono occupati del caso di Gaetano De Carlo, l’uomo che ha ucciso due ex fidanzate prima di suicidarsi. Nelle poche righe di richiesta, Roia, riferendosi alle notizie di stampa secondo cui De Carlo era stato "denunciato 7 volte per condotte persecutorie nei confronti delle vittime", fa notare che è "opportuno verificare la veridicità" delle notizie.

F come Ferrara: Rinviata a giudizio per aver criticato il primo pm che indagò sulla morte violenta del figlio. Eppure, non fosse stato per la sua ostinazione di madre, forse le indagini sulla fine di Federico Aldrovandi si sarebbero impantanate in quell’incredibile versione ufficiale per cui il ragazzo era deceduto in seguito all’assunzione di droghe, durante un controllo di polizia particolarmente movimentato. Invece Patrizia Moretti non si arrese, aprì un blog che attirò l’attenzione di tutta l’Italia sulla vicenda e di fatto riuscì a imprimere una svolta decisiva all’inchiesta: quattro poliziotti furono poi condannati in primo grado per eccesso colposo in omicidio colposo del giovane 18enne, morto per le botte prese mentre era ammanettato a terra. Non solo, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento danni da due milioni di euro in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile.

F come Firenze: Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un'accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica  su “Il Giornale”. Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro. I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti paralleli a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione». Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith. Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti. Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. Le reazioni «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino. Quella strana condanna del Pm Giuliano Mignini, scrive Adriano Lorenzoni su Terni in rete. Di fatto bloccate le indagini perugine sui mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Nel gennaio del 2010 il Pubblico Ministero di Perugia, Giuliano Mignini e l'ex capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, sono stati condannati dal Tribunale di Firenze con l'accusa di abuso d'ufficio in una inchiesta relativa al filone di indagini perugine collegate a quelle relative ai "mandanti" dei delitti del mostro di Firenze. Secondo la tesi accusatoria Mignini e Giuttari avrebbero intercettato e indagato illecitamente giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per condizionarne la loro attività. Un procedimento anomalo visto che il PM Mignini era stato regolarmente autorizzato dal GIP di Perugia ad avvalersi del mezzo delle intercettazioni per le sue indagini, atti che aveva il dovere di compiere. Un procedimento anomalo perché a condurre le indagini contro Mignini e Giuttari è stata quella stessa Procura della quale il Pm di Perugia, ne aveva indagato il capo, Ubaldo Nannucci. Non a caso il dottor Mignini ha eccepito la incompetenza funzionale di quella Procura a svolgere le indagini ed ha sollevato eccezioni di nullità della sentenza. Sarà la corte d'appello di Firenze il prossimo 22 novembre a decidere sulla questione. Tutto nasce da una registrazione effettuata da Michele Giuttari di un suo colloquio con il sostituto procuratore di Firenze, Paolo Canessa nel quale Canessa afferma che il suo capo non era un uomo libero e confessa di essere stato bloccato da quest'ultimo, cioè dall'allora Procuratore Ubaldo Nannucci in merito alle richieste dello stesso Giuttari relative all'inchiesta sui delitti del mostro di Firenze. Giuttari trasmette la registrazione a Mignini il quale la gira alla Procura di Genova competente ad indagare sui magistrati di Firenze. Il Procuratore Nannucci verrà inquisito per aver rallentato, anzi ostacolato le indagini sul mostro di Firenze. Genova archivierà subito. E' ancora Giuttari a lamentarsi con Mignini per il comportamento del questore di Firenze, De Donno il quale, come disposto dal Ministero dell'interno, avrebbe dovuto provvedere all'istallazione della sala intercettazioni del G.I.DE.S , (gruppo investigativo delitti seriali) dove si erano sistemati Giuttari e i suoi uomini, cosa che non fa. Mignini lo incrimina e manda il fascicolo a Firenze. Viene da chiedersi : dov'è l'abuso d'ufficio? Viene anche da chiedersi il perché di tanto apparente disinteresse nei riguardi delle indagini condotte da Michele Giuttari, laddove non vengono ostacolate. " Non bisogna farle le indagini sui mandanti, perché sono solo illazioni " , una inutile perdita di tempo , si sente dire Giuttari. Sorprendente. Finchè si indagano i compagni di merende, va tutto bene. Va bene Pacciani, va bene Lotti , va bene Vanni. Quando si alza il tiro cominciano a sorgere i problemi. Michele Giuttari viene addirittura sollevato dall'incarico e trasferito. Al PM Mignini viene perquisito l'ufficio e gli vengono sequestrati atti di una indagine in corso, quella sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, atti sui quali aveva eccepito il segreto, inutilmente. Anche in questo caso viene da chiedersi perché tanta paura ( a Firenze e a Perugia ) dell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci? Secondo il PM perugino , Francesco Narducci era collegato , in qualche modo, con le vicende del mostro di Firenze. Giancarlo Lotti, uno dei compagni di merende, sostenne che ad un dottore venivano consegnate le parti di corpo femminile amputate, in cambio di denaro. Delitti, quindi, su commissione. Di un dottore. Un dottore, non un farmacista, Francesco Calamandrei, di San Casciano val di Pesa. Tra l'altro , nell'inchiesta è emerso che Calamandrei e Narducci si conoscevano. Narducci morirà in circostanze niente affatto chiare il 13 ottobre del 1985. Annegato nelle acque del lago Trasimeno. Un mese dopo l'ultimo omicidio commesso dal mostro di Firenze. Suicidio si sostenne all'epoca. Una verità assai poco credibile. Tanto che il Gip Marina De Robertis ha archiviato con formula dubitativa l'ipotesi dell'omicidio a determinati indagati ( il giornalista Mario Spezi, il farmacista di San Casciano , Calamandrei e altri ) e ha dichiarato prescritti ma esistenti i reati commessi all'epoca in materia di occultamento e sottrazione di cadavere e di falsificazione di numerosi documenti pubblici. Inoltre, dall'aprile scorso, si attende di conoscere le motivazioni con le quali, a vario titolo, anche con formule dubitative, il Gup, Paolo Micheli, ha assolto una ventina di persone ( anche il padre e il fratello di Narducci ) dalle accuse di falso, associazione per delinquere, omissione di atti di ufficio e occultamento di cadavere. Avverso questa decisione del Gup, Il PM Mignini proporrà , verosimilmente, appello e ricorso non appena verranno depositate le motivazioni che avrebbero dovuto essere depositate il 20 luglio scorso. Gli stessi Mignini e Giuttari sono stati , invece, assolti perché i fatti non sussistono ( e la Procura di Firenze non si è appellata ) dall'accusa di abuso di ufficio ( e Mignini anche dal favoreggiamento nei confronti di Giuttari ) relativamente ad accertamenti cosiddetti paralleli a quelli della Procura di Genova che stava indagando l'ex capo della mobile di Firenze per falso, per via di quella registrazione del colloquio con il sostituto Canessa ( di cui abbiamo parlato precedentemente ) registrazione che , secondo l'accusa, era stata manomessa. Inchiesta, questa, che ha poi portato alla perquisizione dell'ufficio del PM di Perugia e al sequestro di numerosi atti di indagine. Inutile aggiungere che il procedimento a carico di Giuttari e di due poliziotti si è concluso un una sentenza di non luogo a procedere per assoluta insussistenza del fatto, emessa dal GUP genovese Roberto Fenizia. Una condanna " anomala " quella di Giuliano Mignini che, non ha però subito conseguenze disciplinari di alcun tipo. Il procedimento disciplinare è infatti sospeso sino alla definizione del procedimento penale dal quale dipende. e il PM. Mignini ha potuto continuare a svolgere le sue funzioni , anche in processi importantissimi e di rilievo internazionale , come quello relativo alla morte della studentessa inglese, Meredith Kercher. «La massoneria perugina sapeva che Francesco Narducci, il medico annegato nel lago Trasimeno nell'ottobre 1985, era coinvolto nei delitti del "Mostro di Firenze", ma decise di non far trapelare nulla per evitare che fossero coinvolti tutti». Una nuova testimonianza nell' inchiesta sui mandanti degli omicidi compiuti in Toscana tra il 1968 e il 1985 svela intrecci finora insospettabili, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. E delinea nuove responsabilità di chi avrebbe tentato di nascondere la verità. Sono centinaia i verbali raccolti negli ultimi due anni dai pubblici ministeri umbri e fiorentini che stanno cercando di identificare i componenti della congrega che avrebbe armato la mano dei «compagni di merende». Ma anche di individuare chi provocò la morte del medico perugino. Gli accertamenti svolti sinora portano infatti a escludere che Narducci sia stato vittima di un incidente mentre era in barca, come si era pensato fino a due anni fa. «È stato ucciso - ribadiscono gli inquirenti - e la sua morte è certamente legata agli assassinii delle coppiette». È stato Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un'indagine personale sulla vicenda, a rivelare il ruolo della massoneria, alla quale lui stesso apparterrebbe. E le sue dichiarazioni sono state poi confermate da altre persone che frequentavano la famiglia Narducci. «Il padre del medico - ha raccontato Benedetti - faceva parte della loggia Bellucci e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l'autopsia sul cadavere del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un'associazione segreta denominata "la setta della rosa rossa". Al momento dell'iniziazione era al livello più basso, ma dopo un po' di tempo aveva raggiunto il ruolo di "custode". Già nel 1987 si disse che poteva essere uno dei "mostri" e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere alcune indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare nulla perché altrimenti c'era il rischio che venissero coinvolti tutti». Tra i testimoni ascoltati dai magistrati c'è anche Augusto De Megni, nonno del bimbo rapito nel 1990, per anni al vertice del Grande Oriente d' Italia. «So che Narducci andava a Firenze - ha confermato - e che frequentava giri poco raccomandabili». Secondo le indagini compiute sinora il dottore potrebbe essere stato il «custode» dei reperti genitali asportati alle vittime. E adesso si sta verificando se possa esserci un nesso tra la sua morte e la spedizione di un lembo di seno di Naudine Mauriot al pubblico ministero Silvia Della Monica. L'omicidio della francese e del suo compagno Jean-Michel Kraveichvili avvenne l'8 settembre agli Scopeti. Recentemente si è scoperto che la coppia era in Toscana per partecipare a pratiche esoteriche e che sarebbe poi rimasta vittima di un rito satanico. Un mese dopo il delitto scomparve il dottor Narducci. Era in ospedale a Perugia e dopo aver ricevuto una telefonata andò via sconvolto. Di lui non si seppe più nulla fino al 13 ottobre, quando il suo cadavere affiorò a circa duecento metri dalla riva. Alcuni testimoni dell' epoca hanno raccontato che aveva numerosi ecchimosi, ma la famiglia si oppose allo svolgimento dell'autopsia. Soltanto due anni fa si è scoperto che i rilievi del medico legale furono effettuati sul corpo di una persona alta almeno cinque centimetri più del dottore. Un'evidente sostituzione sulla quale dovranno adesso fornire spiegazioni alcuni familiari di Narducci e il questore dell' epoca Francesco Trio, tutti indagati per occultamento di cadavere. «Dalle lettere anonime che attribuivano un ruolo a Narducci e ai suoi amici di Firenze come mandanti dei delitti - ha dichiarato ieri Michele Giuttari, capo della squadra investigativa -, siamo passati alle testimonianze dirette. Tanti sapevano e ora hanno parlato». L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive il Prof. Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti.  (Io speriamo che non mi suicido). Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello stato, continua il Prof. Paolo Franceschetti. Una strage di stato mai chiamata come tale. Premessa. Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del mostro di Firenze. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di stato italiane: l’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Ripercorriamo quindi le tappe della vicenda per poi trarre le nostre conclusioni. Con la dovuta avvertenza che il nostro articolo non è volto a individuare nuove piste; non vogliamo discutere se Pacciani fosse o no colpevole, se il mostro fosse uno solo o fosse un gruppo organizzato, se dietro ai delitti del mostro ci sia la Rosa Rossa, come si è ipotizzato, o altre sette sataniche. Vogliamo analizzare la cosa dal punto di vista prettamente giuridico, evidenziando alcuni dati che nessuno finora ha abbastanza trattato. Il processo Pacciani. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. Ricordiamoci questo particolare del pube, perché lo riprenderemo in seguito. La vera e propria caccia al mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal mostro. C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti - non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno. Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo. Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la procura di Firenze, sospetta un omicidio. Il caso Narducci. Nel 2002 l’indagine sul mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico Perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985. Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il PM di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile. Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci, e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci, il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli. Depistaggi e coperture eccellenti. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare. In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un indagine del genere senza commetterne); la procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento massoneria – delitti del mostro – sette sataniche vengono querelati anche se le querele verranno poi ritirate. Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali di cui non vengono informati gli inquirenti. Il PM Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narduci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti. Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro - anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla procura di Genova che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial Killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 - non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial Killer è un mostro isolato, ancora in libertà. Morti sospette. Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico Perugino trovato morto nel lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani per la quale la procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna. Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo, di cui ci siamo già occupati. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati. Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi, e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i compagni di merende, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo) Gabriella Pasquali Carlizzi, dandogli alcune informazioni sul mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un porta asciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderla più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto - l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!? Conclusioni. La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. In realtà, in questa vicenda molte cose sono chiare, molto più chiare di quanto non sembri a prima vista. Leggendo attentamente i fatti e i documenti è possibile farsi un’idea della vicenda, e delle motivazioni che spingono alcune delle persone coinvolte. Ma non è mio intendimento fare ipotesi, smontare tesi o costruirle. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì“aria fritta” l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un indagine importante compare il binomio massoneria – servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione. Ancora una volta la massoneria deviata riesce a mostrare tutta la sua forza, riuscendo a tacitare ogni tipo di delitti, purché siano coinvolte persone a loro legate. Non solo colpi di stato, stragi e altro, ma addirittura delitti come quelli del Mostro di Firenze. Il che porta a concludere che anche i morti legati alla vicenda Mostro di Firenze, che non sono solo le sedici vittime ufficiali, ma anche tutte le altre (i testimoni soppressi brutalmente e gli omicidi non individuati ufficialmente) possono essere considerati una strage di stato. L’ennesima strage compiuta con la connivenza di pezzi dello stato, resa possibile sia dalle complicità ad alto livello, sia dall’ignoranza degli organi investigativi, dalla loro impreparazione riguardo al modus operandi e alla struttura delle logge massoniche deviate e in particolare delle sette sataniche. Ancora una volta viene in evidenza poi la totale inutilità delle norme giuridiche e processuali. Finché un PM che avvisa un indagato commetterà un reato minimo; finché l’occultamento di prove o di un fascicolo agli inquirenti, subirà un pena minima, destinata tra l’altro ad andare in prescrizione; finché l’operato dei servizi segreti rimarrà sempre impunito in nome del cosiddetto segreto di stato; finché il tempo massimo per le indagini preliminari, anche in reati così complessi, continueranno ad essere due anni; finché avremo questo sistema, insomma, la macchina giudiziaria sarà sempre paralizzata nel perseguimento di questo tipo di delitti, cioè i delitti che vedono coinvolti, a vario titolo, i colletti bianchi nel coprirsi a vicenda i reati da ciascuno di loro commessi. Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: “Certo Paolo che dietro ai delitti del mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi… Un tempo, se toccavi il tasto mafia – politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione… insomma ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di stato, ce ne sono molti altri, Rom, immigrati clandestini, ecc. che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente”. E mi ha anche detto i nomi di alcune persone coinvolte, tra l’altro chiaramente ricavabili dal fatto di essere proprietarie dei luoghi in cui si svolgevano questi riti. Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anche io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere, e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. 18 vittime ufficiali che potevano essere nostri amici, nostri partner, o potevamo essere noi; decine di vittime nella mattanza dei testimoni e delle persone coinvolte; centinaia di famiglie inconsapevoli coinvolte nella vicenda, che escono distrutte, alcune perché vittime del mostro, altre perché sospettate di essere familiari di un mostro. Il vero mostro in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello stato. Il mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli. Bibliografia. Se molti in questi anni hanno cercato di nascondere la verità, è anche vero che, come dice un detto famoso, la verità non si può nascondere per sempre. Per chi vuole cercarla e capire segnaliamo due testi. Michele Giuttari, Il mostro anatomia di un indagine, BUR. Una cosa che mi colpisce leggendo il libro di Giuttari è che quando parla dei depistaggi e degli occultamenti vari non nomina mai la massoneria. Parla di un “partito avverso”. Anche se, leggendo, non è difficile intuire cosa sia questo partito avverso, non si capisce se la cosa sia voluta o casuale. Questi legami vengono descritti meglio nel libro: Luca Cardinalini, Pietro Licciardi, La strana morte del dottor Narducci, ed. Deriveapprodi. L'idea del titolo non è nostra, ma di Piero Licciardi; è lui che definisce il Mostro di Firenze “una piovra che si insinua nello Stato". Dieci anni fa il PM di Firenze Gabriele Chelazzi aveva scoperto tutto su sui cedimenti e ricatti della mafia ai tempi del governo di centro sinistra guidato da Ciampi e delle bombe di Cosa nostra del 1992/1993, le mosse del ministro Conso, le manovre del Presidente Scalfaro. Poche ore prima di morire stroncato da un infarto a 59 anni nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2003 Chelazzi scrisse una lettera finora tenuta nascosta. Un atto di accusa gravissimo. «Da oltre 2 anni - denuncia Chelazzi - mi trovo a lavorare da solo su una vicenda che ha a che fare con “qualcosa”come sette fatti di strage compiuti dalla più pericolosa organizzazione criminale europea.» E' deluso e disilluso. E descrive il suo stato d'animo a Nannucci: «A proposito dello scetticismo non nego che ripetutamente mi è parso di cogliervi addirittura un retropensiero secondo il quale il mio impegno in questo lavoro al contempo dipenderebbe da un mio capriccioso accanimento e da un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi». Ed ancora. Simone Innocenti su “Il Corriere fiorentino” racconta che in un afoso pomeriggio delle scorse settimane un avvocato fiorentino ha imboccato via Borgognissanti, sede del Comando provinciale dei carabinieri. Lo ha fatto per andare a sporgere una querela contro una persona. Una persona che, dice lui, conosce da svariati anni. La storia della vittima, in due parole, è questa: lui rincasa dall’ufficio, parcheggia la macchina nei pressi della sua abitazione e va a letto. Poi si sveglia per tornare al lavoro e, immancabilmente, nota dei graffi sulla carrozzeria del mezzo. Non capisce chi sia l’autore di quei danneggiamenti e non riesce proprio a farsene una ragione. All’inizio pensa che sia una specie di avvertimento da parte di qualcuno perché quando fai l’avvocato ti capita di incontrare di tutto nella tua vita lavorativa. Ma non riesce ad arrivare a nessuna conclusione anche perché lui è affetto da un handicap: qualcuno si diverte ad accanirsi sul suo mezzo parcheggiato nel posto per invalidi. Proprio per questo motivo, con uno stratagemma, riesce a immortalare il presunto autore di almeno un danneggiamento. E quando lo riconosce, trasecola: a danneggiare la sua auto è infatti una persona che ha conosciuto per lavoro. Non è un collega, ma un magistrato che adesso è in pensione. Non basta. Tutta la stampa nazionale ne ha parlato. E' stato condannato a 15 anni di reclusione, tre dei quali condonati, Sebastiano Puliga, il giudice fallimentare del tribunale di Firenze. Era accusato di corruzione, peculato, abuso d'ufficio, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta. Il giudice è stato inoltre interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e condannato al risarcimento dei danni delle parti civili. Il tribunale di Genova ha estinto il rapporto di lavoro del magistrato. E poi la ciliegina. «Galeotte» sono state le locandine. Le locandine di uno spettacolo benefico, la rappresentazione in un teatro di periferia della commedia «La fortuna di perdere», pièce sui pericoli delle vincite plurimiliardarie, affisse anche al tribunale di Firenze. Già, perché proprio lì, tra le austere aule in cui ogni giorno va in scena la giustizia, l’autore e interprete della commedia, Bruno Maresca, 59 anni, napoletano, è una celebrità: non tanto, o almeno non solo, come attore e drammaturgo, ma soprattutto come magistrato di punta. «Galeotte», si diceva, quelle locandine. E la passione per il teatro. Già, perché si dà il caso che il dottor Maresca da tre mesi, per l’amministrazione della giustizia, sia in malattia, convalescente dopo un delicato intervento chirurgico al cuore. E così la domanda è nata spontanea: malato per fare il giudice ma non per fare l’attore?

F come Foggia: Concorso in corruzione in atti giudiziari e rilevazioni del segreto di ufficio. Sono le accuse che la Procura di Santa Maria Capua a Vetere muove al procuratore capo del Tribunale di Foggia, Vincenzo Russo, nell'ambito dell' inchiesta su Clemente Mastella, sua moglie Sandra, e l'Udeur campano.

G come Genova: Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto. Un servizio su Alberto Landolfi. “Imbarazzo su un PM di Genova. Una sua foto su Facebook mentre imbraccia un mitra gli sta costando il nomignolo di PM "Rambo". Magistrato di punta della procura di Savona, poi distaccato in Bosnia Erzegovina per oltre un anno come esperto di criminalità. E non solo. Il questore Filippo Piritore prova a giocare d'anticipo con il procuratore reggente di Genova, Vincenzo Scolastico: «È una faccenda delicata...» premette per introdurre l'argomento. Le cose stanno così, spiega: sulla sua scrivania è arrivata una denuncia per danneggiamento che rischia di mettere in imbarazzo il palazzo di giustizia genovese. Un tizio che vive in un bel palazzo del centro città, dice, si è presentato al commissariato e ha firmato la denuncia contro un vicino di casa allegando al verbale anche le registrazioni di una telecamera nascosta piazzata sulla porta di casa. Detto così sembra un fatto di poco conto. Routine. Ma c'è l'altra faccia della medaglia: il nome del denunciato. Si chiama Ezio Castaldi ed è un sostituto procuratore generale. Sarebbe lui l'uomo che si vede trafficare per incollare fino a rendere inservibile la serratura del vicino.

I come Imperia: Il magistrato è accusato di corruzione. Avrebbe concesso sconti di pena e altri favori ad esponenti della criminalità organizzata locale. Sotto la lente di ingrandimento anche successioni, assegnazioni in aste giudiziarie, fallimenti e dispute per questioni di eredità. Arrestato il presidente del tribunale, Gianfranco Boccalatte. Il magistrato era accusato di corruzione nell'ambito di una inchiesta che, alla fine di gennaio, aveva portato in carcere il suo autista.

I come Isernia: Il procuratore della Repubblica di Isernia, Antonio La Venuta, è indagato per abuso d'ufficio dalla magistratura barese. L'inchiesta riguarda presunti comportamenti messi in atto per ostacolare l'attività investigativa dell'allora comandante dei Carabinieri di Venafro, Antonio Bandelli. Il quale condusse le indagini che, nel 2004, portarono agli arresti su presunti abusi nella costruzione della variante di Venafro, appaltata dall'Anas per 80 milioni di euro.

L come L’Aquila: L’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e poi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e il presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato dal cancelliere Scarpone. Il presidente del Tribunale di Teramo Antonio Cassano e l’ex gip di Teramo, nonché ex Giudice responsabile del Tribunale di Giulianova e poi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila Aldo Manfredi, sono iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Campobasso. All’origine dell’inchiesta, un esposto - denuncia presentato da un cancelliere in servizio nella sezione distaccata del Tribunale, a Giulianova, Guerino Scarpone, che avrebbe documentato esattamente un anno fa tutta una serie di presunte irregolarità legate alle procedure di vendita giudiziaria degli immobili.

L come La Spezia: Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto. Un giudice del tribunale di La Spezia è stato indagato per aver tagliato le gomme dell'auto di una collega. Il procedimento aperto dalla procura di Torino, competente per i reati che riguardano i magistrati della Liguria. L'episodio quando nel parcheggio sotterraneo del tribunale spezzino la donna scoprì il danneggiamento all'auto. Da lì partirono le indagini, con tanto di telecamere poste dalla polizia giudiziaria. Passò un altro mese e nuovamente la donna trovò le gomme bucate. Ma a questo punto le telecamere hanno inchiodato il giudice che stava danneggiando l'auto della collega. Ora dovrà rispondere di danneggiamento aggravato.

L come Latina: Corruzione e falso, arrestati giudice e cancelliere a Latina, scrive “la Repubblica”. Corruzione in atti giudiziari, concussione, turbativa d'asta, falso. Sono alcune delle accuse contestate a otto persone ai quali la squadra mobile di Latina ha notificato ordinanze di custodia cautelare emesse dai giudici di Perugia e di Latina. Tra gli arrestati, quattro in regime di detenzione in carcere e altrettanti ai domiciliari, anche un magistrato e un cancelliere in servizio presso il tribunale del capoluogo, alcuni professionisti e un sottufficiale della Guardia di Finanza. Al giudice andava una percentuale dei compensi che, in sede di giudizio, lo stesso giudice riconosceva ai consulenti. Le indagini avrebbero accertato come i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest'ultimo una percentuale  dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Il filone di indagine ha permesso anche di svelare altri illeciti sullo svolgimento delle aste disposte dal Tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione. Latina: aste truccate, arrestati un giudice e la moglie, indagata anche la suocera. In manette in tutto 8 persone: fra loro commercialisti, una cancelliera del tribunale e un imprenditore, scrive Michele Marangon su “Il Corriere della Sera”. Un sistema di corruzione consolidato all’interno del tribunale fallimentare di Latina: è quanto scoperto dalle procure della Repubblica di Perugia e Latina, dopo mesi di indagini, anche di carattere patrimoniale, che hanno portato all’arresto - tra carcere e domiciliari - di otto persone: tra loro un giudice del tribunale e a moglie. Le ordinanze sono state eseguite dalla squadra mobile pontina guidata da Tommaso Niglio. Carcere per il giudice della fallimentare Antonio Lollo, per il consulente del tribunale Vittorio Genco, per i commercialisti Marco Viola e Massimo G. (quest’ultimo non ancora raggiunto formalmente dalla polizia). Ai domiciliari la cancelliera Rita Sacchetti, l’imprenditore calabrese Luca Granato, un maresciallo della guardia di Finanza e la moglie di Lollo, Antonia Lusena. Indagata per riciclaggio, e in odore di arresto, anche la suocera del giudice. Spiega la questura di Latina:«I reati contestati vanno dalla corruzione, alla corruzione in atti giudiziari, alla concussione, all’induzione indebita a dare o promettere denaro od altra utilità, alla turbativa d’asta, al falso ed alla rivelazione di segreto nonché all’accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico aggravato dalla circostanza di rivestire la qualità di pubblico ufficiale. Le indagini - spiega la nota - coordinate dalle autorità giudiziarie del capoluogo pontino ed umbro, erano state avviate in seguito ad una denuncia presentata presso la procura della Repubblica di Latina, in cui si prospettavano fatti di bancarotta nell’ambito di un concordato preventivo. Ben presto lo sviluppo dell’attività investigativa, delegata alla squadra Mobile di Latina, ha portato alla luce un consolidato sistema corruttivo, grazie al quale i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest’ultimo una percentuale dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso». Sono inoltre emersi svariati illeciti volti ad influenzare il corretto svolgimento delle aste disposte dal tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione nelle procedure concorsuali. Nel corso delle indagini sono stati accertati molteplici accessi abusivi al sistema informatico del registro generale della Procura della Repubblica di Latina, al fine di consentire ad alcuni soggetti sottoposti ad indagine di poter eludere le attività investigative a loro carico, attraverso la conoscenza di dati coperti da segreto istruttorio. Presto saranno disposti anche sequestri patrimoniali a carico dei soggetti arrestati. Latina, retata al tribunale fallimentare: arrestati magistrato, cancelliere, sottufficiale Gdf, tre commercialisti, scrive Andrea Palladino il 20 marzo 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. "In qualche maniera ‘sti soldi li devo riciclà come cazzo faccio sennò?", spiegava ad un uomo di sua fiducia il giudice Antonio Lollo, finito in manette insieme ad altre sette persone. Secondo l’accusa vi era un consolidato sistema corruttivo, grazie al quale i consulenti nominati dal magistrato gli corrispondevano una percentuale dei compensi che lui stessi gli aveva liquidato. Orologi, gioielli, viaggi e mazzette alla vecchia maniera. Per un totale di un milione di euro. Questo era il prezzo – ricostruito dalla Procura di Perugia – per aggiustare i fallimenti davanti ad un giudice di Latina, Antonio Lollo, arrestato venerdì dalla squadra mobile, insieme ad altre sette persone. “Volevo fare una sorta di tetris con gli smeraldi, gli orecchini e un anello… se ci hai o con rubini, preferisco lo smeraldo… mi piacerebbe l’idea di un anello, diamanti, smeraldo, tutti smeraldi, un bel bracciale”, spiegava il magistrato – intercettato – al gioielliere di fiducia nella centrale Via Cavour di Roma, mentre sceglieva il miglior regalo per la moglie (anche lei arrestata). Acquisti che per gli investigatori servivano a ripulire i soldi che Lollo avrebbe ricevuto illecitamente da alcuni commercialisti, nominati consulenti per gestire fallimenti milionari nella zona di Latina: “Prima mi ero già comprato una casa, due, non lo posso fare, a chi cazzo le intesto … in qualche maniera ‘sti soldi li devo riciclà come cazzo faccio sennò?”, spiegava ad un consulente di sua fiducia. Alla fine di una complessa inchiesta condotta congiuntamente dalle procure di Latina e Perugia (competente per i reati commessi dai magistrati laziali) oltre al giudice sono finiti agli arresti un cancelliere, un sottufficiale della Guardia di Finanza in servizio presso la Polizia giudiziaria della Procura di Latina, due commercialisti e un imprenditore. I reati contestati vanno dalla corruzione, alla corruzione in atti giudiziari, alla concussione, all’induzione indebita a dare o promettere denaro od altra utilità, alla turbativa d’asta, al falso ed alla rivelazione di segreto nonché all’accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico aggravato dalla circostanza di rivestire la qualità di pubblico ufficiale. Secondo l’accusa nel Tribunale di Latina vi era un consolidato sistema corruttivo, grazie al quale i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest’ultimo una percentuale  dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Un sistema oliato, che sarebbe stato promosso dallo stesso magistrato, che vedeva – alla fine – la “sterilizzazione” dei fondi delle società finite in concordato o fallimento, con un danno per i creditori. In sostanza – secondo l’accusa – i conti di molte imprese sarebbero svuotati, mentre i curatori passavano una percentuale dei guadagni al magistrato. I passaggi ricostruiti dal Gip che ha emesso le misure cautelari mostrano un meccanismo quasi perfetto. Per prima cosa Lollo suggeriva ai futuri liquidatori come far arrivare i fascicoli sulla sua scrivania: bastava cambiare la sede sociale prima di presentare i libri in Tribunale, scegliendo la capitale pontina come sede legale. Per essere sicuri di ottenere l’assegnazione del procedimento al giudice Lollo, i commercialisti arrestati cambiavano poi lo stesso nome della società, sapendo che al magistrato toccavano i fascicoli sulle ditte comprese tra la lettera A e la G. Antonio Lollo – da anni in servizio al Tribunale di Latina – avrebbe creato, secondo l’accusa, una fitta rete di complicità, in grado di avere informazioni confidenziali anche sulle eventuali indagini in corso. Il maresciallo della finanza Roberto Menduti, arrestato insieme al giudice, secondo la squadra mobile di Latina, avrebbe consultato abusivamente il registro della Procura, su richiesta di Lollo, per verificare l’esistenza di indagini sul gruppo. Una circostanza che ha portato i magistrati della Procura di Perugia a contestare l’accesso abusivo a sistemi informatici. Ed ancora. L’interrogazione chiede se non si ritenga che la circostanza che i due figli del Procuratore della Repubblica di Latina esercitino l’attività forense nel circondario giudiziario di Latina potrebbe costituire motivo evidente di incompatibilità ambientale per lo stesso Procuratore; se non si ritenga che i fatti esposti potrebbero integrare gli estremi di un “caso giustizia” in provincia di Latina; se non si ritenga, alla luce dei fatti esposti, che sia da escludere una permanenza nell’incarico di Procuratore Capo per altri quattro anni, peraltro in deroga a quanto disposto dalla normativa di riorganizzazione degli organi giudiziari promossa dall’ex Ministro della giustizia Clemente Mastella.

L come Lecce: La vicenda ha dell’incredibile ed a poco più di un mese dall’inizio del processo per direttissima a carico del reo confesso attentatore di Copertino Giovanni Vantaggiato, responsabile dell’esplosione del 19 maggio 2012 alla Morvillo Flacone di Brindisi, forse è meglio che sia tutto stato archiviato. Il Procuratore Capo Marco Di Napoli, a pochi giorni dall’attentato e dalla morte di Melissa Bassi, era finito nel registro degli indagati per i reati di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. L’uomo, prima del Procuratore, capace di commuoversi di fronte alla morte di Melissa e al dolore delle famiglie se non dell’intera Italia, indagato dopo la segnalazione di alcuni poliziotti della DDA di Lecce, che avevano intercettato una telefonata del 13 giugno tra l’Avvocato di Vantaggiato, Franco Orlando e la moglie del presunto stragista. Dinapoli fu iscritto nel registro degli indagati perché invitò nel suo studio il legale della difesa l'avvocato Orlando per parlare del ricorso al riesame che lo stesso stava per presentare per il suo cliente, lo stragista Vantaggiato. La telefonata di invito fu intercettata e scoppiò il caso. Perchè lo fece dato che la competenza fu spostata a Lecce, dove se ne doveva occupare il procuratore dell'Antimafia Cataldo Motta, ravvisata, come fu, la potenzialità terroristica dell'atto di Vantaggiato, nonostante le tante perplessità negli uffici alti del tribunale brindisino? Uno scontro fra procure, insomma, dove la giustizia c'entra poco. Dinapoli secondo il pm della Procura di Potenza, Eliana Franco, che si è occupata del caso, fu 'inopportuno' ma non commise reato. Nella telefonata, il legale dice che Di Napoli l’ha cercato nel suo studio, ma lui non c’era. Agli inquirenti, quindi, Orlando dichiarerà poi di aver parlato con Di Napoli, dopo essere stato invitato in Procura, del ricorso del Riesame sul punto di essere depositato. Indaga la Procura di Potenza, con il PM Eliana Franco che giudica l’iniziativa di Di Napoli singolare ed inopportuna. Ma evidentemente non abbastanza per un rinvio a giudizio. La posizione del Procuratore Capo è stata così archiviata, ma restano i dubbi sul braccio di ferro, a questo punto ancora più evidente, tra le Procure di Brindisi e Lecce, già ai ferri corti sulle competenze del caso. Per la DDA si tratta di terrorismo. Non per la Procura di Brindisi, che non ha ravvisato l’aggravante nei confronti del 58enne di Copertino. La chiave di svolta del processo, con una confessione piena da parte di Vantaggiato, si gioca fondamentalmente, su questo piano. Ed ancora Magistrati nel mirino dell'impunità. La Procura della Repubblica di Lecce ha chiesto, per la seconda volta, l’archiviazione del fascicolo d’inchiesta, ma il giudice per le indagini preliminari del capoluogo salentino, Vincenzo Brancato, non ha condiviso le conclusioni dell’ufficio del pubblico ministero e ha ritrasmesso al pm Giovanni De Palma, gli atti per la formulazione dell’imputazione, dunque coatta, a carico di Antonio Savasta, barlettano, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Trani. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I reati ravvisati dal gip sono: appropriazione indebita, esercizio arbitrario delle proprie ragioni e truffa. A quest’ultimo proposito il gip ha inoltre ritenuto che “sussistono le aggravanti, stante la qualità del dr. Savasta e l’oggettiva rilevanza economica del danno patito dalle parti offese”: i coniugi barlettani Giuseppe Dimiccoli e Filomena Di Lillo. I fatti, e dunque le accuse, non riguardano l’attività di magistrato di Savasta, ma vicende personali. Quelle relative al contratto preliminare d’acquisto della masseria San Felice che sorge, e da qualche anno è attiva, nell’agro di Bisceglie dopo una serie di opere di ristrutturazione. Secondo quanto ravvisato dal gip di Lecce, l’appropriazione indebita riguarderebbe “i proventi dell’attività commerciale esercitata presso la masseria San Felice”, nonché il mobilio dei coniugi Di Miccoli-Di Lillo che arredano la masseria, non restituiti nonostante un’espressa richiesta. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, secondo il gip, si sarebbe concretizzato nella sostituzione della serratura del portone d’ingresso d’accesso alla masseria. Infine, l’ipotesi di reato di truffa aggravata sarebbe consistita “nel simulare, attraverso la formazione di un’apposita scrittura privata, la volontà di Savasta di trasferire ai denuncianti Dimiccoli e Di Lillo una porzione della masseria San Felice”. Savasta prima avrebbe indotto in errore i coniugi facendo sì che gli corrispondessero la consistente somma di 400mila euro e poi avrebbe rifiutato la stipula del contratto di compravendita, trasferendo ai suoi familiari la masseria oggetto del contratto preliminare”. Per il gip, gli artifizi e i raggiri si sarebbero realizzati anche “per effetto dell’influenza esercitata dalla caratura e competenza giuridica del promettente venditore (Savasta) e dalla garanzia di affidabilità che ne conseguiva e che egli assicurava”. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo. Al Presidente della Repubblica, in occasione di questa cerimonia, rivolgo un rispettoso saluto e il ringraziamento di cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo, per averci tirato fuori dalla palude, per averci fatto svegliare da una sorta di incubo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto a Lecce il 28 gennaio 2012, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Non solo. I due magistrati leccesi che hanno condotto le indagini sull'omicidio di Peppino Basile (ex consigliere provinciale di Idv di Lecce assassinato ad Ugento tra il 14 e il 15 giugno 2008), Giovanni De Palma e Simona Filoni, sono stati denunciati alla Procura della Repubblica di Potenza per omissione d'atti d'ufficio. L'esposto è stato presentato dagli avvocati dei due Vittorio Luigi Colitti, nonno e nipote di 68 e 21 anni, ritenuti dagli inquirenti responsabili della morte del politico ugentino. Colitti junior a dicembre è stato assolto dall'accusa di omicidio ma la Procura ha proposto appello contro la sentenza, il processo a carico del nonno, invece, inizierà il 6 ottobre davanti alla Corte d'assise di Lecce. La denuncia, firmata dagli avvocati Francesca Conte e Roberto Bray e inoltrata anche alla Procura generale presso la Corte di Cassazione e alla Procura generale di Lecce, si basa sulle presunte omissioni nelle indagini sul delitto, legate all'esistenza di una serie di lettere tra Giovanni Vaccaro e Giorgio Pio Bove, che indicherebbero una pista alternativa per spiegare la morte di Basile. Una pista che inizialmente era stata presa in considerazione dalla Procura ordinaria e da quella dei minori, ma poi fu bollata come inconsistente dai magistrati, che individuarono in antichi rancori tra vicini il movente del delitto e nei due Colitti gli assassini. Ed ancora. Se si trattava degli amici, la giustizia a Taranto poteva diventare strabica. E all'occorrenza anche cieca. Da questa accusa ora dovranno difendersi due alti magistrati, sospettati di aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina dietro una carica dirompente l'indagine condotta dai giudici di Potenza sul conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del palazzo di giustizia ionico. I pm Cristina Correale e Ferdinando Esposito hanno messo sotto inchiesta l'ex procuratore capo di Taranto Aldo Petrucci, poi alla guida della procura minorile di Lecce, e l'ex coordinatore dell'ufficio gip-gup Giuseppe Tommasino. Ed ancora. Una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione di un salentino, Giorgio Romano, che – secondo primi accertamenti – avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie. Non solo. in data 21 febbraio 2003 la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, accogliendo la richiesta formulata dal procuratore generale presso la Cassazione, ha disposto in via cautelare la sospensione dalle funzioni di giudice del dott. Vittorio Gaeta, del tribunale di Lecce; tale sospensione, in attesa delle determinazioni definitive della medesima sezione disciplinare, è intervenuta di fronte all’imputazione, rivolta allo stesso Gaeta, di avere, quale presidente del tribunale del riesame di Lecce nel giugno 2002, redatto più provvedimenti di revoca della custodia cautelare in carcere per soggetti detenuti per gravi reati (con imputazioni ricollegabili alla criminalità mafiosa), la cui posizione o non era stata esaminata in camera di consiglio da tutti i componenti del riesame, o addirittura era stata definita a maggioranza nel senso del rigetto del ricorso.

L come Livorno: Sei condanne e 2 assoluzioni per Elbopoli. Dopo sei ore di camera di consiglio, nell’aula del tribunale di Genova entra il collegio con la sentenza di Elbopoli, una delle bufere giudiziarie che si è abbattuta sull’Elba in quella calda estate del 2003 e che ha coinvolto un giudice, alti rappresentanti delle istituzioni, imprenditori. A distanza di oltre 6 anni dalla bufera giudiziaria i giudici (presidente Dagnino, a latere Lepri e Panicucci) hanno accolto la ricostruzione dell’accusa sostenuta dal pm Paola Calleri anche se le condanne sono state inferiori rispetto alle richieste del pubblico ministero e due imputati sono stati assolti. Quando i giudici leggono la sentenza in aula c’è un solo imputato: Giuseppe Pesce, ex prefetto di Isernia e all’epoca dello scandalo commissario prefettizio di Rio Marina. L’ex capo dei gip livornesi Germano Lamberti - che era in aula prima che il collegio si ritirasse - è stato condannato a 3 anni per corruzione in atti giudiziari e assolto invece dall’accusa di peculato e dalla corruzione con gli imprenditori.

M come Matera: Il giudice M.G.C., ex GIP di Trani, è stata trasferita a Matera e per questo motivo è balzata agli onori della cronaca, anche se a suo dire, gli articoli a lei dedicati sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro. Stesso trattamento, d'altronde, riservato ai poveri cristi, che non si possono nemmeno lamentare. Gogna e mancato ristoro in caso di assoluta estraneità ai fatti. Secondo La Gazzetta del Mezzogiorno a Trani se ne parla da settimane, se non da mesi. Sin da quando in piena estate durante un incontro in Sardegna, «lei» ha lanciato una borsa contro di «lui», mandandolo in ospedale. Un rapporto difficile quello tra due magistrati, un uomo e una donna, che litigano da mesi, lanciandosi reciproche, pesanti, accuse. Ed ancora. Numerose perquisizioni e sequestri sono in corso a Roma, Potenza, Chieti e Policoro, in provincia di Matera, nell’ambito dell’inchiesta denominata «Toghe lucane» su un presunto comitato d’affari, operante in Basilicata, che avrebbe coinvolto esponenti politici, imprenditori e magistrati. Il provvedimento di perquisizione e sequestro riguarda personaggi di spicco della politica e delle istituzioni della Basilicata, ma anche dirigenti di importanti uffici statali. Nell’inchiesta figurano anche i magistrati Giuseppe Chieco, Felicia Angelica Genovese a Paola Morelli; il sindaco di Policoro (Matera), Nicolino Lopatriello; il presidente del Consiglio comunale di Policoro, Nicola Montesano; il dirigente del Comune di Policoro, Felice Viceconte; l’ex colonnello dei carabinieri, Pietro Gentili; gli imprenditori Vincenzo Vitale e Marco Vitale; i dirigenti delle agenzie del demanio e dell’autorità di bacino Giuseppe Pepe, Elisabetta Spitz e Michele Vita. Il provvedimento notificato oggi, composto da oltre 420 pagine, ruota intorno alla realizzazione del villaggio «Centro turistico ecologico integrato Marinagri» di Policoro e a cospicui finanziamenti attraverso fondi Cipe. Ed ancora. C'è anche Rosa Bia, giudice del Tribunale di Matera, tra i magistrati indagati nell’ambito delle inchieste condotte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro sui presunti rapporti illeciti tra ambienti giudiziari ed esponenti politici lucani. Sono cinque, dunque, i magistrati coinvolti nelle indagini. Il nome di Rosa Bia, infatti, si aggiunge a quelli dei procuratori della Repubblica di Potenza e Matera, Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco; del presidente del Tribunale di Matera, Iside Granese, e del sostituto procuratore della Repubblica di Potenza, Felicia Genovese. Nei confronti del giudice Bia s'ipotizzerebbe il reato di abuso d’ufficio.

M come Messina: Cassata, condannato per la prima volta un Procuratore Generale. Il procuratore generale di Messina, Francesco Antonio Cassata è stato condannato per diffamazione dal giudice di pace di Reggio Calabria. Cassata, nel settembre 2009, divulgò un dossier, allora anonimo, contro il professore Adolfo Parmaliana. Un memoriale inviato, tra gli altri, allo scrittore Alfio Caruso (che in quel momento era impegnato nella stesura del libro «Io che da morto vi parlo», biografia del docente suicidatosi il 2 ottobre 2008) e al senatore Beppe Lumia, amico di Parmaliana. Cassata è stato condannato a 800 euro di multa e al risarcimento del danno in favore dei familiari di Parmaliana. Docente universitario e segretario dei DS nel paese di Terme Vigliatore (Messina), Parmaliana, si gettò da un cavalcavia dell’autostrada Messina-Palermo, lasciando una lettera in cui denunciava le gravi responsabilità di politici e magistrati nel rallentare le indagini sulla mafia. La sentenza è stata emessa dal giudice di pace di Reggio Calabria. I sostituti procuratori Luca Miceli e Matteo Centini avevano chiesto la condanna del magistrato al lavoro di pubblica utilità. La vicenda risale a diversi anni fa quando Cassata, secondo quanto ha sostenuto l'accusa, inviò ad un parlamentare siciliano e ad uno scrittore un esposto anonimo diffamatorio contro il docente universitario. Nel corso delle indagini, secondo quanto è emerso dal processo, a Cassata fu trovata una cartellina con un biglietto che riportava la scritta "anonimi da inviare". Dal 27 marzo 2000, con atto ispettivo n. 4-29179 l'interrogante ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti; infatti, il tribunale di Messina è sede di inchiesta su alcuni magistrati catanesi; il tribunale di Reggio Calabria è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e catanesi; il tribunale di Catania è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e reggini; all'interrogante appariva, ad esempio, già allora inquietante la circostanza che uno degli inquirenti catanesi, titolare delle indagini sui colleghi messinesi e reggini, fosse egli stesso indagato a Messina. Ed ancora. «Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d' appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Ed ancora. Il Procuratore Generale di Messina, Franco Antonio Cassata, è stato rinviato a giudizio per la diffamazione pluriaggravata a carico di Adolfo Parmaliana, il professore che si suicidò nel 2008 all'età di 50 anni. Il dossier di 30 pagine smette così di essere anonimo. Sarebbe proprio Cassata l’autore, del memoriale creato ad hoc per infangare la memoria di Parmaliana. Citazione diretta a giudizio del procuratore generale di Messina per aver diffamato il professore di Terme Vigliatore "suicida d'ingiustizia". Ed ancora. La Procura rincara, rilancia e insiste per fare condannare a pene più pesanti due magistrati messinesi, per decenni sulla cresta dell'onda e da quindici anni sulla graticola per ipotizzati comportamenti disdicevoli. Giovanni Lembo, sostituto procuratore nazionale antimafia e Marcello Mondello, tornano sul banco degli imputati per il secondo processo davanti alla Corte d'appello a Catania, che dovrà valutare la loro condotta che in primo grado è stata pesantemente sanzionata con cinque anni di reclusione al dott. Lembo (ora ne sono stati chiesti il doppio) e sette anni al dott. Mondello (adesso ne sono stati sollecitati nove), in un processo su vicende che disegnano contesti la cui gravità più preoccupante - al di là dei comportamenti degli accusati portati in giudizio - è relativa alla gestione dei "pentiti" in un periodo giustizialista secondo il quale due dichiarazioni convergenti rappresentavano prova. Ed ancora. si scopre che l'ex procuratore aggiunto di Messina, Pino Siciliano, oggi in servizio come sostituto nella stessa Procura, è agli arresti domiciliari da oggi pomeriggio. Il provvedimento cautelare, firmato dal gip del Tribunale di Reggio Calabria, Kate Tassone, su richiesta del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, è stato notificato al magistrato nella sua abitazione dalla Squadra Mobile di Messina. Le ipotesi di reato sono di concussione e di due tentativi di concussione. In particolare viene addebitato a Siciliano di aver "condizionato", nella conduzione di inchieste penali da lui coordinate, alcune vicende di carattere amministrativo relative a controversie tra il Comune di Taormina (Messina) e due imprese.

M come Milano: Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo. Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell'accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell'ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell'ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all'interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l'attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l'altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall'esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest'anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell'Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall'ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l'ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso. I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l'interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l'ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l'inchiesta sull'autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa. Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest'ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell'inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull'Autoparco di via Salamone a Milano, l'autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all'origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov'era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un'altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l'aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un'inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione. Dopo la radiazione, è arrivata anche la condanna. Edi Pinatto, l'ex giudice del tribunale di Gela, in provincia di Caltanisetta, da 5 anni pm a Milano, è stato condannato a otto mesi di reclusione, con pena sospesa, per decisione del gup di Catania, Antonino Fallone, che ha accolto la richiesta del pm Antonino Fanara. Pinatto era accusato del reato di omissione e di ritardo di atti d'ufficio per aver impiegato otto anni per depositare la motivazione di una sentenza in un processo di mafia, i cui imputati nel frattempo sono stati rimessi in libertà. Una vicenda per la quale il Csm lo ha recentemente radiato dall'ordine giudiziario. Ed ancora. In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco. Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". Non solo. La prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso di avviare il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti del presidente della Corte d'appello di Milano, Alfonso Marra, a seguito del suo coinvolgimento nelle intercettazioni relative all'inchiesta sull'eolico. Ed ancora. Il Presidente del Tar Lombardia Piermaria Piacentini accusato di abuso d’ufficio e corruzione. Sospetti su una consulenza a Balducci. Ed ancora. Il giudice con i conti in Svizzera. La Grossi nei guai per la lista Falciani. Magistrato fallimentare, era indagata per gli incarichi a professionisti amici. Dal Lodo Mondadori a Villa Certosa, le sue cause si sono incrociate con gli affari di Berlusconi. Non solo. Il giudice Rosa Santaniello, che il 20 ottobre dovrà nuovamente comparire in veste di imputata davanti al Tribunale di Brescia, non fa più parte della magistratura attiva dallo scorso mese di settembre. E’ recente la notizia, riportata da Dnews, che sul consigliere della Corte d’Assise e d’Appello, accusata di avere bloccato decine di fascicoli nel corso degli anni, era già stata sanzionata tre volte dal CSM proprio per questa indole a “bloccare le cause”, questa volta rischia di abbattersi la scure della giustizia, visto che è stata rinviata a giudizio a Brescia di abuso di ufficio. Ed ancora. Lascia Milano e le sue funzioni di presidente del tribunale di Sorveglianza Francesco Castellano, il giudice indagato a Perugia nell'ambito dell'inchiesta sulla scalata di Unipol alla Bnl. Il plenum del Csm ha decretato il suo trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale per i suoi rapporti con l'ex presidente di Unipol Giovanni Consorte, a cui avrebbe fornito consigli sui suoi processi. Ed ancora. Non stava bene, il giudice. E non da ieri. A dire il vero, erano anni che aveva la testa altrove. Cinque anni. Così preso dai suoi problemi familiari, il magistrato, da accumulare fascicoli sulla sua scrivania. Un monte di carte. Però non s’è arreso. O meglio, non ha mollato la presa. Quell’ufficio l’ha tenuto occupato, pur facendo poco o nulla di quanto gli veniva richiesto. E anche se a mezzo servizio (e forse anche meno), ogni mese è passato all’incasso. Stipendio e anzianità di servizio. Insomma, quel che si dice una carriera. Finché il giocattolo si è rotto. Finché, cioè, qualcuno non ha presentato un esposto al Csm e una denuncia penale. Così il magistrato è stato rinviato a giudizio dal gip di Brescia con l’accusa di omissione in atti d’ufficio. La storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice della sesta sezione civile del Tribunale di Milano, parte da lontano.

N come Napoli: TOGHE ZOZZE, STRADE SPORCHE E TERRA DEI FUOCHI. Toghe zozze e strade sporche. Trentatre inchieste. Ventidue pentiti. Centinaia di vittime e 2 mila siti inquinati. I protagonisti, dai pm a don Patriciello. Viaggio nell'avvelenamento del Casertano. Che preoccupa Napolitano e i vescovi, scrive Lettera 43 su “L’Infiltrato”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 3 gennaio 2014 ha scritto una lettera a don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che guida la lotta contro i rifiuti tossici delle popolazioni che abitano tra Napoli e Caserta (la cosiddetta Terra dei fuochi). Il capo dello Stato ha promesso attenzione e impegno per la bonifica delle aree avvelenate. Anche il cardinale di Napoli, Cresenzio Sepe, ha affrontato in una lettera - controfirmata dai vescovi delle diocesi interessate - la tragedia dei territori devastati dai roghi killer e dagli sversamenti fuorilegge. Sepe ha parlato di «dramma umanitario». Di fronte a tali eventi, ha aggiunto, «non è possibile restare immobili». Le autorevoli prese di posizione si aggiungono al coro di adesioni che da più parti si leva a favore della battaglia che le popolazioni che vivono tra Napoli e Caserta stanno conducendo contro i rifiuti tossici sepolti a pagamento dalla camorra (su richiesta di una parte dell’imprenditoria del Nord). Ma, al di là delle adesioni (e del rischio-unanimismo che qua e là affiora) che cosa è davvero la Terra dei fuochi? Come è iniziato, 25 anni fa, l’avvelenamento dei territori? Chi sono i protagonisti? Quante sono state le vittime? E soprattutto: che cosa bisogna fare, per uscirne davvero? 1. Nel 1991 la prima indagine. Era la notte del 4 febbraio 1991 quando un camionista italo-argentino, Mario Tamburrino, si presentò ai medici dell’ospedale di Pozzuoli. «Aiutatemi», sussurrò trafelato, «qualcosa mi è entrato negli occhi: non vedo quasi più». Negli occhi, erano penetrate alcune gocce della sostanza corrosiva fuoriuscita dai fusti (571, pieni di rifiuti tossici, caricati sul camion a Cuneo e diretti a sant’Anastasia, a nord di Napoli) che Tamburrino avrebbe dovuto abbandonare sul terreno affinché fossero sepolti in loco dai guaglioni locali. All'indagine giudiziaria che ne scaturì, i magistrati e l’opinione pubblica vennero per la prima volta a conoscenza del vocabolo Ecomafia e del colossale business che già dalla metà degli Anni 80 era in atto tra la camorra, l’imprenditoria del Nord e la classe politica napoletana e campana. Del camionista Tamburrino si è persa ogni traccia. 2. Casertano, terra di roghi. Il primo a definire Terra dei fuochi l’area interessata al fenomeno dei rifiuti tossici sepolti illegalmente fu Giuseppe Ruggiero, dirigente campano di Legambiente, che nel 2003 usò tale etichetta in riferimento ai roghi di pneumatici e di materiali tossici che ogni pomeriggio (tra le ore 18 e le 23) ignoti appiccavano (e ancora appiccano: tra il 2012 e l’agosto 2013 i vigili del fuoco ne hanno contati 6.034) lungo l’Asse mediano, che collega Napoli ai paesi del Casertano. In realtà, la Terra dei fuochi per antonomasia, in Campania, è sempre stata la zona flegrea, ricca di vulcani e di crateri ribollenti di magma e lapilli. 3. La mappa dei veleni: 2 mila siti inquinati. I territori colpiti dai veleni di camorra sono quelli tra le province di Napoli e Caserta. L’area è compresa tra i comuni di Qualiano, Giugliano in Campania, Orta di Atella, Caivano, Acerra, Nola, Marcianise, Succivo, Frattaminore, Frattamaggiore, Aversa, Mondragone, Castevolturno, Villa Literno, Pozzuoli, Bacoli, Marano, Cicciano, Palma Campania, Melito di Napoli. A Napoli, il quartiere Pianura. A firmare il Patto per la Terra dei fuochi, l’11 luglio 2013, sono stati ben 57 comuni tra Napoli e Caserta. Ma la verità è che nessuno sa quanti e dove siano i rifiuti tossici sepolti nel corso degli anni nell’area. L’Arpac, l’agenzia campana per l’ambiente, ha contato più di 2 mila siti inquinati. 4. Gli industriali: «Inutili allarmismi». L'uscita di Lorenzin. Risalgono al 2013 le dichiarazioni del presidente degli industriali di Napoli, Paolo Graziano, che ha definito «inutili allarmismi» le denunce targate Terra dei Fuochi. A identica data risalgono le esternazioni del ministro per la Sanità, Beatrice Lorenzin, che ha sostenuto che la causa dei tumori andrebbe cercata «negli stili di vita sbagliati, nel fumo delle sigarette, nella poca frutta e verdura consumata a tavola» dalle famiglie meridionali. Alla sortita del ministro, in tanti hanno fatto eco definendo per mesi «allarmisti» e «fanatici» i comitati degli abitanti delle aree colpite dall’inquinamento. O, addirittura, ipotizzando che dietro le loro proteste si nascondessero «oscure forze criminali o affaristiche». 5. Il business dei rifiuti degli Anni 80. Per capire come e perché la camorra si buttò fin dagli Anni 80 a capofitto sul traffico dei rifiuti, bisogna sapere che smaltire in maniera lecita rifiuti urbani costava, in quegli anni, 300 lire al chilo. Se si trattava di fanghi di conceria (o peggio), il prezzo saliva fino a 1.200 lire. Le ditte dei clan si facevano pagare tre le 120 e le 130 lire al chilo. Anche se si trattava di fanghi (o peggio). 6. Le 33 inchieste e i pentiti. Le dichiarazioni di Schiavone. Dal 2000 a oggi, le inchieste giudiziarie sui rifiuti tossici sono state 33 a Napoli ad opera di 4 procure (Napoli, Nola, Torre Annunziata, santa Maria Capua Vetere) e 73 in Campania. Adelphi, Cassiopea, Madre terra, Carosello, Nerone, Cernobyl: nomi suggestivi, per etichettare le orrende trame del malaffare. Ben 311 sono le ordinanze di custodia cautelare; 448 le persone denunciate; 116 le aziende coinvolte. Il primo boss di Ecomafia pentito risale al 1988. Si chiamava Nunzio Perrella, all’attuale procuratore nazionale antimafia Franco Roberti raccontò: «Altro che droga, per noi il vero affare è l’immondizia: dotto’, ‘a munnezza è oro». Specie se fatta di rifiuti speciali, il cui smaltimento costa 600 euro a tonnellata. Finora sono stati 22 i pentiti di Ecomafia. Da Dario De Simone («Se in una discarica ogni giorno arrivano 100 camion carichi di rifiuti, l’ultimo è pieno di soldi», ha spiegato) a Domenico Bidognetti (che raccontò il ruolo dei colletti bianchi Gaetano Vassallo, a sua volta pentito, e Cipriano Chianese, avvocato e manager), da Oreste Spagnuolo (ex killer del gruppo di fuoco del Casalese Giuseppe Setola) a Tammaro Diana, Pasquale Di Fiore, fino a Carmine Schiavone, oggi il pentito più famoso per le rivelazioni del 2013 in tivù che peraltro aveva già reso nel lontano 1996 (ministro dell’interno era proprio Giorgio Napolitano).7. Il giallo dei 30 siti di stoccaggio. È l’altra faccia del disastro, quello determinato addirittura dalle istituzioni che ora non sanno più come smaltirle. Si tratta di 30 siti di stoccaggio, che avrebbero dovuto temporaneamente ospitare balle di rifiuti trattati e resi innocui in attesa di essere distrutti. Il risultato? Sei milioni di tonnellate, cioè 4 milioni e 274.616 pacchi di maleodorante immondizia mai trattata giacciono ammassati nelle campagne del Giuglianese, una volta fertili e ora ridotte a paesaggio lunare aggredito da stormi di gabbiani impazziti. È stato calcolato che per bruciare le balle (ma dove? E come?) ci vorrebbero almeno 50 anni. 8. La strage: il 35% dei morti di cancro viene dalla Terra dei fuochi. Su 500 pazienti operati per neoplasia al polmone nel 2013 all’istituto per i tumori Pascale di Napoli, il 35% proviene dalla Terra dei fuochi. Don Patriciello, il parroco di Caivano, sconvolto dai troppi funerali, ha affisso intorno all’altare maggiore i pomodori avvelenati e le fotografie delle decine di bambini deceduti per leucemia. L’incremento dei casi di cancro in Campania negli ultimi 10 anni è del 13%, eppure resta inattuato il Registro regionale dei tumori. Inesistente resta anche un credibile piano di smaltimento rifiuti. Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Resarch in Usa e figlio di Giovan Giacomo (che nel 1977 fu il primo scienziato a scrivere che «la Campania è travolta da un’epidemia silente e causata dall’uomo»), ha detto: «Il 60% dei residenti in Terra dei fuochi svilupperà tumori o altre gravi patologie. Urgono bonifiche e prevenzione sanitaria». 9. La battaglia di don Patriciello e dei pm. Don Maurizio Patriciello parroco di san Paolo Apostolo a Caivano, fino al 18 ottobre 2012 era un anonimo sacerdote alle prese con una terra difficile che gli chiedeva aiuto. Poi, partecipò a una riunione in prefettura sul tema rifiuti e definì il prefetto di Caserta «signora» invece che «eccellenza», scatenando le ire del prefetto di Napoli che lo rimproverò davanti a tutti. La boutade anti-parroco suscitò scandalo in tutta Italia. Ma si trattò di una gaffe provvidenziale, perché da quel giorno don Patriciello diventò famoso e del dramma Terra dei fuochi si iniziò miracolosamente a discutere. I protagonisti veri, però, sono forse altri: si chiamavano Dalia, 12 anni, Luca, 19 anni, Luciano, 16 anni, Tina, 28, Marta, 4. Martiri per forza, bare bianche in processione. Ha detto don Patriciello: «A novembre ho celebrato i funerali di Agostino, 28 anni. A gennaio, il battesimo di suo figlio nato un mese dopo». Tra i protagonisti, vanno citati almeno due magistrati: Maria Cristina Ribera, della direzione antimafia di Napoli, la prima a coniare il termine di «imprenditore camorrista», riferito a coloro che fino ad allora erano ritenuti camorristi e imprenditori. E Donato Ceglie, della procura di santa Maria Capua Vetere, che ha dedicato la propria vita a combattere Ecomafia in tribunale. 10. Bonifiche, unica soluzione rimasta sulla carta. L’unica, vera soluzione per normalizzare nel tempo la vita di chi abita in Terra dei fuochi è la bonifica del territorio. Se ne parla da decenni, ma finora sono stati sperperati milioni di euro con risultati pari a zero. L’impresa, sprechi e imbrogli a parte, appare utopistica. Già nel 2001, cioè prima della grande crisi, la Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti ammise sconsolata di essere a conoscenza degli sversamenti illegali in Campania ma di non poter intervenire perché «la montagna di soldi necessaria per le costosissime bonifiche non ci sono e non ci saranno mai». In alcune aree, del resto, è già troppo tardi. Per esempio, secondo il commissariato di governo, nei 20 chilometri quadrati (pari a 2.600 campi di calcio) dell’area intorno alla ex discarica Resit nel Giuglianese: «Quella terra è morta, risanarla sarebbe un’impresa proibitiva». Inoltre poco o nulla si sta facendo per individuare e punire il traffico illecito dei camion che ogni giorno scaricano i veleni fra Napoli e Caserta. Anzi, il cosiddetto progetto Stir, che avrebbe dovuto consentire il monitoraggio satellitare dei camion, è svanito nel nulla dopo il mezzo scandalo dei fondi volatilizzati. Dalle indagini dei magistrati, intanto, traspare che sul business bonifiche, sui monitoraggi e il resto i più attenti, aggiornati (e dotati dei capitali necessari) appaiono ancora una volta i boss di camorra. Ma proprio a proposito di Donato Ceglie e l'enunciazione che ha dedicato la propria vita a combattere Ecomafia in tribunale c'è una notizia censurata ai più. Il Mattino è uscito con una notizia a tutta pagina; titolo: “Rifiuti, sotto inchiesta il magistrato Ceglie”, catenaccio: “Avviso di garanzia per abuso d’ufficio nel filone d’indagine sul consorzio Ce4. Gli atti alla procura di Roma”, sommario: “Il sostituto casertano si sarebbe interessato per un porto d’armi / A breve l’interrogatorio”. , scrive Iustitia. Si tratta di una notizia policentrica: nasce a Caserta, viene lavorata a Napoli ed è firmata Roma. In calce all’articolo c’è infatti la sigla ‘re. ro.’, che sta per redazione romana. La notizia è stata pubblicata con grandissimo rilievo sia nelle pagine di Napoli-Campania, settore guidato da Claudio Scamardella, che nell’edizione di Caserta, affidata a Nando Santonastaso. Ma veniamo alla vicenda che vede protagonista il sostituto procuratore della procura di Santa Maria Capua Vetere Donato Ceglie, napoletano, quarantasei anni, da diciotto in magistratura, noto per le sue inchieste sull’ambiente e sulle ecomafie. Il quotidiano di Caltagirone scrive che “nei confronti del magistrato viene ipotizzato il reato di concorso in abuso d’atti d’ufficio. L’accusa si riferirebbe a un presunto interessamento che avrebbe esercitato il pm sammaritano nei confronti di un funzionario di prefettura per il rilascio di un porto d’armi a favore di un imprenditore del settore dei rifiuti”. Una notizia importante, ma piccola, impaginata con un titolo fortissimo e inserita all’interno di un articolo dalla chiusa durissima. “Un’inchiesta – quella sui rifiuti in provincia di Caserta - che si è andata sviluppando – scrive l’estensore anonimo del Mattino – negli ultimi mesi. Al di là delle accuse ai singoli indagati, gli inquirenti hanno disegnato uno scenario complessivo inquietante: un giro di mazzette, regali e favori collegato all’individuazione della discarica – e della ditta a cui demandare lo smaltimento – nella zona compresa tra Falciano del Massico, Mondragone, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno e Sessa Aurunca, nella parte alta della provincia di Caserta.  Un giro che vede coinvolti funzionari dello Stato, imprenditori e, in ultimo, anche un magistrato”. L’articolo non è piaciuto al pm Ceglie e il 10 giugno il suo legale, l’avvocato Giuseppe Fusco del foro di Napoli, ha presentato alla procura di Roma una querela nei confronti dell’autore dell’articolo e del direttore del Mattino Mario Orfeo. Nella querela il pm di Santa Maria precisa che l’indagine a suo carico riguarda un fatto che non ha nulla a che vedere con l’inchiesta sui rifiuti e sulle discariche condotta dai magistrati dell’antimafia di Napoli Raffaele Cantone e Alessandro Milita, così come non ha nulla a che vedere con presunte tangenti e attività di corruzione di pubblici funzionari in quanto scaturisce dai suoi “presunti rapporti con il vice prefetto Ernesto Raio”, cui si sarebbe rivolto per sollecitare il rinnovo di un porto d’armi a favore di un imprenditore. E aggiunge che questo è l’unico fatto per il quale è indagato dalla procura di Roma. Inoltre Ceglie ricorda la sua intensa attività di pubblico ministero: ”Sono stato e sono titolare di inchieste proprio nel settore dei rifiuti e delle discariche; sono stato e sono titolare di inchieste anche in materia di cave con sequestri recenti di cave e cementifici (decreti firmati in tandem con il procuratore aggiunto della procura di Santa Maria Paolo Albano, ndr) anche di proprietà della Cementir Cementerie del Tirreno spa; sono conosciuto, non solo nell’ambito locale, ma a livello nazionale, come uno dei magistrati di maggior impegno nel perseguire (con iniziative di grosso spessore) fatti illeciti riguardanti tutta la problematica della tutela del territorio”. Probabilmente non è casuale nella querela il riferimento al sequestro delle cave della Cementir, una spa, che come l’Edime-Il Mattino, fa parte della galassia del gruppo Caltagirone. E proprio sul collegamento tra le due società ha battuto il direttore della Gazzetta di Caserta Pasquale Clemente nel fondo che il 22 maggio ha dedicato alla vicenda Ceglie, fondo esplicito e duro fin dal titolo: “Il magistrato ha fatto chiudere la Cementir illegale / Mattino, vergogna per un porto d’armi”. Ma di Ceglie si è occupato anche un altro giornale, proprio vicino ai Pubblici Ministeri. Davanti alla commissione parlamentare ecomafie tre magistrati svelano i rapporti oscuri di Claudio De Biasio, vicino alla famiglia Orsi e numero due della struttura per l'emergenza monnezza, scrivono Tommaso Sodano e Nello Trocchia su  Il Fatto Quotidiano. Il 24 aprile 2007 presso la commissione parlamentare ecomafie presieduta da Roberto Barbieri, sfilano tre, tra i migliori magistrati anticamorra, Franco Roberti ( allora coordinatore della Dda), Maria Cristina Ribera e Raffaele Cantone. Fanno luce sulle responsabilità della politica nell’eterna emergenza e chiariscono il ruolo, anche di un magistrato, nella nomina di Claudio De Biasio al commissariato di governo per l’emergenza rifiuti. Un’audizione che ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere e che contiene molte risposte a punti oscuri dell’eterna emergenza rifiuti in Campania. L’uomo buono per tutte le stagioni. Claudio De Biasio è stato arrestato pochi giorni fa per lo scandalo depuratori. Nell’ordinanza si legge: ” Negli anni ha dimostrato una personalità criminale allarmante (…)Sconcerta che un personaggio così colpito da iniziative giudiziarie riesca ancora a trovare credito nella pubblica amministrazione con la copertura di incarichi fiduciari, e non certo per concorso pubblico”. De Biasio, infatti, continuava a lavorare al Consorzio Unico ed era commissario liquidatore al commissariato acque della regione Campania, nonostante le ripetute indagini che lo hanno coinvolto. Nel 2005 Claudio De Biasio entra al commissariato di governo per l’emergenza rifiuti, nel 2007 nonostante l’indagine a suo carico, diventa numero due della struttura, nominato da Guido Bertolaso. De Biasio, forte della sua esperienza nel consorzio Ce4, quello che incrocia gli affari della camorra con il malaffare politico. Pochi giorni dopo la nomina al vertice del commissariato viene arrestato proprio per la gestione del consorzio Ce4 (poi assolto e per un reato prescritto) insieme con i fratelli Orsi (Michele verrà ucciso dalla camorra, Sergio condannato per collusioni)”. A questo punto, i parlamentari convocano i magistrati per capire i retroscena dietro quella nomina. Raffaele Cantone, allora pm presso la distrettuale antimafia napoletana, racconta: “ Le indagini si fermano al 2004, quindi, alla struttura commissariale che passa dalla gestione Facchi alla gestione Catenacci (indagato nel nuovo scandalo depuratori, ndr). E’ sicuramente provata tutta una serie di rapporti fra gli imprenditori Orsi e la gestione Facchi, ma è purtroppo provata anche una serie di rapporti fra gli Orsi e la gestione Catenacci”. Gli Orsi hanno l’obiettivo di entrare nella struttura commissariale con un fidato sodale, e indicano il nome di De Biasio, tutto deciso in una cena, a riprova una telefonata tra Orsi ed il viceprefetto Ernesto Raio ( allora capo di gabinetto di Catenacci), nella quale l’imprenditore indica la necessità di inserire “uno dei nostri” al commissariato. I controllati che si scelgono il controllore. Il magistrato Donato Ceglie, pm a Santa Maria Capua Vetere, ha contatti con gli Orsi, si spende presso Raio (prima alla prefettura poi al commissariato) per il rilascio di un porto d’armi a Michele Orsi, per questa vicenda la toga sammaritana sarà indagato e archiviato su richiesta del pm di Roma Giuseppe Amato. Ceglie venne già indicato dall’allora ministro Pecoraro Scanio come sponsor per la nomina di De Biasio al commissariato di governo. Su richiesta dei parlamentari, a precisa domanda, i magistrati auditi fanno il nome di Ceglie chiarendo l’esito dell’indagine: archiviazione. Nel provvedimento di archiviazione, citato in audizione, si legge: “ Di rilievo ancora agli esiti delle s.i.t. rese dal prefetto Catenacci, il quale, in termini compatibili con quanto già desumibile dall’attività intercettativa, fa riferimento ad un’inusitata attività di consulenza svolta dal Ceglie nei confronti dello stesso prefetto e del commissariato, in ragione della sua precipua competenza professionale, nonché a un parimenti inusitato interessamento del Ceglie per risolvere un ostacolo formale che si pensava sussistesse per l’assunzione presso il commissariato di un professionista, l’architetto De Biasio”. Nel verbale dell’audizione si leggono le parole di stima nei confronti di Ceglie di molti parlamentari per la sua opera contro i traffici illeciti di rifiuti. L’eterna emergenza e il Nord protagonista. Gli Orsi mani e piedi nell’emergenza, rapporti con una toga di primo piano, capaci di indicare un proprio uomo presso il commissariato, quel De Biasio che solo l’arresto nel 2007 eviterà alla commissione ecomafie di sceglierlo come consulente. Ma gli Orsi non si fermano. E nel 2005, dopo l’uscita dal consorzio Ce4, sono pronti con un’altra impresa la Gmc; un’attività imprenditoriale frenata dagli arresti. Sullo sfondo il ruolo di Impregeco, il superconsorzio raggiunto da interdittiva antimafia, che teneva insieme i consorzi casertani e quelli napoletani, la cui vicenda entra a pieno titolo nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di Nicola Cosentino (il processo con rito immediato inizierà a marzo). Impregeco vedeva la presenza degli uomini di Cosentino, dominus politico dell’area casertana, e dei fedelissimi di Bassolino, egemone e controllore dei consorzi napoletani. Una vicenda quella della nomina e del consociativismo dietro la finta emergenza che resta coperta dal silenzio, di cui al momento hanno parlato solo Terra e il Mattino. Torniamo all’audizione, da cui emerge un sistema simile a quello del dopo terremoto del 1980, dove la politica e l’imprenditoria camorrista vanno a braccetto e lucrano dietro il paravento dei rifiuti in strada. Ecomafie diffuse anche al nord, come conferma la pm Maria Cristina Ribera in un passaggio dell’audizione: “Nella mia esperienza, ho potuto constatare che la gestione illegale dei rifiuti, in maniera organizzata e sistematica, ha coinvolto il consorzio Milano Pulita Ambiente, la società Nuova Esa di Marcon veneto, il consorzio Tev di Massarosa Toscana, l’ecoindustria che gestiva rifiuti pericolosissimi in un territorio con vincoli paesaggistici e non aveva neanche il piano di sicurezza in Toscana, Agroter di Pesaro (…) il fenomeno è talmente diffuso che credo sia esteso a livello nazionale”. Ma non finisce qui. Ceglie è ancora chiacchierato. Il magistrato nei guai: "Aveva rapporti con la moglie di un carcerato", scrive “Libero Quotidiano”. "Rapporti frettolosi, nascosti e spesso consumati a volte nel suo ufficio della procura di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta, a volte nelle stanze della procura generale di Napoli". Stando a quanto riportato dal quotidiano La Repubblica venerdì 24 gennaio, il magistrato Donato Ceglie, impegnato da anni nella lotta contro le ecomafie in Campania, è accusato di concussione e violenza sessuale. Avrebbe infatti preteso e ottenuto rapporti sessuali dalla moglie di un uomo, Gaetano Ferrettino, che lui stesso aveva fatto arrestare. Sulla carriera del magistrato, 56 anni, pende infatti dal dicembre scorso, una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm di Roma Barbara Sergenti che sosteiene che "Ceglie induceva Maria Rosaria Granata, 46 anni, moglie di Gaetano Ferrentino, a instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali”. Tutto inizia  nel 2007. "In quel periodo Ceglie - come riporta La Repubblica - si occupa dell’inchiesta Chernobyl, scopre tonnellate di rifiuti interrati tra Caserta, Napoli e Vallo della Lucania e sequestra un impianto di compostaggio di cui Ferrentino è amministratore unico, spedendo quest’ultimo agli arresti domiciliari". Nel 2009, secondo la Procura di Roma, sarebbero iniziati i rapporti con la moglie di Ferrentino. Maria Rosaria Granata accetta nella speranza di indurre il pm  ad abbandonare il procedimento contro il marito. Ma la speranza della donna non si realizza. "Quello che il pm fa, invece - continua Repubblica - è ordinare il dissequestro dell’impianto di compostaggio, affidarne la gestione alla Compost Campania e – come scrive il pm Sargenti – "rilasciare indebitamente il nulla osta per riassumere Maria Rosaria Granata". La donna, infatti, era stata licenziata dal curatore fallimentare perché la Compost non poteva per contratto impiegare persone collegabili alla So.Rie.Co di Ferrettino. Ma Ceglie per la sua fiamma riesce ad ottenere una deroga". Il giallo però scoppia nel 2012 quando delle email anonime arrivano in procura e alla redazione del Mattino, quotidiano campano. "I messaggi di posta elettronica - riporta sempre il quotidiano romano -  riportano informazioni scioccanti: "Il dott. Ceglie non è altro che un pagliaccio con la toga", "Dottore Ceglie, rientra nelle sue inchieste portarsi a letto le mogli degli indagati? E poi sparire distruggendo i numeri di telefonici? Aspetto una sua risposta" e "Da tre anni chiama ripetutamente e si porta a letto con ricatto la moglie di Gaetano Ferrentino". Ceglie non nega gli incontri, ma sarebbero avvenuti per motivi legati alla giustizia.  Secondo la difesa, infatti, "gli incontri innanzitutto sono stati limitati nel tempo" e, in secondo luogo, risulterebbero "al solo scopo istituzionale". "Pretendeva sesso dalla moglie di un arrestato". Finisce nei guai il pm della lotta all'ecomafia. Napoli, il magistrato Donato Ceglie accusato di concussione e calunnia. La difesa: "Incontri con lei limitati nel tempo", scrivono Fabio Tonacci e Francesco Viviano su “La Repubblica”. Chiedeva sesso, il magistrato Donato Ceglie. Lo pretendeva, e lo otteneva, dalla moglie di uno che aveva fatto arrestare. Rapporti frettolosi e nascosti, consumati a volte nel suo ufficio della procura di Santa Maria Capua Vetere, a volte nelle stanze della procura generale a Napoli. Proprio lui, il pm simbolo della lotta all’ecomafia del casertano, proprio lui che indaga da anni sui veleni nascosti sotto terra. Ora se la deve vedere con altri veleni. Sulla carriera di Donato Ceglie, 56 anni, pende infatti dal dicembre 2013 scorso, una richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero Barbara Sargenti di Roma. Le accuse sono di concussione e violenza sessuale, perché «induceva — si legge nell’atto — Maria Rosaria Granata, 46 anni, moglie di Gaetano Ferrentino, a instaurare e proseguire una relazione sentimentale che gli procurava indebitamente rapporti sessuali». Abuso che sarebbe iniziato a Santa Maria Capua Vetere e proseguito anche dopo che Donato Ceglie, era il 2011, viene trasferito alla procura generale di Napoli. Una storiaccia ancora poco chiara, con un esito giudiziario ancora tutto da definire (la richiesta è ferma davanti al gip) e che però ha un prologo certo nel 2007. In quel periodo il pm napoletano sta seguendo personalmente l’inchiesta “Chernobyl”: scopre tonnellate di rifiuti interrati tra Napoli, Caserta e Vallo della Lucania, sequestra l’impianto di compostaggio nel salernitano gestito dalla So.Rie.Co., dove venivano smaltiti illegalmente quelli di quattro depuratori, e di cui Ferrentino è amministratore unico. Ceglie lo spedisce agli arresti domiciliari. Seguono un paio di anni di indagini, altri sequestri, il fallimento della So.Rie.Co. nel 2009. Poi, sempre secondo la procura romana, cominciano i «rapporti sentimentali e sessuali» tra Ceglie e la Granata. Una relazione che, a prescindere dalla sua natura, forse consenziente forse no, avrebbe dovuto indurre il pm napoletano a abbandonare per ragioni di opportunità il procedimento contro Ferrentino, nel frattempo rinviato a giudizio. Cosa che non accade. Accade invece che Ceglie si adoperi per trovare un lavoro alla Granata. Prima ordina il dissequestro dell’impianto di smaltimento, poi lo affida in gestione alla Compost Campania a cui nel 2011 rilascia «indebitamente — scrive la Sargenti — il nulla osta per riassumere Maria Rosaria Granata». La donna, infatti, era stata licenziata dal curatore fallimentare perché la Compost non poteva per contratto impiegare persone collegabili alla So.Rie.Co. di Ferrentino. Ma Ceglie, per la sua “fiamma”, riesce a ottenere una deroga. E continua a interessarsi del rinnovo del contratto di gestione anche dopo essere stato trasferito a Napoli. Nel 2012 però qualcosa si rompe. Nelle caselle di posta elettronica di alcuni magistrati della Procura generale e alla redazione del Mattino iniziano ad arrivare decine di e-mail e fax del genere: «Il dott. Ceglie non è altro che un pagliaccio con la toga », «Dottore Ceglie, rientra nelle sue inchieste portarsi a letto le mogli degli indagati? E poi sparire distruggendo i numeri di telefonici? Aspetto una sua risposta», «da tre anni chiama ripetutamente e si porta a letto con ricatto la moglie di Gaetano Ferrentino». Ma a quali ricatti si riferisce l’autore delle missive? Che cosa sa veramente? Fatto è che Ceglie decide di denunciare la Granata, sostenendo sì di averla incontrata, ma solo «limitatamente» e «sempre per motivi istituzionali ». I pm romani non gli credono, e così hanno indagato il magistrato che lotta contro la mafia dei rifiuti anche per calunnia, per aver incolpato la donna «pur sapendola innocente». Il Csm assolve il giudice rosso che andava a caccia con i boss. Mancuso, ex capo della Procura antimafia di Napoli ed esponente di Md, salvato dal tribunale della categoria. Ignorate le intercettazioni in cui parlava con i camorristi, scrive Stefano Zurlo  su “Il Giornale”. Era il coordinatore della procura antimafia di Napoli, ma andava a caccia in Albania con camorristi e criminali. Anzi, uno di loro, Andrea Spiezia, fornisce nel 2004 il più granitico degli alibi ai carabinieri che sono piombati a casa sua dopo l'ennesimo omicidio fra i clan di Napoli: «Non sono stato io, io ero a caccia con il procuratore in Albania». Vero, Paolo Mancuso, allora a Napoli e oggi alla guida della procura di Nola, aveva una certa dimestichezza non con uno ma con ben tre soggetti legati o sospettati di appartenere alla malavita. Ma il 20 ottobre 2006 la sezione disciplinare del Csm, scioglie questo nodo increscioso, ai limiti dell'incredibile, e assolve Mancuso, pezzo grosso di Magistratura democratica in Campania, ai vertici del Dap, le carceri italiane, fra il luglio 97 e il luglio 2001, e gli restituisce la carriera e la possibilità di conquistare nuovi traguardi. Mancuso aveva addirittura vistato il provvedimento di cattura nei confronti di uno dei tre. Irrilevante, dicono i giudici del Csm, perché Mancuso ne firmava centinaia. Figurarsi se poteva ricordarsi tutto. È una vicenda surreale quella del magistrato napoletano per cui, secondo il Csm, non valgono nemmeno le intercettazioni telefoniche raccolte in un procedimento penale. No, non si possono «traslocare» dal penale al disciplinare le telefonate ascoltate dalla polizia. Sacrosanto. Peccato che lo stesso tribunale, con gli stessi membri, il 10 marzo del 2009, affermi l'esatto opposto: come no, le intercettazioni possono essere trasferite da un'inchiesta al procedimento disciplinare. E infatti sono le intercettazioni a fregare Vincenzo Barbieri, militante centrista di Unicost, ex dirigente del ministero della Giustizia, portato ai vertici di via Arenula da Roberto Castelli e confermato da Clemente Mastella, poi procuratore ad Avezzano. Due pesi e due misure? Le sentenze fanno a pugni come nemmeno in una finale mondiale di boxe. Però si resta a disagio a leggere quelle pagine. Mancuso ama la caccia e partecipa a battute fra la Puglia e l'Albania. Fra i suoi compagni di avventura ci sono anche alcuni personaggi non proprio immacolati: Stefano Marano, condannato per omicidio colposo, violazione dei sigilli, violazioni della legge urbanistica. Ma questo è niente rispetto ai sospetti degli investigatori che nel '96 l'hanno proposto per la sorveglianza speciale, ipotizzando una sua contiguità con i Licciardi: il procedimento non ha avuto seguito ed è stato archiviato, anche con l'intervento dello stesso Mancuso; poi c'è Andrea Spiezia, ricettatore, al centro di un'infinità di procedimenti, uno dei quali, per truffa, è passato tanto per cambiare per l'ufficio di Mancuso; e poi ancora c'è Giovanni Pellecchia, indagato per associazione a delinquere, truffa e falso, con iscrizione nel registro degli indagati all'epoca in cui Mancuso era coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. Non è chiaro quando Mancuso abbia conosciuto i tre, o meglio ciascuno dei tre, pare abbia incrociato Spiezia solo una volta, ma la frequentazione complessiva va avanti per anni e anni. Quasi dieci. Fra la metà degli anni Novanta e il 2004. Mancuso va a caccia, nelle intercettazioni lo chiamano «Il bimbo», ma non si accorge di nulla. Nulla di nulla. Meglio di Sherlock Holmes. La procura lo intercetta con grande imbarazzo. Nulla. Finché si arriva al paradosso dei paradossi. Il 21 novembre 2004 si riaccende la faida di Scampia e muore Francesco Tortora. I carabinieri sono convinti che fra gli assassini ci sia Andrea Spiezia e vanno a casa sua sottoponendolo anche al prelievo stube. Ma lui ha un alibi inattaccabile. È appena arrivato dall'Albania, dove era a caccia con Mancuso e con un funzionario di polizia. Le indagini confermano e Spiezia viene scagionato. Però parte l'informativa. E si scopre che i personaggi poco raccomandabili con cui Mancuso è andati a caccia sono addirittura tre. Non ci sono risvolti penali. Mancuso non avrebbe alterato o forzato le indagini, anzi, a quanto pare, i camorristi gli davano al telefono del «voi» e non si sarebbero mai azzardati a chiedergli favori. Una bella consolazione per il Csm che liquida la pratica alla voce imprudenza. E trova il sistema per scagionare Mancuso da ogni accusa. È vero che aveva incrociato i colleghi di caccia nel loro percorso giudiziario, ma come si fa a ricordare tutto quando si vistano centinaia di provvedimenti? E poi le date non sono sincronizzate: come si fa a sapere se nel '96, quando Marano era stato proposto per la sorveglianza speciale, Mancuso l'avesse già incontrato con la doppietta in mano? Mistero. Insolubile. Mancuso per il Csm è inconsapevole. Un capo perfetto dell'ufficio che combatte la criminalità organizzata in una terra difficile come Napoli. Non c'è che dire. E le intercettazioni? Per la Disciplinare il legame era puramente venatorio, ma in ogni caso non si possono utilizzare. Devono restare confinate nel recinto del penale. Così per il procuratore aggiunto di Napoli, alto esponente di Magistratura democratica, vice di Giancarlo Caselli al Dap, oggi procuratore a Nola e in corsa, via Tar, per ottenere proprio la ben più importante procura di Napoli. Diversa la sorte di Vincenzo Barbieri, già dirigente al ministero della Giustizia e attivista di Unicost. Si mette nei guai chiedendo favori, segnalando amici e pratiche, insomma mettendo il naso dove non dovrebbe. Le intercettazioni questa volta possono essere utilizzate e travasate dal penale al disciplinare. Disco verde. Va giù pesante il tribunale disciplinare: «Le condotte addebitate all'incolpato sono proprio le numerose telefonate di raccomandazioni, sollecitazioni ed altro, effettuate a vario titolo con magistrati, cancellieri, ufficiali dei carabinieri, spesso avvalendosi delle linee telefoniche in sua dotazione e della particolare posizione di potere che gli derivava dall'essere direttore generale». L'esatto contrario di quanto affermato il 20 ottobre 2006 nel procedimento Mancuso: «Se quindi i risultati delle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di un procedimento penale non possono essere utilizzati nell'ambito di altro procedimento penale... anche e a maggior ragione deve valere in una procedura diversa da quella penale ed in particolare in quella disciplinare». Due pesi e due misure: Mancuso assolto, Barbieri condannato alla sanzione della censura. Chissà quale delle due sentenze merita maggior rispetto. Mancuso ha già provato a tutelare la sua immagine. Con poco più di una pagina Rosalba Liso, gip del tribunale di Roma, ha archiviato la querela presentata nel novembre 2006 da Paolo Mancuso, oggi procuratore capo a Nola, contro il giornalista Roberto Paolo e il direttore responsabile del Roma Antonio Sasso, scrive Iustitia.it. All’origine della querela un articolo, pubblicato dal Roma il 21 ottobre 2006 e firmato dal redattore capo Roberto Paolo, centrato sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di archiviare l’azione disciplinare, per frequentazioni ‘discutibili’, avviata nei confronti di Mancuso, all’epoca procuratore aggiunto a Napoli. L’occhiello del servizio è: “Giustizia e Veleni / Il procuratore aggiunto napoletano ora ha la via spianata per diventare capo del Dap, il vertice delle carceri italiane”; il titolo: “Il Csm scagiona Mancuso”; il sommarione: “Un magistrato può andare a caccia con pregiudicati, imputati di camorra o persone indagate dal proprio ufficio: nessun illecito disciplinare”. Il gip di Roma, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Carlo Luberti, ha respinto l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato di Mancuso, Giuseppe Fusco. “Appaiono ravvisabili nel caso in esame – scrive il giudice Liso – i tre presupposti dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca indicati dalla giurisprudenza per la sua esistenza, cioè il pubblico interesse o meglio l’interesse diffuso, riscontrabile nell’attenzione che può suscitare la correttezza istituzionale di un magistrato, e la veridicità della notizia, poiché i soggetti con i quali il Mancuso era entrato in contatto erano di fatto indagati e nei cui confronti, sia pure limitandosi ad apporre un visto, costui aveva esercitato una supervisione ed un controllo nel corso delle indagini”. “Anche la continenza dell’espressione, nel caso in esame, rileva la correttezza di contenuto e forma, essendo state utilizzate nel riferire i fatti espressioni di per sé non offensive, né di particolare significato evocativo ed insinuante”. Del resto, annota il gip, “non può non rilevarsi come nella querela l’opponente (Mancuso, ndr) in realtà abbia lamentato solo e unicamente l’effetto lesivo della valutazione sottesa alla descrizione dei fatti offerta nell’articolo, mentre in realtà egli non ha mai contestato la veridicità degli eventi, nella sostanza fornendo una versione dei fatti non del tutto lontana da quella riportata nell’articolo”. Un’affermazione sulla quale è in totale disaccordo la difesa del procuratore Mancuso, che ha già presentato ricorso in Cassazione. Due i punti al centro delle nove pagine del ricorso firmate dall’avvocato Fusco: “l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità”; “l’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale”. Sul primo punto “la pacifica e non contestata ammissibilità dell’opposizione (all’archiviazione) – sostiene il legale di Mancuso – avrebbe imposto la fissazione della camera di consiglio anche perché non ricorrevano le condizioni per la pronuncia di un decreto de plano”. Più articolata e complessa l’analisi del secondo punto che parte da una premessa: “la capacità e potenzialità oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate dal giornalista nell’articolo denunciato sono riconosciute come sussistenti dallo stesso pubblico ministero”. Nel servizio del Roma, osserva Fusco, “si afferma che Mancuso, non solo era frequentatore di ‘persone condannate per gravi reati’, ma che era addirittura andato a caccia "con pregiudicati imputati di camorra" e anche "con presunti fiancheggiatori del clan Di Lauro, indagati o condannati per gravi reati (fra essi Stefano Marano)" e frequentava persone indagate per camorra o condannate per droga, ricettazione e estorsione“. Ma, secondo l’avvocato del magistrato, sono affermazioni inesatte. “Dalla lettura del capo di incolpazione (al Consiglio superiore della magistratura) – puntualizza Fusco nel ricorso in Cassazione – risulta che Marano Stefano era stato più volte condannato ma ‘per plurime violazioni della legge urbanistica, per omicidio colposo, per violazioni dei sigilli’; era stato inoltre sottoposto a processo, conclusosi in primo grado con l’assoluzione per i delitti di cui agli articoli 416 bis, 640, 629 del codice penale (associazione camorristica, truffa e estorsione, ndr) e aveva subito altro procedimento per il delitto di cui all’articolo 416 bis definito con l’archiviazione”. E l’avvocato continua: “nessun riferimento vi è, invece, sempre nel capo di incolpazione a una vicenda, pur essa riferita nell’articolo, secondo la quale Mancuso in altre occasioni andò a caccia con un esponente di primo piano di un clan del foggiano, attualmente detenuto con l’accusa di omicidio”. Dal tribunale capitolino, quindi, è stato assegnato il primo round al Roma; per il secondo bisognerà attendere la decisione della Suprema corte. Poi tempi certamente lunghi per il giudizio civile promosso da Mancuso contro il Roma per una lunga serie di articoli chiusa proprio dal servizio dell’ottobre 2006 sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura. La vicenda inizia nel novembre 2004. Dopo gli omicidi di Francesco Tortora e Domenico Riccio, vittime della mattanza di Secondigliano, viene fermato Andrea Spiezia. Prima di essere sottoposto all' esame dello stub per accertare tracce di polvere da sparo l' uomo dichiara: «L' analisi sarà certamente positiva perché il 21 novembre, giorno dei delitti, ero a caccia in Albania». A quella battuta hanno partecipato anche Paolo Mancuso e un funzionario della questura. Non è l' unica. Più volte il magistrato, grande appassionato di attività venatoria, va a caccia con Stefano Marano, imprenditore molto conosciuto a Napoli. Marano ha il telefono sotto controllo perché in passato ha affittato una casa ad uno dei figli di Paolo Di Lauro, il boss di Secondigliano. Ha rapporti con alcuni esponenti della criminalità, viene sollecitato a chiedere notizie al magistrato. Effettivamente lo contatta più volte, ma durante le conversazioni non ottiene informazioni sulle inchieste. Poi, parlando con uno dei suoi interlocutori, Marano afferma: «Allora non hai capito che al telefono non bisogna parlare?». E' questa la frase che viene adesso contestata a Mancuso. Il sospetto dei magistrati romani è che sia stato proprio lui ad avvisare l' amico che l' utenza era intercettata. Una tesi che lascia aperti alcuni interrogativi. Se Mancuso era a conoscenza dell' indagine su Marano, come mai decise di continuare a frequentarlo, sia pur per condividere la passione per la caccia? Ad informare il procuratore aggiunto che il suo nome era comparso in alcune intercettazioni sarebbe stato un funzionario della polizia. E lui ne chiese conto ai colleghi titolari del fascicolo sull' attività del clan Di Lauro che poi hanno trasmesso gli atti a Roma. Se era già informato dei contenuti dell' inchiesta, che bisogno aveva di esporsi? Questo basta? No! Mancuso multato per caccia illegale a Foggia attirava quaglie con un registratore vietato, scrive “La Repubblica”. Lui la prende con sportività, tra l'imbarazzato e il divertito: «Lo ammetto, ho avuto la contravvenzione. Ma la contesterò». Il nome di Paolo Mancuso, procuratore aggiunto di Napoli, uno dei magistrati più in vista d'Italia, è in un rapporto inviato alla Procura di Foggia. Nei suoi confronti, infatti, le guardie forestali hanno comminato una sanzione penale per caccia irregolare. Niente di grave: Mancuso, cacciando insieme a due amici napoletani a Carapelle, in provincia di Foggia, nelle vicinanze del parco del Gargano, avrebbe utilizzato un registratore che attira le quaglie riproducendone il verso. La legge italiana ritiene che non è leale far fuori in questo modo i gustosi volatili che abbondano sulle colline pugliesi e ha vietato «l' utilizzo di richiami elettromagnetici ai fini dell'attività venatoria». Passi per le quaglie, ma la legge, hanno ricordato le guardie a Mancuso, vale davvero per tutti. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. La denuncia degli avvocati: "C’è una casta di giovani magistrati insensibili alla presunzione d’innocenza". Perfino loro non ne possono più delle inchieste-spettacolo che mandano a ramengo le garanzie processuali mettendo nel tritacarne mediatico-giudiziario la vita e la reputazione. Ecco come viene violata la privacy di chi dovrebbe essere considerato innocente fino a sentenza definitiva di condanna. Anche gli avvocati di Bari contro i magistrati di Napoli. Lo scontro tra toghe non risparmia nessuno. Ad insorgere però sono adesso i penalisti pugliesi. Non ci stanno alla forzatura fatta dai pm campani per sollevare dal segreto professionale il legale difensore dell'imprenditore Gianpaolo Tarantini. Martedì 13 ottobre 2009, nuovo palazzo di giustizia, «Torre C», dodicesimo piano, le cinque del pomeriggio. Vincenzo Galgano — procuratore generale della Repubblica, la più alta carica della magistratura inquirente nel distretto di corte d’appello di Napoli — siede sulla stessa sedia che occupava esattamente sei mesi prima, quando una sua dichiarazione («Ci sono pm che perseguono interessi personali») scatenò un terremoto all’interno della Procura e portò all’apertura di un'indagine del Csm. Correva il 14 aprile 2009. E, a dispetto del nome del santo del giorno (Abbondio), il Pg decise di intervenire direttamente nello scontro tra alcuni sostituti e il capo dei pm. Ed ancora. Nel Maggio 2002, il procuratore della repubblica di Napoli accusò alcuni gip del distretto partenopeo di tenere nei cassetti richieste d'arresto per 700 camorristi. Ottocento magistrati del distretto di Napoli, tutti chiamati a palazzo di giustizia dall'Anm. E per parlare di una cosa sola: le dichiarazioni esplosive del procuratore della Repubblica Agostino Cordova davanti alla commissione Antimafia, qualche giorno fa. E' proprio lui, oggi, a salire simbolicamente sul banco degli imputati. Mentre il ministro della Giustizia Roberto Castelli manda gli ispettori negli uffici giudiziari. Pm contro pm, giudici accusati di abbandonare nei cassetti richieste di arresto per 700 camorristi. Questa è stata la denuncia a freddo di Agostino Cordova, lui che qualche mese fa vide consegnare al Consiglio superiore della Magistratura un documento con le firme di 64 sostituti, più della metà, nel quale veniva contestata la sua gestione e l'organizzazione degli uffici giudiziari partenopei. E poi. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».

P come Palermo: Giovanni Falcone. Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere." Il giorno prima di morire Paolo Borsellino confidò alla moglie Agnese inquietanti convinzioni sulla propria fine, che considerava imminente: «Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere». Coltivava sensazioni fosche, condivise in uno degli ultimi colloqui con la donna della sua vita: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». A nemmeno ventiquattr'ore da questi cupi presentimenti, alle 16.58 di domenica 19 luglio, dopo una nuova gita nella casa di Carini il giudice saltò in aria insieme a cinque agenti di scorta in via Mariano D'Amelio, davanti all'abitazione palermitana di sua madre. Intercetta che ti intercetta, l'ex pm Antonio Ingroia qualcosa di grosso la becca sempre. E così, dopo il caso Napolitano, ecco un'altra vicenda dagli effetti dirompenti che indirettamente vede coinvolto l'ex procuratore aggiunto, poi in forza all'Onu in Guatemala: il suo ex capo, il procuratore di Palermo Francesco Messineo, è indagato, a Caltanissetta, per fuga di notizie. È stato intercettato, nell'ambito di un'indagine condotta proprio dal suo ex aggiunto, mentre parlava al telefono con un alto funzionario di Banca Intesa, che era indagato per una presunta storia di usura bancaria. E così il fascicolo è finito a Caltanissetta, competente per i procedimenti che riguardano magistrati del distretto di Palermo. Una bufera che promette strascichi pesanti: le toghe palermitane hanno siglato un documento che chiede di discutere il caso in assemblea. L'accusa per il procuratore capo, che è stato già interrogato per sei ore da un altro suo ex pm, Nico Gozzo, ora in forza alla procura nissena, è violazione di notizie coperte da segreto istruttorio. Il procuratore di Palermo Francesco Messineo è indagato dalla Procura di Caltanissetta per violazione di notizie riservate. Così scrive “Il Corriere della Sera”. Il capo dei pm è sotto inchiesta per una presunta fuga di notizie nell'ambito di un'indagine per usura bancaria a carico di Banca Nuova (importante istituto di credito siciliano). Accompagnato dall'avvocato Francesco Crescimanno, è stato sentito dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo per circa 5 ore. Sul contenuto dell'interrogatorio c'è il massimo riserbo, ma secondo indiscrezioni il procuratore avrebbe negato di avere rivelato notizie riservate all'ex direttore di Banca Nuova, Francesco Maiolini. Maiolini, nei mesi precedenti ricevette un avviso di identificazione, e chiamò al telefono Messineo per chiedere di cosa si trattasse. L'ex manager non sapeva di essere intercettato nell'ambito di un'altra inchiesta per riciclaggio coordinata dall'aggiunto della dda di Palermo Antonio Ingroia. Dopo la conversazione, il procuratore e Maiolini si sarebbero incontrati e successivamente l'ex direttore di Banca Nuova avrebbe chiamato l'avvocato dell'istituto di credito mostrando di conoscere particolari molto precisi sull'inchiesta per usura. Nel frattempo Messineo si sarebbe informato sull'indagine sull'usura con uno dei sostituti che la coordinava. Chi aveva rivelato le notizie a Maiolini? È proprio su questo che ruota l'indagine dei pm di Caltanissetta che hanno ricevuto le carte sulla vicenda dall'allora procuratore aggiunto di Palermo Ingroia a settembre, tre mesi dopo la prima telefonata intercettata tra il procuratore e l'ex direttore generale.

P come Parma: Il ministero indaga sul caso della pm che ha fatto arrestare il capo della polizia locale concorrente del marito. Lo scandalo ha spianato la strada al sindaco grillino. Intrighi, favori, fughe di notizie, conflitti di interesse sono lo scenario descritto da Berselli che gli ispettori di Via Arenula dovranno verificare. Varie vicende si intrecciano tra le carte dell’inchiesta che portò all’arresto di 11 tra amministratori e funzionari del Comune, tra cui un assessore e il capo dei vigili, Giovanni Maria Jacobazzi, che finì in cella giusto un anno fa, alle 5 del 24 giugno 2011, con spiegamento di forze degno di un’operazione antimafia. Poche ore dopo il procuratore Gerardo Laguardia tenne una conferenza stampa in cui - secondo Berselli - rivelò particolari coperti da segreto, come i nomi di alcuni politici indagati, prima che arrivasse l’avviso di garanzia. Pochi giorni prima Alberto Cigliano, funzionario in servizio a Bergamo, aveva presentato domanda per concorrere al posto di comandante dei vigili di Parma. Cigliano è il marito della dottoressa Paola Dal Monte, la titolare dell’inchiesta, che aveva chiesto al Gip l’arresto di Jacobazzi. Il 27 giugno Jacobazzi si dimette ma il magistrato si oppone alla richiesta degli arresti domiciliari fissando l’interrogatorio per il 28 luglio. La scarcerazione arriva il 2 agosto: per Jacobazzi è una sorta di confino, visto che sconterà i domiciliari nella residenza del fratello a Santa Marinella (500 chilometri da Parma). Il 1˚agosto il marito del pm Dal Monte aveva sostenuto il colloquio per la poltrona di capo dei vigili. Purtroppo per lui il 29 settembre la sua candidatura viene bocciata. Ed ancora. In data 30 maggio 2012 sul settimanale "La Voce di Parma" n. 23/2012 viene pubblicata con ampio risalto la notizia secondo cui il Procuratore della Repubblica di Parma dottor Gerardo Laguardia, anteriormente al crac Parmalat e all'arresto di Calisto Tanzi (all'epoca patron del Parma Calcio) "ha effettuato più viaggi gratuiti all-inclusive al seguito del Parma Calcio nelle trasferte di coppa".

P come Perugia: Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. Ed ancora. Il procuratore generale presso la corte d’appello dell’Umbria, Giancarlo Armati accusato di falsa testimonianza e favoreggiamento nell’ambito della vicenda giudiziaria che oppone dagli anni ’90, lo stesso Armati, ex pm a Roma, e i fratelli Wilfredo e Claudio Vitalone, quest’ultimo ex magistrato ed ex sottosegretario al ministero degli Esteri.

P come Pescara: Rivelando i boccacceschi retroscena di una guerra di corna e di manette combattuta giudiziariamente (e poi al Csm) in provincia di Pescara, il 22 febbraio sollevammo, increduli, due interrogativi. Il primo: se il marito della vostra amante fosse un poliziotto impegnato a indagare su di voi, a mettervi sotto controllo i telefoni, riuscendo infine pure ad arrestarvi, dormireste sonni tranquilli o nutrireste perplessità sulla genuinità nelle indagini? Il secondo: stando così le cose protestereste con chi, a livello di Procura, coordina questi accertamenti senza porsi il benché minimo problema di una incompatibilità resa evidente dalle trascrizioni delle intercettazioni? Dieci mesi dopo, quegli interrogativi sono deflagrati al processo pescarese di Enzo Cantagallo, sindaco Pd di Montesilvano, finito in manette per corruzione nell’inchiesta Ciclone nel 2006 grazie alle indagini portate avanti dall’allora capo della Squadra mobile, la cui moglie, per l’appunto, era l’amante dell’imputato-sindaco (stando a quel che rivela quest’ultimo in aula). Un antipasto dello tzunami in arrivo si era avuto con la tempesta abbattutasi già sul Csm. L’ex procuratore capo Nicola Trifuoggi, celebre per il fuorionda con Fini contro Berlusconi, disse al sindaco di non preoccuparsi di ciò che oggi sembra invece preoccupare il presidente del collegio chiamato anche a fare luce sulla regolarità dell’indagine portata avanti dal poliziotto e dal pm Gennaro Varone. Il sindaco di Montesilvano denunciò che su di lui indagava il marito della sua amante. Non fu ascoltato. Al Csm lo scontro tra il procuratore Trifuoggi e il suo vice Mennini.

P come Potenza: Facciamo subito le doverose differenze: ci sono magistrati in prima linea, che scavano scavano e non concedono sconti. E ci sono altro tipo di toghe. C’è perfino un pubblico ministero, Luigi de Magistris, nella Procura di Catanzaro, che ipotizza l’esistenza di una «cupola ». L’inchiesta viene ribattezzata «toghe lucane». Secondo De Magistris un «comitato d'affari» composto da politici, magistrati, avvocati, imprenditori e funzionari avrebbe governato grosse operazioni economiche in Basilicata. La guardia di Finanza, nei primi mesi del 2007, perquisisce le abitazioni e gli uffici del sottosegretario allo Sviluppo economico, Filippo Bubbico (Ds, già presidente della Regione Basilicata), del procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano, dell'avvocato Giuseppe Labriola e della dirigente della Squadra mobile di Potenza. Luisa Fasano. Abuso d'ufficio, corruzione in atti giudiziari e associazione per delinquere, truffa aggravata sono i reati contestati a vario titolo. L'inchiesta ipotizza «una logica trasversale negli schieramenti», il «collante degli affari», un gruppo di potere che, ciascuno al suo livello, contribuisce nella spartizione della torta. Ma l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, chiede al Csm il trasferimento cautelare d'urgenza di De Magistris, per irregolarità nella gestione del caso «Toghe lucane». E nel marzo 2011 l'intera inchiesta viene archiviata dal gup di Catanzaro che definisce l'impianto accusatorio «lacunoso» e tale da non presentare elementi «di per sé idonei» a esercitare l'azione penale. Ma i veleni sono tutt’altro che finiti. Perché nella Procura potentina nel frattempo è al lavoro Henry John Woodcock, le cui inchieste mettono a rumore mezza Italia. Nel febbraio del 2009 un esposto anonimo, con tanto di tabulati relativi a telefonate fra Woodcock e la giornalista Federica Sciarelli, denuncia le rivelazioni che il pm napoletano avrebbe fornito in anteprima alla conduttrice di «Chi l’ha visto?» nonché al giornalista Michele Santoro, conduttore di «Annozero». La denuncia si rivela infondata. Ma nel frattempo la Procura di Catanzaro apre il fascicolo ribattezzato «Toghe lucane bis». Cosa si sospetta, questa volta? Che sia la stessa Procura generale di Potenza ad aver ispirato l’esposto. Avvisi a comparire vengono notificati all’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano (ora in pensione), ai sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca e all’ex sostituto procuratore della Repubblica, Claudia De Luca, poi trasferita a Napoli con lo stesso Woodchok. Nell’inchiesta compare anche il nome di un ex agente del Sisde, Nicola Cervone. «Toghe lucane bis» teorizza che qualcuno abbia in effetti tentato di delegittimare sia Woodcock sia l’altro sostituto procuratore potentino, Vincenzo Montemurro, autori delle inchieste sugli intrecci tra politici e criminalità lucana. Nella prima inchiesta di De Magistris sulle toghe lucane finisce anche Felicia Genovese, il pm della vicenda Claps (che avrebbe orientato le indagini lontano da Danilo Restivo) e pm del duplice omicidio Gianfredi. Suo marito, il medico Michele Cannizzaro, viene nominato direttore generale del più grande ospedale della Basilicata, nomina politica, si sa. A nominarlo un gruppo di politici che sua moglie aveva sotto inchiesta e per i quali avrebbe poi chiesto l’archiviazione. Un teorema che era costato alla Genovese un’accusa di abuso d’ufficio, poi dissoltasi in un’assoluzione. Felicia Genovese è anche autrice di una clamorosa inchiesta sulla centrale di ricerca nucleare Trisaia di Rotondella, l’altro mistero della Basilicata felix. Magistrati "contro" che lasciano la sede giudiziaria di Potenza per ritrovarsi tutti a Napoli. Claudia De Luca, ex sostituto procuratore della Repubblica di Potenza e poi in servizio nella sede sede giudiziaria di Napoli, è stata condannata a un anno e sei mesi di reclusione per l'accusa di peculato, che gli era stata mossa nell'ambito dell'inchiesta conosciuta come "Toghe lucane". La De Luca è attualmente tra le persone indagate nell'inchiesta denominata "Toghe lucane bis", e destinataria di uno degli avvisi a comparire emessi dalla Procura di Catanzaro che sta conducendo l'inchiesta, relativa a presunti gravi illeciti commessi tra gli altri da alcuni magistrati in servizio in Basilicata. Nell'inchiesta "Toghe lucane bis" sono ipotizzati, complessivamente, la violazione della legge sulle associazioni segrete, l'associazione a delinquere, la corruzione in atti giudiziari, l'abuso di ufficio. "Toghe lucane bis" ha preso le mosse da un presunto complotto finalizzato a calunniare l'allora sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock (poi pm a Napoli) che, insieme al suo collega Vincenzo Montemurro, ora in servizio alla Procura di Salerno, indagavano sugli intrecci tra politici e criminalità lucana.

P come Prato: Incastrato dalla moglie tradita, che il 28 marzo 2003 spifferò ai magistrati della procura di Biella la storia della tangente, il giudice Conzo, che nel settembre 2002 era andato prudentemente in pensione, ha ammesso di aver incassato da Viscomi il 3 gennaio 2002 l'equivalente in euro di 30 milioni, negando però di aver favorito Franceschini nella vertenza Aiazzone. Annibale Viscomi, interrogato dal Gip Andrea Pellegrino, ha fornito la sua versione dei fatti. Il giudice Conzo, che prima di arrivare a Biella nel '95 era stato giudice fallimentare a Prato, andò a ritirare la bustarella il 3 gennaio 2002 nello studio pratese di Viscomi. «Nello studio ci sarà stato al massimo 10 secondi, giusto il tempo di prendere i soldi».

R come Ragusa: Clamoroso. L'ex ministro di Grazia e Giustizia Oliviero Diliberto, attuale segretario nazionale del PdCI, e i deputati Gabriella Pistone e Cosimo Sgobio, presentano una interrogazione al ministro della Giustizia in cui viene chiesta la rimozione di Agostino Fera da procuratore della Repubblica di Ragusa. Tale richiesta di allontanamento viene avanzata in relazione alle nuove gravissime emergenze sul caso Tumino e sull'uccisione del giornalista Giovanni Spampinato, all'oscuramento del sito AccadeinSicilia, a numerosi episodi denunziati da esponenti della società civile come esempi di malagiustizia, a vicende giudiziarie in cui il magistrato ragusano risulta nelle vesti di indagato. La società civile, in tutte le sue espressioni, si mobiliti per l'affermazione di una giustizia giusta.

R come Reggio Calabria: La zona grigia. Quando la mafia vien dall'alto. Il giudice (ora sospeso dal Csm) Vincenzo Giuseppe Giglio è stato condannato a 4 anni e 7 mesi di carcere nel processo milanese sulla cosiddetta «zona grigia» della 'ndrangheta. Disposta anche l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Insieme a lui è stato condannato a 8 anni e 4 mesi, con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, il consigliere regionale calabrese del Pdl Francesco Morelli. Sia il consigliere Morelli che il giudice Giglio, all'epoca presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, erano stati arrestati nel novembre 2011 nell'operazione della Dda di Milano coordinata da Ilda Boccassini contro la cosca Valle-Lampada infiltrata in Lombardia anche grazie ad appoggi nella cosiddetta «zona grigia». Morelli era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione, mentre Giglio rispondeva di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravato dalla presunta agevolazione del clan. I giudici dell'ottava sezione penale di Milano (presidente del collegio Luisa Ponti) hanno accolto l'impianto accusatorio del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del pm Paolo Storari e hanno condannato a quattro anni e sette mesi di carcere l'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio. Il magistrato, accusato di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato la cosca mafiosa, era stato arrestato nel novembre del 2011 (e poi sospeso dal Csm), assieme, fra gli altri, al consigliere regionale calabrese del Pdl Franco Morelli. Il politico, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio, è stato condannato a otto anni e quattro mesi e a due anni di libertà vigilata. Oltre all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici (interdizione che per Giglio è stata disposta invece per cinque anni). All'epoca degli arresti il gip Giuseppe Gennari l'aveva definita nell'ordinanza una "vera e propria ragnatela di relazioni inestricabili e connesse" in cui "tutti prendono e danno qualcosa: il giudice Giglio ci guadagna il posto per la moglie, Morelli il sostegno politico e gli affari comuni con i Lampada, Giusti viaggi e donnine". Un altro magistrato, Giancarlo Giusti, ex gip del tribunale di Palmi, è stato condannato a quattro anni lo scorso settembre 2012 in abbreviato. E i Lampada, sempre secondo il gip, ottengono "le notizie sulle indagini che li riguardano e l'allargamento delle loro conoscenze politiche e istituzionali". In poche parole, una "zona grigia - la definì lo stesso giudice - che poi gli associati sfruttano". Secondo le indagini, inoltre, il magistrato Giglio si sarebbe rivolto al consigliere Morelli per far ottenere a sua moglie la nomina a commissario della Asl di Vibo Valentia e Morelli avrebbe invece chiesto e ottenuto dal giudice notizie riservate su indagini. Entrambi poi erano in rapporti con Giulio Lampada. Da tutta la stampa nazionale si eleva una notizia. Una decina di provvedimenti cautelari, tra cui spicca l'arresto del giudice del Tribunale di Reggio Calabria, Giuseppe Vincenzo Giglio, sono stati eseguiti nell'ambito di una vasta operazione della Dda di Milano contro la 'ndrangheta. Giglio è accusato di corruzione e di favoreggiamento personale di un esponente del clan Lampada. Tutta la stampa ne parla. Un giudice calabrese, Giancarlo Giusti, in servizio presso il tribunale di Palmi è stato arrestato il 28 marzo 2012 dalla procura distrettuale antimafia di Milano con l'accusa di corruzione. Il gip Giuseppe Gennari, su richiesta dei pm Ilda Boccassini e Paolo Storari, contesta al magistrato viaggi e soggiorni pagatigli dal clan di 'ndrangheta Lampàda (vicenda questa già emersa mesi prima quando la toga era stata indagata), ma anche l'assegnazione di incarichi professionali a custodi e amministratori giudiziari quando Giusti era giudice delle esecuzioni. Nella stessa inchiesta sui Lampada il pool antimafia milanese aveva fatto arrestare anche il presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria. E altre intercettazioni riguardano proprio il magistrato Vincenzo Giuseppe Giglio che, in passato se l'era presa con il "fango della stampa". E aveva difeso la sua onestà scrivendo anche una lettera a un quotidiano calabrese. Ma i suoi colleghi dell'antimafia lo smentiscono pesantemente. Esaminiamo due punti cruciali, «E' falso - dice Giglio - che io abbia mai invitato il signor Lampada a partecipare ad occasioni conviviali a casa mia». Ma il 13 agosto 2009 Giulio Lampada (che si trova in vacanza a Tropea con la famiglia) conversa con il medico Vincenzo Giglio, il quale si trova a casa del cugino magistrato a Pellaro, con il politico Franco Morelli. Giglio Vincenzo (il medico) parla con il presunto boss, gli dice che il magistrato ha insistito per invitare a pranzo Lampada. Poi la conversazione continua direttamente tra Giulio Lampada e il magistrato. Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Si nutre di malaffare, affoga nelle sue complicità. Uno con l'altro, si favoriscono tutti. Avvocati, magistrati, costruttori, commercialisti, capi della 'Ndrangheta, spioni, prelati. E medici, ingegneri, dirigenti del comune, consiglieri regionali, alti funzionari dello Stato, guardiani di giardini, assessori e assassini. E' nelle loro mani Reggio. Ed ancora. Giuseppe Pignatone, procuratore capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria è indagato. Giuseppe Pignatone premette di rispettare le indagini della Procura di Santa Maria Capua Vetere, nate dall'esposto di un capitano dei carabinieri detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma non risparmia critiche per chi prende in considerazione le denunce rivolte a magistrati e inquirenti da detenuti per mafia: «Come sapete - ha spiegato il procuratore di Reggio Calabria - c'è per ora notevole clamore a seguito di due lettere del detenuto Spadaro Tracuzzi. Da un comunicato del Procuratore di Santa Maria Capua Vetere sappiamo che c'è un'indagine. E da parte nostra c'è il massimo rispetto». Ed ancora. I giornali, hanno evocato la stagione dei corvi o dei veleni a Palazzo di Giustizia. Il 17 giugno 2011, un’altra “bomba”, tanto per cambiare scuote la città dello Stretto: il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Cisterna è indagato dalla Procura di Reggio Calabria per corruzione in atti giudiziari. La conferma viene dal procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che non ha voluto aggiungere altro. Ed ancora. Al 27 marzo 2000, con atto ispettivo n. 4-29179 l'interrogante ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti; infatti, il tribunale di Messina è sede di inchiesta su alcuni magistrati catanesi; il tribunale di Reggio Calabria è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e catanesi; il tribunale di Catania è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e reggini; all'interrogante appariva, ad esempio, già allora inquietante la circostanza che uno degli inquirenti catanesi, titolare delle indagini sui colleghi messinesi e reggini, fosse egli stesso indagato a Messina.

R come Roma: FALLIMENTI TRUCCATI E TOGHE CORROTTE. GIUSTIZIA FALLITA, ANZI FALLIMENTARE - A ROMA C’È UN POSTO DOVE TUTTO HA UN PREZZO. SI CHIAMA TRIBUNALE FALLIMENTARE. Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon  su “Vicenza Piu”. Su L'Espresso in edicola si legge: "cause truccate, tangenti, favori. In un tourbillon di magistrati venduti, politici, top model che esportano milioni. Un pentito racconta". I fatti si riferiscono a Roma, ma potrebbero riferirsi con altri nomi dei protagonisti ma con ruoli simili ad altri tribunali. Anche a Vicenza? Rumors intorno al palazzo ci sono, su qualche fatto avremmo anche domande dirette da fare, ma ci vorrebbe un po' di coraggio in più ...Soprattutto da parte di quegli avvocati, commercialisti, imprenditori, fornitori che si ritengono vittime del presunto sistema ma che non osano denunciarlo visti i nomi altisonanti di chi lo gestirebbe, sia come registi che come "utilizzatori finali", studi (mega studi?) di consulenza e professionisti (molto noti?) con pochi scrupoli e molti agganci in primis. Ci vuole coraggio da parte delle presunte vittime nel non limitarsi a ipocriti silenzi, che saprebbero altrimenti di gravi corresponsabilità se i fatti da loro lamentati fossero veri o di subdolo insulto all'onestà di chi loro accusano solo nelle segrete stanze delle lagnanze se i loro j'accuse" fossero falsi. Non sarà certo il silenzio a sconfiggere quel sistema, se c'è, e i danni enormi, economici e sociali, che procurerebbe, ma servono fatti, testimonianze e documenti. Sperando che i rumors siano falsi ma sollecitando prove del contrario, se esistessero, per valutarle ed eventualmente pubblicarle, noi, intanto, pubblichiamo l'inchiesta de L'Espresso: potrebbe servire da stimolo a fare chiarezza e, quindi, a  qualcosa di più che non solo a informare su una Roma malsana che condanniamo ma che corriamo il rischio di scoprire anche qui, a Vicenza. Magari con colpevole ritardo. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. L'intrallazzo romano è sempre una miniera di cronache incredibili, ma il racconto del tribunale fallimentare capitolino fatto da uno dei suoi stessi magistrati supera ogni fantasia: è un circo, dove vanno in scena politici e mannequin, boss e cantanti. L'ex ministro Franco Frattini telefonava al giudice per "raccomandare" un suo amico architetto che doveva far fallire "dolcemente" una società che gestiva miniere di oro e diamanti in Africa. La cantante e presentatrice tv Stefania La Fauci apriva la strada a suoi conoscenti per acquistare aziende e alberghi. L'attrice e modella cinese Dong Mei sarebbe stata utilizzata dal marito, Federico Di Lauro, commercialista attivo nei fallimenti, per dirottare in Asia grosse somme di denaro che provenivano illegalmente dalle procedure giudiziarie. E poi magistrati corrotti che aggiustavano sentenze, curatori infedeli, avvocati che falsificavano carte e testimoni. Alcuni erano già stati arrestati quasi vent'anni fa nell'inchiesta Toghe Sporche su Cesare Previti e poi prosciolti, altri sono figli di magistrati citati in quell'istruttoria. Un bazar dove tutto era possibile, descritto nei lunghi verbali di Chiara Schettini, fino al 2009 giudice della stessa Fallimentare. Una dama ben introdotta nei salotti romani, che ha vissuto tra l'attico capitolino, l'appartamento di Madonna di Campiglio, quello di Parigi e l'altro di Miami, proprietà che sostiene di avere ereditato dalla madre. Poi nello scorso giugno è stata arrestata, con l'accusa di corruzione e peculato, e dopo mesi di cella ha deciso di confessare davanti al procuratore aggiunto Nello Rossi e al sostituto Stefano Fava. Ha chiamato in causa giudici, legali, commercialisti e pure il padre di suo figlio, l'avvocato Piercarlo Rossi. «Mi rendo conto di aver sbagliato e l'esperienza del carcere che ho vissuto, ingiustamente, mi ha fatto crescere molto, mi ha migliorata, ho preso coscienza di gravi mie leggerezze, perché mi sono fidata di Piercarlo Rossi di cui ero innamorata». Anche lui è finito agli arresti. E anche lui ha riconosciuto parzialmente le sue responsabilità, completando questo affresco di malaffare su cui ora indagano le procure di Roma e Perugia. Ora su molti punti Chiara e Piercarlo si accusano reciprocamente, ma l'intreccio delle loro rivelazioni offre una ricostruzione grottesca della sezione fallimentare: gli amici più spregiudicati vengono protetti o fatti arricchire, gli imprenditori senza coperture e i loro dipendenti finiscono invece in rovina. La Schettini non ha dubbi nell'indicare il responsabile di questo sistema: Tommaso Marvasi, da settembre 2012 presidente del tribunale delle imprese di Roma, arbitro di tutte le controversie in materia di proprietà industriale, diritti d'autore, diritto della concorrenza e societario e dei grandi contratti pubblici. Adesso Marvasi deve decidere se obbligare Google a versare al gruppo Fininvest un risarcimento di circa 500 milioni di euro per la violazione dei diritti sui video messi in Rete. Una singolare coincidenza generazionale. Marvasi, insieme al defunto padre Mario, anche lui magistrato romano, è citato negli atti del processo sul Lodo Mondadori come amico di famiglia di Cesare Previti. E oggi il figlio di Previti, Stefano, difende Mediaset in questa causa contro la multinazionale. I verbali della Schettini sono spietati: «L'ambiente alla Fallimentare mi è sempre stato molto ostile perché è durissimo, è atavico. Non ci sono soltanto spartizioni di denaro ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, e nessuno fa niente. Mi sono scontrata in modo violento con Tommaso Marvasi che era il dominus, era di fatto il capo della Fallimentare; l'ha sempre governata, c'è stato dieci anni ma è come se ci fosse stato venti. Un giorno piangendo per quello che mi faceva ho telefonato a Luigi Scotti (ex presidente del tribunale di Roma, ndr.) e mi ha detto: "Marvasi è il capo della cupola"». E prosegue: «Entravo in camera di consiglio e mi diceva "questo si fa fallire e questo non si fa fallire". Venivo messa in minoranza dai colleghi che si erano già accordati su cosa fare. Cercavo di puntare i piedi ma era inutile... C'erano curatori come Federico Di Lauro a cui sono stati liquidati in un procedimento 850 mila euro di compensi, perché era protetto da Marvasi che veniva in udienza a imporre le somme per i suoi amici. Mi opponevo ma ero sempre messa in minoranza». Il pm chiede chi erano gli altri due componenti del collegio: «Pannullo e Deodato o Pannullo e Severini, erano sempre loro. Poi arrivava Marvasi e diceva: "Si deve fare così", e la sua decisione veniva approvata a maggioranza». Ci sono luoghi che ritornano, come i bar di via Ferrari a pochi passi da piazza Mazzini: lì avvenne l'intercettazione del giudice Renato Squillante che nel 1996 fece nascere l'inchiesta Toghe Sporche. E lì continuano a girare le mazzette. «Si sapeva che Deodato per una nomina a commissario giudiziale andava con la valigetta e prendeva 150 mila euro da Staffa (commercialista con studio nella stessa via, ndr.). Il presidente Deodato per ogni nomina si faceva pagare e siccome lui ha dato tre quarti delle nomine allo studio Staffa, lo scambio avveniva nel bar di via Ferrari. Lo sapevano tutti. Lo dicevano chiaramente. La persona che veniva nominata consegnava la valigetta con i soldi al giudice». Per amor di verità e per correttezza nei confronti di chi oggi è vittima ci preme approfondire alcuni aspetti della vicenda, senza, però, censurare tutto o parte dell’inchiesta di Lirio Abbate, già di per sé di dominio pubblico. A tal proposito con email del 22 gennaio 2014 i legali di Deodato hanno tenuto a precisare quanto segue: «All’att.ne del Dott. Antonio Giangrande. Il Dott. Giovanni Deodato mi ha incaricato di tutelare la sua onorabilità con riferimento alle dichiarazioni rese dalla Dott.ssa Schettini alla Procura della Repubblica di Roma e riportate dal numero 3 del settimanale L'Espresso, uscito  il 17.01.2014,  alle pagine 42-43, nell'articolo intitolato “Voi fallite, noi rubiamo" (sottotitolo "Cause truccate, tangenti, favori. In un tourbillon di magistrati venduti, politici, top model che esportano milioni. Un pentito racconta”) di Lirio Abbate. Al riguardo, rappresento che il Dott. Deodato, per l'intera durata della sua Presidenza della Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma (gennaio 2005 - dicembre 2009), non ha mai conferito alcun incarico né di Commissario Giudiziale, né di altro tipo al Prof. Antonio Staffa o a professionisti del suo studio. A conferma di quanto esposto, e quindi del carattere calunnioso delle dichiarazioni della Dott.ssa Schettini, il mio assistito ha già provveduto a richiedere apposita certificazione alla Cancelleria della Sezione Fallimentare. La invito perciò a soprassedere dall'inserire nella Sua rivista "l'Italia dell'impunità", i fatti asseriti dalla Dott.ssa Schettini riguardanti la persona del Dott. Deodato, in attesa  del rilascio della menzionata certificazione della Cancelleria della Sezione Fallimentare, che sarà mia cura inviarLe sollecitamente. Gradirei Suo riscontro in proposito. Distinti saluti. avv. Maria Cristina Pieretti.». Antonio Staffa fu arrestato nel 1996 dal pool milanese assieme ad alcuni professionisti vicini a Cesare Previti con l'accusa di avere falsificato una perizia: l'inchiesta fu poi trasferita dalla Cassazione a Perugia e il commercialista prosciolto. Come spesso accade a Roma, ogni storia porta alla luce ragnatele di interessi e relazioni. «Un giorno mi telefona Franco Frattini dicendomi che un suo amico, Maurizio Bonifati, aveva bisogno di consigli perché aveva la società Mining che stava per fallire. Lo feci venire a casa mia e gli dissi di fare un concordato. Dopo alcuni giorni ero in montagna a sciare e mi chiama il collega Fausto Severini: mi comunica che ero stata sorteggiata come giudice delegato del fallimento della Mining e mi era stato assegnato come curatore l'avvocato Andrea Trecapelli che fa affari con Piercarlo. Sono rimasta impietrita, non so come hanno fatto a fare questo sorteggio... Hanno organizzato il fallimento della Mining a tavolino con creditori fittizi e prestazioni gonfiate. E secondo me mi hanno fatto dare il fallimento perché ero la più cogliona». Diversa la ricostruzione di Piercarlo Rossi davanti ai pm di Perugia: «Nei primi mesi del 2007, la Schettini mi presentò a casa sua l'architetto Maurizio Bonifati, fratello del noto costruttore romano, Enzo Bonifati, che gli era stato presentato da una sua cara amica Stefania La Fauci. Maurizio Bonifati si trovava in una situazione di forte indebitamento dovuta alla crisi intervenuta nel suo gruppo che fa capo alla Mining Italiana, caduta in "pre-fallimentare". L'accordo che raggiunse Bonifati con la Schettini fu quello di impegnarsi a corrispondere una somma di 800 mila euro, attraverso l'insinuazione al passivo di poste creditorie inesistenti, create ad hoc, da iscrivere con un grado privilegiato di primo ordine (ex lavoratori dipendenti), in modo da precedere tutti gli altri creditori. Il mio ruolo sarebbe stato quello di aiutare Schettini e Bonifati proprio nel creare queste pratiche. La società, nel mese di maggio del 2007 fu dichiarata fallita con la nomina di Chiara Schettini a giudice delegato». In pratica, la coppia inventa una serie di ex dipendenti in attesa di stipendio in modo da permettere all'imprenditore di portare via 800 mila euro. E questo in un fallimento - come spiega Rossi - che «riguardava una società che aveva goduto per molti anni di finanziamenti pubblici (ministero dello Sviluppo economico) di quasi 50 milioni, per la ricerca e l'estrazione di oro in diverse miniere all'estero (Africa, Canada, Cuba)». Ogni favore ha un prezzo, in un do ut des che sembra unire tutti i potentati capitolini. Pure Stefania La Fauci, esordio da cantante a Castrocaro, per tre volte a Sanremo senza sfondare, poi conduttrice della "Banda dello Zecchino" su RaiUno e a lungo inviata di "UnoMattina", sarebbe stata premiata per la sua mediazione. Secondo Schettini la cantante è amica di Frattini. Dichiara Rossi: «La Fauci ottenne come sua ricompensa, almeno per quanto mi è noto, l'assunzione quale dipendente di "Risorse per Roma" (società del Comune di Roma, dove Maurizio Bonifati era stato nominato dal sindaco Alemanno amministratore delegato, ndr.): questione poi divenuta di pubblico dominio con lo scandalo delle "50 nuove assunzioni" eseguite dai vertici nominati da Alemanno, tra cui Bonifati». E la Schettini? Nel 2009 è stata accusata di falso e sospesa dal Csm. Ma non avrebbe rinunciato al suo tornaconto, di grande pregio. «Non essendo più giudice delegato in quanto sospesa, chiese a Bonifati un favore. Bonifati doveva dare un benestare, nella sua qualità di amministratore delegato di "Risorse per Roma", a cedere a un prezzo agevolato un appartamento di proprietà del Comune». Una casa da sogno in piazza Margana, uno degli angoli più suggestivi di Roma a pochi passi dal Campidoglio: 160 metri quadrati all'ultimo piano, con una terrazza a 360 gradi che domina tutto il centro storico «di un valore molto superiore a quello pagato». Riesce infatti a comprarla per 600 mila euro: un affare unico, che gli ha garantito una vista eccezionale per le sue cene mondane. Pure sulla Mining sono state avviate indagini: Maurizio Bonifati è finito sotto processo per truffa aggravata e bancarotta fraudolenta. Ma dallo scorso aprile l'architetto amico di Frattini e Alemanno si è trasferito in Calabria: l'hanno nominato assessore comunale ai Lavori pubblici a Cirò Marina, il cui sindaco è stato eletto con il sostegno del centrosinistra. La vera miniera d'oro però sembrano essere gli uffici del tribunale. La Schettini ricostruisce i flussi di denaro esportati dal suo ex compagno: «Ha un'enorme ricchezza all'estero non soltanto in Svizzera, perché usava Lussemburgo, Cipro, Montecarlo e pure la Cina dove Piercarlo Rossi mi disse che anche Tommaso Marvasi aveva mandato un sacco di soldi». Il canale asiatico sarebbe stato aperto da Di Lauro grazie alla moglie, l'ex modella cinese Dong Mei, condannata lo scorso anno per riciclaggio. Nei verbali non poteva mancare l'ombra della criminalità organizzata. L'ex giudice dichiara che Piercarlo Rossi e i suoi complici «avevano un'associazione con Federico Di Lauro che lavorava anche con la Banda della Magliana», mentre Rossi era «molto agganciato a bande di romeni di Ostia». «Volevo denunciare Di Lauro ma Tommaso Marvasi mi ha bloccata dicendo: "Vuoi che tuo figlio venga gambizzato?", e poi ha aggiunto: "Il padre ha lavorato per Nicoletti. Ma stai scherzando?"». La donna è terrorizzata: «Mi hanno messa alle strette con questa storia della Banda della Magliana, piangevo ogni giorno, avevo paura per mio figlio. Quando sapranno di questo interrogatorio mi metteranno una bomba». Paure che rievocano un terrore antico: nel 1979 le Brigate Rosse uccisero davanti ai suoi occhi il padre, consigliere provinciale Dc molto discusso per l'attività di avvocato fallimentare ed esecutore di sfratti. La commistione tra piani alti e bassifondi, tra professionisti e banditi è surreale. La Schettini accusa Rossi di avere partecipato persino a una rapina, messa a segno dal muratore Augusto Alfieri, un pregiudicato di Ostia che sarebbe stato inserito come falso consulente in molte liquidazioni, incassando migliaia di euro. «Piercarlo con Augusto era amico e si vantava ogni tanto di fare qualche rapina insieme. Mi disse:"Sì, una volta ho fatto il palo mentre lui rapinava"». Millanterie da Romanzo Criminale? Rossi non sembrava temere le procure. Secondo l'ex compagna, agli inizi dello scandalo fallimenti «quando gli ho detto di andare a confessare tutto al pm, lui mi ha risposto ridendo: "Ma figurati, mentre i magistrati stanno fino a tarda notte a cercare indizi su di me, io me la spasso a champagne e caviale a Montecarlo"». Ora però il vento potrebbe cambiare. Da Roma a Perugia l'indagine sulle toghe sporche può portare molto in alto. Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, ed al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto: questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile. (Aristotele) «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». Le parole sono ancora più inquietanti perché arrivano da un Giudice: Chiara Schettini, scrive Giulio Cavalli. Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l’ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata il 12 giugno 2013 per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c’è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l’aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l’avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione…. È veramente una rottura senza limiti… Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». Secondo quanto scrivono ‘Il Messaggero’ e ‘Il Fatto Quotidiano’ la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo. L’inchiesta, scrivono ‘Messaggero’ e ‘Il Fatto’, è partita da un esposto presentato da Francesco Taurisano, fino a pochi mesi fa giudice della Fallimentare di Roma, che accusa i suoi ex capi: il presidente di sezione, Ciro Monsurrò e il presidente del Tribunale di Roma, Paolo de Fiore. L’accusa, al vaglio del procuratore capo di Perugia Giacomo Fumo, ha per oggetto le nomine della “procedura fallimentare più grande d’Europa”, cioè la Federconsorzi, la gestione da parte del Tribunale di Roma del crack del gruppo Di Ma-rio (un importante gruppo di costruzioni prima dichiarato fallito, poi rimesso in amministrazione straordinaria e poi recentemente nuovamente dichiarato fallito) e infine le nomine del presidente del Tribunale Paolo de Fiore. Secondo ‘Il Fatto’ un esempio fatto da Taurisino per far capire le procedure che sarebbero adottate nel Tribunale fallimentare, è quello dell’avvocato Giuseppe Tepedino. Avvocato che, secondo l’esposto, avrebbe cumulato incarichi milionari dal Tribunale: Taurisino fa notare che la moglie di Tepedino è la segretaria del presidente del Tribunale di Roma De Fiore e nipote del presidente della sezione fallimentare Ciro Monsurrò. Ma il caso più importante citato nell’esposto di Taurisino è quello di Federconsorzi. Al centro dell’esposto c’è l’ultima tornata di nomine dei commissari Federconsorzi che – almeno stando a quanto denunciato – sarebbe stata oggetto di una disputa durissima tra giudici alla fine della quale un commercialista già nominato (Roberto Falcone) avrebbe rinunciato all’incarico per le pressioni indebite del presidente del Tribunale fallimentare Ciro Monsurrò, che aveva in mente un altro nome e che avrebbe quindi nominato un altro commissario, con cui era, secondo l’accusa, in “ottimi rapporti”. Chiara Schettini, ex giudice fallimentare del Tribunale Roma, è stata arrestata mercoledì mattina 12 giugno 2013 su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. Il giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede, è stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere. Perquisizioni sarebbero ora in corso da parte dei magistrati perugini a Roma. La giudice è accusata dai pm di Perugia di essere coinvolta in una “cricca di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma”. Insieme a lei, iscritti sul registro degli indagati ci sono anche il presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, e il giudice a latere Nicola Pannullo. Il nome della giudice Schettini era balzato agli onori delle cronache alcuni anni fa in merito alla controversa sentenza, da lei firmata, che diede momentaneamente il via libera all’utero in affitto per una donna che non riusciva ad avere figli. La cricca dei curatori fallimentari, sarebbe secondo l’accusa, di una serie di sentenze pilotate che attraverso la redazione di documenti falsi e scritture notarili con firme “taroccate”, avrebbero lasciato confluire quantità ingenti di denaro su conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro, per poi sparire nei paradisi fiscali. Chiara Schettini: «Io giudice, più mafiosa dei mafiosi». Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l'ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei, scrive Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c'è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l'aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l'avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione.... È veramente una rottura senza limiti... Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». Pochi dubbi quindi che sui risarcimenti pilotati al fallimentare (dove buone e consolidate relazioni possono tuttora aprire molte porte) tra gli anni 2004 e 2008 - tutte procedure approfondite dagli investigatori coordinati da Nello Rossi - la Schettini avesse un ruolo determinante. Tra i frutti delle perquisizioni eseguite mercoledì 12 giugno 2013, con l'arresto della Schettini, l'affiorare di ulteriore documentazione che proverebbe il coinvolgimento di Grisolia, una sorta di «faccendiere» secondo gli investigatori di Perugia, nelle vicende della giudice. L'interrogatorio di garanzia è previsto per venerdì. La Schettini, assistita da Carlo Arnulfo e Giovanni Dean nega ogni addebito e risponderà alle domande del pm Manuela Comodi. Sentenze pilotate e giudici sotto inchiesta. Coinvolta Chiara Schettini, famosa per il via libera all'utero in affitto e compagna di un commercialista. L'accusa: «Consulenze d'oro e crediti pagati senza verifiche», scrive Haver Flavio su “Il Corriere della Sera”. Il caso più eclatante è quello della sceneggiatura commissionata da una azienda specializzata nella produzione di olio extravergine d'oliva, liquidata con due milioni e mezzo di euro. E poi ci sono «consulenze d'oro». Sentenze in tempi da «Guinness dei primati» per la giustizia nostrana, appena un giorno. E crediti pagati senza fare verifiche approfondite. L'inchiesta sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare ha registrato nelle ultime ore un clamoroso e, per certi verso inaspettato, salto di qualità: i nomi del presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, del giudice a latere Nicola Pannullo e delle relatrice dei provvedimenti, Chiara Schettini, sono stati iscritti sul registro degli indagati dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi. L'accusa è grave, peculato. Proprio ieri il pm ha interrogato a lungo nel carcere romano di Regina Coeli i personaggi arrestati nella prima fase dell'inchiesta dai colleghi della Capitale, che hanno trasmesso poi per competenza alle toghe della città umbra il fascicolo. E dopo la reiterazione dei provvedimenti di custodia cautelare da parte del gip di Perugia Lidia Brutti, le deposizioni di ieri hanno consentito di delineare con maggiore precisione il quadro di ruoli e complicità utilizzati per arrivare a ottenere «provvedimenti pilotati» su decine e decine di ricchi fallimenti all'esame del Tribunale di Roma. La posizione più delicata è quella del giudice relatore. La Schettini, diventata nota alcuni anni fa per la controversa e contestatissima sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli, è la compagna di uno degli arrestati, quel commercialista Piercarlo Rossi che ? secondo l'accusa ? sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti falsi e scritture notarili con firme «taroccate» che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi ? con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce ? nei paradisi fiscali.Le bancarotte su cui si sono ufficialmente accesi i fari sono tre. Della «Pasqualini», della «Tecnoconsult» e della «Domitia Hospital» le toghe si sono occupate in un lungo lasso di tempo, almeno una decina d'anni fino al 2005. Nel caso del fallimento della prima l'escamotage per dirottare e incassare i soldi liquidati è stato quello che più di altri ha insospettito per le modalità e per la facilità con cui la «cricca» ha proceduto: il commercialista Federico Di Lauro (marito della show girl di origini cinesi Dong Mei, arrestata in un altro procedimento), era riuscito a far inserire tra i creditori gli autori di una sceneggiatura per una serie di fiction televisive dal titolo «Serial giallo». Peccato che le indagini dei pm romani Stefano Fava e Giorgio Orano e del procuratore aggiunto Nello Rossi abbiano portato alla luce ben altra attività: il core business della «Pasqualini» ? è stato ricordato negli ordini di cattura ? era «estrazione, raffinazione e commercializzazione dell'olio di oliva». Ex giudice fallimentare arrestata a Roma, i soldi finivano a Miami, scrive Valentina Errante su “Il Mattino” e su “Il Messaggero”. Due appartamenti al Colosseo, gli investimenti a Miami e le società lussemburghesi. Poi alcune case a Fregene e una Madonna di Campiglio gestite da società fiduciarie. Era lì che finivano i soldi sottratti ai fallimenti, almeno secondo il gip Lidia Brutti, che due giorni fa ha arrestato il giudice Chiara Schettini con le ipotesi di peculato, falso, corruzione e per le minacce a un avvocato che doveva ritrattare le accuse nei suoi confronti. Un reato commesso in concorso con gli avvocati Antonio Casella e Roberto Clemente, anche loro indagati. L’ordinanza racconta come il giudice, nonostante i procedimenti pendenti «non abbia mai modificato il suo modo di esercitare la giurisdizione, piegandola agli interessi propri e dei professionisti di cui si è di volta in volta servita con una non comune determinazione e scaltrezza e con capacità di determinare altri a delinquere, offrendo loro prospettive di crescita professionale e facile arricchimento». I soldi del fallimento Tecnoconsult, una dei tre curati da giudice e finiti sotto accusa, secondo le indicazioni del compagno della Schettini, Piercarlo Rossi, dovevano essere accreditati sul conto della società lussembrurghese Xtelis international limited o sulla Allegra Investment di Federico Mario Carlo De Vittori, il riciclatore elvetico della coppia. Si legge nell’ordinanza: «Rossi aveva formato le false lettere di incarico per giustificare i crediti, poi aveva provveduto a gestire la pratica relativa alla cessione del credito del Baldi (procuratore all’incasso di tutti i finti creditori) alla società Allegra Investment, riconducibile a De Vittori. Quest’ultimo secondo le indicazioni di Rossi, aveva poi girato le somme alle destinazioni finali: 650mila euro all’acquisto dell’appartamento di via del Colosseo, con somme transitate estero su estero, euro 188mila 459 a Ugo Valenti negli Stati Uniti, destinati agli investimenti immobiliari a Miami». Ma sono due gli appartamenti, in via del Colosseo, acquistati da Rossi e Schettini con i soldi dei fallimenti. Il secondo, del Comune di Roma, viene riscattato dalla vecchia affittuaria con i soldi di Rossi e Schettini. «Appaiono significativi - si legge nell’ordinanza - i molteplici contatti telefonici di Chiara Schettini con vari soggetti nell’imminenza della scadenza della rata Imu di dicembre 2012 che palesavano come, fra non poche ansie, avesse dovuto occuparsi in prima persona delle gestione dei relativi pagamenti». Immobili intestati a società, alcune delle quali collegate a fiduciarie riconducibili a Rossi, e sequestrate al momento dell’arresto del professionista. Case a Fregene e Madonna di Campiglio. «L’indagata giungeva addirittura a ipotizzare di avanzare istanza di restituzione e si preoccupava di precostituire prove della provenienza della provvista utilizzata per l’affitto di Madonna di Campiglio da conto corrente intestato alla madre defunta, nonché della propria partecipazione diretta alle trattative finalizzate alla stipulazione del contratto preliminare». E’ stato il curatore fallimentare Federico Di Lauro a raccontare ai pm com’era andata: «Dopo l’estate 2010 la Schettini mi chiamò e mi disse che voleva regalare un gommone al suo compagno Piecarlo, se potevo aiutarla a trovarne uno. Ci incontrammo all’Eur con l’amico mio andammo a provare l’imbarcazione al Circeo. Dopo qualche giorno la Schettini mi chiamò e mi disse che il gommone le piacevae aveva intenzione di prenderlo. Mi riferì però di dire all’amico mio che, in cambio del gommone, gli avrebbe conferito un buon incarico in una procedura fallimentare. Alla fine la compravendita non andò a termine perché la Schettini, sospesa dala funzione, non garantiva il conferimento dell’incarico». Era stata trasferita a L'Aquila nel marzo stesso, come pubblicato nel Bollettino ufficiale del Ministero della giustizia. Oggi, è finita agli arresti, scrive “Abruzzo 24”. Si tratta di Chiara Schettini, romana, magistrato ordinario di quinta valutazione di professionalità con funzioni di giudice del Tribunale di Roma, trasferito al Tribunale di L’Aquila con funzioni di giudice. A riportare la notizia del suo arresto è il Corriere della sera nell'edizione romana. L'arresto è avvenuto mercoledì mattina su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento - riferisce il Corriere della sera- sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. La Schettini, secondo quanto riferito dal Corriere, è coinvolta nell'indagine  portata avanti dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi, sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma. La Schettini è salita agli "onori della cronaca" anni fa per la controversa sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli. La Schettini è inoltre la compagna di Piercarlo Rossi, commercialista che — secondo l'accusa — sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti con firme falsificate che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi — con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce — nei paradisi fiscali. Sull'arresto del giudice Schettini in servizio a Roma, c'è anche una lettera dell'ANM. "In relazione alle odierne notizie di stampa, relative all’avvenuto arresto del magistrato in servizio da quest’anno presso il tribunale di L’Aquila, Chiara Schettini, ivi trasferita fuori concorso dal Consiglio Superiore della Magistratura, la Giunta Distrettuale abruzzese dell’Associazione Nazionale Magistrati prende atto con disagio di quanto accaduto, convinta che, comunque, il merito delle vicende venga affrontato nelle aule di giustizia con i dovuti strumenti processuali. Con riferimento alla copertura del già esiguo e insufficiente organico di giudici del Tribunale di L’Aquila, Ufficio presso cui pendono indagini e processi di natura complessa e delicata, conseguenti alle molteplici conseguenze sociali e giuridiche del sisma del 2009, le cui ferite sono assolutamente aperte e drammaticamente attuali, la Giunta auspica che le prossime scelte di Autogoverno avvengano con particolare attenzione. In questo ambito si pone anche l’attesa di tutti gli operatori di giustizia aquilani per la nomina del nuovo presidente del Tribunale di L’Aquila, che si spera il Consiglio Superiore della Magistratura voglia adottare quanto prima". Favori in cambio di sesso. Il pm di Roma Roberto Staffa è stato arrestato dai carabinieri per concussione, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. L'ordinanza è stata emessa dal gip di Perugia su richiesta della procura. Staffa, 55 anni, è stato incastrato dalle riprese video che lo mostravano insieme ad alcuni transessuali nel suo ufficio al quarto piano della palazzina B della procura romana. I viados sarebbero stati ricattati: secondo l'accusa, se avessero accettato le avances del pm, avrebbero evitato, almeno in parte, guai con la giustizia. Ma dopo un anno e mezzo di rapporti uno di loro ha raccontato cosa accadeva. Gli accertamenti della magistratura umbra, infatti, sono partiti proprio da una segnalazione della procura di Roma circa comportamenti anomali di Staffa, che recentemente non era stato riconfermato nel pool della Dda. Di tutto rispetto, il curriculum di Staffa, che è approdato alla procura di Roma circa 15 anni fa. La sua prima importante esperienza professionale fu da presidente della corte d'assise di Venezia. In tale veste, nel '97, condannò a 19 anni di reclusione l'ex boss della banda del Brenta, Felice Maniero, per 9 omicidi. Ma una certa notorietà la raggiunse nella capitale con l' inchiesta sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina che culminò con numerosi arresti, tra cui quelli del professor Ilio Spallone e del nipote Marcello, figlio di Mario, l'ex medico di Togliatti. Inoltre, come magistrato della Dda distrettuale, il pm si è occupato anche dei reati sulla persona: violenze sessuali, (oggi a lui contestati), maltrattamenti in famiglia, riduzioni in schiavitù e di violazione delle legge sugli stupefacenti. Una storia di sesso in cambio di favori, ma non in un ufficio qualunque. Il protagonista è Roberto Staffa, 55 anni, napoletano, pubblico ministero di Roma, fino a poco tempo fa inserito nel pool della direzione distrettuale antimafia, scrive “La Stampa”. Concussione, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio i reati contestati al magistrato dalla procura di Perugia, competente a procedere nei confronti degli inquirenti della capitale, che oggi, tramite i carabinieri, ha fatto notificare all’indagato l’ordinanza di custodia cautelare. Staffa è stato trasferito nel carcere di Capanne, nel capoluogo umbro, e quasi certamente venerdì prossimo sarà sottoposto all’interrogatorio di garanzia. Una brutta storia che prende avvio dalle dichiarazioni di un trans, arrestato in una retata antiprostituzione, e che trova la prova in alcune intercettazioni ambientali e video che inchiodano Staffa: gli scambi sessuali, con donne legate a imputati e trans, avvenivano anche nel suo ufficio di Piazzale Clodio. Pesanti le accuse formulate dal procuratore Giacomo Fumu e dal sostituto Angela Avila. In sostanza sesso come baratto: in cambio di informazioni su procedimenti giudiziari al suo vaglio, in cambio di permesso di colloqui con un detenuti e anche di permessi di soggiorno per motivi di giustizia. Gli accertamenti sono partiti proprio su input della procura di Roma. Ad incastrare il pm sono stati, tra l’altro, le dichiarazioni di un trans il quale, interrogato dal pm Barbara Zuin nell’ambito di un procedimento per prostituzione, avrebbe dichiarato di essere ricattato da Staffa, che in cambio della sua `protezione´ pretendeva rapporti sessuali, ed un’intercettazione ambientale, con relativo filmato, del rapporto sessuale consumato con una donna in cambio, appunto, di un colloquio in carcere. A Roma, dove era in servizio da 15 anni, Staffa era arrivato da Venezia dove aveva ricoperto il ruolo di presidente di Corte d’Assise. In questa veste, nel 1997, il magistrato condannò a 19 anni di carcere Felice Maniero, l’ex boss della banda del Brenta accusato di nove omicidi, e processò i componenti del gruppo dei «Serenissimi» protagonista di un clamoroso assalto al campanile di piazza San Marco la notte tra l’8 e il 9 maggio del 1997. Ma a Venezia Staffa era arrivato dopo un trasferimento deciso dal Csm: il magistrato nell’89, in forza a Trieste, aveva firmato una lettera di solidarietà per un imputato, poi condannato, per pedopornografia. A Roma è stato titolare dell’inchiesta sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina che sfocio in vari arresti tra cui quello del professor Ilio Spallone. Poi la Dda e ultimamente le inchieste su droga e prostituzione. A piazzale Clodio Staffa era noto anche per aver fatto parte di un gruppo musicale, i Dura Lex, in cui suonavano anche altri magistrati e avvocati. «Staffa - ha dichiarato il suo difensore, Salvatore Volpe - è un galantuomo assoluto, un magistrato che ha sempre anteposto il dovere e gli impegni professionali alle esigenze personali». Concussione, corruzione e rivelazione del segreto d'ufficio, così scrive Lavinia Di Gianvito e la Redazione Roma Online su “Il Corriere della Sera”. Per queste accuse è finito in carcere il pubblico ministero di Roma Roberto Staffa, nato a Napoli, toga con la passione della musica tanto da far parte di un gruppo di magistrati, avvocati e non solo: «Dura Lex». I reati contestati sarebbero legati a favori in cambio di sesso. L'ordinanza di 93 pagine è stata eseguita dai carabinieri del Nucleo investigativo ed è stata emessa dal gip del tribunale di Perugia Carla Giangamboni, competente quando si tratta di indagini riguardanti magistrati romani. Sarebbero stati filmati, microspie e intercettazioni a incastrare Staffa. Le riprese mostrerebbero il magistrato insieme ad alcuni trans nel suo ufficio al quarto piano della palazzina B della procura della Repubblica. Una storia di sesso e ricatti: secondo l'accusa, i transessuali accettando le avances del pm avrebbero ottenuto informazioni sui procedimenti in cui erano indagati e permessi di soggiorno per motivi di giustizia. Il sostituto una volta avrebbe consumato un rapporto sessuale anche con una donna che, in questo modo, avrebbe ottenuto il permesso per un colloquio con un familiare in carcere. I rapporti a luci rosse sarebbero andati avanti da tempo, finché un anno e mezzo fa un trans - fermato nel corso di un'operazione antiprostituzione - avrebbe raccontato al pm Barbara Zuin cosa gli era capitato nell'ufficio al quarto piano. A quel punto la procura di Roma ha inviato un'informativa a Perugia e i magistrati umbri hanno piazzato telecamere e cimici nell'ufficio del magistrato e hanno dato il via alle intercettazioni. In serata il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dato incarico agli ispettori di via Arenula di chiedere alla procura di Perugia, compatibilmente con il segreto istruttorio, gli atti sul caso Staffa (che in seguito all'arresto è stato automaticamente sospeso dal servizio) per valutare le iniziative disciplinari. L'Anm, pur precisando di essere «nella doverosa attesa dei successivi approfondimenti d'indagine», ha ribadito «la centralità della questione morale», poiché «nella magistratura non possono esistere spazi di impunità».  Per otto anni Staffa ha fatto parte del pool della Direzione distrettuale antimafia (occupandosi di violenze sessuali, maltrattamenti in famiglia, riduzioni in schiavitù e droga) e per un periodo di tempo relativamente breve si è anche occupato delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ma il suo nome, a Roma, è legato soprattutto all'inchiesta sugli aborti clandestini Villa Gina, una delle cliniche della famiglia di Mario Spallone, il medico di Togliatti. Inchiesta conclusa nel 2002 con vent'anni di carcere per Ilio e Marcello Spallone, rispettivamente fratello e nipote del capostipite. Prima di approdare nella Capitale, circa 15 anni fa, Staffa è stato pm a Trieste. Città dalla quale il Csm lo aveva trasferito a maggio '89. Un trasloco forzato, perché il pm aveva sottoscritto una lettera di solidarietà a Sandro Moncini, accusato di traffico di materiale pornografico per avere spedito negli Stati Uniti riviste e videocassette per pedofili, con bambini come protagonisti. La lettera era stata inviata ai giudici di Los Angeles prima del processo, in cui poi Moncini era stato condannato a un anno e un giorno di carcere, a una multa di 200 dollari e a due anni di libertà vigilata. L'iniziativa era costata a Staffa un ammonimento e il trasferimento a Venezia. Dove anni dopo (1997), come presidente della corte d'assise, aveva condannato a 19 anni di carcere l'ex boss della banda del Brenta, Felice Maniero, per nove omicidi. Sesso con trans in cambio di favori, pm a Roma arrestato per corruzione. Roberto Staffa avrebbe avuto rapporti intimi nella sua stanza di piazzale Clodio. "Io ricattata per avere protezione". Ma anche con una donna per concedere un permesso di colloquio con un detenuto. Il magistrato ripreso anche da microspie e telecamere. L'ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Perugia. ll ministero Severino ha chiesto che vengano inviati all'ispettorato gli atti sul caso, scrive “La Repubblica”. E' stato incastrato da una trans il pubblico ministero di Roma Roberto Staffa, arrestato dai carabinieri con le accuse di concussione, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio e sospeso da servizio. Avrebbe consumato alcuni dei rapporti sessuali, oggetto di scambi di favori, proprio nel suo ufficio di piazzale Clodio: alcuni incontri a luci rosse sarebbero avvenuti nella sua stanza al quarto piano della palazzina B della Procura di Roma. I militari si sono recati nella sua abitazione. I reati contestati sarebbero legati a favori fatti dal magistrato in cambio di sesso, fatto anche con una donna, chiuso a chiave nel suo ufficio, per concedere un permesso di colloquio con un detenuto oppure in cambio del permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Il ministero della Giustizia ha chiesto alla Procura di Perugia che, compatibilmente con il segreto istruttorio, invii all'ispettorato gli atti sul caso di Roberto Staffa. Stando a quanto emerge dalle indagini, l'inchiesta sarebbe partita dalle accuse di una transessuale fermata, circa un anno e mezzo fa, a Roma durante un'operazione antiprostituzione denominata 'Fungo', nel quartiere Eur, in cui era emerso un 'commercio' di transessuali provenienti dalle favelas sudamericane. E' stata la stessa trans, in sede di interrogatorio dopo il fermo, ad affermare che i loro rapporti sessuali venivano consumati dentro l'ufficio del pm. Interrogata dal gip, ha dichiarato di conoscere il pm dal quale era ricattata in cambio della sua protezione. E ancora. Rapporti con la familiare di una persona finita in carcere. C'è anche questa contestazione per il pm Roberto Staffa. E sesso in cambio del permesso di soggiorno per motivi di giustizia: così almeno un immigrato - probabilmente un viados - avrebbe ottenuto grazie al magistrato il permesso dall'ufficio immigrazione della Procura di Roma, ignaro della vicenda. Molti incontri sono stati filmati da una microspia collocata nell'ufficio del magistrato dopo l'avvio degli accertamenti. Dalla procura di Roma, che non può indagare su magistrati del proprio ufficio, sono stati più di uno gli input inviati alla magistratura di Perugia che ha emesso l'ordinanza. L'inchiesta che ha portato all'arresto è partita da una segnalazione proprio della procura di Roma circa comportamenti anomali di Staffa. Un anno e mezzo di indagini, supportate anche da microspie e telecamere poste all'interno della uffici di Staffa e poi trasferite a Perugia per competenza, avrebbero filmato la presenza della trans. Il pm, recentemente, non era stato riconfermato nel pool della Direzione distrettuale antimafia. Approdato alla procura di Roma circa 15 anni fa, Staffa aveva prima avuto una importante esperienza professionale come presidente della corte d'assise di Venezia. In tale veste, nel '97, condannò a 19 anni di reclusione l'ex boss della banda del Brenta, Felice Maniero, per 9 omicidi. La prima inchiesta importante nella capitale che regalò una certa notorietà a Staffa fu quella sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina che culminò con numerosi arresti, tra cui quelli del professor Ilio Spallone e del nipote Marcello, figlio di Mario, l'ex medico di Togliatti. A medici e paramedici, Staffa contestava l'omicidio di feti (tritati o soffocati) giunti anche all'ottavo mese di gestazione. Successivamente il pm si è occupato dei reati sulla persona (violenze sessuali, maltrattamenti in famiglia, riduzioni in schiavitù) e di violazione delle legge sugli stupefacenti, come magistrato della Dda distrettuale. Per un periodo relativamente breve Staffa ha fatto anche parte del 'pool' di magistrati che ha indagato sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la 15enne sparita a Roma, nei pressi del Vaticano, in circostanze misteriose il 22 giugno del 1983. Un anno fa aveva portato avanti un'inchiesta su un traffico di droga che aveva portato in carcere 40 persone del clan dei Casamonica. Una nota di colore: insieme ad altri magistrati e ad alcuni avvocati faceva parte di un gruppo musicale dal nome 'Dura Lex'. Negli anni tra il 1977 e il 1988 Roberto Staffa è stato pm alla Procura di Trieste, coordinando con la squadra Mobile locale, indagini e operazioni sul traffico internazionale di sostanze stupefacenti quando andava delineandosi quella che sarà poi denominata 'rotta balcanica'. Il nome di Staffa, però, divenne noto in città per essere stato tra i circa 30 firmatari del mondo triestino del 'Tennis Club', di un 'affidavit', una lettera di solidarietà nei confronti di un industriale locale, Alessandro Moncini, arrestato all'aeroporto di New York nel 1988 per reati legati alla pedo-pornografia. La lettera fu inviata ai giudici americani prima di processare Moncini, che fu condannato negli Usa a un anno e un giorno di carcere. Il Csm ritenne ''incauto'' il comportamento tenuto da Staffa e ne dispose il trasferimento d'ufficio a Venezia, dove condannò il boss Maniero e si occupò del caso dell'assalto al campanile di Venezia nel 1998. Sconcerto e incredulità negli ambienti del palazzo di Giustizia di piazzale Clodio alla notizia dell'esecuzione della misura cautelare. L'Associazione nazionale magistrati, in una nota, "nella doverosa attesa dei successivi approfondimenti d'indagine, riafferma la centralità della questione morale. La violazione della legge da parte dei magistrati compromette la giurisdizione e la credibilità dell'ordine giudiziario". L'Anm "ribadisce che nella magistratura non possono esistere spazi di impunità; i magistrati sanno trovare gli strumenti necessari per individuare e sanzionare, anche al proprio interno, ogni comportamento contrario alla legge. Nell'auspicare un rapido accertamento dei fatti, l'Anm esprime, quindi, sostegno e apprezzamento per l'azione di quanti sono impegnati nella ricerca della verità". L'ufficio del magistrato è stato perquisito oggi dagli investigatori, alla presenza del procuratore di Perugia, Giacomo Fumu, e del sostituto, Angela Avila. L'avvocato Salvatore Volpe, difensore del magistrato, ha dichiarato di non aver ancora visionato l'ordinanza di custodia cautelare. ''Gli inquirenti - ha precisato - mi hanno informato che è stata secretata. Devo comunque sottolineare che Staffa è un galantuomo assoluto, un magistrato che ha sempre anteposto il dovere e gli impegni professionali alle esigenze personali. Un magistrato eccezionale - ha aggiunto - che fino ad oggi è sempre stato un avversario di incredibile valore. Malgrado ciò ha sempre avuto un cuore d'oro, una grande attenzione verso la persona che aveva di fronte''. Che cosa direste se il vostro giudice fosse sotto processo per aver maltrattato e minacciato l'anziana madre, costringendola a dormire d'estate o d'inverno sul divano in sala da pranzo, gettandole addosso oggetti, costringendola ad abbandonare le cure dell'ospedale per assumere farmaci cinesi? E cosa pensereste se quel signore con la toga, per risolvere i suoi problemi esistenziali e terreni, del tipo come corteggiare una donna o subaffittare un immobile, si affidasse a un gruppo spirituale che pratica il karma, l'«avvenuta ritualità luminosa», «la blindatura e pulizia aurica profonda della spiritualità»? Non rispondete. Di questi tempi a scrivere di certe cose personali dei magistrati si rischia la galera. Ed ancora. Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. Ed ancora. "Adesso basta, siamo stanchi di passare per insabbiatori, qualche mela marcia nel nostro Corpo c'è, ma la stragrande maggioranza di noi rispetta il giuramento fatto allo Stato. Il libro mastro di Anemone, quella lista con i 412 nomi, era stato consegnato nel 2008 in Procura a Roma". Come dire: è lì che la lista si è fermata, riposta in qualche cassetto e dimenticata. E così, dal fitto riserbo della Guardia di finanza trapela un'accusa pesante, che sarà verificata dai pm di Perugia e Firenze, pronti a interrogare generali ed ufficiali delle Fiamme Gialle: ad insabbiare quell'elenco che ha provocato un vero e proprio terremoto politico-giudiziario, sarebbe stata la procura di Roma. Quell'elenco sarebbe stato consegnato nel 2008 al procuratore aggiunto della capitale, Achille Toro. Il magistrato si è dimesso dall'ordine giudiziario nel febbraio 2010 dopo essere stato indagato con l'accusa di essere la talpa del gruppo di cui facevano parte i funzionari pubblici Angelo Balducci, Fabio De Santis, Mauro Della Giovampaola e l'imprenditore Diego Anemone. Ed ancora. La sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Il magistrato è anche sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia. Usava una "falsa" identità ,grazie a una tessera di riconoscimento che le era stata legittimamente rilasciata dalla Corte d'appello di Roma, ma sulla quale era riportata un'erronea data di nascita; e così disponeva di un codice fiscale che le permetteva di agire "al riparo da possibili responsabilità patrimoniali". Ed ancora. Il ministro interviene sul caso del Tribunale di Roma. Il Guardasigilli ha deciso di dar seguito al dossier che gli è stato consegnato al termine dell' indagine amministrativa. Per questo chiederà di esercitare l'azione disciplinare nei confronti dei giudici sospettati di commesso irregolarità nell'assegnazione e nella gestione dei fascicoli. E chiederà anche di trasmettere copia del rapporto al Csm, competente a valutare le eventuali incompatibilità ambientali e funzionali dei responsabili dell'ufficio giudiziario della capitale. Davanti alla prima commissione dell'organo di autogoverno è già stata aperta una pratica nei confronti del presidente Giovanni Briasco, sospettato di aver favorito lo studio legale dove suo figlio fa pratica per diventare avvocato, quando si trattava di scegliere curatori e consulenti e di non aver rispettato i criteri di nomina dei giudici.

R come Rovigo: Alfano dovrebbe mandare gli ispettori ad indagare sui pm di Rovigo, rei, a quanto pare, di aver bloccato la trasformazione della centrale Enel di Porto Tolle a olio combustibile in una a carbone, meno inquinante secondo Luciano Violante. È questo il "consiglio" che l'ex presidente della commissione Antimafia ha dato, durante Cortina Incontra, al Guardasigilli Angelino Alfano. La notizia è riportata sulle pagine del Fatto Quotidiano.

S come Salerno: Punta sul rosso, bluffa con una doppia coppia..., scrive Enzo D’Errico su “Il Corriere della Sera”.  C'è una serata che fila per il verso giusto e altre, tante altre, in cui va tutto storto: le carte non entrano, i numeri non escono... E alla fine, quando si tratta di tirare i conti, t'accorgi che in rosso ci sei finito tu. E' capitato così anche a Nicola Boccassini, procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, un paesino dell'entroterra salernitano. Aveva trovato il modo di turare le falle, il magistrato: quel che perdeva al gioco, lo riguadagnava vendendo processi, condoni edilizi e provvedimenti d'ogni tipo. Si faceva addirittura pagare soggiorno e scommesse a Saint Vincent, dove era cliente fisso del casinò. E, come se non bastasse, in cambio dei suoi servigi chiedeva favori: un posto di lavoro per una figlia, una perizia tecnica da assegnare al genero, un appalto per qualche parente. Però, gli agenti della Dia di Napoli l'hanno arrestato su mandato del Gip Luigi Esposito. Le accuse: corruzione, concussione, favoreggiamento e abuso d'ufficio. Con lui sono finite in galera altre 6 persone, coinvolte a vario titolo nel giro d'affari del procuratore. Sarebbero stati emessi anche 7 avvisi di garanzia, uno dei quali riguarderebbe Anacleto Dolce, procuratore aggiunto a Vallo della Lucania e fratello di un altro magistrato, Romano Dolce, arrestato a Como nelle scorse settimane. Il sospetto è che il numero due della procura abbia spalleggiato gli imbrogli di Boccassini. Nella rete degli investigatori, comunque, è caduto l'avvocato Mario Siniscalco, ex consigliere comunale socialista di Salerno: era lui, secondo gli inquirenti, a fare da mediatore fra il magistrato e i suoi "clienti". Avevano messo in piedi una piccola ma efficiente società del malaffare. Siniscalco, tra l'altro, è stato a lungo presidente della commissione edilizia di Salerno, organismo di cui ha fatto parte anche Boccassini. E lì dentro i due hanno concesso più di un condono sospetto. L'inchiesta prende il via dalle dichiarazioni di Mario Pepe, un pentito della camorra, e dell'imprenditore Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino, coinvolto tempo fa nello scandalo delle "lenzuola d'oro". L'industriale ha raccontato che, sborsando una trentina di milioni, ottenne dal procuratore il condono edilizio per la sua villa. E che Boccassini, all'epoca sostituto a Salerno, aggiustò un processo d'appello in cui Graziano era imputato di omicidio colposo per la morte in fabbrica di un operaio: condannato in primo grado, assolto in seconda istanza. L'imprenditore pagò l'intercessione assumendo una figlia del magistrato e scucendo altri milioni. "C'erano giorni in cui Siniscalco mi chiamava e mi diceva: "Prenotaci una stanza a Saint Vincent" ed io ero costretto a pagare albergo e casinò", ha detto in sostanza Graziano. Manette anche per i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia. Si vantavano di poter condizionare i processi e furono messi sott'inchiesta da Boccassini per millantato credito. Sembra, però, che quell' indagine servì solo ad accordarsi coi due e coinvolgerli nel giro d'affari. Arrestate, infine, Laura e Liliana Clarizia, titolari dell' agenzia pubblicitaria "First Agency", di cui era socia un' altra figlia del procuratore. L'azienda, grazie a Boccassini, ricevette dalla comunità montana Lambro Mingardo la fornitura di 20 mila depliant pubblicitari. Non a caso, in cella è finito pure il sindaco di Ascea, Angelo Criscuolo, ex presidente della comunità montana. Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all'intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l'industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l'istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo. Assolti se a giudicare è un’amica. Dalla stampa sono pubblicati gli atti processuali divenuti pubblici, da cui si rileva che Luigi De Magistris, ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV, è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno. De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro in udienza camerale ex art. 409 CPP celebratasi il 16-10-2007 e disposta a seguito della sua richiesta di archiviazione del 12-3-2007, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissato dal GIP. In Catanzaro dall'aprile 2008 in poi". Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini che gli erano state ordinate da un GIP su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento. Le indagini erano state ordinate dal GIP di Catanzaro al P.M. De Magistris a seguito di camera di consiglio disposta in virtù di opposizione alla richiesta di archiviazione. Il seguito è cosa scontata. "Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010. "Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”.

S come Savona: Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto.

S come Siracusa: Parte da un’inchiesta di un coraggioso settimanale catanese, il reportage che ha terremotato la Procura della Repubblica di Siracusa. “C’è del marcio in Procura. Il Pm messinese Fabrizio Monaco ha richiesto, dal 7 luglio scorso, l’archiviazione del procedimento a carico di Maurizio Musco, sostituto procuratore a Siracusa, Alessandro Centonze, ex Pm alla procura di Catania e Pasquale Alongi, vice questore aggiunto ed ex dirigente del commissariato di polizia di Augusta. Tutti indagati per vari reati che vanno dall’abuso alla rivelazione di segreti d’ufficio. L’intreccio perverso tra magistrati indagati, poliziotti ed avvocati sfiora anche una delle società della famiglia dell’attuale ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo”. Il ministero decapita la procura di Siracusa. Disposto il trasferimento del Capo e del sostituto. Strani intrecci familiari, inchieste in prescrizione dopo tre udienze. "Pesanti ombre sul prestigio della magistratura". Il ministro della Giustizia interviene sulla Procura di Siracusa, dopo diverse interrogazioni parlamentari.

T come Taranto: Assolto perchè il fatto non sussiste, eppure ad Antonio Giangrande gli è stato chiuso un intero sito web per impedirgli di scrivere le nefandezze del Tribunale di Taranto. Se si trattava degli amici, la giustizia a Taranto poteva diventare strabica. E all'occorrenza anche cieca. Da questa accusa ora dovranno difendersi due alti magistrati, sospettati di aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina dietro una carica dirompente l'indagine condotta dai giudici di Potenza sul conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del palazzo di giustizia ionico. I pm Cristina Correale e Ferdinando Esposito hanno messo sotto inchiesta l'ex procuratore capo di Taranto Aldo Petrucci, poi alla guida della procura minorile di Lecce, e l'ex coordinatore dell'ufficio gip-gup Giuseppe Tommasino. Ed ancora. Il giornalista che va per la maggiore non vuole o non può pubblicare certe notizie, perché non ha il coraggio o, pur saccente, non ha la perizia giuridica per affrontare tematiche processuali, che solo scaltri avvocati riescono a scalfire. Per esempio, pragmaticamente, su sollecitazione di molti avvocati di Taranto vicini all’Associazione Contro Tutte le Mafie, prendiamo il caso concreto della decisione del Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli. Già abbiamo affrontato il caso di quel consulente tecnico che non ha risposto alle domande postegli dal giudice delegante ed anzi andò in antitesi alla consulenza tecnica della parte convenuta e ben oltre la richiesta della consulenza tecnica della parte attrice. In quel caso il Pm archiviò a carico del CTU la denuncia per falso, ma, ciò nonostante, il dr Antonio Morelli estromise tale CTU dall’apposito elenco e per gli effetti quel consulente non fu più chiamato. L’archiviazione dette modo al consulente estromesso di rivalersi contro il denunciante per calunnia. Il denunciante a sua volta denunciò, inopinatamente il sottoscritto che lo difendeva in giudizio, per diffamazione a mezzo stampa per aver svolto un’inchiesta giornalistica sul funzionamento della giustizia a Taranto. Una golosa occasione per i magistrati di Taranto per tacitarmi, così come spesso hanno fatto, non riuscendoci. Ma arriviamo al caso di specie. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). Il presidente lo ha fatto bacchettando il suo collega. Ed ancora. Sono stati sorpresi mentre si scambiavano una mazzetta di quattromila euro. Così sono stati presi, in flagranza di reato, il giudice Pietro Vella e l'avvocato Fabrizio Scarcella. I due sono stati arrestati il 13 marzo 2012 su ordine di cattura firmato dal gip del Tribunale di Potenza su richiesta della locale procura della Repubblica che è competente per i procedimenti a carico dei magistrati di Taranto. Ma il giudice non è nuovo agli altari della cronaca. Ruolino di marcia disastroso anche per Pietro Vella, giudice a Taranto. Le sue sentenze arrivavano dopo il periodo previsto: con 700-800 giorni di ritardo in 14 casi (in 12 dei quali superiore a due anni); 800-900 giorni dopo il tempo stabilito in 28 casi; con 900-1.000 giorni di troppo dopo in 28 casi. Vella ha addirittura infranto 47 volte il muro dei 1000 giorni; in 21 di questi 47 casi ha cincischiato più di tre anni e 5 volte ha indugiato più di quattro anni, con una punta massima di 1684 giorni. Per la sezione disciplinare del Csm si tratta di «ritardi pluriennali gravemente lesivi del generale interesse pubblico... sintomatici di negligenza e di insufficiente laboriosità, nonché di inadeguata capacità di organizzazione del lavoro giudiziario». Risultato: l’ammonimento !!! Ma ci sono altri precedenti di arresti eccellenti. Il pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, è stato arrestato dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con l’accusa di concussione. Di Giorgio è stato arrestato al termine di un’inchiesta avviata nel 2008. Secondo quanto è stato possibile apprendere, i Carabinieri hanno cominciato ad indagare dopo una serie di denunce presentate da cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Le indagini hanno permesso di stabilire che Di Giorgio avrebbe compiuto atti contrari al suo ufficio e avrebbe ricevuto in cambio numerose utilità, ma non denaro. L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Lecce. Ed ancora. Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto. Ed ancora. Assegnava perizie a medici che non avevano specializzazioni in materia e, per la stesura di decreti ingiuntivi, aveva chiesto aiuto ad alcuni avvocati difensori. Per queste ragioni il presidente della sezione Lavoro di Taranto, Vito Vozza, a pochi mesi dalla pensione, è stato trasferito, in via cautelare, dalle funzioni e dalla sede dalla sezione disciplinare del Csm. Ed ancora. Si iscrive contro ignoti e Salvatore Cosentino chiede l’archiviazione di una denuncia presentata da Antonio Giangrande, che poi il GIP archivia. Peccato che la procura sia la stessa, che nella medesima denuncia è accusata di insabbiamenti. Inoltre. Non capita quasi mai. Quasi. E infatti è capitato che a Taranto la giustizia-lumaca ha preso a correre come un treno. L’eccezione che conferma la regola è nell’incredibile vicissitudine giudiziaria capitata a Franco Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato per aver sollevato accuse scomode. È capitato tutto in un giorno: la querela nei suoi confronti è approdata in procura la mattina stessa in cui è stata presentata; il suo fascicolo è stato immediatamente assegnato dal Procuratore Capo; prima del calar del sole da neoquerelato si è ritrovato iscritto nel registro degli indagati; tempo due giorni e ha subìto un sequestro preventivo prontamente autorizzato, notificato a casa e convalidato. Roba da guinness. Da far strabuzzare gli occhi ad avvocati e magistrati di mezzo Stivale: una piccola luce di speranza per migliaia di uomini e donne in attesa di un giudizio da anni. Non succede mai, ma è successo. A Taranto, in quella stessa Procura finita a novembre in un’inchiesta dei colleghi potentini per un sospetto «rallentamento» nelle indagini, accuse di insabbiamento con incartamenti al vetriolo su intrecci tra politica e malaffare, con Asl e Comune nel mirino. Ed ancora. Il Sottosegretario alla Giustizia senatore Alberto Maritati, dopo aver recentemente visitato il Tribunale di Taranto, ha voluto far notare che lo scopo della visita era dovuto anche ad una propria richiesta di accelerazione delle inchieste. Ed ancora in base ad una interrogazione parlamentare si apprende che il tenore delle precitate trascrizioni si presenta meritevole di approfondimento, in quanto nelle stesse si dice apertamente che lo svolgimento di tutta l’udienza preliminare per tale procedimento penale, tenutasi dinanzi al Dott. Pio Guarna, il suo strano ed anomalo andamento connotato da circa una ventina di udienze (veramente tante per una semplice udienza preliminare), il suo esagerato protrarsi per circa un triennio, la sentenza conclusiva, sarebbero il risultato di un accordo intercorso tra il giudice dell’udienza preliminare, dott. Pio Guarna, e l’imputato Rocco Loreto, già sindaco del Comune di Castellaneta, nonché ex Senatore della Repubblica. Ed ancora in base ad altra interrogazione si sa che alcuni mesi fa la stampa dava notizia di alcune dichiarazioni del Ministro della Giustizia sulle azioni disciplinari che stavano per partire nei confronti di alcuni magistrati, che avrebbero provato come la commistione fra politica e giustizia sarebbe talmente grave da compromettere i diritti dei cittadini; naturalmente tali iniziative devono riguardare qualsiasi magistrato, e qualunque schieramento politico coinvolto nella prefata commistione; frequentemente, e soprattutto a livello locale, questo intreccio tra politica e giustizia nasconde piuttosto rapporti di interesse personale tra politici e magistrati, come a volte è stato denunciato attraverso articoli di stampa, o esposti al CSM. Così come altra interrogazione. Oggetto: omissioni d’atti d’ufficio ed abusi d’ufficio presso gli Uffici Giudiziari di Taranto. Ed ancora. Il sottosegretario di Stato Franco Corleone osserva che dalle informazioni acquisite presso l'autorità giudiziaria risulta che la procura della Repubblica di Taranto non ha avviato indagini sul fatto indicato nell'interrogazione. Il deputato Cito avrebbe rilasciato dichiarazioni pubbliche nel corso di una conferenza stampa, tenuta a Taranto il 30 maggio 1996, in ordine all'utilizzo delle attrezzature dell'amministrazione comunale, per informare gli organi di stampa della attività svolta quale parlamentare da un sindaco della provincia di Taranto, Senatore della Repubblica, ma non è pervenuta all'ufficio della procura alcuna denuncia sul fatto indicato né alcuna relazione dalle forze dell'ordine. Ed infine. Corruzione al Palazzo di Giustizia di Taranto, interessi privati e intrecci poco chiari tra ambienti della magistratura, della questura e dell' imprenditoria locale. Su questi scottanti temi si è incentrata negli ultimi tre anni l' attività dei magistrati baresi che tra mille difficoltà hanno ora concluso gran parte dell' inchiesta. Clamorose, come nelle premesse, sono le conclusioni. Sono stati rinviati a giudizio l' ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Giuseppe Raffaelli, 72 anni, sua moglie Giacoma Bianca De Filippis, 58 anni, e l' ex sindaco di Massafra (Taranto), il democristiano Orazio Bianco, 55 anni, tutti e tre accusati di concorso in interesse privato. Di corruzione dovranno invece rispondere l' ex sostituto procuratore Giuseppe Lamanna, 60 anni, e il presidente degli industriali di Taranto, Donato Carelli, 49 anni. Un altro magistrato di Taranto, l' ex sostituto procuratore Giuseppe Lezza, 47 anni, ha evitato il rinvio a giudizio perché il reato di corruzione contestatogli, fra gli altri, si è estinto per prescrizione. C'è comunque un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Tra le vittime illustri della campagna di verità c’è perfino l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Nicola Cacciapaglia, messo alle strette da alcune rivelazioni televisive che ricordano il "caso Thomas", il giudice americano di colore imputato di molestie sessuali. Anche qui il magistrato è finito sotto processo per abuso di poteri: l' accusa, secondo il rinvio a giudizio, è di "aver palpato la spalla e il seno" di una signora contro la sua volontà, "sbottonato i pantaloni, estratto il membro e facendo forza sulla testa" costretto la donna "a portare la bocca all'altezza del membro". Ingloriosa fine carriera di un alto magistrato, scriveva il 4 febbraio 1993 “Il Corriere della Sera”. Il Tribunale di Potenza ha condannato a venti mesi di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una provvisionale di cinque milioni di lire Nicola Cacciapaglia, 69 anni, procuratore della Repubblica di Taranto dall'87 al '90. I giudici lo hanno riconosciuto colpevole del reato di atti di libidine nei confronti di Anna De Pasquale, cinquantacinque anni, casalinga, di Taranto. I fatti risalgono al 1989, quando la donna chiese al magistrato di aiutarla a recuperare una figlia tossicodipendente che rischiava la prigione. Nell'ufficio del Procuratore, Anna De Pasquale visse momenti allucinanti: il magistrato non si fermò alle avance, ma le mise le mani addosso e per poco non la violentò. E ancora. Corruzione al Palazzo di Giustizia di Taranto, interessi privati e intrecci poco chiari tra ambienti della magistratura, della questura e dell'imprenditoria locale, scrive Enzo Castellano su “La Repubblica”. Su questi scottanti temi si è incentrata negli ultimi tre anni l'attività dei magistrati baresi che tra mille difficoltà hanno ora concluso gran parte dell'inchiesta. Clamorose, come nelle premesse, sono le conclusioni. Sono stati rinviati a giudizio l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Giuseppe Raffaelli, 72 anni, sua moglie Giacoma Bianca De Filippis, 58 anni, e l'ex sindaco di Massafra (Taranto), il democristiano Orazio Bianco, 55 anni, tutti e tre accusati di concorso in interesse privato. Di corruzione dovranno invece rispondere l'ex sostituto procuratore Giuseppe Lamanna, 60 anni, e il presidente degli industriali di Taranto, Donato Carelli, 49 anni. Un altro magistrato di Taranto, l'ex sostituto procuratore Giuseppe Lezza, 47 anni, ha evitato il rinvio a giudizio perché il reato di corruzione contestatogli, fra gli altri, si è estinto per prescrizione. C'è comunque un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Estinta per amnistia l'accusa di simulazione di reato a carico di Raffaelli, della moglie, e di Lamanna e Bianco. E' da rilevare inoltre che numerosi altri episodi esaminati dal giudice istruttore di Bari, dottor Emilio Marzano (la requisitoria è stata formulata dal procuratore capo di Bari Domenico Zaccaria), sono stati trasmessi per competenza alle autorità giudiziarie di Taranto e di Lecce. Due ispezioni ministeriali In queste due tranche della corposa inchiesta sono coinvolti funzionari della questura di Taranto poi trasferiti in altre sedi periferiche e anche diversi poliziotti. L' ex questore del capoluogo jonico, Giuseppe Ciulla, è invece già stato rinviato a giudizio per falso e peculato in relazione a un incidente stradale nel quale rimase coinvolto assieme al suo autista: dichiarò che era avvenuto nell'ambito del servizio, ma non era vero. L'inchiesta prese le mosse nel 1985 da due ispezioni ministeriali a Palazzo di Giustizia e nella questura del capoluogo ionico, al termine delle quali venne fuori un contesto di influenze, di protezioni e di favoritismi tra alcuni magistrati, funzionari di polizia e l'imprenditore Donato Carelli. Tra gli episodi accertati durante le ispezioni, eclatante è il caso dei lavori di spostamento della linea ferroviaria Taranto-Metaponto che originariamente prevedevano l'occupazione d'urgenza di alcuni immobili, tra i quali figuravano vasti terreni di proprietà della moglie e della cognata di Raffaelli, Giacoma e Marina De Filippis. Secondo le accuse, l'allora procuratore, attraverso la pressione di un processo penale e l'emanazione di una ordinanza di sequestro della documentazione relativa al progetto ferroviario, determinò la modifica dello stesso progetto approfittando sia della sua posizione che di quella del vicecommissario del consorzio Asi, area per lo sviluppo industriale, suo stretto parente. Dagli accertamenti compiuti è risultato che l'ex sindaco di Massafra (Comune nel quale ricadono i terreni in questione), Orazio Bianco, disconosceva la propria firma in calce al nullaosta al progetto di variante che aveva poi portato al decreto di occupazione dei terreni. Il fatto venne denunciato alla procura nel periodo in cui (gennaio 1982) Raffaelli risultò assente dall'ufficio per motivi personali e il fascicolo passò nelle mani del procuratore facente funzione, Giuseppe Lamanna, che poi emanò il decreto di sequestro della documentazione. Automobili in regalo Circa i rapporti tra Carelli e i due sostituti Lezza e Lamanna, è emerso che un procedimento penale a carico dell'imprenditore per presunte irregolarità fiscali, inizialmente avviato da Lezza, sarebbe stato poi insabbiato dall'altro magistrato al quale il presidente dell'Assindustria tarantina fece omaggio in tempi diversi di ben quattro automobili: una Golf, una Mercedes, una Audi 100 e ancora una Golf. Lezza invece avrebbe ricevuto, sempre dal Carelli, un contributo di 15 milioni per l'acquisto di una Mercedes. L'inchiesta si è soffermata anche su presunte corsie privilegiate nella distribuzione di processi contro amministratori di Martina Franca (Taranto), un tempo feudo dell'ex sottosegretario democristiano alle Finanze Giuseppe Caroli. Intanto il giudice Giuseppe Tommasino fu accusato ingiustamente. Il 25 febbraio 2009 ripresa dal sito L'Occidentale, pubblicai questa notizia a firma di Ettore Maria Peluso, spiega Lilli D’Amicis su “Tutto il Resto è noia”.  “Scandalo nei tribunali pugliesi, giudici accusati di corruzione e peculato. A Taranto la notizia delle indagini si diffonde in pochi minuti: concorso in corruzione e peculato. Tra gli avvocati e i magistrati del Comune ionico c’è curiosità, tanta curiosità: vogliono sapere chi sono i personaggi coinvolti. La Procura della Repubblica di Potenza ha le carte in mano di una delle pochissime indagini in Italia su altri magistrati e, pur ribadendo la presunzione di innocenza, non ci si può esimere dal dare conto di una indagine che sta sconvolgendo i piani alti della magistratura pugliese. Sono sotto inchiesta l’ex procuratore capo di Taranto, Aldo Petrucci e l’ex coordinatore dell’ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, Giuseppe Tommasino. Le ipotesi di reato sono gravissime e coinvolgono anche l’ex Sindaco di Martina Franca, Leonardo Conserva. I due magistrati di Potenza, Cristina Correale e Ferdinando Esposito, competenti territorialmente, indagano sui rapporti tra i due giudici pugliesi e sugli eventuali scambi di favori. Solo per il giudice Petrucci, attuale procuratore minorile a Lecce, l’accusa è anche di peculato per le tante telefonate private fatte dagli apparecchi di servizio, mentre per il Giudice Tommasimo, l’accusa è anche di rivelazione del segreto di ufficio. L’attività investigativa (delegata ai Carabinieri) ha rivelato una serie di “coincidenze” come, ad esempio, la conduzione eccessivamente generica di alcune indagini che avrebbero portato alla successiva archiviazione dei procedimenti. Ma non c’è solo questo: tra l’ex Sindaco e il procuratore Petrucci vi sarebbero anche delle consulenze comunali che ammonterebbero a 283.000 euro, affidate allo studio legale in cui lavora la figlia del magistrato. Per questo motivo viene contestato il reato di corruzione. Anche dal passato spunterebbero inquietanti coincidenze, perché Tommasino sarebbe stato aiutato in un procedimento per fuga di notizie. Durante lo scandalo della sanità, un imprenditore sarebbe venuto a conoscenza, anticipatamente, del suo imminente arresto; il pm titolare dell´inchiesta, effettuando una indagine interna, sarebbe risalito al computer dal quale era stato violato il registro generale. Era la postazione di un cancelliere che fece il nome del giudice Tommasino. Il procuratore Petrucci, al quale venne affidata l’indagine, iscrisse nel registro degli indagati il solo cancelliere, poi scagionato. Il favore sarebbe poi stato ricambiato due anni più tardi, perché nel giugno del 2006 Tommasino avrebbe estromesso da un procedimento un giovane tarantino, conoscente del procuratore e accusato di rapina. Intanto Petrucci si difende: “ Non ho mai fatto o chiesto favori, la mia correttezza istituzionale è comprovata dal lavoro svolto a Taranto in otto anni e dallo splendido rapporto con i colleghi. Con Conserva ci sono stati sempre e soltanto contatti istituzionali. Su di lui si sono aperti procedimenti che sono arrivati a giudizio, ma anche archiviati senza alcun occhio di riguardo ”. Evidentemente non la pensano così i giudici di Potenza. Nella speranza che venga dimostrata l’innocenza di tutti i soggetti coinvolti, continuiamo a credere nella magistratura e nel principio che “La legge è uguale per tutti”.” Da allora sono accadute molte cose, continua la D’Amicis di cui ne dà conto l'avv. Michele Imperio in un lungo articolo che pubblichiamo di seguito. C'è da dire che di questa vicenda se ne erano perse le tracce e grazie ad una lettera di un legale che mi invita a pubblicare quanto segue, torno su questo argomento e ognuno dei lettori ne trarrà le considerazioni che crede. Ecco il lungo articolo  dello scorso 2 maggio e buona lettura. In Puglia è in corso in questo momento un conflitto molto aspro fra partito trasversale degli onesti e sistema dalemiano di potere, cioè quel sistema che si è fatto conoscere attraverso le vicende dell’ex vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (P.D.), arrestato in carcere, dell'ex assessore alla Sanità ora senatore Alberto Tedesco (P.D.) in attesa di essere messo agli arresti domiciliari, se il Senato darà l'autorizzazione e dell’imprenditore faccendiere Giampaolo Tarantini (P.D. e U.D.C.), messo anche lui agli arresti domiciliari a vita, un sistema di intrecci fra affari-sanità-politica, che va dallo spaccio della droga al favoreggiamento della prostituzione, dalla gestione illegale degli appalti pubblici, alla gestione illegale delle nomine dei primari ospedalieri, il tutto con un ritorno economico e elettorale per alcuni esponenti politici del P.D. (corrente di D'Alema). Dico alcuni perché, per la verità, non tutto il P.D. pugliese è a favore di questo sistema di potere. Anzi ora che il sistema è emerso, una parte del partito, una volta succube, manifesta con più chiarezza la propria contrarietà. Si tratta di quella parte del Partito Democratico che guarda con simpatia e con speranza alle posizioni del sindaco di Bari Michele Emiliano. Il lettore di questo post può rendersi conto personalmente di questo conflitto leggendo la lettera che il sindaco Michele Emilano ha scritto recentemente al segretario regionale del P.D. Sergio Blasi, a proposito del caso del consigliere regionale dello stesso P.D. Michele Mazzarano, chiamato in causa nello scandalo della Sanità pugliese da Giampaolo Tarantini e tuttavia restio a lasciare le proprie poltrone e i propri incarichi. Tra i Magistrati il partito di Emiliano registrerà adesioni? La storia che sto per raccontare dimostra come il sistema dalemiano di potere ha fatto breccia nei Magistrati pugliesi di M.D. perché esso prevede una scientifica tutela della loro eventuale compartecipazione al sistema stesso con l’innesto addirittura di un programma di protezione ogniqualvolta un altro magistrato o un avvocato o chiunque sia, attacchi le posizioni del sistema o comunque si sforzi di dare alla Giustizia un minimo di imparzialità, di serietà e di trasparenza. Premetto che il lettore meno informato deve sapere che in ogni Tribunale ci sono tre posti di comando: il Presidente del Tribunale, il Procuratore Capo della Repubblica e un po’ meno il presidente della sezione dei giudici delle indagini preliminari. Questo ultimo posto direttivo nell’anno di grazia 2005 nel Tribunale di Taranto era occupato dal Giudice Giuseppe Tommasino, un Magistrato originario della provincia (Manduria), persona molto per bene, discendente a sua volta di persone per bene, il padre uno stimato funzionario del ministero della P.I., la madre una professoressa, lui stesso un Magistrato benvoluto da tutti, apprezzato, gran lavoratore (sotto la sua guida l’Ufficio G.I.P. aveva azzerato tutto l’arretrato), estensore di sentenze in cui non si rinvengono nè assoluzioni facili nè impeti giustizialisti. Insomma un giudice giusto, che faceva processi giusti, precisazione questa che dovrebbe essere pleonastica, perché un processo non dovrebbe essere che un processo giusto. E che invece pleonastica non è, tant'è che lo stesso legislatore di Sinistra (proprio D’Alema!) si è dovuto affannare in passato per raffreddare i bollenti spiriti di alcuni Magistrati di M.D. e quindi garantire che il processo, se pure gestito da magistrati di M.D., sia comunque un processo giusto. Ora però il giudice Giuseppe Tommasino aveva un difetto: non aveva caratterizzazioni politiche. O meglio, non le aveva sul posto di lavoro dove per due volte aveva rinviato a giudizio il sindaco di Forza Italia del posto Rosanna Di Bello e anche esponenti politici di centro e di sinistra. Ma al di là e al di fuori del posto lavoro, Tommasino poteva considerarsi un moderato, era stato tanti anni prima candidato al Parlamento per il Patto Segni, una formazione moderata, suo fratello Paolo è stato sindaco per il PDL a Manduria, insomma si capisce che è un moderato. Il Tribunale di Taranto, come tanti uffici giudiziari, era, e forse è tuttora, avvilito dai problemi della fuga di notizie sui processi e, in particolare, dai problemi delle fughe di notizie sui mandati di cattura. Dal 1992 in poi, cioè dall’inizio dell’era giustizialista (prima se lo veniva a sapere il CSM erano dolori amari) più di qualche indagato, nell’intermezzo fra la richiesta del P.M. e la decisione del G.I.P. si vedeva arrivare questa telefonata: “Pronto? Ah! caro dottore! sono il maresciallo Tal dei Tali …………..scusi se la disturbo …sa…. ma volevo dirle che la Procura ha richiesto un mandato di cattura contro di lei ………… sa ……….per quella vicenda…………..se ne occupa il dottor Tizio o Caio …………….……….noi……se vuole….., dottore….., siamo a disposizione…………. ……………………… ………….” E dall’altra parte del filo: “ah, grazie, grazie maresciallo!………………si, si, incontriamoci!………….” Per tre volte Tommasino era venuto a conoscenza di questi fatti gravissimi, di questa fuga di notizia e per tre volte aveva sporto (ahimè;) regolare denuncia alla Procura della Repubblica, cosa che non aveva fatto di certo piacere a più di qualcuno. Perché queste denunce su queste fughe di notizie comportano varie conseguenze negative: prima di tutto il tentativo di “aggiustamento” del mandato di cattura fallisce o comunque viene disturbato. In secondo luogo la denuncia attiva un’istruttoria scomoda e imbarazzante. Perché il P.M. incaricato è costretto, per forza di cose, a sospettare di addetti ai lavori, di funzionari di polizia, di carabinieri, di militari della guardia di finanza e soprattutto di colleghi Magistrati. E quindi inevitabilmente l'indagine produce accuse, sospetti, veleni, fango su questi soggetti. Ora però – tutti pensano - per come funziona la Giustizia in Italia, che cosa può cambiare se qualche mandato di cattura viene "aggiustato"? Alla fin fine anche i Marescialli e i Magistrati devono campare! O no? ........Ma si, ma che si faccia i fatti suoi questo Tommasino! Ma che non rompa i c…………! .........Ma insomma!!!!!! Ma che cosa vuole!!!!! Tutto comunque fila liscio e senza danni per il giudice Tommasino, fino a quando, un giorno avviene che tra questi destinatari di mandati di cattura, messi preventivamente a conoscenza del provvedimento giudiziario, capita un certo Cosimo Tomaselli, un imprenditore di Fragagnano (quindi non di Manduria, come pure si è detto, che è il comune di residenza di Tommasino). Tomaselli è imparentato con un ex parlamentare del P.D., tale on.le Ugo Malagnino, uno che ha partecipato alla nota cena del ristorante "La Pignata" di Bari, una cena fatta di commensali che se un Magistrato li avesse arrestati tutti, sicuramente non avrebbe sbagliato. Tomaselli è quindi un “Dalema’s boy”, così li chiamano, ma - per carità! - non per questo (il lettore ci comprenda) aveva importanti commesse da alcuni Ospedali. Li aveva - ovviamente - per la sua professionalità. Il P.M. di Taranto A.C. ipotizza a carico di Tomaselli il solito reato di sanitopoli (vendeva, secondo l'originaria accusa, attrezzature sanitarie usate spacciandole per nuove, poi in Corte di Appello è stato assolto) e chiede al g.i.p. Michele Ancona (M.D.) l’emissione di un mandato di cattura nella forma più restrittiva, più severa e più invasiva che è il carcere. Quindi ricapitoliamo: Tommasino e Tomaselli non sono della stessa città, non sono della stessa area politica, non sono amici, nemmeno si conoscono. Eppure ad un certo punto Tommasino diviene, per la accusa rappresentata da magistrati di M.D., autore della soffiata. Le cose vanno così: Una mattina si presenta nell’ufficio del giudice Tommasino l’avvocato E.A., il difensore di Cosimo Tomaselli e chiede che lui, Magistrato presidente dei G.I.P., fissi una riunione col g.i.p. assegnatario della richiesta del mandato di cattura. Vuole che lo convinca a non emettere la misura detentiva a carico di Tomaselli, il quale è disperato e - naturalmente - innocente. Il giudice rimane basito e chiede: “ma come ha fatto Tomaselli a sapere in anticipo della richiesta di un mandato di cattura?” A questa domanda l’avvocato risponde: "la notizia gli è stata propalata da militari della Guardia di Finanza". Dunque un’altra fuga di notizie! Un altro clamoroso buco nella correttezza dell'azione giudiziaria! Tommasino vuole vederci chiaro, vuole accertarsi di come stiano realmente le cose. Lui che non è pratico di informatica e che è il Presidente dei G.I.P., quindi titolato per Legge a conoscere di tutte le richieste che pervengono all'Ufficio, chiede alla cancelliera di consultare il computer per accertarsi che ci sia effettivamente un procedimento e una richiesta di custodia cautelare a carico di Tomaselli. Dopo qualche giorno l’imprenditore Cosimo Tomaselli viene effettivamente arrestato però non più in carcere, bensì con le modalità degli arresti domiciliari. Anche questa volta la fuga di notizie – forse - ha parzialmente smorzato il progetto. Tommasino riferisce al Procuratore l’ennesima fuga di notizie di cui era venuto a conoscenza. Il Procuratore Capo della Repubblica apre un procedimento penale a carico della cancelliera del dott. Tommasino. E perchè il Procuratore Capo ha assunto questa iniziativa? Perché emerge dalle sue indagini che la cancelliera aveva effettuato gli accessi relativi al procedimento a carico di Tomaselli. Successivamente però la posizione della cancelliera viene archiviata perché Tommasino riferisce al Procuratore Capo di aver dato lui quella disposizione. Ma un altro G.I.P. pensa bene, allora, di rimettere alla valutazione della Procura della Repubblica di Potenza la posizione di Tommasino che, così, da accusatore diventa accusato! Assurdo! La vicenda assume col tempo contorni grotteschi: la pratica finisce nelle mani di un P.M. di M.D. di Potenza Cristina Correale (MD) e va soggetta allo stesso fenomeno della palla di neve che diventa valanga. Cristina Correale (M.D.) non solo continua a indagare il giudice Tommasino per la fuga di notizie, rimanendo insensibile a qualunque richiesta di approfondimento del Magistrato (il quale giunge persino ad indicare il nome e il cognome del maresciallo della G.d.F. che aveva informato Tomaselli), ma poiché alla attenzione di questo Magistrato era stata mandata anche una posizione del Procuratore Capo della Repubblica di Taranto A.P. (quello che aveva archiviato il processo a carico della cancelliera e che giustamente non aveva indagato Tommasino) pensa bene di collegare le due vicende. E qundi ecco il cervellotico teorema: Il Procuratore Capo non aveva indagato Tommasino (e perché lo avrebbe dovuto fare?) e Tommasino, a sua volta, lo avrebbe ricambiato, assolvendo il marito separato (un maresciallo di Marina) di una amica del Procuratore Capo e archiviando anche la posizione del sindaco di Martina, altro amico dello stesso Procuratore. Questo ultimo fatto però era avvenuto tre anni prima, sicchè Tommasino - secondo l'accusa - aveva poteri sovrannaturali che gli consentivano di prevedere, con tre anni di anticipo, che egli avrebbe avuto bisogno un giorno della pietà del Procuratore! Ma c’è di più! Il P.M. Cristina Correale dava per scontato che tra Tommasino e il Procuratore Capo A.P. c’erano buoni rapporti. Invece anche le pietre del palazzo sapevano che i rapporti fra i due, al di là delle necessarie interlocuzioni istituzionali, erano pessimi. Nessuno sapeva poi di questa relazione segreta del Procuratore Capo con la moglie separata di un maresciallo di Marina, per giunta imputato, perché - per ovvie ragioni che tutti possono immaginare - il Procuratore Capo la teneva gelosamente riservata. Ma che colpo di genio! Certo che occorre avere una fantasia fuori dal comune per ipotizzare accuse come queste! E quindi – ecco dove scatta il progetto di protezione - si muove una accusa infondata di corruzione giudiziaria al giudice Giuseppe Tommasino allo scopo di far allontanare per sempre dal Tribunale di Taranto questo Magistrato scomodo, non omologato, rompicoglioni, classificabile nell’area ostile del centro-destra, il quale - pensate un pò - con queste credenziali, si permetteva pure di fare denunce penali contro gli addetti del Palazzo !!!!!!!! Ma guarda tu !!!!!!!!!! Ricevuto l’avviso di garanzia e quindi messo per la prima volta a conoscenza delle accuse, Tommasino ovviamente va a verificare nel proprio computer la sentenza da lui emessa contro questo imputato a lui sconosciuto (il maresciallo di marina) e scopre che le sentenze a suo carico sono due, una effettivamente di proscioglimento, ma l’altra di condanna (!!!!) a distanza di due mesi l’una dall’altra. E quanto alla archiviazione del sindaco di Martina Franca, a parte che era di tre anni prima, si sa benissimo nell’ambiente giudiziario che, se non vi è sollecitazione della parte lesa, le centinaia di richieste di archiviazione dei P.M. che provengono ai G.I.P. si trasformano, nel 99% dei casi, in provvedimenti di archiviazione. Naturalmente i media tarantini e persino quelli nazionali, ai quali una sapiente regia comunica la notizia, impostano i loro articoli in modo completamente fuorviante e distorto gettando sul giudice Tommasino tonnellate di fango! Toghe sporche sullo Jonio!!!! titola a caratteri cubitali e a cinque colonne il quotidiano "Repubblica", l'immancabile in certe occasioni. A questo punto Tommasino pensa bene di trasformarsi da g.i.p. in detective e fa lui le vere indagini che nessuno ha voluto fare e come si sarebbero invece fatte nella Prima Repubblica. Contatta un dipendente dell’imprenditore Tomaselli e registra su un nastro la conversazione. Nel corso della conversazione il dipendente gli dice che sì, che Tomaselli effettivamente aveva saputo da militari della Guardia di Finanza di questo mandato di cattura, fa il nome e cognome del militare in questione, in un primo tempo si era preoccupato, ma poi - dopo - si era rasserenato perchè aveva trovato la strada giusta: la strada del fratello di un Magistrato, ma non un Magistrato asettico e di centro-destra come Tommasino, bensì un Magistrato di M.D. e per giunta protetto dagli alti livelli delle organizzazioni correntizie e associative della Magistratura. Pensate voi che queste prove offerte al giudice appulo-lucano Cristina Correale (M.D.) erano sufficienti per vedere almeno archiviare il caso del giudice Giuseppe Tommasino? Ma nemmeno per sogno! Anzi! Quelle ulteriori accuse erano una dimostrazione in più che Tommasino (il rompic.....) voleva infierire sugli addetti del palazzo e quindi una ragione altra per infierire ulteriormente su di lui !!!!!!!!!!!! Tommasino deve affrontare quindi l’udienza preliminare. Ma qui evidentemente - e per fortuna - l'influenza sui processi di M.D. cessa e quindi arriva finalmente la piena assoluzione. Assoluzione che vien data - attenzione! - su conforme richiesta del P.M. di udienza, un Magistrato serio, il quale sbianca in volto quando legge quel processo. Sui giornali e sui blog però non più titoli cubitali a cinque colonne ma solo due fredde righe di rettifica. Le accuse a carico del giudice Tommasino si sono dimostrate (sic!) completamente infondate, recita mestamente un blog della Rete. Ma c'è un Magistrato il quale è il vero responsabile della fuga di notizie. A lui però non è successo nulla perché lui si è dimostrato un soggetto disposto a partecipare a congiure e complotti, è iscritto alle corporazioni della Magistratura e per questo è un intoccabile, insomma è uno che potrebbe far parte, un domani, del “gioco grande”. Ricordate il "gioco grande" di Giovanni Falcone? Era quel gioco sporco, perverso e criminale che coinvolgeva alcuni uomini politici, alcuni funzionari dello Stato e soprattutto alcuni Magistrati (Francesco Di Maggio di M.D. tanto per non fare nomi, ma non solo lui). ..……..Speriamo che qualcuno non stia pensando di riattivarlo questo gioco grande….…………….il corvo è comparso di nuovo ............però non più a Palermo......ma a Bari .......contro un Magistrato che ha scoperchiato un certo sistema di potere, non più nascente ma nato e cresciuto...............

T come Teramo: L’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato dal cancelliere Scarpone. Il presidente del Tribunale di Teramo Antonio Cassano e l’ex gip di Teramo, nonché ex Giudice responsabile del Tribunale di Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila Aldo Manfredi, sono iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Campobasso.

T come Torino: Visite mediche obbligatorie per i magistrati". Perchè un pm stressato e depresso è pericoloso: può arrivare al punto di manipolare interrogatori e verbali. La proposta è del parlamentare Maretta Scoca e il riferimento è al caso - Cuva, l'ex procuratore di Tortona, titolare dell'inchiesta su quel manipolo di sbandati che lanciando sassi dal cavalcavia uccisero Maria Letizia Berdini. Cuva ammise di aver spinto una testimone ad accusarsi e di aver poi modificato i verbali giustificandosi così: "Nel '91 ebbi un gravissimo esaurimento nervoso. Sono ancora in cura da uno psichiatra". Domanda: ci sono sufficienti garanzie su chi rappresenta la giustizia? Non per Maretta Scoca, che i magistrati vorrebbe mandarli dal dottore periodicamente. "E bisognerebbe introdurre la dispensa temporanea dal servizio quando sia provata l'inidoneità psicofisica del giudice". Ed ancora. Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato. Ed ancora. L’imparzialità nei giudizi resi rende la credibilità dei magistrati granitica. Se poi si scopre che negli uffici giudiziari vi sono legami sentimentali risaputi tra avvocati e giudici, che influenzano o potrebbero influenzare le attività delle parti in causa e dei loro colleghi, la credibilità va a farsi benedire. Sì, però, basta non farlo sapere in giro. E' per incompatibilità ambientale nei confronti di due donne giudici di Torino la prima pratica aperta dal Csm di nuova nomina, il cui vicepresidente è, casualmente, un torinese, l'ex deputato udc Michele Vietti. Il procedimento riguarda le gip Fabrizia Pironti e Sandra Casacci, fidanzate ufficialmente, e da diversi anni, rispettivamente con gli avvocati del foro subalpino Fulvio Gianaria e Renzo Capelletto.

T come Trani: La Procura della Repubblica di Lecce ha chiesto, per la seconda volta, l’archiviazione del fascicolo d’inchiesta, ma il giudice per le indagini preliminari del capoluogo salentino, Vincenzo Brancato, non ha condiviso le conclusioni dell’ufficio del pubblico ministero e ha ritrasmesso al pm Giovanni De Palma, gli atti per la formulazione dell’imputazione, dunque coatta, a carico di Antonio Savasta, barlettano, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Trani. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I reati ravvisati dal gip sono: appropriazione indebita, esercizio arbitrario delle proprie ragioni e truffa. A quest’ultimo proposito il gip ha inoltre ritenuto che “sussistono le aggravanti, stante la qualità del dr. Savasta e l’oggettiva rilevanza economica del danno patito dalle parti offese”: i coniugi barlettani Giuseppe Dimiccoli e Filomena Di Lillo. I fatti, e dunque le accuse, non riguardano l’attività di magistrato di Savasta, ma vicende personali. Quelle relative al contratto preliminare d’acquisto della masseria San Felice che sorge, e da qualche anno è attiva, nell’agro di Bisceglie dopo una serie di opere di ristrutturazione. Secondo quanto ravvisato dal gip di Lecce, l’appropriazione indebita riguarderebbe “i proventi dell’attività commerciale esercitata presso la masseria San Felice”, nonché il mobilio dei coniugi Di Miccoli-Di Lillo che arredano la masseria, non restituiti nonostante un’espressa richiesta. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, secondo il gip, si sarebbe concretizzato nella sostituzione della serratura del portone d’ingresso d’accesso alla masseria. Infine, l’ipotesi di reato di truffa aggravata sarebbe consistita “nel simulare, attraverso la formazione di un’apposita scrittura privata, la volontà di Savasta di trasferire ai denuncianti Dimiccoli e Di Lillo una porzione della masseria San Felice”. Savasta prima avrebbe indotto in errore i coniugi facendo sì che gli corrispondessero la consistente somma di 400mila euro e poi avrebbe rifiutato la stipula del contratto di compravendita, trasferendo ai suoi familiari la masseria oggetto del contratto preliminare”. Per il gip, gli artifizi e i raggiri si sarebbero realizzati anche “per effetto dell’influenza esercitata dalla caratura e competenza giuridica del promettente venditore (Savasta) e dalla garanzia di affidabilità che ne conseguiva e che egli assicurava”. «Pm di Trani spifferò di Minzolini e Del Noce» La giornalista che chiama l’ufficiale della finanza, l’ufficiale che passa il telefono a un magistrato. Il tenente colonnello Salvatore Paglino poi è stato ai domiciliari. E nelle 86 pagine della richiesta con cui i pm Teresa Iodice e Giuseppe Dentamaro lo avrebbero voluto mandare in carcere, è riportata l’intercettazione che chiama in causa Michele Ruggiero, il pm che a Trani ha seguito l’inchiesta in cui era indagato Silvio Berlusconi.

T come Treviso: Treviso è protagonista di una clamorosa censura mediatica. Da oltre un mese una quarantina di inermi cittadini, vittime di abusi giudiziari, manifesta inascoltatamente, tutti i giorni, la propria indignazione, davanti al Tribunale, con cartelli e volantini, senza che nessun giornale o emittente, anche locali, ne abbia dato notizia. Trattandosi di casi, spesso clamorosi, il totale silenzio mediatico che, omertosamente avvolge la tenace protesta di un gruppo di cittadini trevigiani, nei confronti della magistratura locale, ci appare degno di essere denunciato e portato a conoscenza della rete, affinché si vergognino i giudici del loro operato, ma anche i giornalisti del loro silenzio.

V come Venezia: Mose, politici e magistrati: mazzette per tutti, scrive “L’Unità”. I conti segreti e criptati all’estero li hanno già trovati nelle prime due tranche di questa inchiesta (2013). Ora salta fuori «Il fondo Neri», fondo comune di danaro contante versato pro-quota dalle imprese. Il meccanismo arriva al punto «di integrare in un'unica società corrotti e corruttori». Di più: «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha accettato l'incarico e quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale, quale rendita di posizione che prescinde dal singolo atto illecito commesso e che trova giustificazione solo nel ruolo rivestito dal pubblico ufficiale e nella possibilità, che egli comunque mantiene, di poter influire sfruttando le proprie conoscenze e relazioni personali con i funzionari che - scrive ancora il gip - permangono in servizio». Il sistema L'ex presidente della Regione Giancarlo Galan e l'ex generale della Gdf Vincenzo Spaziante, i dirigenti del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso: «Ciascuno di essi, per anni e anni, ha asservito totalmente l'ufficio pubblico che avrebbe dovuto tutelare, agli interessi del gruppo economico criminale, lucrando una serie impressionate di benefici personali di svariato genere». Scrive il gip che Giovanni Mazzacurati, il presidente del Consorzio Nuova Venezia (CvN) «dopo aver concordato» con i principali componenti del Consorzio «la necessità» di pagare tangenti, dal 2005 al 2011 avrebbe corrisposto - tramite l'assessore Chisso (che a sua volta riceveva il denaro o direttamente dallo stesso Mazzacurati o dai collaboratori di quest'ultimo) - a Galan, «non solo lo stipendio annuo di un milione, ma anche 1 milione e 800 mila per il rilascio di due pareri favorevoli ai progetti». In particolare 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 e altri 900 mila tra il 2006 e il 2007 «per il rilascio del parere favorevole della Commissione Via della Regione Veneto, sui progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia». La campagna per le comunali Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni entra nell'inchiesta sui fondi neri delle aziende legate agli appalti del Mose per aver ricevuto, secondo l'accusa, oltre 110mila euro in più occasioni a sostegno della campagna elettorale delle comunali nel 2010. Orsoni avrebbe ricevuto i fondi tramite «contributi formali» di aziende che a loro volta ottenevano il denaro dal Cvn sulla base di false fatturazioni. Le ditte coinvolte, a vario titolo, sarebbero Mazzi, Grandi Lavori Fincosit, Mantovani e Covela, Consorzio Italvenezia e Società italiana condotte d'acqua, Coveco, San Martino e Clodia. Secondo il gip queste società partecipavano al sistema di false fatturazioni «consapevoli della destinazione a fine di finanziamento illecito di esponenti politici del denaro sovraffatturato in favore del Cvn per la realizzazione del Mose». I postini delle somme sarebbero stati Luciano Neri e Federico Sutto, uomini di fiducia dell'ex presidente del Cvn, Mazzacurati, entrambi arrestati. I passaggi sono tre: i primi due riguardano l'emissione di due fatture per 500 mila euro emesse da Coveco e da San Martino a favore del Cvn. Il terzo passaggio riguarda la dazione vera e propria, che sarebbe avvenuta con tre consegne a uomini di fiducia di Orsoni, per un totale di 110 mila euro». La domanda è se Orsoni fosse o meno consapevole delle provenienza di quel danaro. In una delle intercettazioni, Nicola Falconi (ai domiciliari), uno degli imprenditori del CvN, riferisce che Orsoni gli ha detto: «Siete dei veri amici, sono meravigliato dello sforzo addirittura superiore alle attese e ti ringrazio molto». E quella per la regionali Tra gli arrestati anche Giampietro Marchese, consigliere regionale veneto del Pd. Avrebbe ricevuto un finanziamento illecito di 33mila euro per la campagna delle regionali 2010. Il finanziamento risulterebbe confermato dall’imprenditore Pio Savioli (già arrestato nel 2013), consigliere del CvN e consulente della cooperativa Coveco nella cui contabilità è stato rintracciato il passaggio di denaro. «Finanziamento ufficiale» (con relativa fattura) si difendono gli indagati. Per l’accusa, invece, «frutto dei pagamenti del CvN sulla base di false fatturazioni Coveco». Nelle carte dell'inchiesta c’è un appunto scritto a mano sequestrato a luglio 2013 ad una dipendente del Coveco con le «erogazioni» effettuate dalla cooperativa fino all'11 ottobre 2011. Ci sono i nomi di Marchese, del consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo (33mila euro), della Fondazione Marcianum (100mila euro), il polo pedagogico-accademico dell'allora patriarca di Venezia Angelo Scola, il Pd provinciale di Venezia (33mila) e il Premio Galileo a Padova (15mila euro). Il giudice Giuseppone della Corte dei Conti, prima a Venezia e poi a Roma, «avrebbe percepito uno stipendio annuale oscillante tra i 300mila e i 400mila euro che gli veniva consegnato con cadenza semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008». Tra il 2005 e il 2006 la dazione aumenta: «Non meno di 600mila tra il 2005 e il 2006». I soldi, afferma ancora il gip, servivano per «accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli sui bilanci e sugli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova». Il generale e le Fiamme Gialle Tra gli arrestati anche l’ex, ormai è in pensione, generale di corpo d’armata Emilio Spaziante. Secondo il gip, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del CvN», avrebbe ricevuto la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. La somma versata poi è solo di 500 mila euro divisa anche con Marco Milanese (indagato), allora collaboratore politico del ministro Tremonti e parlamentare della Commissione Bilancio. La cifra sarebbe stata versata tra aprile e giugno 2010, «per influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose». Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori". Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno Amoroso, scrive Giusepep Caporale s Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro. "Poi, signora, a un certo punto registriamo all'interno del suo ufficio la consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima del suo arresto" dice il pm Buccini. "Sì lo ricordo - risponde la Minutillo - quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di rapporti importanti, tant'è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico presidente del Tar del Veneto, Amoroso". Chiede il pm Tonini: "Perché essere consegnata questa somma?". "Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull'Autostrada del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n'erano stati anche altri. Maltauro aveva fatto ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo. Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d'accordo Mantovani e Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre". La interrompe il pm Ancilotto: "Ecco, ma allora perché pagare?". "Perché questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar..." risponde l'ex segretaria di Galan. "Senta, è l'unico pagamento fatto ad Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?" chiede ancora uno dei tre inquirenti. "Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo". Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. "Conosco Crialese quando come vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell'acquisto dell'area ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in nero". "E come la giustifica questa parte in nero?" chiedono i magistrati. "Che lui ha i suoi rapporti da... pagare ". E poi fa la lista delle mazzette per i giudici: "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...". Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola accusa di millantato credito. Sbirri venduti e magistrati corrotti: il sistema Mose. Il generale Spaziante chiese 2 milioni di euro per orientare le indagini. La guerra nella Gdf, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. La Guardia di Finanza ha dovuto indagare su se stessa nell’inchiesta sul Mose di Venezia dove è stato arrestato il generale Emilio Spaziante. Ma anche nell’indagine sull’Expo 2015 di Milano l’ex Dc Gianstefano Frigerio, il professore della cupola, millantava rapporti con il capo generale delle fiamme gialle Saverio Capolupo. Non è un caso che l'operazione veneziana si chiamasse in codice "Antenora" (come ricordato dal quotidiano IlPiccolo), seconda "delle zone in cui è distinto il cerchio nono dell'Inferno dantesco", quello dei traditori. «In essa sono puniti coloro che hanno tradito la fede spezial (If XI 63) creata dall'appartenenza alla stessa patria o allo stesso partito politico». Gli scandali che stanno terremotando il Nord Italia in queste ultime settimane, colpendo esponenti del Pdl o del Pd, tirano in ballo non solo i ladri, ma anche «le guardie» (copyright Matteo Renzi). E oltre ai guardiani delle legalità, personaggi spesso impegnati in interviste tese a condannare la corruzione, a finire in arresto ci sono anche magistrati della Corte dei Conti, come Vittorio Giuseppone o giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche. Non solo. In entrambe le inchieste compare l’ombra dei nostri servizi segreti (in particolare in relazione all'imprenditore Enrico Maltauro, costrutture di caserme e basi militati statunitensi in Italia ndr), altro tassello funzionale a garantire sicurezze giuridiche e a far viaggiare spedito il giro di appalti, mazzette e conti all’estero con l’aiuto di uno come Roberto Meneguzzo, numero della Palladio Finanziaria, la Mediobanca del Nord-Est. Del resto non è la prima volta che la nostra Guardia di Finanza viene travolta dalle inchieste della magistratura. Già nel 2011 il generale Spaziante, insieme con l'ex capo di stato maggiore Michele Adinolfi comparve per alcune soffiate nell'inchiesta sulla P4 di Luigi Bisignani. E a ben guardare i protagonisti sono sempre gli stessi e riportano a galla una guerra che si consumò nel 2008, quando nel cambio della guardia tra il governo Prodi a quello Berlusconi, l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti fece fuori tutti gli uomini dell’ex numero uno di via XX settembre Vincenzo Visco. Il deus ex machina di quella operazione di spoil system fu Marco Milanese, ex Gdf, ex braccio destro, indagato nell’inchiesta sul Mose e accusato di aver intascato una mazzetta da 500mila euro. Ma la vera mente dell’operazione di occupazione del potere da parte dei tremontiani fu Vincenzo Fortunato, ex magistrato, potente capo di gabinetto del ministero dell’Economia per quasi dieci anni, che caso vuole sia stato fino al marzo del 2014 “collaudatore” proprio del Mose, del sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dalle maree. A nominarlo nel 2011 insieme a Pietro Ciucci, presidente di Anas, fu il Magistrato dell’Acque di Venezia, allora ancora di nomina della cricca del capo supremo, Giovanni Mazzacurati. Grazie alla Gdf gli indagati sapevano di essere intercettati. Spaziante, arrestato giovedì scorso all’Hotel Savoia di Milano, secondo gli inquirenti, è stato un tassello fondamentale per la cricca bipartisan che gestiva il giro delle tangenti su un’opera faraonica da svariati miliardi di euro. Perché oltre a collaborare insieme a Milanese per sbloccare i fondi del Cipe, teneva informati i sodali della cricca sulle indagini della Guardia di Finanza. Non solo. Consigliò pure a Mazzacurati di acquistare un blackberry con una nuova scheda telefonica per evitare di essere ascoltato. Nell’ordinanza di custodia cautelare i magistrati spiegano nel dettaglio le richieste che i vertici del Consorzio Nuova Venezia volevano sapere sulle inchieste in corso. E’ l’allora generale della Gdf della provincia di Venezia, Walter Manzon, perquisito nei giorni scorsi, ad attivarsi. E a chiedere al colonnello Renzo Nisi, l'ufficiale che per primo ha indagato sul Cvn scoprendo il marcio delle acque veneziane, di fornirgli le informazioni delle ultime indagini in corso. Nisi è il cosiddetto «buono» di tutta la vicenda, grazie al suo operato l'inchiesta non è stata insabbiata. Nel 2013 è stato trasferito a Roma e prima di andarsene disse: «La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga». Come si legge nei verbali agli atti, Nisi, uomo appunto integerrimo, non avendo in quel momento «alcun tipo di sospetto trattandosi di dati richiesti da suo diretto superiore gerarchico» fornì i dati. E’ il 26 ottobre del 2010. Grazie all’intervento di Speziante e Manzon la cricca viene a sapere tutto. «Il nominativo dei soggetti nei cui confronti sono in corso le indagini tecniche e la qualifica»; il tipo di intercettazioni in corso, se ci fossero cimici o fossero solo intercettati i cellulari; le utenze monitorate dalla fiamme gialle per conto della procura. Per questo motivo Mazzacurati e Spaziante non parlano mai al telefono, perché sanno di essere intercettati. Ma il 3 dicembre del 2010 una microspia piazzata nell’ufficio delll’ex presidente del Cvn svela che il gran burattinaio del Mose conosce la situazione. Ne parla con un ex diplomatico, Antonino Armellini. E svela: «Mi hanno detto di una telefonata che hanno registrato con il dottor Letta, una con Matteoli...le hanno registrate». L'accordo con la Guardia di Finanza trovato nella casa di Baita: 2 milioni di euro per orientare le indagini. Il sodale di Mazzacurati è Piergiorgio Baita, l’ex top manager della Mantovani costruzioni, Il re del project financing arrestato lo scorso anno, altra gola profonda nell’inchiesta. È nella sua casa che gli inquirenti trovano in un'agenda la conferma dell’accordo con il relativo importo delle spese a «risultato raggiunto». E nel corso dell'interrogatorio Mazzacurati spiega che non solo Milanese ringraziò dopo aver ricevuto una tangente di 500mila euro («Io ho un po’ di ritegno su queste cose, mi colpì» dice ai magistrati), ma che dopo si trovò a dover fronteggiare le richieste di Spaziante che per «orientare le indagini» chiedeva una tangente di 2 milioni di euro. Di questi soldi Mazzacurati ne verserà solo un quarto in due tranche, nel 2011 e 2012. «Mi rifiutai di corrispondere altro denaro, anche per le difficoltà di reperire una somma quale quella richiesta» afferma durante l’interrogatorio del 9 ottobre del 2013. Servizi segreti e magistrati. Oltre a Giuseppone della Corte dei Conti, anche lui arrestato e anche lui addetto, secondo gli inquirenti, a dare una mano al Consorzio Nuova Venezia, nelle carte dell'inchiesta ci sono pure i magistrati del Tar. E' soprattutto Claudia Minutillo, ex segretaria del Doge Giancarlo Galan, a raccontare ai magistrati delle lotte interne alla burocrazia italiana, alla Gdf e ai Servizi. La Minutillo racconta anche degli intrecci tra Baita, Corrado Crialese, avvocato cassazionista e numero uno di Adria Infrastrutture già in Fintecna, e Bruno Amoroso, presidente del Tar di Venezia. Lo stesso Baita conferma a più riprese di aver pagato giudici del Consiglio di stato fino a 120 mila euro per avere sentenza favorevoli. Se nelle carte dell'Expo 2015 spunta il nome del numero uno del Dis Giampiero Massolo, in quelle sul Mose è sempre la Minutillo a raccontare altri dettagli sull'assuzione di una figlia «di uno dei servizi segreti». Si legge: ««I cognomi di queste due ragazze sono significativi: una si chiama Splendore, il cui padre è comandante dei Servizi segreti (si tratta del direttore dell'Aise del Triveneto Paolo Splendore ex Sisde noto alle cronache per aver lavorato con Bruno Contrada ndr), che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della Laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse».

V come Vibo Valentia: "Nella tarda serata di ieri la sentenza del processo "Dinasty 2 – Do ut des". Una lunga camera di consiglio al termine della quale la prima sezione penale del Tribunale di Salerno presieduta da Renata Sessa, a latere i giudici Emiliana D'Ascoli e Fabio Zunica, ha condannato otto dei 12 imputati. Per tutti sono cadute le aggravanti mafiose contestate in relazione ad alcuni capi d'accusa. La pena più alta è stata inflitta all'ex presidente di sezione del Tribunale civile di Vibo, Patrizia Pasquin, a cui sono stati comminati 14 anni e sei mesi di reclusione. All'ex magistrato venivano contestati i reati di associazione a delinquere, corruzione, concussione, truffa, falso. La sentenza, però, fa venir meno le aggravanti dell'art. 7 della legge antimafia per tutte le ipotesi di reato contestate. Il pm della Dda di Salerno, Patrizia Gambardella, al termine della requisitoria del 13 gennaio scorso, aveva chiesto per la Pasquin 52 anni e 6 mesi complessivi per i diversi capi d'imputazione, facendo però presente al Tribunale di tener conto del cumulo materiale e giuridico della pena che nel nostro ordinamento non può superare i 30 anni. Ed ancora. Dopo la sospensione dallo stipendio e la sospensione dalle funzioni di magistrato disposto dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura il 10 gennaio del 2009 su richiesta della Procura generale della Cassazione, per l'ex procuratore di Vibo Valentia Alfredo Laudonio è arrivata il 05/06/2010 una condanna in sede penale, giunta al termine del giudizio con rito abbreviato. Laudonio è stato condannato dal gup di Salerno Di Florio ad 1 anno e 8 mesi (pena sospesa) e ritenuto pertanto responsabile dei reati di falso ideologico commesso nell'esercizio delle proprie funzioni, omissioni di atti d'ufficio, favoreggiamento personale. Laudonio, al quale sono state concesse le attenuanti generiche, è stato inoltre condannato al pagamento delle spese processuali e al risarcimento di tutti i danni, morali e materiali, da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla refusione delle spese processuali e di costituzione. La vicenda che ha interessato Alfredo Laudonio nasce dalla denuncia, presentata subito dopo la morte di Federica Monteleone, dal sostituto procuratore di Vibo, Fabrizio Garofalo ed inoltrata all'allora Procuratore generale di Catanzaro Vincenzo Iannelli. L'ex procuratore è stato accusato dal pm, Roberto Penna, di aver avviato l'inchiesta sul decesso della povera Federica Monteleone con ritardo, assegnando il fascicolo d'indagine al pm Fabrizio Garofalo solo il giorno dopo il black-out nella sala operatoria dell'ospedale "Jazzolino", nonostante Laudonio fosse stato subito informato di quanto si era verificato in quella sala dal direttore sanitario dell'Asl dell'epoca, Alfonso Luciano, e nonostante il sostituto di turno fosse proprio Garofalo, che avrebbe dovuto quindi essere immediatamente avvertito dal capo dell'Ufficio.

V come Vicenza: «In una occasione il mio comportamento non è stato dignitoso, ma non ho mai violato la legge». Racconta “Il Corriere della Sera”. Era il 24 giugno del 2007, e questa frase riecheggiò tra le pareti dell’aula del tribunale di Trento. A pronunciarla, il giudice Eugenio Polcari, ex pretore e poi giudice di Thiene e Schio, in servizio dal 1986 fino al 2003, quando si trasferì a Napoli dove poi venne sospeso proprio in seguito a un brutto guaio legato a presunte pressioni esercitate per ottenere regali e forti sconti nei negozi. Accuse (da lui sempre respinte) che il 4 ottobre del 2011 hanno convinto il Consiglio superiore della magistratura a emettere nei suoi confronti la sanzione della «rimozione », la più severa tra quelle che avrebbero potuto infliggergli. Decisione inevitabile, secondo l’organo di autogoverno dei magistrati, visto che è «impossibile per il giudice recuperare nella collettività la fiducia e la considerazione necessarie per riprendere l’esercizio delle funzioni giurisdizionali». Ed ancora. Cecilia Carreri, magistrato a Vicenza, in permesso per sei mesi a causa di un forte mal di schiena, partecipava a gare estreme in barca a vela. Malata per il tribunale, era in regata. giudice punita col trasferimento. Il Csm le ha tolto un anno di anzianità e l'ha spostata d'ufficio. In ufficio non poteva andare per un mal di schiena talmente forte da impedirle di stare addirittura seduta. In barca vela, però, riusciva a muoversi con disinvoltura tanto da partecipare a una difficile regata in preparazione di una transoceanica. Cecilia Carreri, giudice per indagini preliminari in servizio a Vicenza, è stata "condannata" dalla sezione disciplinare del Csm a una sanzione tutto sommato lieve: la perdita di un anno di anzianità e il trasferimento ad altro ufficio.

V come Viterbo: Nel mese di Giugno del 2012 il capo segreteria dell'Ispettorato Generale del ministero della Giustizia aveva messo sotto inchiesta il Tribunale di Viterbo aprendo un fascicolo al n. 640ES12 e aveva trasmesso la pratica all'attuale Ministro della giustizia Severino. Nelle prossime ore, inizierà l'ispezione al Tribunale di Viterbo in merito a quanto sopra esposto ed in concomitanza a tale ispezione, si avvierà un'inchiesta in applicazione della legge 416 Bis nei confronti di 33 persone coinvolte in questa scabrosa vicenda, tra cui avvocati, giudici e un notaio del foro di Viterbo, e diversi titolari di ditte su San Marino. Ed ancora. L'ex procuratore capo di Viterbo e attuale procuratore generale a Perugia Giancarlo Armati è indagato per peculato dalla procura di Firenze. Ad accusare il magistrato è stato suo figlio. Secondo l'ipotesi di accusa, Armati, mentre era in servizio a Viterbo, avrebbe utilizzato il telefono cellulare di servizio, intestato all' assessorato ai Lavori pubblici del Comune, così come quelli di altri magistrati, per chiamare i suoi familiari, in particolare la figlia.

AVVOCATOPOLI IN ITALIA

CONTRORIFORMA FORENSE CONTRO I GIOVANI. AVVOCATURA: ROBA LORO IN PARLAMENTO. ALBI ED ORDINI DI STAMPO FASCISTA REITERATI DA LIBERALI E COMUNISTI.

L’attesa è finita: la riforma forense è legge dello Stato. A distanza di ottant’anni, il Senato ha dato il via libera definitivo al testo che rifonda criteri di accesso, svolgimento e sanzioni per il mondo dell’avvocatura in Italia dopo un iter lungo tutta la legislatura. A palazzo Madama, dopo rinvii e anche una sospensione della seduta dovuta all’assenza del numero legale, c’è stata polemica sui “pianisti”, nel corso nella votazione concitata dei 67 articoli, dettati dalla voce del presidente Schifani. Alla fine, però, è passata la nuova riforma forense con ampia maggioranza (a favore anche Idv e Lega Nord) e alcuni sparuti senatori in dissenso dalla linea dei propri gruppi. Una votazione, comunque, storica per l’ordinamento di tutte le professioni legali, che attendevano – e in parte temevano – l’avvento di questo giorno. A fare le spese, sono, infatti, ancora una volta i giovani, con l’istituzionalizzazione (articolo 41) del praticantato gratuito nei primi sei mesi e la possibilità facoltativa, da parte del datore di lavoro, di elargire un compenso a partire dalla settima mensilità. Una misura molto contestata, oggetto anche della pregiudiziale di costituzionalità avanzata da alcuni parlamentari, che hanno già annunciato i ricorsi alla Consulta. Ciò nonostante, il limite ufficiale di praticantato viene stabilito a 18 mesi invece che ai 24 vigenti fino a ieri. Inserito nel testo della riforma forense anche lo spazio di svolgimento di un impiego subordinato contestuale nei mesi di tirocinio, purché non finisca per prendere il sopravvento in termini di carico orario. In contemporanea, poi, è ipoteticamente concesso di svolgere fino a due tirocini, a medesime condizioni di impegno e retribuzione, naturalmente. Passando, poi, a analizzare il nuovo esame di Stato, (articoli 46-49) vediamo come arriverà una valutazione degli elaborati più rigida e approfondita, con la Commissione che sarà chiamata a motivare per iscritto a fianco del testo le proprie annotazioni di carattere positivo o negativo. Sparisce anche la possibilità di portare in sede d’esame testi commentati: gli unici compendi leciti saranno i Codici “nudi e crudi” senza note, esempi o indicazioni di sorta. Chi sgarra, potrà incorrere in un reato specifico creato ex novo proprio in coda alla riforma forense. Ulteriore step di valutazione sarà quello per il conseguimento del patrocinio per le magistrature superiori, come Cassazione o Consiglio di Stato, sostenibile a partire dall’ottavo anno dopo l’iscrizione all’albo oppure dopo cinque di abilitazione. Sul versante specializzazioni (articolo 9) serviranno due anni dall’idoneità per l’iscrizione all’Albo, dove dovrà, peraltro, essere svolto un periodo di formazione mirata al settore prescelto. E veniamo alla parte della riforma che più interessa studi legali e professionisti in proprio. Tanto per cominciare, nella definizione dei compensi, deve assolutamente sparire qualsiasi rimando alle tariffe, specificando, poi, il totale della prestazione nel momento in cui viene richiesta. Quindi, ogni voce di spesa dovrà essere indicata per iscritto, a tutela del cliente. Obbligo di apertura di una polizza assicurativa (articolo 12) in capo al titolare dell’attività, che funga da copertura in sede di responsabilità civile per tutti i soggetti coinvolti nell’attività, e dunque anche per i tirocinanti. Cambiano le giurie per le eventuali sanzioni (art. 53) comminate dal’Ordine nazionale: saranno cinque i membri chiamati a esprimersi – con tre “panchinari” già decisi – in merito a richiami, avvertimenti, censure, sospensioni o radiazioni.

Riforma forense: under 50 penalizzati da logiche logore, vessatorie e masochistiche, scrive Marco Bona su “Altalex”. L’anno 2012 appena archiviato (un’annata pressoché da dimenticare) si è concluso con un ultimo vulnus alla mia attività di (relativamente “giovane”) avvocato: la riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente (l’ultima seduta utile!) dal Parlamento prima di cessare (finalmente!!!) di fare danni. Tra i primi commenti si è affermato che questa sarebbe una “riforma” che “attendavamo da 70 anni” (sic!) e che con questa gli avvocati avrebbero “incassato” un altro “successo” (sic!) in questi mesi di “rivincita dell’avvocatura” (sic!). Si prospetterebbe una “nuova vita dell’Avvocatura” (sic!), con “maggiori opportunità di lavoro per i giovani” (sic!). Insomma, una “buona notizia” (sic!). Gli avvocati sarebbero tornati sul “piedistallo” (sic!) e recupereranno “dignità” (sic!). Per me non è affatto così, ed a leggere i commenti entusiastici del Presidente del CNF Guido Alpa (“orgoglio” e “commozione”, sic!) e quelli positivi dell’O.U.A. sulla “nuova” (sic!) disciplina dell’ordinamento della professione forense non mi ci ritrovo proprio ed anzi avverto viva irritazione: trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non mi viene in alcun modo incontro ed anzi mi penalizza in modo significativo quale avvocato quarantenne, con studio associato inaugurato nel 2011, collaboratori e dipendenti a carico, praticanti ogni anno sottratti all’attività di studio e torchiati a causa di un esame destabile, vessato dallo Stato (tassazione a livelli micidiali, “sistema giustizia” da terzo mondo, contributi unificati disincentivanti la tutela dei cittadini, costi di gestione dello studio oltre ogni soglia immaginabile, leggi e leggine ammazza liquidazione di onorari e costi giudiziali), svenato dalla Cassa Previdenza Avvocati senza alcuna concreta prospettiva di una contro-prestazione commisurata al versato, costretto ad adempimenti burocratici di ogni sorta, defatiganti, dispendiosi a livello di tempo e pure costosi. Si è espressa smisurata soddisfazione per questa “riforma”, senza però farsi i conti con le nostre tasche, con i nostri sudati guadagni e con i nostri quotidiani sacrifici, con gli investimenti (personali ed economici) che dobbiamo fare per rivestire il nostro ruolo, con l’enorme dispendio di tempo che ci troviamo ad investire nella nostra attività, con i problemi concreti che ogni giorni affrontiamo, con i nostri concorrenti (sempre più attrezzati), con la sleale concorrenza operata da diversi colleghi (quelli che evadono il fisco, che non sanno neppure cosa sia il “modello 5”, che sfruttano la manodopera di praticanti e giovani avvocati), con il dramma di un esame d’accesso assurdo e che penalizza sia i giovani, che effettuano un tirocinio effettivo, e sia gli studi legali che li impiegano con serietà, con una serie di “riforme” estremamente penalizzanti per i cittadini che vogliano accedere alla giustizia. Altro che opportunità e “nuova vita” per la professione forense, altro che “rilancio”, altro che brillante futuro per i giovani colleghi (e pure per quelli che hanno sorpassato la soglia dei 40): questa è l’ennesima dimostrazione che viviamo in un Paese governato da vecchi (e destinato ad essere in futuro condotto dai loro portaborse), asfissiato da logiche di casta e corporative. Un Paese che non sa guardare in faccia alla realtà, che non concepisce la concorrenza, che ragiona secondo schemi trapassati, che è destinato a divenire sempre più provinciale e periferico, incompreso anche da chi eppure contribuisce a farlo sopravvivere. Ecco qui di seguito, ancorché per sommi capi, alcune delle ragioni che mi fanno detestare vivamente questa “riforma” e che mi inducono a ritenermi del tutto inadeguatamente rappresentato dall’“ordinamento forense” (CNF in testa). Preciso: non vi è alcuna particolare ideologia, alcuna preferenza politica o altro recondito motivo dietro queste mie critiche: soltanto mero pragmatismo ed elevata preoccupazione per la preservazione concreta del nostro ruolo di difensori/promotori di diritti, ciò in un’Italia dove si fanno tante parole e le si riveste adducendosi grandi concetti in realtà per difendere orticelli, poltrone e privilegi ottocenteschi.

1) Art. 1 («Disciplina dell’ordinamento forense»)

Certamente siamo tutti, almeno a parole, fervidi sostenitori dei capisaldi della professione forense ribaditi in questo primo articolo della “riforma”. Peccato, tuttavia, che vi siano sempre state e continueranno a registrarsi significative disparità di trattamento tra avvocati, ciò a seconda delle realtà locali (determinate dai consigli degli ordini) oppure dell’“eccellenza” di alcuni colleghi (tra cui anche noti parlamentari) o anche solo dell’età. Purtroppo anche per l’Avvocatura ci sono mille Italie.

2) Art. 2 («Disciplina della professione di avvocato»)

Per i “comuni mortali” l’accesso all’albo degli avvocati è stato reso ulteriormente un calvario; però la “riforma” si guarda bene dall’eliminare vecchi privilegi, quale quello concesso ai “professori universitari di ruolo, dopo cinque anni di insegnamento di materie giuridiche” che possono iscriversi senza sostenere l’esame di accesso e senza magari essersi mai spellati le mani sui fascicoli. Soprattutto, nonostante i vari proclami e sebbene alcuni commentatori esaltino il punto (chiaramente illudendosi), in concreto non viene in alcun modo garantita agli avvocati l’esclusività delle attività non giudiziali (quindi alcun risultato è stato conseguito a questo riguardo). Infatti: il testo finale della “riforma” si limita laconicamente ad affermare che “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”; orbene, per questa via non si sancisce chiaramente l’esclusività e, quindi, non si ha alcuna preclusione di natura normativa opponibile ai concorrenti dell’Avvocatura, sempre più numerosi ed organizzati; e poi chi farebbe rispettare questa supposta e labile “riserva” di attività? Siamo dinanzi al solito “specchietto per le allodole”: tanto fumo, poco arrosto; peraltro, non dovremmo scordarci dei diversi interventi – tra l’altro condivisibili in diritto – preclusivi di interpretazioni estensive di tale disposizione ed anzi tali da renderla costituzionalmente illegittima; in contraddizione con il principio dell’indipendenza, “È comunque consentita l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato …, aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro ... Se il destinatario delle predette attività è costituito in forma di società, tali attività possono essere altresì svolte in favore dell’eventuale società controllante, controllata o collegata, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile”; salvo è poi il super-potere concesso alle associazioni dei consumatori, i cui esponenti (spesso dei colleghi), godendo peraltro di ingenti (e spesso immeritati) sovvenzionamenti pubblici, possono permettersi di tutto (in primis attività promozionali in televisione, sulle radio, su giornali), tutto ciò a discapito di quegli avvocati che si astengono dall’operare sotto le mentite spoglie di associazioni ed enti esponenziali. In breve, rimangono dinanzi a noi, armati come prima, tutti i nostri concorrenti (società di infortunistica, “tribunali” dei pazienti, dei vacanzieri e di altri soggetti, società di recupero credito, società di supporto “tecnico” alle assicurazioni, alle banche ed alle imprese, associazioni dei consumatori variamente denominate, organismi dediti al volontariato, organismi di mediazione e conciliativi, camere di commercio, carrozzieri, ecc.), con la differenza che questa “riforma” ci priva di tutta una serie di strumenti per resistere alla concorrenza e competere sul mercato, oltre vessarci ulteriormente sotto plurimi profili. Verrebbe da osservare come occorra davvero una certa qual propensione al masochismo per elogiarla. Chiariamoci poi su un punto: è del tutto illusorio pensare che oggi, stando al quadro normativo europeo che liberalizza la maggior parte dei servizi professionali e la stessa posizione assunta dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione nostrane nel passato, sia giuridicamente e concretamente possibile precludere ai cittadini di rivolgersi a persone e società che operano ormai da diversi decenni e arrivano a loro molto più agevolmente di noi avvocati, tra l’altro presentandosi con accordi economici decisamente più convincenti. Invece di pensare ad introdurre riserve del tutto illusorie ed inattuabili (comunque fuori da ogni realtà praticabile), i lungimiranti “riformatori” della professione forense avrebbero dovuto dotarci di tutti gli strumenti del caso per poter concorrere, per promuovere la tutela dei diritti delle persone al pari dei nostri concorrenti. Insomma: nulla avrà a mutare nella sostanza e continueremo a trovarci costretti a scendere a patti e compromessi con i nostri concorrenti, essendo pure da segnalarsi come diversi colleghi già siano stati soggiogati dagli stessi. Dunque altro che nuove opportunità di lavoro, essendoci viceversa impedito di andarle a ricercare, di promuovere adeguatamente ed attivamente i nostri servizi e le nostre qualità, di fare ricorso ai modelli contrattuali che i nostri concorrenti sono bravissimi ad impiegare. Una semplicissima domanda: in quale realtà vivono i “riformatori” dell’Avvocatura? Evidentemente qualcuno non ha ben afferrato che i privilegi del passato e quelli che si vorrebbe vedere affermati non conducono più da nessuna parte, soprattutto di questi tempi: tentare di rivitalizzarli è soltanto una battaglia di retroguardia, persa in partenza, della quale al massimo possono godere le generazioni più attempate. Ad insistere su politiche volte a preservare od istituire privilegi stiamo solo perdendo tempo prezioso, ciò a tutto vantaggio dei nostri concorrenti (peraltro spalleggiati da soggetti come, per esempio, ABI, ANIA, Confindustria, Confcommercio, Confagricoltura, Confartigianato, Confcooperative, Associazione Generale Cooperative Italiane, nonché da AGCM). Dovremmo invece organizzarci per concorrere sul mercato senza temere confronti di sorta. Ed invero, a questo riguardo, non si è neppure compreso da parte dei nostri rappresentanti come molti di noi (quelli formatisi nell’era degli studi legali fattisi autentiche realtà imprenditoriali) saremmo perfettamente in grado di concorrere, se solo fossimo dotati di tutti gli strumenti del caso. Noi delle nuove generazioni non abbiamo bisogno di privilegi (comunque inaffidabili e destinati a sicure censure), ma necessitiamo di poter giocare – fermo restando il rispetto del decoro professionale (tuttavia modernamente inteso) – la partita in corso. A non voler ragionare in termini di concorrenza favoriamo semplicemente i nostri concorrenti. Ho sopra rilevato che il comma 6 dell’art. 2 della «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense» («Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati») non mi sembra norma destinata a conseguire particolari ribaltamenti di prospettiva. Il punto va ulteriormente argomentato in diritto. Questa norma è invero lungi dal potersi interpretare nel senso di garantire agli avvocati una riserva illimitata sulle attività non giudiziali. In primo luogo deve evidenziarsi la differenza corrente, a livello terminologico, tra il comma 6 (che stabilisce la “competenza” degli avvocati relativamente alla consulenza legale e di assistenza stragiudiziale, senza peraltro associare l’aggettivo “esclusiva”) ed il comma 5, ove invece le attività giudiziali sono qualificate come “esclusive” dell’avvocato. In secondo luogo – nondimeno questo è il punto più rilevante – va segnalata, in seno al comma 6, la presenza dell’inciso, decisamente ambiguo e comunque fonte di significative incertezze, per cui la “competenza” dell’avvocato relativamente all’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale opera soltanto “ove connessa all’attività giurisdizionale”. Questo inciso assume senz’altro rilievo centrale, poiché indubbiamente va interpretato nel senso di limitare, in qualche modo, la portata della predetta “competenza” assegnata dalla norma agli avvocati, dovendosi, ad inconfutabile conferma di ciò, considerare, in applicazione dell’art. 12 delle preleggi, come la disposizione in commento, introdotta con un emendamento alla Camera dei Deputati, sia nettamente diversa dalla previsione contenuta nel precedente testo (cfr. Ddl 23 novembre 2010, n. 1198-A) approvato dal Senato in prima lettura, che riservava agli avvocati in via generale l’intero settore stragiudiziale, indipendentemente dalla connessione con l’attività giurisdizionale. Quale sia poi il significato esatto e concreto da attribuirsi all’inciso in questione rimane indubbiamente un autentico mistero, ma potrebbe sostenersi funditus la necessità di un’interpretazione restrittiva, per cui sarebbero da considerarsi “connesse all’attività giurisdizionale” (dal latino iurisdictio, a sua volta derivato da ius dicere) soltanto quelle attività materialmente prodromiche all’instaurazione di un giudizio (si pensi alla “mediazione obbligatoria”, tra l’altro recentemente abrogata dalla Corte costituzionale, all’informativa sulla mediazione facoltativa, o, ancora, a sistemi conciliativi imposti legislativamente per l’avvio della fase giudiziale; si pensi altresì all’acquisizione del mandato alle liti oppure all’informativa da fornirsi al cittadino circa i rischi di un giudizio) oppure tali da incidere su un processo già in corso (come, per esempio, l’assistenza del cliente nel raggiungimento, “fuori udienza” di una transazione tale da mettere fine ad un giudizio in corso). La necessità di un’interpretazione restrittiva può trarsi dalle seguenti considerazioni: in primo luogo, occorre attribuire rilievo al passaggio dai precedenti testi in discussione in Parlamento (che preventivano un’esclusiva generalizzata) alla norma definitivamente approvata (che invece circoscrive l’operatività della “competenza”); in secondo luogo, occorre preservare un significato in capo alla presenza nella lettera della norma dell’inciso in questione, che, latamente interpretato, potrebbe risultare svuotato di ogni portata, ciò in tutta evidenza contrariamente all’intenzione del legislatore di circoscrivere la “competenza” prevista in capo agli avvocati; infine, interpretazioni estensive di tale disposizione potrebbero risultare costituzionalmente illegittime e, comunque, suscettibili di censure alla luce della normativa, innanzitutto di origine comunitaria, sulla concorrenza, censure che, stanti i numerosi precedenti giurisprudenziali legittimanti l’attività stragiudiziale da parte di soggetti diversi dagli avvocati, potrebbero trovare avvallo anche nella giurisprudenza. In definitiva: è indubbio che la norma in commento non sia in alcun modo tale da sancire chiaramente, in capo all’Avvocatura, l’esclusività relativamente a tutte le attività stragiudiziali; sicuramente sostenibile è l’interpretazione restrittiva degli effetti di questa disposizione, sicché il suo futuro, lungi dall’essere già scritto e dal risolversi per certo in favore dell’Avvocatura, sarà determinato dalle risposte che perverranno dalla giurisprudenza (verosimilmente tali da confermare le precedenti posizioni) e dalle autorità/istituzioni, nazionali e non, aventi competenza in materia di concorrenza; la sostenibilità dell’interpretazione restrittiva dovrebbe altresì legittimare - pur con tutte le cautele del caso e ferma restando l’incognita (pur parziale a fronte dai pronunciamenti già intervenuti in materia) costituita dai futuri orientamenti giurisprudenziali - la prosecuzione di attività di consulenza legale e stragiudiziale da parte dei soggetti già ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità degni di svolgerle.

3) Art. 5 («Delega al Governo per la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria»)

In primo luogo la “riforma” rimette al Governo il potere di legiferare sul punto: eccoci nuovamente dinanzi all’ennesimo rinvio all’Esecutivo, che in questi anni, a prescindere dai suoi cangianti colori politici, ha saputo consegnarci norme frequentemente (se non sempre) deprecabili e, comunque, significativamente avverse alla nostra professione. Ad ogni modo senz’altro condivisibile, nel segno dell’indipendenza e dell’autonomia dell’Avvocatura, è che il Governo debba attenersi al seguente criterio direttivo: “prevedere che l’esercizio della professione forense in forma societaria sia consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative, i cui soci siano avvocati iscritti all’albo”. Non vorremmo per certo studi legali “posseduti” da banche, assicurazioni, catene di supermercati, tour operator, società di infortunistica od altro: non tanto per una questione di concorrenza, ma perché salterebbe del tutto l’indipendenza di un numero elevatissimo di colleghi (mi riferisco in particolare agli studi legali di dimensioni ridotte), con ricadute di segno negativo sulla tutela di diritti anche fondamentali. Soprattutto si prospetterebbe il rischio della definitiva conquista del “sistema giustizia” (in primis quanto al suo accesso) da parte dei nuovi (invero neppure tanto nuovi) “regimi di potere”. Viene tuttavia da domandarsi se qualcuno tra gli esimi colleghi, che ci hanno rappresentato nell’iter di approvazione della “riforma”, si sia posto il problema della concorrenza che, ogniqualvolta cerchiamo di competere sul fronte internazionale o con studi stranieri operanti sul nostro territorio, proviene da tali studi, che invece annoverano notoriamente, ancorché non tutti, soci investitori di tutto rilievo che nulla hanno a che vedere con la professione forense. In breve, ancora una volta l’avvocatura italiana si ritrova privata di strumenti concorrenziali di significativa importanza, trascurandosi di considerare la realtà che ci circonda anche in casa. Il nostro si conferma un Paese per vecchi, non già per chi deve affrontare il futuro. Forse sarebbe stato opportuno prevedere delle regole sì rigide ma tali da riequilibrare il divario che ci separa dai concorrenti internazionali (che poi operano anche a casa nostra). Peraltro la norma sembrerebbe così precludere agli avvocati italiani di convergere con colleghi stranieri in forme societarie, annoveranti altresì (con tutte le cautele del caso sul piano delle decisioni) di investitori-soci di capitale, per la gestione di casi internazionali, prospettiva questa del tutto trascurata dai “riformatori” (evidentemente a digiuno delle questioni di case funding delle quali si discute nei consessi internazionali, fatta forse eccezione per i congressi di mera accademia che poco interessano agli avvocati). Discutendosi poi di società, sarebbe stata opportuna una qualche considerazione dei profili fiscali (eppure rilevantissimi).

4) Art. 9 («Specializzazioni»)

L’idea di creare delle forme di accreditamento per gli avvocati, i quali intendano qualificarsi come “specializzati” in un determinato settore, è senz’altro ottima. La Law Society inglese, per esempio, ha istituito da anni un sistema di questo tipo. Sennonché in Italia incontriamo sempre delle difficoltà a concretizzare per via normativa le buone idee. Innanzitutto anche per questa ipotesi si prospetta un rinvio ad un ulteriore passaggio legislativo, questa volta affidato ad un regolamento adottato dal Ministro della giustizia previo parere del CNF. Deprecabile è soprattutto che il conseguimento del titolo di specialista possa acquisirsi anche soltanto attraverso “percorsi formativi”, senza richiedersi congiuntamente una “comprovata esperienza nel settore di specializzazione” (la norma, infatti, recita che “Il titolo di specialista si può conseguire all’esito positivo di percorsi formativi almeno biennali o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione”). L’avvocato, per qualificarsi specializzato in una materia, sì dovrebbe studiare e frequentare corsi (e dovrebbero bastare, laddove mirati su determinate materie, quelli funzionali alla formazione continua), tuttavia in primo luogo dovrebbe maturare le sue “speciali” competenze affrontando quotidianamente, a stretto contatto con i clienti, le reali problematiche di questi e del contenzioso; invece la “riforma” ci consegna la prospettiva di avvocati “artificialmente” specializzati, dotati di un distintivo conseguito a tavolino. Inoltre: siamo davvero convinti che sia sufficiente un percorso formativo “almeno biennale” (senza – N.B. –alcuna esperienza pratica specialistica) per qualificarsi, ad esempio, giuslavorista od esperto in diritto di famiglia? Che senso da un lato concedere il titolo di specialista ad un legale privo di esperienza concreta per il sol fatto di avere frequentato per due anni un corso formativo e dall’altro lato esigere che, per conseguire il medesimo titolo “per comprovata esperienza professionale maturata nel settore oggetto di specializzazione” occorra avere “maturato una anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati, ininterrottamente e senza sospensioni, di almeno otto anni” e che si dimostri di “avere esercitato in modo assiduo, prevalente e continuativo attività professionale in uno dei settori di specializzazione negli ultimi cinque anni”? Vogliamo continuare a premiare chi può permettersi il tempo di frequentare corsi a detrimento di chi invece si spacca le ossa sul lavoro? Per quali ragioni i percorsi formativi in questione devono necessariamente essere organizzati presso le facoltà di giurisprudenza? Forse per dare lavoro alla pletora di accademici che nulla sanno della professione e delle problematiche reali, quelle cioè sulle quali si forma il vero specialista? Forse che i consigli degli ordini o le società specializzate nella formazione forense non sarebbero in grado di organizzare (attraverso professionisti di comprovata esperienza in questo o quel settore) corsi altrettanto affidabili e seri?

5) Art. 10 («Informazioni sull’esercizio della professione»)

A leggere questo articolo viene innanzitutto in evidenza come non si faccia cenno ad un’informazione importante per i nostro potenziali clienti: i compensi professionali, perlomeno a livello di criteri generali. Ciò ha dell’incredibile, se solo si considera come tutti i nostri concorrenti (società di infortunistica, società di recupero crediti, associazioni dei consumatori, ecc.) liberamente possano promuovere i trattamenti economici accordati (ivi comprese eventuali gratuità). Promuoversi parlando di danaro non sarà forse “nobile” per l’avvocato, ma è ormai una necessità per concorrere sul mercato. E non mi si venga a raccontare che la professione forense non dovrebbe ragionare in termini di mercato: questa è la realtà che viviamo e che determina la nostra stessa sopravvivenza. La “riforma”, inoltre, nulla riferisce circa la possibilità di svolgere una promozione “attiva” dei nostri servizi: mentre i nostri concorrenti possono andare anche a bussare di porta in porta, noi dovremmo rimanere reclusi nei nostri studi, essendoci peraltro precluso, per quanto consta, di organizzarci con promotori e agenti. Trattasi di una situazione che non solo ci danneggia, ma finisce per colpire anche i cittadini, sottratti agli studi legali e conquistati da altre realtà. E finisce per colpire gli avvocati “onesti”, i quali, per rispettare le regole, subiscono la concorrenza di loro colleghi attrezzatisi nei modi più disparati. Sia chiaro: permetterci di fare promozione “attiva” non significa mica concederci di andare in giro a raccontare “frottole” e distribuire false illusioni per accaparrarci clienti, essendo che siamo vincolati a precisi doveri di correttezza, buona fede, decoro professionale, verità, promozione dei diritti. Significa solo permetterci di mettere a frutto la nostra professionalità, i nostri investimenti, di promuovere (non dimentichiamolo!) la tutela di diritti. Sono davvero stanco di dover guardare alla finestra, di dover pagare per la mia attività quanto un imprenditore, senza però poter sfruttare e promuovere – pur nel rispetto di tutti i principi del caso – il frutto del mio enorme e supertassato impegno. Forse che per ragioni di un’etichetta professionale ormai vetusta dovremmo lasciare la tutela e la promozione dei diritti ad altri che non si sono fatti le ossa su codici, leggi e sentenze?

6) Art. 11 («Formazione continua»)

Sicuramente è giusto, attesa la pigrizia culturale di molti, che gli avvocati siano costretti alla formazione continua. Ciò che non si condivide della “riforma” è quanto segue: gli impegni affrontati per assolvere alla formazione continua non saranno sufficienti per accedere alle giurisdizioni superiori (paradossalmente chi avrà parecchio lavoro, un sovraccarico di impegni e tante responsabilità si troverà costretto a rinunciare a divenire cassazionista); sono previste una serie di esclusioni che suonano molto quali autentici privilegi. Infatti, “Sono esentati dall’obbligo [di formazione continua]: … gli avvocati dopo venticinque anni di iscrizione all’albo o dopo il compimento del sessantesimo anno di età; i componenti di organi con funzioni legislative e i componenti del Parlamento europeo; i docenti e i ricercatori confermati delle università in materie giuridiche”. E perché mai queste esclusioni? Per quali motivi diverrebbe non più necessario garantire ai cittadini degli avvocati aggiornati e competenti, quando questi ultimi siano “anziani”? Forse che la “riforma” è stata ispirata da avvocati di una certa qual età? Per quali recondite ragioni i vari avvocati, che siedono in Parlamento, in un consiglio regionale o in altra istituzione con funzione legislativa, dovrebbero andare esenti dagli obblighi di formazione continua, laddove decidano di continuare ad esercitare attivamente la professione nonostante l’assunzione di un gravoso incarico istituzionale (magari, come del resto verificatosi in varie occasioni, pure avvantaggiandosi di questo ruolo per promuovere la loro attività professionale)? E perché mai docenti e ricercatori confermati, qualora ritengano di avere anche il tempo per dedicarsi all’attività professionale (sottraendolo ad attività didattiche, ricevimenti studenti e ricerca), non dovrebbero sottoporsi agli oneri formativi cui soggiacciono i loro colleghi meno blasonati? Insomma, se ci sono degli obblighi da assolvere per svolgere la professione, questi dovrebbero valere per tutti, nessuno escluso. Ma lo si sa: l’Italia è il Paese in cui i privilegi imperversano, sempre a vantaggio dei soliti noti.

7) Art. 12 («Assicurazione per la responsabilità civile e assicurazione contro gli infortuni»)

Ottima e doverosa la previsione dell’obbligo ad assicurarsi, senonché non si comprende proprio per quale ragione la norma si limiti ad asserire molto genericamente che la mancata osservazione di tale dovere “costituisce illecito disciplinare” invece che fissare con estrema chiarezza la sanzione della sospensione in assenza di polizza. Non occorre certamente la sfera di cristallo per prevedere che così gli avvocati più diligenti si troveranno dinanzi alla solita discriminazione perpetrata da quei consigli dell’ordine che, come in altre occasioni (per esempio la trasmissione del modello 5), sono soliti chiudere entrambi gli occhi sul rispetto di norme di questo tipo. Si spera poi che gli organi che, rappresentano l’Avvocatura, si facciano finalmente valere con le compagnie assicuratrici per metterci a disposizione delle polizze che non siano una uguale all’altra, le cui clausole siano suscettibili, caso per caso, di un’effettiva contrattazione (non già imposte dal solito cartello assicurativo e di fatto immodificabili) e tali da coprire rischi di tutto rilievo (allo stato, per esempio, non c’è alcuna polizza che contempli la copertura per i danni contrattuali non patrimoniali lamentati dal cliente). Insomma, delle convenzioni con i soliti noti non ce ne facciamo molto, se poi ci ritroviamo con polizze “claims made” standard ed immodificabili. Confidiamo infine che i prezzi delle polizze non salgano alle stelle: già siamo sommersi da costi notevoli e ci mancherebbe pure di dover fronteggiare polizze salate, tra l’altro noto essendo che praticamente mai le assicurazioni pagano i sinistri professionali stragiudizialmente, ciò con conseguenze devastanti per noi avvocati e i cittadini.

8) Art. 13 («Conferimento dell’incarico e compenso»)

Tra i punti più dolenti in assoluto della “riforma” si colloca indubbiamente quello relativo ai compensi, ciò proprio in un momento di generalizzata sofferenza economica anche per la nostra professione. Innanzitutto desta vivo stupore, per la sua estrema genericità, la seguente norma (comma 1): «L’incarico può essere svolto a titolo gratuito». Infatti, essendosi in Italia (un Paese in cui una fetta cospicua dell’Avvocatura ha dato notevoli prove di attaccamento all’evasione fiscale), ben si potrà immaginare l’impiego futuro di questa disposizione. Non già che il lavoro pro bono per fini sociali ed a favore delle persone indigenti non sia da incentivarsi (anzi), ma proprio per i noti vizi riscontabili anche nella nostra professione sarebbe stata imprescindibile (nonché sintomo di buona fede degli ispiratori e dei redattori della norma) una dettagliata disciplina delle prestazioni rese “gratuitamente”. Ma come al solito in Italia si “riforma” per nulla in concreto riformare, e così ci troveremo dinanzi alla solita questione: nel nostro bel Paese c’è sempre una qualche scappatoia legislativa per coloro che non hanno senso civico e magari si fanno pure beffa degli onesti. “La pattuizione dei compensi è libera”, peccato che poi (art. 13, comma 4) si affermi che “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”. La lettera di questa norma è invero lungi dall’essere chiara (il che, a prescindere da ogni ulteriore questione, è già di per sé una gravissima pecca del provvedimento), peraltro ponendosi in manifesta e inequivocabile contraddizione con il principio, pure affermato dalla “riforma” in seno allo stesso articolo (comma 5), per cui “è ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione” (ma è mai possibile che in Italia si riescano a scrivere norme che da un rigo all’altro contrastino platealmente?). Secondo alcuni commentatori in realtà il comma 4 dell’art. 13 non sancirebbe il ritorno al divieto dei patti quota lite: “La riforma forense appena approvata consente tale patto”, ponendo tuttavia “uno specifico limite” (cioè “impedisce che l’avvocato percepisca, come compenso, una quota del bene oggetto della prestazione”). Il che, secondo questa versione, unicamente “significa che il professionista non può, attraverso la vittoria di una lite o la positiva gestione di una trattativa, diventare socio, quotista o comproprietario di un bene insieme al suo cliente”, ossia “l’avvocato può esigere il pagamento della quota lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a condividere il bene. In tal modo, si applica alla professione il divieto al “patto commissorio” (articolo 2744 del Codice civile)”. Nondimeno, si potrebbe di contro sostenere – e questa sembra decisamente la versione più corretta (a partire dal fatto che per «bene» si intende anche il denaro) – come così si sia ripristinato quanto sostanzialmente già era previsto dal “vecchio” terzo comma dell’art. 2233 c.c., che era stato sostituito nel 2006 dal “decreto Bersani” con la seguente formulazione: “Sono nulli [c.c. 1418], se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”). La reintroduzione del divieto di patto quota lite, sostenuta da altri commentatori, sarebbe davvero assurda, discriminatoria (ad essere colpiti sono gli avvocati che si occupano di risarcimento e non già quelli che affrontano altre questioni), anacronistica, masochista, vessatoria per gli avvocati (e pure per i clienti), e non si capisce proprio per quale motivo dovrebbe suscitare un qualche entusiasmo o addirittura “commozione”. Sono prevalsi i soliti preconcetti contro questo tipo di pattuizione? Sicuramente sì (laddove si ritenesse corretta l’interpretazione circa gli effetti abrogativi di tale patto). Senza che nessuno tra i “riformatori” si sia in alcun modo peritato di svolgere le indagini del caso sull’impiego dei patti quota lite da parte dell’Avvocatura italiana a seguito della loro legittimazione per effetto del “Decreto Bersani” (2006), avrebbero “vinto” coloro che, tra l’altro ignorando i risultati della comparazione giuridica, continuano a spacciarci i patti quota lite per un modello rinvenibile solo al di là dell’Atlantico (quando invece sono previsti anche in Francia, tanto per fare un esempio a noi vicino, in Germania, in Olanda, in Grecia ed in Spagna, nonché in altri diversi Stati sia europei e sia extraeuropei) e tra l’altro deleterio per i cittadini e per l’accesso alla giustizia (il che non corrisponde affatto al vero, avendo questo tipo di accordi permesso la tutela, da parte degli avvocati, di migliaia di danneggiati contro banche, assicurazioni, colossi imprenditoriali, enti pubblici, ecc.). Viene altresì il sospetto che la (comunque riaperta prospettiva) della preclusione dei patti quota lite (che hanno senso soprattutto nelle materie aventi per oggetto il risarcimento dei danni) corrisponda a (o comunque sia il frutto di) una precisa scelta – ispirata da una ben determinata “politica del diritto” (senz’altro “reazionaria”) - finalizzata a disincentivare, colpendo innanzitutto gli avvocati dei danneggiati, la promozione di azioni risarcitorie contro i soliti noti (e non è un caso – si noti bene – che oltreoceano i “poteri forti” abbiano, tra le varie strategie messe a punto per detronizzare la responsabilità civile, condotto vere e proprie crociate contro i patti quota lite, fenomeno che il Presidente del CNF, stimato comparatistica, dovrebbe ben conoscere): questo modello contrattuale, infatti, non piace affatto a chi è esposto a subire cause, perché non solo incentiva gli avvocati ad affrontare le controversie ma altresì (e questo viene occultato nella retorica riformista) facilita i clienti nell’accesso alla giustizia. Ciò notato, il patto quota lite – va detto molto chiaramente – viene (rectius potrebbe essere stato!) abrogato in un momento storico contraddistinto dai seguenti fenomeni (tutti ignorati – anzi, a voler pensare male, forse invece contemplati – dai redattori della norma e dai “fan” della novella): i cittadini non hanno più particolari disponibilità economiche per affrontare cause spesso (quasi sempre) dagli esiti incerti (la giurisprudenza è vieppiù ondivaga) e che tuttavia richiedono esborsi notevoli (perizie tecniche sempre più esose, contributi unificati ormai vessatori, ecc.), tali da precludere all’avvocato di richiedere al cliente danneggiato acconti in qualche misura idonei a giustificare e sostenere il dispendio di tempo e di risorse (umane, di struttura, ecc.) per affrontare la controversia (inesorabilmente, giacché ci troviamo in Italia, destinata a durare anni); · le liquidazioni delle competenze professionali giudiziali risultano decisamente ribassate (oltre che dimezzate) in seguito all’approvazione del punitivo D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (uno scandalo a parte!), in un contesto già connotato da una magistratura costantemente incline a liquidare agli avvocati poco a titolo di onorari e spese di causa; non si può fare affidamento alcuno su quanto liquiderà il giudice; i costi di gestione degli studi legali sono saliti alle stelle con una tassazione abnorme (aggiungendosi una cassa previdenza esosa); si ha la concorrenza da parte di soggetti vari (società infortunistiche in primis) liberi invece di stipulare accordi di questo tipo. Ciò rilevato, è peraltro inconfutabile come in questa situazione il patto quota lite, laddove correttamente e con senso della misura concepito ed applicato dall’avvocato, risulti invero gradito dai clienti, e ciò lo si è toccato con mano in questi tempi (sia personalmente e sia sentendo i colleghi) ed è pure comprovato dal favor che incontrano le società di infortunistica che per l’appunto (e commercialmente non a caso) operano proprio con tale approccio. Perché è ben accetto dai clienti? Essenzialmente per i seguenti motivi: il cliente si trova dinanzi a regole chiare e che può agevolmente comprendere; l’assistito è agevolato nell’accesso alla giustizia, in quanto si trova dinanzi ai seguenti scenari: a) non gli vengono normalmente richiesti acconti per la fase stragiudiziale e spesso anche per affrontare il giudizio (se non magari fondi spese di limitato impatto economico); b) nel caso di sconfitta il suo rischio di causa verso il proprio legale è notevolmente circoscritto (generalmente, accanto all’acconto versato, dovrà soltanto farsi carico dei costi vivi); c) può contare sul fatto che, se l’avvocato è disposto a condividere i rischi di causa, crede effettivamente nella fondatezza dei suoi diritti; d) garantisce maggiore serenità ai clienti. Per queste medesime ragioni e proprio per la situazione innanzi descritta esso è pure condiviso dagli avvocati, che, senza preconcetti (e pure eticamente), lo hanno applicato. Il patto quota lite, inoltre, permette ai legali di: accedere ad una remunerazione che ben si meritano (magari dopo anni di causa, la spendita di notevoli energie e l’assunzione di significativi rischi), senza dover dipendere dalle prebende riconosciute dalla magistratura (frequentemente avara); concorrere con tutti quei soggetti che possono liberamente stipulare contratti di questo tipo. Si è obiettato che i patti quota lite sarebbero tali da incidere negativamente sui diritti sostanziali dei cittadini. Forse che nel passato (quello antecedente il “decreto Bersani” del 2006) gli avvocati, che si accontentavano di quanto liquidato dai giudici, erano la maggioranza? Non prendiamoci in giro: “palmari” e accorgimenti simili (fatti pagare rigorosamente in nero) hanno sempre imperversato nella nostra professione (con la differenza, rispetto ai patti quota lite di cui al “decreto Bersani”, di non essere neppure oggetto di preliminari accordi scritti tra le parti). Inoltre, come osservato dal Bundesverfassungsgericht, i patti quota lite possono permettere ai cittadini di accedere alla giustizia, il che è senz’altro ancor più vero in un periodo storico in cui l’esercizio dell’attività forense costa sempre di più (soprattutto se si pagano collaboratori, tasse e aggiornamenti continui degli strumenti di lavoro), i giudici liquidano vieppiù di meno agli avvocati ed i clienti (già vessati dallo Stato con elevati contributi unificati) non hanno particolari risorse da anticipare o da rischiare nell’eventualità di risultati negativi o, comunque, non particolarmente soddisfacenti (con ul legislatore, tra l’altro, incline a tagliare ovunque sulla tutela risarcitoria degli individui). Semmai, per ovviare ai possibili abusi di questo strumento e garantire i cittadini, si sarebbe potuto e dovuto insistere con il legislatore non già per un diniego assoluto dei patti quota lite (posto che questo sia effettivamente l’intendimento della norma), bensì per una loro più dettagliata e puntuale disciplina soprattutto in relazione ai limiti massimi della quota (prevedendosi per esempio il tetto massimo del 25%, come si ha in Francia), stabilendosi altresì la commisurazione della percentuale all’entità del rischio di causa ed alla presenza/assenza di determinate clausole (ad esempio l’accettazione dell’avvocato a lavorare su base “no win no fee”). Insomma, questa “riforma” (rectius la controriforma) potrebbe privarci, senza che si sia compiuta preliminarmente alcuna indagine seria, di (giuste) prospettive di possibili guadagni in tempi di crisi, in un periodo in cui siamo già taglieggiati su tutti i fronti. Rischia di disincentivarci alla promozione di azioni risarcitorie. Scoraggerà (laddove da intendersi in senso abrogativo) i cittadini a rivolgersi a noi e nell’accesso alla giustizia, trovandosi questi di nuovo sottoposti ai metodi di pagamento tradizionali e difficilmente sostenibili (per non parlare poi della scarsa concorrenzialità che il divieto produce nel rapportarci con i nostri competitor internazionali). Incentiverà i potenziali clienti a rivolgersi a tutta una serie di altri soggetti invece legittimati a stipulare patti quota lite. Ed allora perché mai dovremmo gioire e commuoverci per questa “riforma”, che (verosimilmente) aggiunge la prospettiva di ulteriori perdite di guadagno ed allontana i cittadini dai nostri studi per consegnarli nelle mani dei nostri concorrenti che i patti quota lite li possono fare? Dovrei sentirmi rappresentato con soddisfazione dal CNF tanto entusiasta della “riforma”? Come si può affermare che questa sia una riforma che “potrà rilanciare” il nostro lavoro? Perché mai a noi avvocati sarebbe precluso il patto quota lite mentre invece per le altre professioni non lo è? Perché il CNF si compiace di questa discriminazione? Al lato pratico occorre comunque domandarsi come fronteggiare tale divieto (posto che di divieto trattasi!). Innanzitutto, quale che sia la sua interpretazione, chiara è l’irretroattività della novella disposizione (cfr. art. 11 preleggi): dunque, tutti gli accordi stipulati sino all’entrata in vigore della nuova disciplina rimangono sicuramente validi. E per i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del divieto? Quale futuro si prospetta? In primo luogo, potrebbe sostenersi, anche a fronte delle contrapposte letture del comma 4, come la “riforma” non risulti tale da poter abrogare in alcun modo con effetti immediati l’art. 2, comma 1, lett. a), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (più noto come “decreto Bersani”, convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006), che cancellava il “divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”. Infatti, potrebbe sostenersi come tale abrogazione (laddove effettivamente sia tale) sia stata delegata ad un provvedimento successivo del Governo, tenuto ad “accertare la vigenza attuale delle singole norme”. In particolare, l’art. 64 («Delega al Governo per il testo unico») prevede che “Il Governo è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentito il CNF, uno o più decreti legislativi contenenti un testo unico di riordino delle disposizioni vigenti in materia di professione forense, attenendosi ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) accertare la vigenza attuale delle singole norme, indicare quelle abrogate, anche implicitamente, per incompatibilità con successive disposizioni, e quelle che, pur non inserite nel testo unico, restano in vigore; allegare al testo unico l’elenco delle disposizioni, benché non richiamate, che sono comunque abrogate; b) procedere al coordinamento del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo”. Questo argomento, tuttavia, mi sembra alquanto debole, ricordandosi che le leggi possono ritenersi abrogate anche “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti” (art. 15 delle preleggi). Nondimeno, come si è innanzi illustrato, si ha, perlomeno in apparenza (ma a mio avviso sussiste in concreto), un netto contrasto tra le seguenti due affermazioni contenute nel medesimo articolo: per un verso (comma 4) si sancisce che “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa” (e già sul punto, come si è innanzi illustrato, si prospettano contrapposte letture); per altro verso (comma 5) si afferma che “è ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”. Orbene le ipotesi sono almeno tre: o siamo dinanzi ad un contrasto insanabile (da un lato si ammette la pattuizione per via percentuale, dall’altro lato la si nega), sicché per l’applicazione della disposizione in questione si dovrà attendere l’esercizio da parte del Governo della delega di cui all’art. 64 («Delega al Governo per il testo unico»), dovendo quest’ultimo in tale occasione “procedere al coordinamento del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina” (secondo questa prima impostazione dunque la norma non sarebbe immediatamente operativa); oppure la norma reca un contrasto soltanto apparente e cioè in realtà non nega qualsiasi ipotesi di patto quota lite, al contrario limitandosi ad imporre l’indicazione del “valore” assunto in considerazione per la determinazione della percentuale del compenso; o, ancora, il comma 4 va effettivamente interpretato nel senso che “l’avvocato può esigere il pagamento della quota lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a condividere il bene”. E’ ovvio che, se si interpretasse la norma nel terzo senso, occorrerebbe concludere per la totale inutilità della norma. Se invece la interpretassimo nel secondo senso dovremmo ritenere che il legislatore (con il beneplacito di chi ci rappresenta) abbia introdotto una norma che scioccamente complica soltanto la contrattazione con il cliente, dovendosi costruire la clausola dell’accordo in forma percentuale formulando un’ipotesi del “su quanto si prevede possa giovarsene” dell’“affare” l’assistito. Tutto ciò a meno di ritenere (altra ulteriore interpretazione) che la norma non includa affatto nella nozione di “affare” le controversie in materia risarcitoria o restitutoria, con la conseguenza però di discriminare, del tutto irragionevolmente (con violazione dell’art. 3 Cost.), tra gli avvocati, che si occupano di sinistri, e quelli che affrontano altre materie (dunque con conferma che il nostro legislatore ha inteso penalizzare ancora una volta i danneggiati ed i loro avvocati nella promozione delle controversie risarcitorie). Siffatta lettura, tuttavia, non annovera riscontri da parte del legislatore stesso (cioè non è confermata in alcun modo a livello di ratio legis). Quale che sia l’interpretazione della norma, è un fatto che ci ritroviamo dinanzi all’ennesimo “pasticcio” del nostro legislatore, cioè dinanzi a incertezze che un qualsiasi legislatore, che abbia a cuore i suoi cittadini, dovrebbe sempre scongiurare. Ed è altresì un fatto il seguente: non si avvertiva affatto la necessità di un tale sovvertimento delle regole. Mi piacerebbe proprio sapere quali siano quegli avvocati che, occupandosi di controversie risarcitorie (e non sono pochi!), avranno a godere del novello casino legislativo. Tra l’altro – last but not least – la restaurazione del divieto di patto quota lite (qualora questa sia l’interpretazione corretta della norma) dovrà comunque fare i conti con l’orientamento giurisprudenziale per cui, mitigandosi così la portata del previgente divieto, “non sussiste il patto di quota lite, vietato dal terzo comma dell’art. 2233 c.c. (nella versione “ratione temporis” applicabile, antecedente alla sostituzione operata per effetto del D.L. n. 223 del 2006, art. 2, comma 2 bis, conv., con modif., nella L. n. 248 del 2006), non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore, sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche se in percentuale all'importo, riconosciuto in giudizio alla parte) ma non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale (da accertare in concreto - come nella fattispecie - sulla scorta di idonei riscontri probatori), ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista - ancorché limitato agli acconti versati - sia sostanzialmente - anche se implicitamente - collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia (presupposti questi, anch’essi, da verificare in concreto) e non in modo totale o prevalente all’esito della lite”. In pratica, stando a questo orientamento, il patto quota lite può sopravvivere laddove: si aggiunga ad una pattuizione che contempli il pagamento di un onorario; trovi giustificazione nell’“importanza e difficoltà della prestazione professionale. Anzi, pare proprio evidente l’ottusità del legislatore (e di chi lo plaude) che continua a redigere norme senza prestare la dovuta attenzione agli orientamenti giurisprudenziali (generalmente più ragionevoli). Ad ogni modo, considerandosi tale orientamento della Cassazione, il ritorno al “vecchio” sistema non fa altro che ingenerare nuove (anzi, risalenti) incertezze circa l’impostazione dei rapporti contrattuali con i clienti, ricordandosi come la Cassazione abbia sì confermato l’ammissibilità della pattuizione “quota lite” laddove consistente in un “compenso aggiuntivo per l’esito favorevole della causa di risarcimento danni”, specificando però che tale compenso “non deve essere tale da rappresentare una ingiustificata falcidia, a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701), perché a tanto osta il divieto del patto di quota lite (secondo la previgente formulazione dell'art. 45 del Codice Deontologico Forense, applicabile nel caso ratione temporis), che non può essere dissimulato dalla previsione pattizia di un palmario per l’esito favorevole della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701; 19 novembre 1997, n. 11485; S.U. 21 dicembre 1999, n. 919)”. In breve, il giudizio sull’esosità o meno del patto quota lite “aggiuntivo” è per intero rimesso nelle mani del Consiglio Nazionale Forense (nel suo ruolo giurisdizionale per quanto attiene i profili deontologici) e delle corti (che sappiamo non essere particolarmente sensibili nei confronti della remunerazione degli avvocati). Chi ci rappresentava nell’iter di approvazione della “riforma”, se veramente avesse tenuto alla chiarezza dei rapporti avvocato-cliente ed alla tutela della nostra remunerazione, avrebbe dovuto insistere non già per l’abrogazione (tra l’altro non particolarmente cristallina ed invece suscettibile di contrapposte letture) del patto quota lite, bensì per una disciplina più dettagliata (lo si ribadisce: in primis con la previsione di soglie massime), tale da produrre certezze e da permetterci di utilizzare tale strumento contrattuale con tutta la serenità del caso. L’articolo in questione al comma 10 stabilisce poi quanto segue: “Oltre al compenso per la prestazione professionale, all’avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell’interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfetarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive”. Ottima previsione, senonché vi è da chiedersi perché non sia stato ristabilito sin da subito il criterio del 12,5 % (o altri veriori parametri), invece che farci attendere ulteriori mesi (essendo che il Governo ha ormai chiuso i battenti). Altro motivo, dunque, per non provare alcun entusiasmo per questa “riforma”, che non solo toglie guadagni, ma ci proroga pure l’ingiustizia subita con il taglio legislativo alla liquidazione delle spese generali. Quante lustre dovremo attendere per la riaffermazione della liquidazione delle spese generali? Infine deve osservarsi come tra i “riformatori” della professione forense non vi sia stata alcuna riflessione circa le soluzioni innovative che, per garantire ai cittadini l’accesso alla giustizia, si sono venute a sviluppare negli altri sistemi. Si pensi a quest’ultimo proposito alle polizze assicurative di assistenza legale “after-the-event” (ATE), ormai ampiamente diffuse oltremanica, promosse dalla stessa Law Society. Insomma, si continua a ragionare secondo vecchi schemi, senza prendersi spunto dalle esperienze straniere.

9) Art. 21 («Esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente e revisione degli albi, degli elenchi e dei registri; obbligo di iscrizione alla previdenza forense»)

In questo articolo si ribadisce tra l’altro che “L’iscrizione agli Albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense” e che “Non è ammessa l’iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza se non su base volontaria e non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”. Ora, giusto è sicuramente che ogni avvocato debba contribuire alla Cassa innanzitutto per la quota corrispondente ai fini, per così dire, sociali della stessa (penso soprattutto alla maternità, che tuttavia si risolve in un magro sostegno per le colleghe più giovani). Tuttavia, trovo inaccettabile dover essere spremuto all’inverosimile da tale Cassa, con la prospettiva di conseguire soltanto a tardissima età un supporto alquanto modesto, incrociando le dita di non defungere prima (e con gli stess di questi tempi non è una prospettiva inverosimile). L’incidenza dei contributi previdenziali dovrebbe cioè tenere debitamente conto dei livelli di tassazione del reddito ormai raggiunti (aggravati dai crescenti ed ingenti costi di gestione della nostra attività e, più in generale, dei costi della vita) e permetterci di poter stipulare pensioni integrative, tali da consentirci di godere di un minimo di pensione ad un’età ragionevole. Ed invece ci troviamo a non poter mettere da parte alcunché e con i contributi previdenziali che aumentano nonostante tutto e malgrado si allunghi l’età per la pensione di vecchiaia: in pratica stiamo versando alla Cassa smisurate somme a fondo perduto, senza possibilità di risparmi per pensioni integrative. E ciò non va affatto bene ed è grave che non lo si voglia comprendere. Senza contare la frustrazione al pensiero di quanti colleghi manteniamo o manterremo, i quali hanno affrontato o continueranno a svolgere la professione facendo del nero una costante. Potrà obiettarsi che gli attuali livelli di contribuzione previdenziale sono dettati dalla necessità di mantenere gli attuali pensionati e quelli in procinto di esserlo e che, per limiti di reddito, non hanno fornito particolari contribuzioni. Benissimo. Giusto. Ma francamente ho anch’io diritto ad una vita un minimo dignitosa e ad un po’ di serenità per il mio futuro da pensionato (se ci arriverò). Sinceramente, quale contribuente impeccabile, ne ho le scatole piene di dovermi sobbarcare per intero le vecchie generazioni (quelle dell’epoca aurea della nostra professione, notoriamente contraddistinta da guadagni inesistenti per il fisco) oppure colleghi che avrebbero fatto meglio a fare un altro mestiere, trovandomi pure impossibilitato a sviluppare al massimo le mie possibilità di guadagno e con nuovi incombenti da affrontare. Se la Cassa non provvederà a rimediare a tale situazione di grave ingiustizia che noi più o meno giovani avvocati/contribuenti seri ci troviamo a vivere quotidianamente, occorrerà allora cominciare a riflettere su tutte le iniziative del caso, muovendosi dal seguente assunto: a ben osservare i contributi previdenziali sono finalizzati a conseguire in un futuro una contro-prestazione (contrattuale); laddove non sia ravvisabile alcuna ragionevole proporzione tra contributi e la contro-prestazione attesa (soprattutto se ci faranno andare in pensione a settanta anni con una vita media di 79,1, stima da rivedersi al ribasso qualora si soffra di ipertensione o altre patologie consimili, oppure si sia tabagisti), evidentemente si dovrà agire giudizialmente per la riduzione dei contributi. Perché dovrei pagare per una vita professionale intera per poi ricevere una misera pensione per qualche manciata di anni? Lo ribadisco: non metto in discussione il dovere di contribuire alla Cassa, ma che questa, prendendo atto della realtà economica (tassazione inclusa) in cui viviamo, dovrebbe permettermi di accantonare una qualche somma per pensioni integrative, concedermi un margine minimo per andare in pensione quando ne avrò voglia. Ne sono convinto: ormai siamo dinanzi alla violazione di diritti costituzionali fondamentali, essendo di fatto spogliati delle risorse che ci guadagniamo a fatica e della possibilità di viverci una vecchiaia decente.

10) Art. 22 («Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori»)

Per gli avvocati sotto i quaranta anni si prospettano nuovi ostacoli per patrocinare le cause in Cassazione. Prima della riforma, a parte l’opzione costituita dall’esame disciplinato dalla legge 28 maggio 1936, n. 1003, e dal regio decreto 9 luglio 1936, n. 1482 (via molto di rado percorsa), si accedeva alle giurisdizioni superiori decorsi 12 anni di attività (già un’eternità), senza alcuna necessità di dare esami e frequentare corsi. Ora invece, decorsi otto anni di attività, per accedere alle giurisdizioni superiori è imprescindibile “lodevolmente e proficuamente” avere “frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal CNF” (alla quale si accederà tramite una preselezione) e, al termine del corso, avere passato un esame: “Il regolamento può prevedere specifici criteri e modalità di selezione per l’accesso e per la verifica finale di idoneità. La verifica finale di idoneità è eseguita da una commissione d’esame designata dal CNF e composta da suoi membri, avvocati, professori universitari e magistrati addetti alla Corte di cassazione”. Insomma, per chi vorrà dilettarsi in Cassazione non sarà più sufficiente rispettare gli obblighi della formazione continua e farsi le ossa per un certo qual numero di anni, ma occorrerà altresì cimentarsi con ulteriori corsi ed esami (magari su materie del tutto inconferenti con la “specializzazione” acquisita): chi sarà soggetto alla nuova disciplina dovrà quindi reperire il tempo necessario per queste nuove incombenze, rimettersi a studiare e fronteggiare commissioni di esame, come se già non fosse quotidianamente una lotta contro il tempo per portare a casa un qualche guadagno. Ma dove lo trova il tempo per studiare e dare esami (cioè per rivestire per l’ennesima volta i panni dello studente) un avvocato che sia ormai nel pieno della sua attività e magari abbia anche una famiglia e/o dei collaboratori da mantenere? E perché mai dovremmo trovarci, ormai quarantenni, nuovamente dinanzi a commissioni che ci interrogheranno con codici alla mano e con docenti universitari magari frustrati? Tutto ciò per la redazione di ricorsi che non sono molto diversi dagli appelli (ciò soprattutto dopo l’ultima riforma) ed un’udienza in occasione della quale solitamente ci vengono concessi cinque minuti scarsi per richiamarci a quanto già esposto? Tutto ciò è davvero troppo, la misura è colma. Altro che liberalizzazione delle professioni, altro che attenzione per le nuove generazioni: se continua così arriveremo ad avere tutte le carte in regola soltanto a fine carriera, spremuti come limoni, stressati ed a contare gli spiccioli. Inizio proprio ad essere convinto che il problema delle nostre generazioni sia quello di essere rappresentati da vecchi, che intendono impedirci di vedere la luce sino alla loro definitiva ed a questo punto auspicata uscita di scena. Si salvano dalle nuove forche caudine soltanto “coloro che maturino i requisiti secondo la previgente normativa entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Perché tre anni? Perché non una norma irretroattiva come sarebbe giusto in un Paese “normale”? Prendiamo comunque atto che per accedere alla Cassazione ci troveremo ad affrontare, oltre gli incombenti imposti dalla formazione continua, ulteriori costi e dispendi di tempo, come se ne avessimo a disposizione a dismisura. Tra l’altro il tutto è assurdo: per patrocinare i nostri clienti dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea oppure avanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si deve frequentare alcun corso o passare attraverso alcun esame; per finire dinanzi alla Cassazione occorre invece sputare l’anima. Si auspica che il CNF, nel redigere il regolamento, avrà almeno il buon cuore di distinguere tra civilisti, penalisti e amministrativisti, magari focalizzando l’esame esclusivamente sulle questioni processuali. Per esempio, che senso avrebbe per un civilista dover riprendere in mano il diritto penale (sostanziale e processuale) per accedere alle sezioni civili della Cassazione?

11) TITOLO IV - ACCESSO ALLA PROFESSIONE FORENSE

Veniamo infine alle “nuove” modalità dell’accesso alla professione forense. Una premessa si impone al riguardo: indubbiamente si affacciano alla professione giovani che per lo più sono ormai lungi dall’essere preparati per affrontare il percorso professionale; la colpa è in primis del sistema scolastico, sin dai suoi albori: in questi ultimi decenni le istituzioni lo hanno distrutto, fatto a pezzi; la colpa è pure delle università che peraltro da ultimo annoverano molti docenti privi di particolari qualità (anche inabili a stimolare un minimo di attenzione in classe), piazzati in cattedra dai loro protettori non già per meriti, ma per parentele, per conoscenze, per opportunismi e per altre variabili; ed è pure indiscutibile che, in assenza di altri particolari sbocchi, i laureati in legge, che si trovano a bussare la porta della professione forense, siano sempre di più (purtroppo non molti sono quelli mossi da specifiche vocazioni). Il problema della selezione è allora sicuramente serio ed è opportuno che l’Avvocatura se ne faccia carico, essendo vano attendersi che da un giorno all’altro l’università diventi selettiva come lo era nel passato. Sennonché con questa “riforma” non si innova alcunché, ma si inasprisce soltanto il vecchio modello a totale detrimento di: svariati valenti giovani che, con significativi sacrifici, seriamente si dedicano (rectius vorrebbero dedicarsi) alla pratica, salvo poi trovarsi dinanzi all’ingiusta tagliola che discende da esami scritti altamente aleatori (e che non premiano il merito e la pratica effettuata) oppure con tutto da rifare a causa di commissioni che all’esame orale, magari per stare nelle statistiche, se ne vengono fuori con domande assurde o prive di qualsivoglia aderenza con la pratica forense; per quegli studi legali che investono sulla formazione qualificata dei praticanti (dunque portandoli ad essere delle preziose risorse) ed ogni anno si trovano con gli stessi paralizzati e traumatizzati per mesi dagli esami (tra scritti ed orali). Non si è in alcun modo compreso - né da parte del legislatore e né di coloro che ci hanno rappresentato - che la prima selezione dovrebbe giocarsi sulle reali possibilità dell’avvocatura di garantire un qualche futuro economico ai giovani. La professione forense dovrebbe permettere l’accesso di nuovi colleghi nella misura in cui può sostenerli economicamente, cioè dar loro da sopravvivere. Continuandosi a tollerare che i giovani possano essere costretti a lavorare per tozzi di pane, non si fa altro che preservare un accesso alla professione economicamente insostenibile (anche ai fini poi previdenziali). La soluzione, dunque, sarebbe molto semplice: imporre agli avvocati dei trattamenti economici minimi da garantirsi ai praticanti e poi ai giovani avvocati (per questi ultimi per almeno per un certo numero di anni dopo l’esame, ciò nell’ipotesi di impiego “full time” da parte dello studio, ferma restando la possibilità di combinazioni tra fisso e percentuali sulle pratiche); se l’aspirante avvocato riesce a conquistarsi il “contratto”, ecco che potrà proseguire nel suo percorso, altrimenti sarà bene che si indirizzi altrove, senza trovarsi ad illudersi ed a investire in una professione sempre più povera. Il fatto è che tutta una pletora di avvocati, sfruttando i giovani e così svolgendo peraltro concorrenza sleale (rispetto a quegli studi che invece li pagano), avviano all’avvocatura una serie di aspiranti legali che la professione semplicemente non può permettersi. La soluzione invero era ed è a portata di mano: restrizione dell’accesso a coloro che effettivamente svolgano (tutto!) il tirocinio in uno studio legale, contrattualmente garantiti, dopo un periodo il più possibile minimo di prova (al massimo sei mesi), da un trattamento economico adeguato ed uniforme per tutto il territorio nazionale; obbligo di frequentazione di corsi di approfondimento (sostenuti economicamente dal CNF e dai consigli dell’ordine); esame orale centrato sulla conoscenza delle norme deontologiche e sull’esperienza maturata nel corso della pratica, senza trasformare l’accesso alla professione in un disumano concentrato di esami universitari. La “riforma” si muove invece in una direzione diametralmente opposta, ancora una volta permettendosi lo sfruttamento dei giovani e creandosi tutti i presupposti per nuovi avvocati destinati ad una vita di stenti. Non solo: si opta con piena consapevolezza per sottoporre i praticanti ad un esame palesemente vessatorio, inutilmente distruttivo, ai limiti della disumanità, tra l’altro riducendosi il praticantato vero (quello svolto presso gli studi legali) ad un mero orpello (da circoscriversi il più possibile perché altrimenti mancherebbe il tempo per studiare per il terribile esame).

11.1) Art. 41 («Contenuti e modalità di svolgimento del tirocinio»)

Correttamente si conferma che “Il tirocinio professionale consiste nell’addestramento, a contenuto teorico e pratico, del praticante avvocato finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l’esercizio della professione di avvocato e per la gestione di uno studio legale nonché a fargli apprendere e rispettare i princìpi etici e le regole deontologiche”. Il tirocinio, qualora correttamente svolto, è di fondamentale importanza: si diviene avvocati con la pratica, non già solo con le nozioni. Peraltro, si prova una certa qual nostalgia per l’epoca in cui, prima di potersi fregiare del titolo di avvocato, vi era la qualifica intermedia (post esame) del “procuratore legale”. Davvero occorre molto tempo affinché al titolo di avvocato corrisponda una certa qual sostanza tale da giustificare l’impiego del titolo verso la clientela. Sennonché la norma va chiaramente nella direzione opposta: si abbassa la durata del tirocinio a diciotto mesi; si prevedono forme alternative di tirocinio fuori dagli studi legali, potendo divenire avvocati soggetti che hanno frequentato uno studio per soli sei mesi (“In ogni caso il tirocinio deve essere svolto per almeno sei mesi presso un avvocato iscritto all’ordine o presso l’Avvocatura dello Stato”); tra queste forme alternative si ha anche “il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali, di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modificazioni”, frequentazione valutata ai fini del compimento del tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato per il periodo di un anno (!); verrebbe quasi da osservare come si voglia così prorogare per un ulteriore anno lo scadente modello dell’attuale insegnamento universitario. Sia chiaro: per questa via si finirà per consegnare il titolo di avvocato a soggetti che non hanno la più pallida idea di come funzioni uno studio legale, dei rischi, dei costi e delle prospettive reali di questo mestiere, di come si gestisca il rapporto (sempre più complesso) con i clienti. Inoltre si conduce così una massa di giovani laureati in giurisprudenza ad investire su una professione che manco conoscono relativamente a tutti i suoi lati positivi e, soprattutto, negativi. La “riforma” conferma poi la precedente legittimità dello sfruttamento economico dei giovani: “Il tirocinio professionale non determina di diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale”: l’ennesimo privilegio corporativo è quindi ribadito a chiare lettere; persiste pertanto l’anomalia, tutta italiana, di una classe di autentici lavoratori (peraltro qualificati) – i praticanti – ai quali può negarsi legittimamente un qualsiasi trattamento economico, assicurativo e pensionistico (la CPA disconosce tra l’altro i praticanti senza patrocinio), tralasciandosi le considerazioni che ben si potrebbero svolgere, in termini generali, sul piano economico e sociale (in sintesi si ha un’ampia categoria di persone che cominciano a contribuire al welfare intorno ai trenta anni, se non oltre, e che gravano sulle famiglie e dunque sulla capacità di risparmio/acquisto delle stesse); a questi lavoratori non è garantito il rispetto dei ben noti diritti costituzionali di cui agli artt. 36, 37 e 38 Cost.; orbene, è piuttosto singolare che la classe forense, distintasi nello sviluppo della tutela dei lavoratori sotto tutti i profili e che declama ai quattro venti la nobiltà del suo ruolo e invoca concetti quali dignità degli individui e promozione dei diritti, al contempo nulla faccia in concreto per regolarizzare il trattamento economico (e non solo) dei praticanti e per costruire un sistema di criteri minimi contrattuali per la gestione dei rapporti di quest’ultimi con gli studi legali, nonostante modelli da prendere a riferimento ci sarebbero pure (ad esempio in Inghilterra esistono contratti-tipo e retribuzioni minime per gli aspiranti legali); “Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio”: grave è che si debba affermare un principio di questo genere (ma l’Avvocatura da quali personaggi è composta????); “decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”; è qui lampante la totale malafede del legislatore e dei “fan” della cosiddetta “riforma”: “possono” (!!!), non già “devono”, essere riconosciute delle indennità, il che significa che gli “avvocati-sfruttatori-di giovani praticanti” potranno proseguire ad arricchirsi sul lavoro altrui, così avviando alla professione un numero di aspiranti colleghi che il mercato forense non può in realtà sostenere, e pure falsando la concorrenza tra gli studi legali; insomma, si conferma come in Italia siano sempre avvantaggiati i comportamenti disonesti e moralmente inaccettabili.

11.2) Art. 43 («Corsi di formazione per l’accesso alla professione di avvocato»)

Il tirocinio, oltre che nella pratica svolta presso uno studio professionale, consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge”. La previsione di tale obbligo formativo è sicuramente condivisibile, sennonché non parimenti apprezzabili sono i seguenti criteri direttivi per il regolamento redigendo dal Ministero della Giustizia: “la durata minima dei corsi di formazione” prevede “un carico didattico non inferiore a centosessanta ore per l’intero periodo”, con tanto di “verifiche intermedie e finale del profitto” (per affrontare le quali i praticanti dovranno pur studiare): certamente chi non pagherà un euro ai praticanti (magari impiegandoli come segretari), se ne metterà in studio un numero cospicuo (tanto possono lavorare gratuitamente) e sarà indifferente alle assenze di questo o quel praticante; chi invece si comporterà correttamente (dunque limitando il numero di collaboratori a quelli che può economicamente permettersi), risulterà anche sotto questo profilo svantaggiato; ciò peraltro disincentiva gli avvocati a trattare in modo economicamente adeguato i propri collaboratori (se sono spesso via dallo studio, diviene un po’ difficile giustificarne il pagamento, no?); non solo: che senso hanno tutte queste ore di lezione extra-studio per tutti quegli avvocati che investono seriamente nella formazione dei loro praticanti? Perché mai un collaboratore al quale stiamo insegnando un mestiere dovrebbe esserci sottratto per ricevere delle istruzioni sulla redazione degli atti che magari neppure condividiamo e che possono confonderlo? Dove va a finire la continuità della didattica di cui necessitiamo per fare crescere i nostri praticanti? Avrei compreso se si fossero centrati tali corsi sulla deontologia forense, oppure per la preparazione dell’esame di Stato (esercitazioni per la redazione degli scritti); non comprendo invece il perché dobbiamo inviare ai corsi i nostri collaboratori per apprendere delle nozioni che dovremmo impartire noi quali domini (si noti bene: i predetti corsi avranno ad oggetto “l’insegnamento del linguaggio giuridico, la redazione degli atti giudiziari, la tecnica impugnatoria dei provvedimenti giurisdizionali e degli atti amministrativi, la tecnica di redazione del parere stragiudiziale e la tecnica di ricerca”; … forse che non siamo neppure più in grado di insegnare il “linguaggio giuridico”????); “le verifiche intermedie e finale del profitto … sono affidate ad una commissione composta da avvocati, magistrati e docenti universitari … Ai componenti della commissione non sono riconosciuti compensi, indennità o gettoni di presenza”: la norma ci consegna un futuro in cui avremo collaboratori prima vessati da questi esami e poi dal mostruoso esame finale, l’ultima preoccupazione dei quali sarà dedicare tutto il tempo e tutta la concentrazione del caso per le attività delle studio legale; peraltro, non oso immaginare come saranno ben disposti gli avvocati, magistrati e docenti universitari costretti ad attendere gratuitamente alle verifiche in questione; inoltre, non si comprende bene quale incidenza avranno i risultati di tali verifiche: quali saranno le conseguenze nei casi di risultati negativi? La norma, infine, tace del tutto sui costi di tali corsi di formazione.

11.3) Art. 46 («Esame di Stato»)

Esattamente come prima “L’esame di Stato si articola in tre prove scritte ed in una prova orale”, sennonché: “Le prove scritte si svolgono con il solo ausilio dei testi di legge senza commenti e citazioni giurisprudenziali” (un’autentica vessazione, peraltro del tutto anacronistica in un contesto giuridico quale quello attuale in cui su ogni norma si hanno plurimi orientamenti giurisprudenziali impossibili da memorizzare anche avendo a disposizioni più vite; sfido qualsiasi avvocato, che farà da esaminatore, a dimostrarmi la conoscenza degli orientamenti della giurisprudenza su tutte le materie civili e penali oggetto dell’esame); la prova orale annovera nella sua nuova versione ben cinque materie obbligatorie (“ordinamento e deontologia forensi, diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale”), oltre altre due materie a scelta (“Per la prova orale, ogni componente della commissione dispone di dieci punti di merito per ciascuna delle materie di esame”; inoltre, è necessaria la sufficienza in ogni materia: “Sono giudicati idonei i candidati che ottengono un punteggio non inferiore a trenta punti per ciascuna materia”); quanti mesi occorreranno per presentarsi all’esame orale con una preparazione accettabile? Che cosa s’intende premiare in dieci minuti per materia: la capacità memonica (oggi ampiamente coadiuvata nella pratica di tutti i giorni da ogni sorta di banca dati) o la capacità di ragionamento e la capacità di destreggiarsi nella praticaccia di tutti i giorni? Evidentemente sarà premiato chi sarà in grado di memorizzare una quantità immensa di dati. Vorrei domandare agli avvocati che provano entusiasmo per una simile tortura se sarebbero in grado di sostenere un esame siffatto. Ora, se volevano rendere l’esame impossibile ed inaccessibile ai praticanti seriamente e quotidianamente impegnati a lavorare negli studi legali, ci sono riusciti perfettamente: un capolavoro di vessazione e angheria nei confronti dei futuri praticanti, che, per prepararsi all’esame ed avere una qualche chance di passarlo, al massimo dedicheranno sei mesi alla pratica vera, cioè quel periodo di tempo di permanenza presso uno studio legale ritenuto dalla novella “riforma” imprescindibile per conseguire il certificato di compiuta pratica. Gli effetti di questo perverso sistema sono palesi ed ampiamente negativi per tutti, non solo per i futuri praticanti: si chiude la porta in faccia alla maggior parte dei giovani aspiranti avvocati (fatta ovviamente eccezione per quelli che, figli d’arte o consimili, potranno permettersi una pratica fittizia e di starsene a casa a studiare); si disincentiva noi avvocati a metterci in casa praticanti inesorabilmente destinati per un lungo periodo ad essere vessati da esamini ed esamoni, stressati, indisponibili per la maggior parte del tempo, magari obbligati a ripetere più volte le prove prima di riuscire ad acquisire il titolo. Tra l’altro si staglia il seguente bel risultato: noi avvocati – già privati dalla “riforma” di prospettive di guadagno e senza particolari strumenti per concorrere sul mercato – tra due anni, allorquando si passerà al nuovo sistema, ci troveremo pure privati di fatto di apprendisti, i quali magari andranno a sfruttare la loro laurea proprio dai nostri concorrenti. Un dato è certo: ancor più di prima l’esame indubbiamente non premierà i praticanti “effettivi” e che avranno “investito” il loro tempo in attività scarsamente retribuite; i praticanti “veri” saranno posti sullo stesso piano degli altri e risulteranno enormemente svantaggiati per il minor tempo a disposizione per la preparazione. Davvero possiamo seriamente ritenere che questa sia la via giusta per formare dei giovani avvocati in grado di affrontare, una volta acquisito il titolo, i clienti ed i problemi reali? Qui in Italia siamo proprio bravi a farci del male da soli: mentre nel resto del mondo si favorisce l’ingresso dei giovani nelle realtà lavorative (ivi comprese quelle professionali) e si cerca di svecchiare i contesti lavorativi, da noi si procede nel senso diametralmente opposto. Ed allora, in definitiva, quale “rilancio” della professione forense se gli unici a non essere colpiti in qualche modo dalla “riforma” sono gli avvocati ormai avviati verso il tramonto?

E comunque per avere cognizione sulla regolarità degli esami di Stato per l'abilitazione forense e l'accesso a qualsiasi impiego pubblico, compreso in magistratura e notariato, basta leggere e veder le inchieste video e testuali a parte su www.controtuttelemafie.it.

QUANDO A FARE LE LEGGI SONO I NONNI CORPORATIVI IN PARLAMENTO. IMPEDIMENTO ALL’ACCESSO IN AVVOCATURA CON ESAME (TRUCCATO) E AGGRAVATO, CONSEGUITO IN ITALIA E RESISTENZA CONTRO L’ABILITAZIONE ESTERA.

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».

«No, nessun tentativo di resistenza degli Ordini professionali. Qui siamo per difendere il merito. Ma attenzione: se si ritiene l'esame di Stato (per diventare avvocato) ormai inadeguato si cambi l'articolo 33 della Costituzione. Noi non ci opporremo, a patto che i corsi di laurea in giurisprudenza si trasformino in corsi di studio professionalizzanti (con annesso tirocinio durante gli anni di studio, ndr.) come avviene in Germania». Ubaldo Perfetti, vice-presidente del Consiglio Nazionale Forense chiarisce a Fabio Savelli su Corriere.it l'ultima crociata del Cnf. L'organismo di rappresentanza dell'avvocatura ha deciso di inoltrare un "rinvio pregiudiziale" alla Corte di Giustizia Ue sull'articolo 3 della ormai vecchia direttiva europea 98/5, che è volta a facilitare la libera circolazione dei professionisti nei paesi membri dell'Unione. Dice Perfetti che il Cnf (in qualità di giudice speciale delle impugnazioni sollevate in contrasto alle decisioni dei consigli "circondariali") ha deciso di sollevare la questione degli "abogados" alla Corte Ue per stabilire se si tratta di un abuso di diritto quello dei giovani praticanti che si recano oltreconfine per acquisire il titolo di avvocato senza superare l'esame di abilitazione in Italia, iscrivendosi così per tre anni nell'elenco degli "Avvocati Stabiliti" dell'Ordine fino alla perfetta equiparazione con gli avvocati di casa nostra: «Ci chiediamo se è una lesione della concorrenza nei confronti degli omologhi italiani che invece superano l'iter previsto dal nostro ordinamento per l'accesso alla professione», dice Perfetti. La questione verte tutta intorno alla possibilità da parte degli Ordini provinciali di poter fare una verifica (sostanziale, non solo formale) sui requisiti portati dai giovani avvocati spagnoli, ma di cittadinanza italiana, all'atto dell'iscrizione all'albo: «Con questo ricorso - spiega Perfetti - chiediamo alla Ue se possiamo arrogarci il diritto (discrezionale, ndr.) di chiedere a un giovane se ha mai sostenuto una causa a Madrid, oppure domandargli dove ha svolto il tirocinio. Quello che vogliamo contrastare è questa pratica fittizia di recarsi in Spagna. Che ha generato in questi anni un indotto di tutto rispetto, ma distorsivo della concorrenza», rincara Perfetti. «Nessuna preclusione nei confronti dell'avvocato residente all'estero che voglia esercitare la professione da noi, ma deve essere dimostrabile la sua buona fede. Per questo chiediamo alla corte Ue di esprimersi», aggiunge. Argomento caldo. Molto. Soprattutto se riguarda migliaia di giovani in tutta Italia. Alle prese con un esame di Stato che a Roma (ad esempio) somiglia più alle forche caudine che a un test per misurare le competenze dei futuri avvocati. Eppure al netto delle difficoltà di chi dopo gli anni di studio all'università, i successivi due di tirocinio e appunto il temutissimo esame di Stato la questione - secondo il Consiglio Nazionale Forense - è un'altra. E investe il terreno (scivoloso) del merito e della concorrenza, proprio in un ceto professionale percepito dall'opinione pubblica come tra i più attivi in Parlamento per la sua folta rappresentanza. Giudicato (e anche l'ultima riforma forense approvata sul rush finale della legislatura testimonierebbe il suo alto potere persuasivo) come una lobby tesa a difendere più che altro l'esistente. Come conferma Dario Greco, presidente di Aiga (associazione italiana giovani avvocati) che parla di una «profonda convinzione per le società multi-professionali che aprirebbero di fatto il mercato», invece bocciati dall'ultima riforma. Ma anche il rappresentante dei giovani professionisti del foro accoglie con positività il ricorso del Consiglio Nazionale Forense «se valorizza il merito e contrasta chi vuole fare il furbetto». Per capire la sottile differenza tra buona fede e dolo stavolta ci pensa l'Unione Europea.

Peccato per loro però. Abogado prima, avvocato poi? Assolutamente legittimo. Il titolo di abogado è sufficiente per diventare legale comunitario stabilito in Italia. E con tre anni di attività si diventa avvocato a tutti gli effetti, senza prova attitudinale. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28340/2011. Il caso. Un legale “italo-spagnolo”, laureato in giurisprudenza in Italia e con titolo di abogado ottenuto - sei anni dopo la laurea - in Spagna, richiede l’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati comunitari stabili, per poter esercitare in Italia. Tale richiesta viene però respinta sia dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati che dal Consiglio nazionale forense non solo per le note differenze tra Italia e Spagna relative all’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, ma anche per il fatto che il richiedente «non aveva dimostrato il conseguimento, in Spagna, di un particolare titolo abilitante né di specifica esperienza professionale». Contro la pronuncia del Consiglio nazionale forense il legale presenta ricorso per cassazione. Investita della questione, la Suprema Corte, richiamandosi alla normativa europea e a quella italiana, ricostruiscono i possibili percorsi che consentono al «soggetto munito di titolo professionale di altro Paese membro, equivalente a quello di avvocato, di esercitare stabilmente la propria attività in Italia». E tra questi va ricompreso quello relativo al «procedimento di stabilimento e integrazione», a cui fa riferimento il legale ricorrente, e che, seguendo le procedure previste, permette di superare anche la prova attitudinale per arrivare direttamente alla integrazione con il titolo di avvocato italiano. Naturalmente, è sì necessario il requisito del titolo professionale di un Paese membro, ma l’«iscrizione nel Registro generale del Collegio degli abogados» è più che sufficiente. Questa la tesi sostenuta dai giudici di legittimità, contrariamente invece a quanto affermato dal Consiglio nazionale forense. Pertanto, Piazza Cavour annulla la pronuncia del Consiglio nazionale forense, e accoglie la richiesta del legale relativa all’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati comunitari stabiliti.

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

PROFESSIONI: ANTITRUST CONTESTA A 12 CONSIGLI DEGLI ORDINI DEGLI AVVOCATI POSSIBILI INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA

Avviata istruttoria nei confronti degli Ordini di Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari. Secondo l’Autorità con i loro comportamenti porrebbero ostacoli all’ingresso nel mercato dei servizi legali da parte degli avvocati qualificati in un altro Stato membro dell’Unione. Contestata infrazione al diritto comunitario.

L’Antitrust ha avviato un’istruttoria per verificare se dodici Ordini degli avvocati stiano ostacolando l’esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Secondo l’Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, le prassi seguite dagli Ordini al centro dell’istruttoria (Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari) sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario. L’istruttoria è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l’abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario. Secondo le due denunce, gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli ‘avvocati stabiliti’, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione. I comportamenti degli Ordini, che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione, sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l'Autorità intende affiancare con l'utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi.

Dunque, faro Antitrust su 12 Ordini degli avvocati per possibili intese restrittive della concorrenza. L'Authority ha avviato infatti un'istruttoria "per verificare se 12 Ordini degli avvocati stiano ostacolando l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell'Unione europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza". Per l'Autorità le prassi seguite dagli Ordini al centro dell'indagine (Roma, Milano, Chieti, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari) "sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario".

Sono gli abogados, avvocati che hanno conseguito il titolo per l'esercizio della professione in Spagna. Sino al giugno 2009 l'omologazione era automatica, in virtù delle direttive della Comunità europea. Poi il Consiglio nazionale forense ha imposto un giro di vite e molti Ordini hanno chiuso le porte in faccia agli abogados. Ma dalla parte degli abogados c'è anche la sentenza n.28340 del 22 dicembre 2011, pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite. La sentenza dice che l'unica condizione richiesta per l'inserimento nella sezione speciale degli avvocati comunitari-stabiliti è «l'iscrizione nel Registro generale del Collegio degli abogados di Barcellona». Dunque, abogado, visto che (sino al 31 ottobre 2011) in Spagna non era previsto un esame di Stato per ottenere l'abilitazione alla professione.

L'istruttoria, spiega l'Antitrust, è stata avviata dopo due segnalazioni, fatte da un avvocato che aveva ottenuto il titolo in Spagna e dall'Associazione italiana avvocati stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario. Secondo le due denunce, gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all'iscrizione nella sezione speciale dell'albo dedicata agli 'avvocati stabiliti', in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia da un decreto legislativo del 2001. Il decreto - spiega l'Authority - consente l'esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione "è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d'origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l'avvocato può iscriversi all'albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione". I comportamenti degli Ordini, conclude l'Autorità, "che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell'Unione, sono peraltro oggetto di valutazione anche della commissione europea, che l'Autorità intende affiancare con l'uso dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi".

L'esodo nasce dalla difficoltà di superare l'esame di abilitazione, assolutamente ostico. L'esame resta uno scoglio difficile da aggirare. La fuga verso la Spagna è iniziata nel 2005 ed è diventata fenomeno di massa dopo che la direttiva n.36 della Comunità europea ha sancito il reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali all'interno dei paesi membri. Ma nel gennaio del 2009 un'altra sentenza, la cosiddetta «Cavallera» emessa dalla Corte di Giustizia, ha rimescolato le carte. Perché in quella sentenza si respingeva il ricorso presentato da un italiano laureato in ingegneria che dopo avere omologato il suo titolo di studio in Spagna, chiedeva di essere automaticamente inserito nell'albo italiano degli ingegneri, senza sostenere l'esame. Il rigetto del ricorso non era sfuggito al Consiglio nazionale forense, che cinque mesi dopo, il 25 giugno 2009, con una circolare impose una stretta sull'iscrizione degli abogados, invitando i vari ordini degli avvocati a verificare che gli aspiranti avessero maturato, all'estero, un'esperienza professionale adeguata. E gli abogados finirono sulla graticola.

I Consigli dell'ordine mantennero potere discrezionale ma molti seguirono le indicazioni del Cnf. Iniziò allora un'altra migrazione, quella verso Ordini più "favorevoli".

Avvocato e abogado. Le differenze sono minime, non incidono nell'esercizio della professione e spariscono dopo tre anni. L'abogado viene iscritto nella sezione speciale e deve lavorare d'intesa (devono firmare entrambi) con un legale iscritto all'albo ordinario italiano. Dopo tre anni, l'abogado può chiedere all'Ordine di essere integrato nell'albo ordinario. Ma, se non vuole aspettare, al rientro dalla Spagna può sottoporsi alla prova attitudinale (al Cnf) per ottenere l'immediato riconoscimento del titolo: non più abogado, subito avvocato.

CHI DIFENDE I CLIENTI DAI LORO DIFENSORI ?!?

I più si iscrivono all'università inseguendo un immaginario fatto anche di benessere, che spesso non coincide con la realtà. Solo il 35 per cento dei laureati superano l’esame di abilitazione. Di questi, se va bene, la maggior parte arriva a mille euro al mese e senza previdenza.

Si iscrivono all’università pieni di sogni, con l'idea di avviarsi alla professione di Perry Mason, per difendere gli interessi dei buoni e combattere le ingiustizie del mondo. Un mestiere, l’avvocato, fortemente legato all´idea di un benessere economico e di un affermato ruolo sociale. Di nobili intenti, manco a parlarne. Ottenuta la laurea, si scontrano, invece, con una realtà ben diversa: soldi pochi, fatica tanta. Ben oltre i 30 anni sono costretti a vivere con l’aiuto dei genitori.

Guai poi a non essere omologato all’andazzo. Guai ad essere fuori dal coro. Denunciare abusi ed omissioni del sistema giudiziario ti mette contro tutti e tutto. Deontologia domestica vuole rispetto tra colleghi e con i magistrati. Ossia: omertà o complicità.

Ogni anno i giovani laureati in legge, usciti dall'università, si iscrivono nel registro dei praticanti: dopo due anni di gavetta, sfruttati e non remunerati, con evasione fiscale e previdenziale perpetrato dai dominus a loro danno e coperta dalle autorità di controllo tributario, tenteranno di dare l'esame di abilitazione finale per poter esercitare la professione. Solo il 35 per cento di loro supera però quell'esame. Uno sbarramento importante, che tuttavia non è sufficiente ad evitare che la categoria sia in costante esubero, con la drammatica conseguenza di una crisi sempre più forte del settore dell'avvocatura.

Sistema vetusto e chiuso. Nessun adeguamento alla innovazione o allo standard europeo. Nessun rinnovamento all'approccio forense delle questioni. Sottomissione alla magistratura. Senso snaturato della mansione del difensore. Non vi è diversificazione delle competenze ed attenta e sistematica tutela dei diritti lesi.

Le giovani leve omologate e la lobby al Parlamento fanno sì che il vecchio avanza e nulla si rinnova.

Quindi, meno lavoro per tutti, meno guadagni, grandi difficoltà ad avviare un proprio studio, e una concorrenza spietata che va spesso a discapito della deontologia professionale, è il quadro a tinte fosche che negli ultimi anni sta caratterizzando il panorama forense, e che viene tratteggiato con sempre maggiore preoccupazione sia dagli Ordini che dalle associazioni di categoria. In attesa di riforme fatte dagli stessi avvocati per limitare la concorrenza, come l'inserimento del numero chiuso all’università di legge, o gravami sul concorso di abilitazione, in un mondo di "imprenditori di se stessi", la categoria cerca da sempre di correre ai ripari.

Una forma collaudata dagli albori dell’istituzione dell’albo degli avvocati è il controllo sulle abilitazioni: gente fidata, con natali degni, omologata e conforme al sistema.

Il Concorso indetto dal Ministero della Giustizia è definito dai più: “un concorso truccato”. Così come quello per la Magistratura ed il notariato.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

8.     Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati locali. Nomina vietata dalle norme.

Rispetto a un tempo ci sono meno praticanti intesi nel senso "tradizionale" del termine. L'iter all'università, la pratica da un dominus per imparare il mestiere, e l'avvio del proprio studio, è cambiata. Oggi, come prima, il "privilegio" di trovare un avvocato di grido disposto ad "assumere" o insegnare, è spesso concesso a pochi, fortunati e spesso "figli di".

Senza un dominus degno ti tale ruolo che ti insegna a mettere su lo studio, ci troviamo di fronte a tanti giovani abbandonati a se stessi: non hanno i soldi per iscriversi alla cassa forense, non conoscono forme di assicurazione e di prevenzione, oppure non se le possono permettere. Si privilegiano dunque altre strade rispetto alla pratica, come le scuole forensi. Da solo non ce la fai, sei allo sbaraglio. La soluzione migliore è unire le forze e aprire uno studio con altri colleghi. Divisione dei costi. Gestire uno studio significa anche affrontare difficoltà che non ti aspetti, devi acquisire nozioni anche di marketing e di contabilità. Però ti dà il sapore di fare l'avvocato davvero.

«Oggi 90 mila avvocati dichiarano redditi sotto ai 15 mila euro in Italia - spiega l'avvocato Massimo Gotta presidente dell'Aiga (associazione italiana giovani avvocati) di Torino - con un guadagno medio che si aggira intorno ai 1000 euro al mese. I giovani avvocati non si iscrivono alla cassa che prevede assistenza e previdenza anche in caso di infortunio o di morte, perché è costosa e obbligatoria solo oltre un certo limite di reddito». Senza soldi i giovani avvocati «non investono in libri e codici, e si crea una situazione di concorrenza dove i clienti si accaparrano per cifre ben al di sotto dei limiti tabellari». Ma la conseguenza si fa sentire: «Questa è una professione che si impara per mimesi, sul modello del dominus: la deontologia, ad esempio, si apprende proprio negli studi».

E’ questo modus operandi fondato sull’omologazione e non sul merito che conforma le menti dei futuri avvocati, a tutela degli interessi corporativi e personali. Giovani avvocati destinati a diventare semplici “azzeccagarbugli” e non avvezzi e strenui difensori della legalità.

Oggi tanti avvocati, da una parte criticano le norme sulla mediazione, dall'altra parte diventano mediatori o addirittura soci delle imprese di conciliazione e mediazione, tanto bistrattate in apparenza, poi sostenute dietro le quinte.

Lettera di Pietro Ichino (giuslavorista, avvocato, giornalista, parlamentare PD) al Corriere della Sera.

"Caro Direttore, mentre la riforma dell’avvocatura muove i primi passi in Parlamento e gli avvocati fanno — legittimamente— sentire il loro fiato sul collo ai politici, sarebbe bene che gli utenti incominciassero a fare altrettanto. Il disegno di legge in discussione al Senato, dedicato alla promozione degli interessi economici di chi già appartiene al ceto forense, non affronta neppure di striscio quello che a me sembra il problema cruciale: il conflitto di interessi in cui l'avvocato si trova ogni volta che gli si aprono davanti due o più strade per la difesa del cliente e la strada più vantaggiosa per quest'ultimo non è la più vantaggiosa per l'avvocato stesso. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è in grado di controllare efficacemente le scelte del difensore, come il paziente non è in grado di controllare le scelte del medico. Glielo impedisce la netta asimmetria informativa che caratterizza qualsiasi rapporto professionale: il professionista è colui che sa, il cliente è tale proprio perché nella materia specifica non sa. Per esempio, fra la transazione e il ricorso all’autorità giudiziaria, o a un arbitrato, la scelta dell’avvocato può essere dettata più dalle sue prospettive di guadagno che dall’interesse effettivo del cliente, il quale nella maggior parte dei casi non è in grado di valutare con piena cognizione i vantaggi dell’una o dell’altra scelta. Lo stesso accade nel rapporto tra medico e paziente, quando si tratta di scegliere tra diversi possibili mezzi diagnostici o protocolli terapeutici, di cui alcuni siano i più lucrosi per il terapeuta ma non i più appropriati nel caso specifico.

Mettiamoci nei panni di una persona che si è affidata a un avvocato e che si trova a nutrire un dubbio sull’adeguatezza o correttezza del suo operato. Oggi quella persona, se si rivolge a un altro avvocato per averne un parere e un consiglio, si sentirà rispondere che, a norma del codice deontologico forense, senza il consenso del primo legale la pratica non può neppure essere aperta, a meno che il rapporto con lui venga chiuso e la sua parcella interamente pagata: una norma che di fatto protegge l’avvocato incompetente o disonesto dalla «concorrenza» di quello competente e onesto. In questi casi il rapporto con il difensore può diventare, per il cliente, una trappola pericolosa. Anche perché litigare con il proprio avvocato è assai disagevole: a verificare la congruità dell’onorario per l’opera da lui svolta sarà un Consiglio dell’Ordine composto interamente da avvocati, comprensibilmente più propensi alla solidarietà con il collega-elettore che non alla sensibilità per le ragioni del cliente. È ben vero che nella grande maggioranza dei casi sono l’onestà e la correttezza dell’avvocato a garantire il cliente meglio di qualsiasi possibile forma di controllo dall’esterno del rapporto professionale. Ma anche l'avvocato più onesto e più competente può sbagliare ed essere tentato di non riconoscerlo; e anche nel ceto forense, come in tutti gli altri, qualche incompetente, qualche rapace e qualche disonesto c’è. Se la funzione essenziale dell’Ordine consiste nel garantire l’affidabilità dell’avvocato, la nuova legge destinata a disciplinare la materia non può eludere il problema del conflitto di interessi nel rapporto professionale.

Un modo per affrontarlo — sulla scorta delle esperienze che si offrono nel panorama internazionale—è innanzitutto quello di consentire a ciascun avvocato di rendere, con le dovute garanzie di riservatezza, una second opinion sul merito di qualsiasi pratica, nonché un parere sull’operato dell'altro avvocato che la segue, anche quando il rapporto tra quest’ultimo e il cliente è tuttora in corso. Ancor più efficace, poi, sarebbe l’attivazione da parte del Consiglio dell’Ordine, in ogni distretto, di un servizio gratuito, aperto a chiunque intenda controllare l’opera del proprio legale e svolto congiuntamente da un avvocato e da un magistrato competenti per materia, con garanzia di rigoroso segreto su tutto quanto viene loro sottoposto. A chiedere queste innovazioni non dovrebbero essere soltanto le associazioni degli utenti, ma prima ancora gli avvocati stessi (chi scrive è uno di loro): al prestigio della categoria non giova certo l'immagine di casta chiusa e avida, cui in passato hanno contribuito i comportamenti non irreprensibili di alcuni suoi membri, coperti di fatto da quella che poteva apparire come benevola indifferenza dei Consigli dell’Ordine."

I legali non sempre sono infallibili.

Qualche volta non sono neanche onesti del tutto. Ma proteggersi dagli errori non è sempre facile.

Avvocati che prendono risarcimenti destinati ai clienti senza informarli, errori professionali che minano il diritto alla giustizia degli assistiti, parcelle da capogiro.

Centinaia di persone si sono rivolte a Mi Manda Rai Tre lamentando sfiducia nei propri difensori.

In studio il racconto di quattro storie esemplari.

La prima è quella di un avvocato che ha riscosso indebitamente l’assegno di risarcimento da sinistro autostradale di un ragazzo invalido al 100%; il legale è stato condannato alla restituzione della somma, ma risulta nullatenente ed è quindi impossibile ottenere i soldi.

Il secondo caso riguarda un avvocato che ha avviato, con ritardo, il processo esecutivo nei confronti di un soggetto condannato ad un risarcimento danni. Ha dato così il tempo al condannato di spogliarsi di tutti i beni.

Nella terza storia un avvocato ha commesso un errore di notifica, a causa del quale un processo è stato rinviato di sei mesi; il legale peraltro non ha messo a conoscenza il cliente di questo problema.

Nella quarta storia due coniugi della Provincia di Firenze si sono rivolti all’Ordine degli Avvocati per contestare una parcella. Sono stati convocati per una conciliazione durante il periodo pasquale, mentre erano in vacanza per qualche giorno. Richiedono un nuovo incontro ma non ottengono nessuna risposta; intanto arriva l'atto di precetto ed il decreto ingiuntivo della notula.

A cosa servono gli Ordini se non tengono ordine tra i loro iscritti, pretendendo il rispetto delle regole deontologiche?

Era una domanda lecita dopo la scelta dell'Ordine degli Avvocati di non muover foglia contro i neo-colleghi imputati della truffa all'esame di Catanzaro, quando copiarono in 2.295 su 2.301 lo stesso tema.

E legittima dopo la scoperta che l'Ordine dei Medici non si era mai accorto (in venti anni) che Girolamo Sirchia aveva al Policlinico una segretaria pagata non dall'ospedale ma da un'industria farmaceutica fornitrice.

Ma è una domanda obbligata oggi dopo la lettura di "La zona grigia/Professionisti al servizio della mafia"; edizioni «La Zisa». In cui Nino Amadore, del Sole 24 Ore, ricostruisce le ambiguità e i silenzi dei vari Ordini nei confronti degli associati coinvolti in faccende di mafia, camorra, 'ndrangheta.

Colletti bianchi che, a sentire il presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, sono indispensabili ai criminali: «Cosa Nostra gode purtroppo di una vasta rete di fiancheggiatori nell'ambito di una certa borghesia mafiosa, fatta di tecnici, di professionisti, di imprenditori, di esponenti politici e della burocrazia».

Come potrebbero certi padrini potentissimi ma semi- analfabeti investire nell'edilizia in Lussemburgo, nell'acquisto di un pacchetto azionario alle Cayman o nell'acquisto di 12 miliardi di metri cubi di gas dall'azienda ucraina Revne per «un valore di mercato di tre miliardi di euro» senza «un'accorta analisi fatta da gente preparata, che conosce i mercati »?

Come potrebbero appropriarsi degli appalti pubblici senza la complicità di architetti, ingegneri, commercialisti, funzionari regionali e comunali ben decisi a regolarsi sul loro lavoro come le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano?

Amadore ricorda, tra gli altri, il caso del tributarista coinvolto nella «operazione Occidente» che vide l'arresto di 46 persone appartenenti in parte al giro di Salvatore Lo Piccolo. «Accusato di aver riciclato il denaro delle 10 famiglie mafiose si è difeso: "Ho solo fatto il mio lavoro di consulente, di certo non vado a chiedere la fedina penale di tutti i miei clienti". » Tema: i suoi «probiviri» non han niente da dire?

Sempre lì torniamo: «quando» un Ordine può intervenire? Nel caso del processo per il riciclaggio del «tesoro » (stima: 150 milioni di euro) di Vito Ciancimino, il libro segnala come i professionisti condannati siano stati due: il tributarista palermitano Gianni Lapis e l'avvocato internazionalista romano Giorgio Ghiron. Cinque anni e 4 mesi a testa. Ma se Lapis è stato subito sospeso dall'Ordine di Palermo, Ghiron risulta, molti mesi dopo la sentenza, ancora al suo posto. O così dice il sito dell'Ordine di Roma. Come mai? Il destino personale dell'uomo, va da sé, non c'entra: se è innocente lo dimostrerà in Appello. Auguri. Ma resta il tema: perché, come sostiene il presidente dell'Ordine dei Medici Annibale Bianco, un Ordine dovrebbe attendere la sentenza in Cassazione per censurare un iscritto? Che ce ne facciamo di una sanzione supplementare se c'è già una sentenza che magari espelle il condannato dalla professione?

Se un Ordine non serve a tenere ordine «al di là» degli iter giudiziari, a cosa serve? A organizzare belle cene in compagnia?


MAGISTROPOLI IN ITALIA 

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

MAGISTRATI. SE QUESTI MERITANO RISPETTO.....

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla la giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

I MAGISTRATI GIUDICATI DA UN MAGISTRATO.

Lo stato della giustizia in Italia: intervista al giudice fatta da Stefano Lorenzetto e pubblicata su "Il Giornale". Questa sconvolgente intervista è un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi, Edoardo Mori, magistrato lo è stato in modo instancabile e apprezzatissimo per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale. Una delle sue dichiarazioni..«Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Ed eccone un’altra…«La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». E ancora un’altra...."i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano".

Edoardo Mori, uno di quegli uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano appartenere a un secolo precedente, se ne è andato dalla magistratura con un senso di disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto totalmente carta straccia del diritto. E’ davvero estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello. Ecco perché crediamo che questa intervista vada letta.

Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

–Perché ha fatto il magistrato?

«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

–Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.

«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

–Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?

«Ma è evidente! Perché ».

–Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.

«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

–Sono sconcertato.

«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

–Può fare qualche caso concreto?

«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

–Prego. Sono rassegnato a tutto.

«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

–Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.

«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

–Cioè?

«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

–Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?

«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

–Un sistema che ha fatto scuola.

«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?

«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

–Come mai la giustizia s’è ridotta così?

«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.

«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?

«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.

«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

–No, no, non mi risparmi nulla.

«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

–In che modo se ne esce?

«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

–E per le altre magagne?

«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

–Ci provi.

«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?

«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?

«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

–Gli chiese scusa?

«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia». Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?

«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?

«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

MAGISTRATI PERMALOSI.

Esigenze cautelari attenuate. Il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, accogliendo l’istanza presentata dagli avvocati Carlo e Claudio Petrone e sulla scorta del parere positivo espresso dalla Procura, ha concesso il 22 maggio 2013 gli arresti domiciliari al presidente della Provincia Gianni Florido, arrestato mercoledì 15 maggio dai finanzieri del Gruppo di Taranto nell’ambito dell’inchiesta denominata «Ambiente svenduto». La Procura aveva espresso parere favorevole alla concessione degli arresti domiciliari all’esponente del Pd, scrivendo che «alla luce di una valutazione complessiva delle dichiarazioni rese dall’indagato Florido in sede di interrogatorio di garanzia e tenuto conto del fatto che il predetto ha presentato le sue irrevocabili dimissioni dalla carica rivestita, è possibile ritenere che le esigenze cautelari nei suoi confronti si siano attenuate». Il gip Todisco nella sua decisione sostiene che «pur persistendo concrete ed attuali esigenze di cautela» riguardo sia alla reiterazione dei reati che all’inquinamento delle prove, «solo parzialmente e momentaneamente scongiurate dalle dimissioni, asseritamente irrevocabili, rassegnate da Florido all’indomani della sua carcerazione dalla carica di presidente della Provincia di Taranto», le stesse esigenze «anche in considerazione dell’avvenuto interrogatorio di tutti i coindagati del Florido, possono essere adeguatamente soddisfatte con la sottoposizione del medesimo indagato alla meno afflittiva misura degli arresti domiciliari, e con l’imposizione del divieto assoluto di comunicare telefonicamente, telematicamente o in qualsiasi altro modo, con persone diverse da quelle che con lui convivono».

Il dott. Franco Sebastio Procuratore capo della Repubblica di Taranto mi ricorda Filonide che piscia sulla toga dei romani. Il potere romano gli ha detto che lui non può sequestrare i beni prodotti dalla fabbrica perchè la fabbrica è strategica in quanto l'occupazione di 20.000 persone è sacra e dunque l'occupazione è espressione di un altro diritto costituzionale? Bene, allora lui sfida di nuovo il potere romano (come fece Filonide) sequestrando tutti i beni della famiglia Riva.

ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.

Ilva, sequestro record da 8,1 miliardi ai Riva, ma per il procuratore: "La fabbrica non si tocca". Sequestro da oltre otto miliardi di euro su beni riconducibili alla famiglia Riva e in particolare alla società Riva Fire spa. Il provvedimento di sequestro per equivalente è stato disposto dal gip Patrizia Todisco su richiesta del pool guidato dal procuratore capo Franco Sebastio, titolare dell'inchiesta per disastro ambientale in cui è indagato anche il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante. La procura ha ottenuto il sequestro. In pratica i consulenti dei pubblici ministeri hanno quantificato la somma che Ilva avrebbe dovuto investire negli anni per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. Gli investimenti non eseguiti, secondo i magistrati tarantini, si sono tradotti in un guadagno per la proprietà ritenuto però fonte di reato. Di qui i sigilli per un valore di otto miliardi e centomila euro.

«Il sequestro - ha spiegato il procuratore Sebastio a “La Repubblica” - riguarda solo i beni della società Riva Fire. Abbiamo tenuto conto della legge 231 (legge salva Ilva), e dunque il sequestro non colpisce i beni dell'Ilva. E questo provvedimento non intacca la produzione dello stabilimento. La ratio del sequestro è quella di bloccare le somme sottratte agli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. La produzione non si tocca - ha sottolineato Sebastio - Si tratta  di un sequestro preventivo per equivalente sulla base della legge 231 del 2001 sulla responsabilità giuridica delle imprese che dal 2011 contempla anche i reati ambientali. Ma in ogni caso - ha voluto specificare il procuratore - non potranno essere sequestrati beni funzionali all'attività e alla produzione della fabbrica.»

Molti hanno esultato a questo escamotage giuridico, ma evidentemente costoro sono a digiuno di prassi giudiziaria. Il sequestro preventivo non è una confisca,che interviene al termine del naturale decorso giudiziario con esito positivo per le toghe, ma una semplice forma di garanzia a futuro adempimento di obbligazione. Ciò significa che il sequestro di quei beni comporterà che fino alla sentenza definitiva quei soldi non li può toccare più nessuno perchè posti proprio a garanzia del risanamento. La lungaggine dei processi in Italia insegna che la sentenza definitiva dopo primo grado, appello, Cassazione arriverà fra non meno di cinque o sei anni. Nel frattempo la famiglia Riva non potrà risanare, proprio perchè spogliato di tutte le sue risorse. Va da se che per logica, a questo punto, non saranno applicabili le sanzioni previste dalla legge n. 231/2012 in caso di inadempienze nel risanamento dopo i tre anni. Quindi non ci potrà essere la nazionalizzazione dell'azienda, perchè è proprio lo Stato ad aver posto Riva nelle condizioni di non potere adempiere. Insomma i Magistrati hanno dato a Riva l'alibi per non adempiere al risanamento.

Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore (su Taranto ha scritto un libro) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.

«E’ chiaro a tutti che se prima “alla stampa locale dovevasi tagliare la lingua”, riuscendovici, oggi la stessa stampa continua a tacere anche su questioni fondamentali di diritto. Non è lo stare contro o a favore dei magistrati il punto del contendere, ma se si sta nell’alveo della legge o meno. Giusto affinchè da fuori non si dica: ma a Taranto nessuno conosce la legge?

Dall’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, al sequestro dei beni della famigli Riva il tutto sembrerebbe avere l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli. Quale tempismo?!?

Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui si è aperto un varco inatteso con atti tardivi rispetto alle esigenze cautelari con conseguenze imprevedibili.

Qualcuno mi dirà: di quale cronologia si parla? La cronologia di cui si parla è presto spiegata!

Per 50 anni si è permesso all’Italsider, poi Ilva, di inquinare a piacimento, poi un bel giorno ci si è scoperti, tutto ad un tratto, ambientalisti radicali.

26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.

26 novembre 2012. Il sequestro delle merci prodotte.

24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.

Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.

Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio 2013.

14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.

15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.

24 maggio 2013 sequestro del GIP Patrizia Todisco  di 8,1 miliardi di euro alla società Riva Fire spa.

Arresto e sequestro che potevano essere adottati molto tempo prima. E da qui l’infondatezza della necessità ed urgenza dell’adozione di quei provvedimenti.

Cioè in sostanza le conseguenze sono che i Riva vengono privati di ogni disponibilità finanziaria e quindi non potranno più ottemperare ai dettami della legge n. 231/2012 con due possibili esiti nefasti:

nazionalizzazione dell’azienda e confisca dei beni sequestrati (8,1 miliardi di euro), in parole povere espropriazione proletaria per buona pace dei sinistri;

risanamento dell’ambiente a carico dello Stato, liberando i Riva dall’onere economico e restituzione a questi dei beni sequestrati (in caso di buon esito del procedimento penale o dell’esito del ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo), per buona pace dei destri.

Comunque sia la Corte Europea dei diritti Umani ne ha da lavorare sulle nefandezze italiane. 

Appare chiaro che in un quadro ambientale normale è necessitata l’avocazione delle indagini da parte della Procura generale per due ordini di motivi: per quanto attiene l’ufficio del Pubblico Ministero non è stata esercitata la facoltà di astensione per gravi motivi di convenienza; così come il giudice Patrizia Todisco va sostituito con altro Magistrato dell'Ufficio del GIP in quanto esso, a norma dell’art. 36 c.p.p., ha l'obbligo di astenersi e non si è astenuto a seguito di inimicizia grave instauratasi fra lei e una delle parti private, per la denuncia penale e l’esposto in via disciplinare subito.

Ma i magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora  “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm  e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi.  “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto? 

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

Il caso Scazzi ed il caso Ilva: stessa solfa.

Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione:  perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Qualcuno mi dirà: Tu cosa proponi? C’è un principio generale: chi inquina paga. Quel principio non dice: chi inquina perseguitalo e fai chiudere la fabbrica e manda i lavoratori a casa. In questo modo si dà la stura ad ogni iniziativa avversa di tutela. Impedire la vendita dei prodotti e sequestrare i beni non è la soluzione. Vendere i prodotti e investirne i proventi fino alla totale sanificazione ambientale sarebbe una espropriazione velata, ma inattaccabile dal punto di vista legale, in quanto la gestione dell’attività economica (produzione e risanamento) rientra tra le prerogative dei consulenti giudiziari nell’ambito della gestione aziendale. Ed ove non fosse così, comunque c’è sempre l'art. 388 c.p. rubricato "Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice", che va bene per tutte le stagioni.»

A Taranto, comunque, si è stati sempre un po’ naif, ma se sgarri sono guai. Lo sa bene Antonio Giangrande che per aver osato ricusare Rita Romano, esercitando un legittimo diritto di tutela per non essere condannato da questa come giudice naturale per l’esistenza di grave inimicizia, si è sorbito un procedimento penale per diffamazione e calunnia. La procura di Potenza ha accolto prontamente la denuncia della toga tarantina sulla base di una assunto contenuto nell’atto di ricusazione fondato su una denuncia presentata dal ricusante e che dimostrava la grave inimicizia. Ma in Italia, purtroppo non ti puoi liberare dalle male spine.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.

Marina Berlusconi: "Ecco perché l'estremismo giudiziario può uccidere il Paese". In un'intervista esclusiva a Giorgio Mulè  su Panorama il presidente di Mondadori e Fininvest ripercorre il calvario giudiziario di suo padre Silvio Berlusconi e definisce il processo Ruby "una farsa".

«E' un attacco concentrico. Un assedio. L’obiettivo è chiaro: colpire una volta di più mio padre, come politico, come imprenditore, ma anche nella sua dignità di uomo. E, una volta di più, per colpire Silvio Berlusconi non si fermano neppure davanti al rischio di fare danni gravi, molto gravi, all’intero Paese».

Marina Berlusconi lascia perdere i preamboli. La presidente di Fininvest e di Mondadori (editore, tra l’altro, di Panorama) va dritta al cuore del suo ragionamento e afferma: «Sbaglia chi pensa che oggi la questione riguardi solo le vicende giudiziarie di mio padre. No, siamo davanti a un’emergenza che riguarda tutti. E in questa situazione non è possibile tacere».

Pensa che le iniziative della magistratura possano far saltare gli accordi di governo?

Mio padre è stato molto chiaro. Non ce la faranno. Non la si darà vinta ai signori della guerra, a un sistema che da vent’anni paralizza l’Italia e su questa paralisi ha costruito le sue carriere e le sue fortune.

Anche perché il Paese ha uno straordinario bisogno di stabilità…

Credo che nessuna persona di buon senso possa tifare per l’instabilità. A maggior ragione chi di mestiere fa l’imprenditore. E, mi lasci aggiungere, se oggi, tra mille difficoltà, la politica tenta di superare le barricate e di garantire governabilità e stabilità, un grandissimo merito va proprio a mio padre. Con un atteggiamento molto responsabile e leale, più di tanti altri si è speso e si sta spendendo.

Beh, al di là delle dichiarazioni di principio, l’esecutivo deve ancora dimostrare quel che sa fare.

Il governo Letta di fatto non ha ancora cominciato a operare, verrà giudicato dai risultati. Quel che è certo è che abbiamo bisogno di scelte, e scelte veloci. Anche se sappiamo bene che non tutto dipende da noi, i vincoli dell’Europa sono pesanti. È in Europa che il governo si giocherà una partita decisiva.

Ma la Germania non sembra disposta a fare sconti.

Che questo rigorismo a senso unico non ci porti da nessuna parte è ormai evidente. Guardiamo a quel che sta succedendo nel resto del mondo. Di ricette alternative ce ne sono. Pensi per esempio agli Stati Uniti, e, su un piano ben più radicale, anche al Giappone. È presto per dare un giudizio, bisognerà vedere come andrà nel medio-lungo termine, ma qualche primo risultato positivo mi pare ci sia. E in ogni caso, anche se di formule magiche non ne esistono, resta il fatto che economie molto importanti hanno rifiutato la linea del rigore a ogni costo.

In Italia, però, ai problemi creati da una crisi economica drammatica, si aggiungono i guasti provocati dalla «guerra dei vent’anni».

È mostruoso il solo pensare che il destino del Paese passi per le mani di un gruppo di magistrati spalleggiati da qualche redazione e qualche arruffapopoli.

Così però si mette in discussione un principio cardine della nostra Costituzione: l’indipendenza della magistratura.

L’indipendenza della magistratura è un principio costituzionale sacrosanto. Il problema è che è stato usato per cancellare altri principi, altrettanto fondamentali. Si è fatto scempio dei più elementari diritti della persona: il diritto al rispetto della propria dignità, a una privacy, a non vedersi linciati sui media prima ancora non dico di una sentenza, ma di un processo… Hanno imposto un meccanismo in cui sono saltati tutti i confini tra personali opinioni di tipo morale, valutazioni di tipo politico, verdetti giudiziari. È un meccanismo diabolico, dove rischi di trovarti in totale balia dei personalismi e dei protagonismi di certe toghe. Che a volte sembrano proprio aver dimenticato quel che dovrebbero essere: servitori della giustizia, e non «giustizieri» in nome di qualche fanatismo ideologico.

Ma molti sostengono che suo padre insista sui problemi della giustizia soprattutto o solo perché lo riguardano da vicino.

So bene che oggi, con la crisi, le preoccupazioni delle famiglie sono altre. Ma dobbiamo tutti renderci conto che l’incertezza del diritto può distruggere un Paese. In una comunità in cui le regole vengono sovvertite, in cui basta anche un solo avviso di garanzia per cambiare il corso della politica o devastare la vita di un’azienda, in una comunità dalla quale le imprese che potrebbero venire a investire e creare benessere si tengono alla larga spaventate da questa giungla, ecco, non credo si possa far finta di niente dicendo: tanto a me non capiterà mai. A parte il fatto che può capitare a tutti – e ogni giorno leggiamo storie di condannati poi assolti, di assolti poi condannati, di innocenti finiti in galera, di criminali in libertà – a parte questo, quello della giustizia malata non è un concetto astratto, è un problema che tocca direttamente la vita quotidiana di ciascuno di noi.

Con queste critiche, ha già messo nel conto che sarà accusata anche lei di delegittimare la magistratura?

Credo che il problema, per la magistratura, non siano le critiche. Intanto, qui nessuno si sogna di criticare la magistratura, qui stiamo parlando di un gruppo non ampio di magistrati, a cominciare da una pattuglia di procure, che sono, quelle sì per davvero, procure ad personam. E poi, è proprio il comportamento di certe toghe a minare la credibilità della magistratura.

Facciamo un esempio concreto?

Gliene faccio uno fra i tanti. Pensi a quel pm che ha costruito la sua carriera politica sulle inchieste, naturalmente a vuoto, contro mio padre, che si è candidato alle elezioni senza nemmeno avvertire il pudore di dimettersi, che adesso, bocciato sonoramente dal voto, contesta la sua nuova sede di lavoro e continua a comportarsi, tra una dichiarazione infuocata e un tweet, come se non fosse a tutti gli effetti un magistrato ma un leader politico. Le pare normale tutto questo? Non meriterebbe un po’ più di attenzione da parte di chi, in Italia ma anche all’estero, è sempre pronto ad alzare il ditino scandalizzato?

Facciamo pure nome e cognome del pm di cui sta parlando: Antonio Ingroia.

Certo, facciamolo. Questo signore si permette di descrivere la Fininvest come una società che ha riciclato capitali mafiosi. E lo fa ignorando, o addirittura manipolando, i risultati dei processi nati dalle sue stesse inchieste, i quali non hanno potuto che dimostrare l'assoluta inconsistenza di ipotesi simili. Firmerò personalmente l'atto di citazione dei suoi confronti che gli avvocati stanno ultimando. Il tentativo di riproporre la storia del nostro gruppo come quella di un gruppo di malfattori è degno dei peggiori regimi sempre rispettato nel modo più totale le regole. Siamo una delle realtà imprenditoriali più significative del Paese. Negli ultimi vent'anni abbiamo pagato più di 9 miliardi di euro di tasse, ne abbiamo investiti 27, diamo lavoro a quasi 20 mila persone. E' troppo chiedere un po' di rispetto, che poi non è altro che il semplice rispetto della verità?

D’accordo, ma resta il fatto che non tutti credono alla tesi della persecuzione giudiziaria.

Quando è entrato in politica mio padre era, da tempo, uno dei più importanti imprenditori italiani. Era arrivato all’età di 58 anni senza ricevere nemmeno un avviso di garanzia. Poi, non si sa perché, anzi, mi correggo, si sa benissimo perché, nel giro di pochi mesi si è scatenato un attacco che dura ininterrotto da vent’anni e che peraltro non ha portato neppure a una condanna definitiva, nonostante 33 procedimenti. Qualcuno in buona fede può ancora mettere in dubbio che si tratti di persecuzione giudiziaria? Tutti dobbiamo essere uguali di fronte alla legge, e ci mancherebbe, ma anche la legge deve essere uguale per tutti.

E infatti per questo si celebrano i processi. Come quello sulla vicenda Ruby, per il quale il pm Ilda Boccassini ha appena chiesto una condanna a 6 anni di reclusione oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Il processo Ruby? Quello non è un processo, è una farsa che non doveva neppure cominciare. Le presunte vittime negano, o addirittura accusano l’accusa. I testimoni dei presunti misfatti non ne sanno nulla. Di prove neppure l’ombra. Hanno lavorato per anni, hanno accumulato lo sproposito di 150 mila intercettazioni, hanno raccolto quintali di verbali, hanno vivisezionato in modo morboso e vergognoso la vita di mio padre e tutto per realizzare non un processo, ma una fiction agghiacciante a uso e consumo di media molto compiacenti. Certi interrogatori, nella loro sconcertante insistenza, facevano pensare ben più al voyeurismo che alla ricerca della verità. Finirà tutto in una bolla di sapone, come sempre, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?

Intanto ci sono anche le condanne già pronunciate, come quella in primo grado per la vicenda dell’intercettazione su Unipol-Bnl…

Sì, l’uomo più intercettato d’Italia, il presidente del Consiglio che ha visto pubblicati sui giornali migliaia di suoi privati e ininfluenti colloqui, condannato senza la minima prova per una intercettazione di cui neppure conosceva l’esistenza. La prima e unica condanna del genere in Italia.

E' arrivata anche la condanna in appello per la frode fiscale sui diritti Mediaset tra il 2002 e il 2003.

Accusano mio padre per l’evasione di 3 milioni di euro, a fronte dei 567 milioni di imposte che il nostro gruppo ha pagato in quello stesso biennio. E ignorano due sentenze definitive sugli stessi fatti contestati, che lo scagionano completamente, chiarendo che non si occupa più, da tempo, delle aziende. Guardi comunque che all’elenco che lei sta facendo deve aggiungere una voce, pesantissima: gli attacchi al patrimonio. Quell’esproprio da 564 milioni per la vicenda del Lodo Mondadori, ma non solo.

Che altro?

Per chi avesse ancora dei dubbi sull’aria che tira nel palazzo di giustizia di Milano, c’è anche la sentenza sul divorzio di mio padre. La cifra fissata mi pare dimostri come ogni senso della realtà e della misura sia stato ampiamente superato.

Che cosa si attende dai processi in corso e dalle sentenze che arriveranno?

Posso dirle quel che dovrei attendermi. Una cosa soltanto. Giustizia.

Dopo la condanna per i diritti Mediaset, però, anche a sinistra si è sottolineato che non si può essere considerati colpevoli prima del giudizio di Cassazione.

Troppo facile pensare di salvarsi la coscienza recitando l’inciso rituale: «Premesso che nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva…», e poi però avanti, dagli addosso al Caimano. Di questo garantismo ipocrita non si sa che farsene.

Insomma, a suo giudizio questo Paese resta prigioniero dell’antiberlusconismo, della caccia al nemico che ha sostituito il confronto politico?

Uno dei più gravi errori della sinistra, che mi pare stia pagando a carissimo prezzo, è stato proprio quello di aver rinunciato a fare politica, ad affrontare l’avversario sul terreno della politica. Ha preferito illudersi che altri provvedessero, in altri modi. Si è consegnata così alle procure e a determinati gruppi editoriali, ma ha fatto anche di più: ha perfino inseguito un ex comico che straparla di golpe, sperando che fosse lui a toglierle finalmente le castagne dal fuoco. Sia chiaro, una sinistra così non è un bene per nessuno: prima torna la politica, la buona politica, e meglio è. Almeno questo, per quel che vale, è il mio auspicio.

…lasciando in questo modo ai grillini la bandiera dell’antiberlusconismo?

Facciamo chiarezza: per Grillo e i suoi guardiani della rivoluzione parlerei piuttosto di nullismo, con l’antiberlusconismo e con il loro essere antitutto tentano di mascherare il nulla assoluto di programmi e proposte. La politica avrà mille colpe, ma non può finire nelle mani di un gruppo di dilettanti, o replicanti, allo sbaraglio. Certo, se poi i replicanti dimostrano di avere un’anima e un portafoglio, e se l’antipolitica va subito a impantanarsi nelle questioni più «terrene» della politica, rimborsi spese e diarie, beh, chissà che non ci siano presto sorprese.

Ha appena accusato «determinati gruppi editoriali». Va da sé che in cima alla sua lista c’è L’Espresso-Repubblica. O no?

Va da sé, anche se devo dire che negli ultimi tempi, sul fronte dello sciacallaggio editoriale, la Repubblica ha ceduto abbondanti quote di veleno al Fatto. Ci sono media che sono diventati vere e proprie incubatrici permanenti di faziosità, di menzogne e di odio. E ci sono giornalisti che ormai conoscono solo l’insulto. Ma io mi auguro che chi ha scelto come mestiere quello di spargere odio conservi ancora quel minimo di obiettività per capire che questo gioco perverso rischia di sfuggirgli di mano, di diventare molto pericoloso. In Italia si respira un’aria brutta, un’aria incattivita, non solo nella rete, che è ormai lo sfogatoio della peggiore intolleranza, ma anche nelle piazze, lo abbiamo visto pochi giorni fa a Brescia.

L’Espresso-Repubblica ha un editore, l’ingegner Carlo De Benedetti, che ha appena definito suo padre un impresario, e non un imprenditore.

Certo che vedere De Benedetti dare lezioni di imprenditorialità… Proprio lui, con le macerie industriali che si è lasciato alle spalle… Altro che imprenditore: lui era e resta un inarrivabile prenditore, il numero uno di quel capitalismo cannibale che pensa solo ad arricchirsi senza dare nulla in cambio, anzi, costruisce le sue fortune sulle sfortune altrui. E non mi sorprende che ormai sembri un disco rotto, è innamorato della patrimoniale: la sua unica ricetta per risolvere i guai del Paese è quella di impoverire gli altri.

L’Ingegnere adesso sponsorizza Matteo Renzi alla leadership del Pd…

Sono questioni che non mi riguardano. Anche se, visto com’è andata a finire per tutti quelli che finora hanno ricevuto l’investitura dell’Ingegnere, fossi in Renzi magari qualche scongiuro lo farei.

Fin qui abbiamo parlato molto di antiberlusconismo. Ma mi dia una definizione del berlusconismo.

Posso parlare di quello che conosco, e benissimo: le idee, i valori, i tanti risultati che Silvio Berlusconi ha raggiunto. Ma quello che sento chiamare berlusconismo non so davvero cosa sia, semplicemente perché non esiste. Se l’è inventato l’antiberlusconismo per darsi una identità e legittimare se stesso. È la tattica vecchia come il mondo di creare, quando non hai idee migliori, un nemico che non c’è.

Da tutto quel che ha detto in questa intervista, si potrebbe obiettare che lei parla per amor filiale...

L’amore filiale c’è, chi ha intenzione di negarlo? C’è ed è enorme, perché mio padre se lo merita, per il padre che è sempre stato e per il padre che è. Sono orgogliosa di essere figlia di Silvio Berlusconi, non c’è mai stato nulla che potesse anche lontanamente incrinare questo orgoglio. Ed è un orgoglio che diventa ancora più grande per il coraggio con cui mio padre si difende e si batte per quello in cui crede. A volte mi chiedo come faccia a sopportare tutto quello che gli hanno inflitto e gli stanno infliggendo.

E quale risposta si dà?

È riuscito a rimanere sempre se stesso, a non cambiare mai. Di fronte ai successi ma anche agli attacchi più ignobili. Ha saputo affrontarli senza mai perdere il suo entusiasmo per la vita, il suo ottimismo, e senza mai lasciarsi andare alla rabbia, al rancore, al desiderio di vendetta. Reazioni che, con quel che gli hanno fatto, personalmente ritengo sarebbero state più che legittime.

Che cosa l’ha ferita di più in questi anni?

Tutto quel che mio padre ha dovuto subire e sta subendo mi fa star male. Ma c’è una cosa, una in particolare. Ed è la distanza siderale fra quello che lui è e il modo in cui in tanti cercano di dipingerlo. Sui giornali, in tv, in certe aule di tribunale. Quando vedo personaggi che di Silvio Berlusconi hanno fatto la loro spesso redditizia ossessione descrivere mio padre in un modo che non c’entra nulla, ma proprio nulla con quello che lui è veramente, sento tutto il peso di un’ingiustizia inaccettabile, ma provo anche una gran rabbia, la rabbia dell’impotenza, perché da questa ingiustizia è molto difficile difendersi. Ecco, questa è la cosa più insopportabile.

E questo, mi scusi, non è parlare per amor filiale?

No. Io parlo per amore di verità.

SE POI LI CRITICHI TI BASTONANO.

PARLI MALE DEI MAGISTRATI? GIORNALISTI CONDANNATI.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie si rischia di passare da mitomane o pazzo. Le mie battaglie ventennali contro le ignominie dei magistrati sono state taciute e per gli effetti sono diventato carne da macello per le toghe che in tutti i modi hanno cercato di farmela pagare, senza però riuscirci. Tutti i procedimenti penali per calunnia o diffamazione a mezzo stampa sono finiti sempre con un’assoluzione. Ma il tentativo di intimidazione è chiaro. Il fenomeno della censura indotta esiste, per questo parlo di casi eclatanti che la grande stampa ha attenzionato.

IL CASO MULE'. Condannato a otto mesi senza condizionale Giorgio Mulé, direttore di Panorama, per aver diffamato il procuratore di Palermo Francesco Messineo, scrive Alberto Custodero su “La Repubblica”. Scatta nei suoi confronti la solidarietà bipartisan del mondo politico senza dimenticare ovviamente la Mondadori, a partire dal presidente Marina Berlusconi. Ma dopo la condanna a un anno e due mesi di Alessandro Sallusti, un altro direttore che rischia il carcere ripropone il tema di una riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa. Come nel caso del direttore del Giornale (diffamò un giudice torinese, ottenne la grazia dal Quirinale), anche per Mulé la condanna è per aver diffamato un magistrato. Il direttore risponde di omesso controllo, mentre il giornalista autore dell'articolo dal titolo "Ridateci Caselli", Andrea Marcenaro, è stato condannato a un anno per diffamazione. La sentenza è di primo grado, quindi, prima che la pena diventi definitiva dovrà superare il vaglio della Corte d'Appello di Milano e della Cassazione. La solidarietà a Mulé è arrivata da tutti i partiti, ad eccezione di Sel e M5S. Il Pdl non s'è lasciato sfuggire l'occasione per attaccare i giudici. "Evidentemente in Italia - accusa il deputato Fabrizio Cicchitto - una parte della magistratura persegue solo una parte della stampa italiana". "Altro che bavaglio - tuona il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri - si vogliono i giornalisti in carcere appena osano toccare la casta dei magistrati". Solidali anche i democratici: "Un giornalista in carcere mi mette sempre i brividi", commenta il senatore Nicola Latorre. Ma la solidarietà s'è subito spostata sul piano della riforma della legge sulla diffamazione. "Questo ennesimo attacco alla libertà di stampa - per il capogruppo dei deputati Pdl Renato Brunetta - è anche frutto del fallimento della trattativa politica per rivedere il sistema delle pene". Sulla stessa linea anche Mara Carfagna, portavoce dei deputati Pdl, che ha chiesto di abolire il carcere per la diffamazione. Preoccupati per la condanna dei colleghi, i fiduciari di Panorama si sono appellati alla Federazione Nazionale della Stampa "per una presa di posizione chiara in difesa della libertà di stampa sempre più minacciata dai poteri forti". E la Fnsi s'è fatta subito sentire, definendo la sentenza ingiusta e grave. "Bisognerebbe poterla portare subito davanti alla Corte di giustizia europea per i diritti umani di Strasburgo - scrive la Fnsi - per ottenerne il sicuro annullamento". "Una riforma urgente" della normativa che prevede il carcere per il giornalisti è invocata anche dall'Usigrai, mentre per "Articolo 21" questa sentenza "non potrà che aggravare ulteriormente la posizione dell'Italia nella classifica internazionale sulla libertà di stampa che ci vede confinati al 57esimo posto per i continui bavagli al diritto di cronaca". 

Dopo il caso di Alessandro Sallusti, arrestato e messo ai domiciliari per un articolo di Renato Farina pubblicato su Libero quando era direttore e poi graziato da Giorgio Napolitano, rischia di finire in carcere anche il direttore di Panorama Giorgio Mulè e l'autore dell'articolo Andrea Marcenaro, scrive “Libero Quotidiano”. A riportare la notizia è proprio il Giornale diretto da Sallusti. Mulè e Marcenaro sono stati condannati in primo grado per aver diffamato il giudice Francesco Messineo. Il pezzo incriminato riguardava la situazione disastrosa della Procura di Palermo. Ma quando lo stesso procuratore Messineo e il suo ex vice, Ignazio De Francisci, sono stati interrogati al riguardo, hanno riferito un quadro simile se non peggiore, visto che hanno parlato di una Procura segnata da "una funesta tradizione di divisioni", dove i magistrati devono fare "lo slalom tra le faide", tra giudici di sinistra e moderati, che bloccano l'attività dell'ufficio. Tant'è. Il giudice milanese Caterina Interlandi ha sentenziato: un anno di carcere a Marcenaro e otto mesi a Mulè per omesso controllo. Negata a entrambi la sospensione condizionale perché già condannati in passato (Mulè a una ammenda 8 anni fa). Condannato, ma con la condizionale, anche un collaboratore del settimanale. Ora la sentenza deve passare al vaglio dell'Appello e della Cassazione. 

È possibile condannare penalmente un cittadino per un reato di opinione? «In Italia, sì», spiega a Francesco Amicone su tempi.it il direttore di Panorama, Giorgio Mulè. Pochi mesi dopo la conclusione del caso Sallusti, il Tribunale di Milano ha deciso di “mandare in galera” Mulè e i due noti giornalisti Andrea Marcenaro e Riccardo Arena. È bastata l’idea di fondo di un articolo apparso sul settimanale nel 2009, sulla gestione della procura palermitana da parte del Procuratore Capo Franceso Messineo, a convincere il tribunale a comminare ai tre giornalisti pene da otto mesi a un anno di carcere. Il reato contestato ai tre giornalisti è la diffamazione a mezzo stampa e l’omesso controllo. Dall’articolo intitolato “Ridateci Caselli”, Messineo spiega di aver «ricavato una impressione complessiva di delegittimazione e di aggressione morale, nell’articolo si ridicolizza la mia figura». «Ho subito gravissimi danni in termini di immagine, quindi di sensazioni interiori, di autostima e quant’altro» afferma il magistrato. Una sua opinione personale, spiega Mulè: «Si contesta un “eccesso di critica”, non una frase diffamatoria». Inoltre, non viene contestata la falsità di alcunché. Ed è ciò che aumenta lo sconcerto per le tre condanne. «Marcenaro e Arena hanno parlato di fatti veri, dei quali già si erano occupati Corriere della Sera e Repubblica»: «L’inchiesta descrive la situazione in cui versa la procura di Palermo, illustra le divisioni interne, risapute, descrivendo i contrasti tra fazioni “moderate”, vicine ai metodi di Pietro Grasso, e i “falchi”, i cosiddetti “caselliani”. L’articolo cita anche il cognato di Messineo, accusato a Palermo di ricettazione. Ma non è stato detto nulla di lesivo nei confronti del Procura». Per quale ragione, allora, i giornalisti vengono condannati? «Marcenaro e Arena, per eccesso di critica e di opinione. Io, come direttore responsabile, per omesso controllo. La condanna impartitami, fra l’altro, è senza sospensione della pena, che, a mia memoria, è sempre stata concessa in casi come questo». Non concessa nemmeno a Marcenaro. Una lotta fra giornalisti e magistrati? «Sbaglia chi pensa che questa sia una guerra fra bande». «Ora ricorreremo in appello. Però occorre fare una battaglia di libertà». «Queste sentenze», conclude Mulè, «non interessano solo Panorama e i suoi giornalisti, ma chiunque voglia godere del suo diritto ad esprimere un’opinione. Tutti i cittadini devono essere liberi di fare una critica netta e chiara anche ai magistrati».

L’ARTICOLO INCRIMINATO: Spatuzza e le stragi del '93: aridatece Caselli. L'articolo di Andrea Marcenaro e Riccardo Arena (pubblicato su “Panorama) che ha portato alla condanna per diffamazione dei due giornalisti e del direttore di Panorama.

"Non ne voglio parlare". Soltanto un’opinione. "Non ne voglio parlare!". Anche questo silenzio si doveva sentire. Il pentito Gaspare Spatuzza stava accusando Silvio Berlusconi come un torrente in piena, lo incolpava di intrecci infami con la mafia, di montagne di denaro sporco destinate a segnare l’origine della sua Fininvest; e non solo, lo stava addirittura tacciando di stragista, tanto che i titoli di molti giornali già parlavano di un premier ridotto all’angolo, e Michele Santoro respingeva ogni commento. Proprio lui, l’anchorman che avrebbe dovuto toccare il cielo con un dito, e dunque aprirsi e infierire come non mai sul suo nemico sgominato, se ne restava muto. Qualcosa non tornava. Negli stessi istanti in cui Santoro esibiva il suo inatteso silenzio, sabato 28 novembre due procure della Repubblica molto importanti, quella di Firenze e quella di Palermo, manifestavano reazioni opposte. Il procuratore fiorentino Giuseppe Quattrocchi smentiva l’esistenza di una nuova indagine sulle stragi del 1993 nei confronti del presidente del Consiglio. Laddove una fonte della procura siciliana lasciava filtrare a Il Fatto quotidiano, giornale molto più che amico, come quella procura stesse invece valutando con attenzione l’apertura di un’indagine per mafia nei confronti del premier: "Stiamo esaminando un materiale probatorio molto ampio e complesso che ci porta a ritenere l’esistenza di un rapporto di interlocuzione tra i boss mafiosi e ambienti imprenditoriali milanesi nella stagione delle stragi tra il 1992 e il 1993". Ineffabile Palermo, grande, indomabile, sempre pronta e mai dimessa, fedele a qualsiasi inquisizione contro ogni premier passato e presente, talora a dispetto dei santi. Ce la farà? Non ce la farà questa volta? Le intenzioni ci sono tutte. Ma il fisico? Ce l’ha, il fisico? Merita una bella mappa chiarificatrice, una procura così. La comanda un brav’uomo, dicono tutti. O meglio, che il dottore Francesco Messineo comandi la procura proprio esatto non è: ne è solo formalmente al vertice. Con Gian Carlo Caselli  prima, e con Piero Grasso poi, che sedevano su sponde politiche, politico-giudiziarie, ideologiche e perfino filosofiche opposte, tutto era definito, chiaro, preciso: il carisma del capo, il gruppo dei fedelissimi, gli oppositori, i peones, quelli che se ne fregavano. Come il metodo di lavoro, gli obiettivi, le linee. Con Messineo, parlare di carisma è francamente improprio. Guai a toccarlo, intendiamoci. Se lo fai e rilevi, per esempio, la sua parentela a dir poco ingombrante con un imprenditore più volte al centro di indagini per mafia, è perché "si vuole fermare la procura di Palermo nel progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa nostra". Questa almeno è la citazione testuale di un documento di solidarietà col capo, firmato da non tutti i suoi sostituti la scorsa primavera. Ma Messineo è un procuratore a termine, e lui lo sa bene. Tutto sta nel vedere quando (e se) Antonio Ingroia e Lia Sava, due dei suoi presunti fedelissimi, decideranno di chiedere l’arresto di Sergio Maria Sacco, imprenditore della Saccoplast, sacchetti in plastica, fratello della moglie del procuratore. Che nostalgia, però. Che differenza, dai tempi splendidi del dottor Caselli, simbolo del sacrificio personale di chi lasciava Torino per battere la mafia. E il quale parecchia, in effetti, ne aveva poi abbattuta. Del Caselli che intese tagliare le unghie nientemeno che a Giulio Andreotti, quantunque quella volta sia andata com’è andata. Che vantava un meritato rapporto personale con Oscar Luigi Scalfaro, il presidente tutto per lui, con Luciano Violante, quasi un ufficio istruttorio parallelo, e un mondo intero che applaudiva e una stampa compatta che lo sosteneva. Interpellato, Violante invece dice: "Non mi occupo della situazione di Palermo, non seguo queste cose". Poi sottilizza, forse non senza autoironia: "Non mi chieda giudizi sulle inchieste. Sulle inchieste non intervengo". Perché molto tentenna e quasi tutto dipende, adesso, a Palermo. Con un procuratore tanto in ombra, non c’è dopo tutto da stupirsi dell’esistenza di un procuratore ombra. Il quale infatti esiste e si chiama Antonio Ingroia, 51 anni, allievo di Paolo Borsellino, formalmente procuratore aggiunto, acuto, ambizioso quanto basta. È lui il vero capo, proclamano i detrattori suoi. Esattamente così, confermano i detrattori di Messineo. Ingroia non se ne cruccia, dal momento che una cosa sa: se il capo di nome si allontana dal capo di fatto, l’isolamento del capo di nome è nelle cose. Ma non si può parlare di procura divisa, a Palermo. Si divide qualcosa se prima era unita. L’ufficio inquirente, qui, sembra piuttosto frantumato. Via Giuseppe Pignatone, uomo d’ordine, coordinatore dell’arresto di Bernardo Provenzano, coordinatore del pool che ottenne condanna e dimissioni di Totò Cuffaro, coordinatore del gruppo di uomini molto vicini all’attuale capo della Direzione nazionale antimafia, Piero Grasso, ormai dissolto per consunzione. Adesso Pignatone è procuratore a Reggio Calabria. Via Michele Prestipino, che ha seguito Pignatone a Reggio. Via Maurizio De Lucia, ora sostituto alla Dna. Via tra poco Roberta Buzzolani, verso il ministero della Giustizia. Via Sergio Barbera e Roberto Piscitello, approdati in via Arenula presso il ministro Angelino Alfano. Via un altro storico componente del pool, Massimo Russo, ex pm durissimo, rigidissimo e antimafiosissimo. Il quale merita però una parentesi, dal momento che incarna una sorta di metafora del rapporto tra giustizia e politica in Sicilia. Attualmente potentissimo assessore alla Sanità nel governo di Raffaele Lombardo, Russo  ha fatto campagna elettorale per l’Udc insieme con Pino Giammarinaro, esponente dc del Trapanese di cui Russo stesso aveva chiesto la condanna per mafia, quand’era pubblico ministero: "Una cosa sono le posizioni personali, altra cosa le posizioni processuali" ha cercato di spiegare poi Russo. Ma la gente di Palermo mormora, ricorda, giudica e tende a fidarsi di meno. Autorevolezza e giustizia sono termini il cui rapporto sembra andare sfarinandosi, anche in Sicilia. Renato Mannheimer non si pronuncia su tanto argomento, ma di una cosa è convinto, anzi di due. Prima convinzione del professore, molto personale: "Un’eventuale incriminazione di Berlusconi per mafia sarebbe debolissima, la procura di Palermo farebbe bene a non contare sull’appoggio dell’opinione pubblica. Qualsiasi cosa dica Spatuzza, o dicano eventualmente i fratelli Graviano, conterebbe come il due di picche". Seconda convinzione del professore, molto professionale: "Escludo che un’iniziativa della procura di Palermo possa influire sul consenso al presidente del Consiglio. O meglio, non escludo che possa influire: aumentandolo". Con Ingroia sta Nino Di Matteo, nuovo presidente distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati, votatissimo, gran lavoratore, caparbio al punto da convincere il procuratore Messineo a firmare la richiesta di rinvio a giudizio di Totò Cuffaro anche per concorso esterno in associazione mafiosa. A tutti sembra un doppione del primo processo che ha già condannato Totò "Vasa-vasa" per favoreggiamento e rivelazione di segreti. Tant’è. È il famoso concorso esterno. Con Di Matteo, Ingroia sta conducendo indagini delicate. Sono nate dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo che ha deciso di raccontare la verità in un momento topico: mentre la corte d’appello deve decidere se confermargli o meno la condanna per riciclaggio, tentata estorsione e fittizia intestazione di beni. In altre parole, un signore sotto processo per la sparizione del tesoro del padre aveva deciso di aprirsi, non con i magistrati che l’avevano fatto condannare, bensì con Ingroia e Di Matteo. Singolare vicenda. Dopo mesi di tira e molla, Ciancimino junior ha portato il "papello" con la richiesta della mafia allo Stato per interrompere le stragi. Poi i pizzini di Provenzano a don Vito. Ora promette cassette registrate sulla trattativa, premettendo a verbale che in fondo alle cassette, in fondo non c’è niente. Con Ciancimino jr Ingroia ha mostrato una pazienza che non sarebbe stata concessa a nessun altro. Ci spera, lavora a fare il botto. Ma un punto distingue Ingroia da Caselli e non consente di rimpiangere il secondo. Tutto era "doveroso", ai tempi di Caselli. Doveroso indagare, doveroso fare i processi, doveroso usare pentiti marciti come Balduccio Di Maggio. Il contesto lo consentiva. L’andazzo lo pretendeva. Ma niente come la magistratura sa mettersi al vento dell’andazzo. "Tutto è importante, oggi, ma un po’ meno doveroso di allora" suona il commento di un avvocato palermitano che ne ha viste molte. Traduzione: forse non è più tempo di colpi di testa, forse i tempi non consentono grandi blitz, grandi procedimenti per sfidare e calpestare la politica. Facendola concorrere esternamente, poi, e tirando la pelle come quella del pollo. Forse Ingroia non ha sposato il pentito Spatuzza. Che chissà, tra l’altro, se si è davvero pentito. Educati, forse, dai colpi subiti nel passato, i magistrati del capoluogo siciliano fanno senz’altro i radicali in tv, ma non sentono più l’obbligo di caricare a testa bassa. Spatuzza glielo ha sdoganato Firenze. Il piccolo Ciancimino si è sdoganato da solo, con le conferenze stampa alla fine degli interrogatori e le interviste in tv tra Annozero e Sky. Forse la procura di Palermo si sente meno "doverosa" di un tempo. Punta ancora a riscrivere la storia d’Italia, ma senza impiccarsi all’obiettivo. Forse. Meglio un’archiviazione "pesante", dove puoi dire quello che vuoi tu, che una sentenza in cui un giudice può darti torto marcio. E allora sei costretto ad attaccarlo, come venne attaccato il collegio giudicante che assolse Andreotti nell’"Eredità scomoda" di Caselli, e appunto di Ingroia. Forse, anche sull’indagine Berlusconi-Dell’Utri l’assatanamento spettacolare dei maggiorenti della procura palermitana, a parte il discusso Messineo, non è poi così assatanato quanto lo spettacolo lascia intendere. Forse anche Santoro teme questo. Vuol dire qualcosa in proposito, signor Santoro? "Nulla. Lei non sta toccando un tema qualsiasi. Sta dicendo che tutto è cambiato". Forse. "Non solo per quanto riguarda Berlusconi. Che anche l’opposizione è cambiata". Forse. "Che prima no, ma che adesso anche l’opposizione sopporta a fatica le inchieste della magistratura libera". Forse. "Allora non voglio dire nulla al di fuori della mia trasmissione". Perché? "Non intendo che le mie dichiarazioni possano essere usate per contrastare il lavoro di alcuno". E intende dei magistrati che sogna.

I giudici vogliono silenziare "Panorama": carcere ai giornalisti. Ci risiamo. Un altro giornalista, anzi altri due in un colpo solo, sono stati condannati al carcere per un presunto reato di diffamazione, scrive Alessandro Sallusti  su “Il Giornale” Ci risiamo. Un altro giornalista, anzi altri due in un colpo solo, sono stati condannati al carcere per un presunto reato di diffamazione. La sentenza, di primo grado, è stata emessa ieri dal tribunale di Milano nei confronti del direttore di Panorama, Giorgio Mulè, e del giornalista Andrea Marcenaro. La colpa? Aver scritto (Marcenaro) e pubblicato (Mulè) un articolo nel quale si sosteneva la tesi che la Procura di Palermo è politicizzata. Così come nel caso che portò al mio arresto, i querelanti sono dei magistrati e i condannati giornalisti non allineati al pensiero unico sul ruolo delle Procure, di area centrodestra e di un giornale che fa capo a società della famiglia Berlusconi. Coincidenze? Non credo. Non è possibile che tra le migliaia di querele in corso, alcune delle quali sacrosante, solo quelle fatte da magistrati contro di noi vengano sanzionate da loro colleghi con l'arresto dei giornalisti coinvolti. Nel merito non vedo dove sia la diffamazione e mi associo senza indugio alla tesi sostenuta da Panorama, al cui direttore va tutta la mia solidarietà. Siete politicizzati e la sentenza di ieri è l'ennesima prova. Basterebbe dire che un pezzo importante di quella Procura, Ingroia, era talmente politicizzato da fondare un partito e presentarsi alle elezioni. Non basta? E allora rileggiamo quello che ha dichiarato il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo: ho trovato una Procura divisa in due schieramenti di carattere ideologico, chi non era schierato doveva fare slalom tra le faide. Quella non è una sentenza, ma una provocazione. A noi giornalisti (non tutti, c'è ovviamente chi si frega le mani), al presidente della Repubblica Napolitano che ridandomi d'imperio la libertà ha bollato come ingiustificate e abnormi le sentenze di arresto per reati d'opinione. Ed è uno sberleffo alla politica inaffidabile (compresa quella del Pdl) che per evitare altri casi come il mio aveva promesso di cambiare una legge assurda e illiberale ma che passato il pericolo, ovviamente, non ha fatto nulla, come nelle sue peggiori tradizioni. Ma sì, amici deputati e senatori liberali, che ci arrestino tutti, noi che ogni giorno ci esponiamo per difendere anche la vostra libertà di fare politica. Diamogliela vinta a quei galantuomini di pm e giudici che usano il loro potere per intimorire e imbavagliare. Basta poi che alle prossime elezioni non ci chiamate per avere l'intervista di rito. Perché non so Mulè, ma io la risposta l'ho pronta, ed è da querela.

"Trattati dai giudici peggio dei delinquenti". Il direttore di Panorama Giorgio Mulé commenta così a Stefano Zurlo (per Il Giornale) la sua condanna in primo grado per diffamazione contro il pm Messineo di Otto mesi senza la condizionale.

"Sono esterrefatto. Andrea Marcenaro e Riccardo Arena, gli autori dell'articolo incriminato, hanno ricevuto una condanna ad un anno di carcere. Ci trattano peggio dei delinquenti". Giorgio Mulè, direttore di Panorama, è basito: "Sono amareggiato, ma amareggiato è poco. Leggo il dispositivo e scopro che non mi è stata data la condizionale".

Perché?

"Posso solo immaginarlo.: me la sarei giocata con una condanna precedente, una multa del 2005 che, fra parentesi, ho preso dopo la querela di un altro magistrato di cui nemmeno ricordo il nome. I criminali ricevono i benefici di legge, io e i miei giornalisti no".

Il pezzo di Panorama conteneva forse delle notizie inesatte, errori, sviste, o, peggio, falsità?

"Nulla di tutto questo. L'articolo era un viaggio documentato dentro la Procura di Palermo, come se ne fanno tanti nei giornali".

E allora?

"E allora mi chiedo dove sia la lesa maestà. Arena e Marcenaro hanno raccontato come era la procura, guidata, allora come oggi, da Francesco Messineo, che poi ci ha querelato".

E com'era?

"C'erano divisioni e contrasti. come peraltro hanno scritto e scrivono tutti i giornali. C'era chi rimpiangeva Gian Carlo Caselli e chi a un certo punto ha preferito andarsene. Una sorta di diaspora. Tutto noto e pubblicizzato dai media".

Anche i guai, chiamiaoli così, del procuratore?

"Si, abbiamo spiegato che il cognato di Messineo era sotto inchiesta. Ma c'è di più. In aula, lo stesso Messineo e Ignazio De Francisci, a lungo Procuratore aggiunto a Palermo, non hanno smentito i fatti. le faide in quel grande calderone del palazzo di giustizia di Palermo e in particolare della procura".

Forse il tono era eccessivo?

"Noi non componiamo agiografie, mettiamo in pagina i fatti e le nostre critiche. Però, mi si lasci dire, senza passare il segno. Con civiltà e misura. Invece quando abbiamo chiesto di recuperare le carte del procedimento disciplinare aperto al Csm su Messineo il giudice ha risposto picche".

Come mai?

"Non lo so, le avrà reputate superflue per la sentenza anche se, secondo noi, potrebbero arrivare ulteriori conferme alle nostre tesi. So che ormai faccio il giornalista da più di vent’anni e tutti i miei problemi con la giustizia riguardano sempre e solo loro, i magistrati. Mi fermo per carità di patria".

Ha pesato in questa storia lo scoop di Panorama sulle intercettazioni del Quirinale?

"Il pezzo della scorsa estate ha rotto le uova nel paniere ai pm. Noi abbiamo detto anche in quel caso la verità, raccontando che i pm avevano ascoltato le telefonate del Quirinale".

Messineo?

"Si difese in modo singolare, specificando che la fuga di notizie non poteva essere partita dalla procura perché la procura non aveva rapporti con Panorama. Mah".

Conclusione?

"Siamo sempre allo stesso punto. Gli strapotenti, come li abbiamo chiamati in copertina la scorsa settimana, sono sempre strapotenti, qualunque tentativo di intervenire sul potere giudiziario viene subito catalogato come legge bavaglio, minaccia alla libertà delle toghe o norma salva qualcuno. E il parlamento, a mesi di distanza dal caso Sallusti, è al palo. Non si è fatto niente: chiacchiere e ancora chiacchiere. La nuova legge sulla diffamazione è solo un fantasma evocato nei dibattiti e nei convegni".

Caso Mulé. Ancora manette per rieducare i giornalisti. Le toghe non si toccano, scrive Annalisa Chirico su Panorama. Sarà un caso che la testata si chiami “Panorama”, di proprietà della famiglia Berlusconi. Sarà pure un caso che il direttore condannato in primo grado a otto mesi di carcere (senza condizionale) per omesso controllo si chiami Giorgio Mulé, non esattamente un devoto della “strapotente” magistratura italiana. Sarà un caso, come dubitarne, che il querelante si chiami Francesco Messineo, capo della Procura di Palermo ai tempi delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, rivelate da Panorama pochi mesi or sono e dichiarate poi illegittime dalla Consulta. Si conferma il noto assioma secondo cui magistrato-non-morde-magistrato: il giudice milanese Caterina Interlandi dà ragione al collega Messineo e condanna il direttore responsabile a otto mesi di galera e il giornalista Andrea Marcenaro, autore del delittuoso articolo, ad un anno di reclusione. Hanno ragione i magistrati: i giornalisti vanno rieducati. Si dovrebbero organizzare dei veri e propri campi di rieducazione per quei giornalisti, pochi, che osano esercitare la libertà di critica verso i nostri esimi magistrati. In fondo, se parli di politici e soubrette, è tollerato un certo linguaggio infarcito di travagliesca putrescenza. Puoi qualificare gli uni come furfanti, le altre come puttane, tutt’al più ti becchi forse, non è detto, una querela e con qualche soldo la faccenda è chiusa. Se invece ti salta in mente di toccare il terzo potere, non hai scampo. Il terzo potere è intoccabile, e così un articolo che riporta dei fatti, nessuno dei quali viene smentito, fatti già raccontati in precedenza da La Repubblica e da La Stampa, diventa l’arma diffamatoria nei confronti di un povero magistrato. Il quale, dal canto suo, subisce una grave “perdita di autostima”, ne soffre intimamente. E allora egli potrebbe accontentarsi di un lauto risarcimento, ma non gli basta. Servono le sbarre per rieducare i giornalisti. Certi giornalisti italiani – quei “pochi”, di cui sopra –  devono aver subito una sorta di mutazione genetica alla nascita, se a differenza dei loro colleghi – i tanti – osano prendersela persino con i giudici. Non si fa, non si fa, non si fa. Resta da chiedersi però perché in Italia e solo in Italia un reato, quale la diffamazione a mezzo stampa, sia punita con la galera. Non bastano forse ammende e risarcimenti pecuniari come avviene altrove? No, da noi la “giustizia” pretende i ceppi alle penne. Si tratta  innanzitutto di una violenza ingiustificata nei confronti di due professionisti, che sono anche due persone, con la propria vita e la propria dignità. E poi viene così inferta una lesione profonda dei principi basilari su cui si fonda lo Stato di diritto nella nostra, seppure scalcinata, democrazia. Ma la politica che cosa fa? Si inchina supinamente, pavidamente, ad un diktat che già lo scorso autunno aveva fatto tintinnare le manette per un altro direttore di giornale, Alessandro Sallusti, anch’egli d’area berlusconiana e non proprio tenerissimo con la magistratura italiana. Sarà una coincidenza, certamente. La politica è rimasta a guardare, non è riuscita neppure a riformare una norma del Codice, firmato dal Re e dal Duce, che sopravvive imperterrita al buonanullismo dei politici e al ricatto dei magistrati. Sallusti è stato “graziato” in extremis dal Capo dello Stato. Dovremo confidare di nuovo nel potere di clemenza del sovrano oppure è arrivato il momento di modificare quella norma fuori dal tempo per evitare i casi Guareschi, Surace, Guarino, Sparagna? Che siate lettori o meno di Panorama, che siate berlusconiani o acerrimi antiberlusconiani, questo non conta. Se pensate con la vostra testa e avete a cuore la democrazia, di cui la libertà di espressione è un caposaldo indelebile, allora la reazione non può che essere una soltanto: indignazione. Le penne non si ammanettano, mai.

''La libertà di stampa non può essere chiusa in una prigione. La critica, anche la più dura, a patto che non scada nell'insulto o nella menzogna, è il sale del confronto democratico, al quale nessuno puòpensare di sottrarsi". Sono queste le parole di Marina Berlusconi, su “Panorama”, presidente Mondadori e Fininvest alla notizia della condanna a otto mesi di reclusione inflitta dal Tribunale di Milano al direttore di Panorama Giorgio Mulè e di un anno al giornalista Andrea Marcenaro ed al collaboratore di Panorama, Riccardo Arena per diffamazione. "Panorama - sottolinea sempre Marina Berlusconi nella nota - ha ancora una volta soltanto fatto, e bene, il proprio mestiere. Anche di fronte ad una sentenza che lascia senza parole, continuerà come sempre ad esercitare la sua funzione di attento, acuto, e profondamente libero protagonista della vita del Paese. Al direttore Giorgio Mulè, agli altri colleghi condannati e all'intera redazione, tutta la solidarietà e la stima che si sono conquistati con il loro lavoro''. La condanna è scaturita in seguito alla pubblicazione di un articolo in cui si muoveva una critica sull’operato di Francesco Messineo, procuratore capo di Palermo. L’articolo risale al 2009 dal titolo “Ridateci Caselli”. Al centro della polemica di Marcenaro c’era la parentela (un cognato indagato per mafia che non pochi imbarazzi ha procurato a Messineo) e la gestione della procura al centro di una lotta intestina fra gli stessi magistrati. Una parentela evidente che aveva attirato pure le attenzioni dei cronisti de La Stampa e de La Repubblica, del Corsera ben un anno prima del servizio che ha dedicato Panorama, ma che Messineo ha preferito non denunciare. Denuncia che con un anno di ritardo presenta invece nei confronti di Panorama colpevole, a suo modo di vedere, di aver calato quel tema in un contesto di divisione che si respirava in procura e che del resto ha acclarato perfino il suo vice Ignazio De Francisci nel corso di un interrogatorio e testimoniato dai verbali pubblicati da Il Giornale dove si parla di “funesta tradizione di divisioni”, “slalom tra le faide”. A esprimere solidarietà al direttore di Panorama è l’intero gruppo Mondadori che in una nota si dice certa che l’enormità della condanna troverà riparazione in appello. “Mondadori da sempre presidio di libertà riconosce nell'operato di Panorama, del direttore Giorgio Mulè e della sua redazione i caratteri genetici che appartengono a questa casa editrice: esprimere opinioni, nel rispetto dei fatti e delle persone, ed esercitare il diritto di critica, in particolare su temi di interesse pubblico, è l'essenza del buon giornalismo”.

«Si tratta di una vicenda orribile e di una sentenza inaccettabile che colpisce due giornalisti seri come Mulè e Marcenaro, trattati come delinquenti abituali, nel momento in cui esprimono opinioni su fatti di cronaca». Peppino Caldarola, ex direttore dell’ «Unità», ex deputato ds, uomo di sinistra, è sconcertato e preoccupato di fronte alla condanna al carcere decisa dal tribunale di Milano per il direttore di Panorama Giorgio Mulè e per Andrea Marcenaro. Caldarola, dunque, per Mulè otto mesi, per Marcenaro 12, condannato per diffamazione anche il collaboratore Riccardo Arena… «È sempre sgradevole vedere magistrati giudicanti schierarsi regolarmente dalla parte dei magistrati querelanti. Non si capisce quale possa essere l’istanza terza che garantisca ai giornalisti di poter esprimere opinioni». Qui siamo al carcere e senza condizionale… «Nella sentenza c’è persino l’ignominia della carcerazione come se fossimo di fronte a delinquenti abituali».

Sta dicendo che ci vorrebbero maggiori e meno timide reazioni anche da parte del mondo di sinistra?

«Io da uomo di sinistra non posso che essere particolarmente attento alle opinioni e alla libertà di opinione di chi non vota per il mio stesso schieramento politico. No ai due pesi e alle due misure. È necessaria una reazione corale di fronte a una vicenda orribile come questa. Peraltro infastidisce che l’ex presidente della Fnsi, Roberto Natale, attuale portavoce della presidente della Camera, Laura Boldrini, che tante battaglie ha fatto in passato contro il bavaglio si dimentichi di intervenire in questa vicenda scandalosa. Non sento quel coro di proteste al quale abbiamo partecipato in passato e che è particolarmente necessario in questo momento».

"Una pagina nera per la libertà di stampa'' dice Renato Schifani, ex presidente del Senato. "Credo - sempre Schifani - che sia arrivato ormai il momento inderogabile per mettere in campo iniziative parlamentari condivise, in grado di sanare questo vulnus e di eliminare l'arresto per i reati d'opinione''.

Ancora più diretta la portavoce dei deputati del Pdl, Mara Carfagna: "L'idea di punire con il carcere una opinione, sia essa giusta o sbagliata, è incompatibile con uno Stato di diritto. La diffamazione è sì un reato, ma può e deve essere punito - anche severamente - senza ricorrere alle carceri, come si usa nelle dittature. Le condanne alla reclusione per Giorgio Mulè e per Andrea Marcenaro, così come la precedente, dimostrano che è arrivato il momento di mettere in campo iniziative parlamentari condivise per superare l'arresto per i reati d'opinione e, allo stesso tempo, regolamentare gli abusi in maniera severa, ma senza alimentare sproporzioni fra reato commesso e pena comminata".

Presa di posizione anche di un deputato del Pd come Ernesto Carbone: “La libertà di informazione è cartina tornasole dell'agibilità democratica di un Paese. A volte accade che per eccessivo amore di scoop qualche giornalista scriva cose sbagliate, imprecise e diffamanti. Esiste la rettifica a norma di legge. Quando invece si tratta di fatti accertati, dove sta la diffamazione? Al netto di opinioni spesso diverse, al direttore di Panorama Mulè e alla intera redazione va la mia totale solidarietà”. Dello stesso parere anche un altro democratico come Vannino Chiti: "ll carcere per la diffamazione a mezzo stampa è un errore che la democrazia non si può più permettere''.

«In questo paese c'è una pericolosa deriva che strozza la libertà di stampa». Lo afferma il senatore Pd, Stefano Esposito a proposito della condanna, per diffamazione a mezzo stampa, a 8 mesi di carcere per il direttore di Panorama Giorgio Mulè e a un anno di reclusione per Andrea Marcenaro. Osserva Esposito, paladino della battaglia contro i No Tav: «Evidentemente c'è un problema nella legislatura se ci sono tribunali e magistrati che possono condannare giornalisti rispetto ai quali si può avere l'opinione che si vuole addirittura al carcere peraltro senza condizionale. Non si possono usare due pesi e due misure: ci sono giornalisti iscritti all'ordine che inneggiano contro lo Stato rappresentato da poliziotti e operai del cantiere Tav che possono continuare a scrivere liberamente e giornalisti che invece sono condannati al carcere per aver scritto pezzi di commento e di analisi». Conclude: «Non vorrei che la giustizia fosse amministrata a seconda dell'orientamento politico dei giornalisti».

«Non ho letto l'articolo in questione ma mi sembra molto esagerato il carcere per i giornalisti». Lo afferma il leader dei Moderati, alleati del Pd, Giacomo Portas sulla vicenda. Portas definisce la condanna al carcere: «Una follia». Osserva: «In Italia ci sono assassini a piede libero che sono usciti per decorrenza dei termini di carcerazione . Mandare in galera i giornalisti mi sembra una follia».

Parla invece di “condanna incredibile”, l’ex ministro dell’Istruzione Maria Stella Gemini a cui fa eco il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi:  “E’ una condanna che limita gravemente la libertà di espressione nel nostro Paese, tanto più se se pensa che si tratta di un caso purtroppo molto frequente di magistrati che si rivolgono ad altri magistrati perseguendo e condannando giornalisti per manifestazioni di pensiero che in altri Paesi sarebbero assolutamente normali”.

"Ogni volta che un giornalista viene condannato al carcere per le idee espresse tutti noi perdiamo un pezzo di libertà. Una norma che abbiamo invano tentato di cambiare già nella scorsa legislatura, certe barbarie devono scomparire dalla nostra legislazione. Noi dobbiamo tutelare la buona reputazione dei cittadini e dunque chi sbaglia e diffama a mezzo stampa è sacrosanto che paghi ma il carcere non può essere la soluzione: per questo esprimo la mia solidarietà, a di là delle idee espresse, al direttore di Panorama Giorgio Mulè e ad Andrea Marcenaro". Lo dichiara Davide Caparini, responsabile della comunicazione per la Lega Nord.

"In questo momento, tutti quelli che credono al free speech e alla libertà d'espressione dovrebbero mostrare vicinanza a Gorgio Mulè e Andrea Marcenaro. Non  in questione solo il loro caso, ma un valore più grande: la tutela di ogni opinione e la possibilità di esprimerla liberamente", fa sapere Daniele Capezzone, presente della Commissione Finanze della Camera e coordinatore dei dipartimenti Pdl.

“Quanto è avvenuto è sconcertante. E’ in atto un attacco senza precedenti alla libertà di stampa. Esso viene fatto in maniera obliqua. Si tratta di una variante estrema dell'uso politico della giustizia. Mentre quando si parla di intercettazioni, ecco allora che i presunti paladini della libertà di stampa fanno sentire la loro voce, quando ad essere nel mirino è la stampa di centrodestra, ecco che immediatamente piomba il silenzio”, così Fabrizio Cicchitto.

'Il delitto? Aver osato esprimere un parere circa la politicizzazione dei magistrati della procura di Palermo, dimenticando che lo stesso procuratore capo Messineo aveva espresso parole dure sugli schieramenti di carattere ideologico in cui è divisa la procura palermitana. E’ una condanna assurda, ancora”, aggiunge Maurizio Gasparri.

E al direttore di Panorama arriva la solidarietà del capogruppo Pdl alla Camera, Renato Brunetta: “Ci risiamo. Un giornalista scrive un articolo, il direttore lo pubblica, un magistrato querela, un altro magistrato infligge il carcere ai due giornalisti, negando le attenuanti. Non c'è bisogno certo di ergersi a paladini per scandalizzarsi di questo cortocircuito giudiziario. E' davvero grave quanto accaduto al direttore di Panorama, Giorgio Mulè, e al suo giornalista Andrea Marcenaro, condannati, rispettivamente a otto mesi e ad un anno di carcere senza condizionale, per diffamazione a mezzo stampa”. "Condivido dalla prima all'ultima le parole del presidente Renato Brunetta sulla questione della libertà di stampa ed esprimo solidarietà e amicizia a Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro, nella speranza che la questione venga affrontata bene e nel profondo una volta per tutte, non cavalcando l'emergenza, in modo da garantire una informazione totalmente libera e allo stesso tempo impedire abusi e sproporzioni fra presunto reato commesso e pena comminata'', dice Luca d'Alessandro, segretario della commissione Giustizia della Camera.

"Una condanna che, a pochi mesi di distanza, ricorda il ben noto caso del direttore Sallusti. Ancora una volta in una sentenza, infatti, si richiama il reato di diffamazione, sempre in relazione ad articoli ritenuti accusatori nei confronti di un giudice e sempre con la grave previsione del carcere''. fa notare  Deborah Bergamini, deputato del Pdl.

In una nota anche la solidarietà del Cdr di Panorama: "Ci colpisce la condanna a Mulè e Marcenaro (rispettivamente a 8 mesi e 1 anno) a cui viene negata la sospensione condizionale della pena e nei confronti dei quali – se la sentenza dovesse essere confermata nei successivi gradi di giudizio – si potrebbero aprire le porte del carcere. Ancora una volta alcuni giornalisti pagano con una misura intimidatoria, che potrebbe privarli della libertà, per un reato di opinione visto che viene dato atto che nessuna falsità è contenuta nell’articolo incriminato. I fiduciari esprimono piena solidarietà ai colleghi Mulè, Marcenaro e Arena e si appellano alla Federazione Nazionale della Stampa per una presa di  posizione chiara in difesa della libertà di stampa sempre più minacciata dai poteri forti".

Solidarietà, ma non bipartisan, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un coro di voci dal centrodestra, qualche solista dall'altra parte dell'emiciclo. La sentenza shock del tribunale di Milano che ha condannato a un anno di carcere i giornalisti Andrea Marcenaro e Riccardo Arena e a 8 mesi il direttore di Panorama Giorgio Mulè scuote il Palazzo. Ma unisce solo fino a un certo punto le forze che pure governano insieme il Paese. E così, ancora una volta, si deve considerare l'idea che cronisti e inviati possano finire in cella per quello che hanno scritto. Una situazione imbarazzante, già esplosa nei mesi scorsi quando a finire agli arresti domiciliari era stato il direttore del Giornale Alessandro Sallusti. In quell'occasione, sotto la pressione dell'opinione pubblica indignata, deputati e senatori di tutti gli schieramenti avevano provato a confezionare la nuova legge sulla diffamazione, attesa da anni. I parlamentari si erano divisi su questo o quel punto, ma tutti o quasi avevano sostenuto che un giornalista non può andare in prigione per i suoi articoli. E invece no: placata la tempesta si scopre che siamo esattamente al punto di prima. La norma che dovrebbe allinearci agli standard europei è incagliata nei soliti cassetti, ingolfati di disegni di legge. E così un pezzo uscito sul settimanale della Mondadori alla fine del 2009, e intitolato Ridateci Caselli, rischia di costare caro, molto caro a Mulè e Marcenaro cui il giudice di Milano Caterina Interlandi ha negato la sospensione condizionale della pena. Proprio come era capitato a Sallusti, «salvato» solo dal provvidenziale intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che aveva commutato i 14 mesi di detenzione in una pena pecuniaria. L'Italia, anche su questo versante, non fa passi in avanti. E però da Renato Schifani a Maurizio Gasparri, da Vannino Chiti a Ernesto Carbone, sono davvero tante le dichiarazioni pro Panorama. «È una pagina nera per la libertà d'informazione», afferma l'ex presidente del Senato Renato Schifani, mentre Vannino Chiti del Pd esprime ad alta voce il proprio imbarazzo: «Il carcere per la diffamazione a mezzo stampa è un errore che la democrazia non può permettersi». E il suo collega di partito Ernesto Carbone rincara la dose: «La libertà di stampa è la cartina di tornasole dell'agibilità democratica». Renato Brunetta ricostruisce la genesi della vicenda: l'uscita del servizio, una sorta di reportage dentro la procura di Palermo, le sue divisioni, i suoi veleni, le sue faide, e la successiva querela del procuratore Francesco Messineo. «Ci risiamo - dice l'ex ministro azzurro - un giornalista scrive un articolo, il direttore lo pubblica, un magistrato querela e un altro magistrato infligge il carcere ai giornalisti negando le attenuanti. Un cortocircuito giudiziario che scandalizza». E Gabriella Giammanco sottolinea come «nessuna delle grandi firme vibranti si è esposta in difesa della libertà di stampa, pilastro della democrazia. Niente. Se non fosse stato per il Giornale la condanna sarebbe passata sotto silenzio». Stupore, incredulità, disagio: il verdetto di rito ambrosiano suscita un'infinità di commenti. E non si tira indietro neppure Marina Berlusconi, presidente della Mondadori: «La libertà di stampa non può essere chiusa in una prigione. Panorama ha ancora una volta soltanto fatto, e bene, il proprio mestiere. Anche di fronte ad una sentenza che lascia senza parole, continuerà come sempre ad esercitare la sua funzione di attento, acuto e profondamente libero protagonista della vita del Paese». Il punto però è che la futuribile norma è al palo: sfumato l'accordo ad un passo dal traguardo e conclusa la legislatura, la discussione è tornata ai blocchi di partenza. In questo momento ci sono due iniziative in cantiere alla Camera: una proposta di legge targata centrosinistra e già assegnata ad un relatore, ed un'altra, sponsorizzata dal centrodestra. Nulla invece all'orizzonte del Senato. E le penne rischiano ancora la galera, come Sallusti e Giovannino Guareschi, arrestato negli anni Cinquanta. Deborah Bergamini del Pdl annuncia che «segnalerà la preoccupante sentenza al Consiglio d'Europa». Per l'Italia sarà l'ennesima figuraccia.

Il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, ha così commentato a “Panorama” la sentenza dei giudici di Milano che condanna al carcere tre giornalisti di Panorama: «Una vergogna, un’altra vergogna per l’Italia la sentenza di condanna al carcere di Giorgio Mulè, Andrea Marcenaro e Riccardo Arena. Non è una vergogna per la magistratura, che qualche spiegazione dovrebbe pur darla senza rifugiarsi sempre dietro il dovere dei cittadini di rispettare le sentenze. La vergogna è per il Parlamento che si è dimostrato incapace di riformare una normativa che ci è costata e ci costerà sanzioni da parte dell’Europa ed è sempre produttore di molte parole, davanti ad ogni sentenza che prevede il carcere per i giornalisti. Il Parlamento ha dimostrato, quando le forze politiche avevano interessi diretti, di essere capace di deliberare provvedimenti costosi per la comunità anche in una manciata di minuti, approvandoli nella stessa giornata sia alla Camera dei Deputati, sia al Senato della Repubblica. Questa indignazione, dai più recitata davanti ad ogni singolo caso, è un insulto per quanti ogni giorno vengono condizionati da quella pistola alla nuca che è la legge sulla diffamazione che rappresenta il principale attentato alla libertà di informazione. Non tutti hanno la forza e la maturità di Mulè, Marcenaro e Arena. Ci sono migliaia di giornalisti di varie età tenuti per anni sotto il ricatto delle conseguenze di una querela minacciata o presentata e della conseguente richiesta di risarcimento. La politica passi dalle parole di solidarietà che evaporano subito dopo essere state pronunciate ad atti concreti. Modificare quella legge che, tutti a parole definiscono vergognosa, richiede davvero poco tempo. Farlo è un atto di rispetto nei confronti dei cittadini, non dei giornalisti che non reclamano impunità: quando sbagliano hanno il dovere di assumersi, in tanti modi, le loro responsabilità, a cominciare dalle previste sanzioni deontologiche».

IL CASO BRACCINI SQUERI. Certo è, però, che nessuno parla dei “senza voce”. La Corte di Cassazione di Roma il 7 maggio 2013 condanna a 8 anni Braccini Squeri, scrittore di Parma, reo di aver diffamato con documenti alla mano nel 2002 tutta la classe dirigente di Parma per il crack Parmalat.

Prestiti e intrallazzi nel libro di Braccini Squeri presentato da “La Repubblica”. In un volume i documenti che attestano i rapporti dei magistrati Panebianco, Brancaccio e Padula con il mondo bancario locale, strettamente legato a Parmalat. Il crac Parmalat poteva essere scongiurato un decennio prima del default del 2003? Sì, se le inchieste non fossero state viziate da conflitti d’interesse di certi magistrati della Procura e del tribunale di Parma, legati alle banche locali e quindi al gruppo di Collecchio grazie a prestiti e agevolazioni finanziarie. E’ quanto sostiene Giancarlo Braccini Squeri nella prima parte del libro “Crack Parmalat – corruzione giudiziaria”, una raccolta di documenti bancari e atti di procedimenti disciplinari provenienti soprattutto dal Consiglio superiore della magistratura. Reperiti in due anni di lavoro, sono ora disponibili in un volume del costo di 30 euro. Giancarlo Braccini, lo “ 007 parmigiano molto noto negli anni Novanta, fu l’animatore del “Giornale di Parma”, il settimanale degli scandali chiuso all’inizio dello scorso decennio. Venne coinvolto in vicende giudiziarie per i suoi “scoop” aggressivi e finì in carcere per estorsione proprio su richiesta di uno dei magistrati attaccati nel suo libro, Francesco Brancaccio. Ora è tornato, gira la città con la sua valigetta di pelle piena di libri per piazzarli personalmente, in attesa di una proposta editoriale.

Tutto inizia il 2 dicembre 1993, spiega Braccini Squeri, quando quattro senatori del Pds (prima firmataria Giovanna Senesi) presentano un’interpellanza parlamentare per denunciare l’esposizione di Parmalat e il controllo del ceto bancario locale da parte di Calisto Tanzi. Nel mirino Cariparma e Banca Monte, grandi finanziatrici del gruppo di Collecchio nonostante il conflitto d’interessi dei rispettivi presidenti: Luciano Silingardi amico e commercialista di Tanzi, Franco Gorreri direttore finanziario di Parmalat spa. Un riassunto dell’interrogazione finisce sulla scrivania dell’allora procuratore capo di Parma, Giovanni Panebianco, che l’affida al sostituto Francesco Saverio Brancaccio. Viene aperto un fascicolo sulle esposizioni del gruppo Parmalat, la procura chiede a Cariparma e a Banca Monte i documenti sui prestiti erogati e sugli sconfinamenti delle società del gruppo. Una perizia sullo stato debitorio affidata al ragionier Mario Valla evidenzia, il 4 aprile 1997, che “la situazione debitoria verso le banche sia di per sé eccessiva e caratterizzata da incrementi sproporzionati”. Parmalat è già in una spirale critica che va verso il fallimento. Il pm però non ravvisa elementi di reato e chiede l’archiviazione del procedimento, disposta dal gip Adriano Padula 27 giugno 1997.

E qui, spiega Braccini Squeri, entra in gioco quella che lui definisce “corruzione legalizzata”. Perché il pm Brancaccio, nel corso delle indagini e negli anni successivi, avrebbe ottenuto da Cariparma prestiti per circa 465 milioni di lire, tra cui un fido di 300 milioni rinnovato di anno in anno. Si chiudono senza condanne anche altre due inchieste per reati finanziari a carico di Tonna e Tanzi (assolti) e a carico di Franco Gorreri (indagine archiviata), trasferite alla procura di Parma rispettivamente da Firenze e da Milano. Il libro riporta anche documenti che attestano l’erogazione di un mutuo di 350 milioni di lire da Cariparma alla figlia di Panebianco e di un mutuo chirografo da 140mila euro da Banca Monte a Brancaccio. Nel settembre 1997 viene ideata una convenzione riservata ai magistrati del tribunale di Parma (il libro pubblica la lista dei nominativi degli aderenti). In seguito a un’ispezione ministeriale presso la Procura di Parma nel 2005 vengono riscontrati debiti per oltre 12mila euro del giudice Padula con Parmatour, a cui il magistrato si era rivolto fin dal 2001 per effettuare numerosi soggiorni e anche per trasferimenti con autista privato (servizio “limousine”). Sottoposto a sanzione disciplinare del Csm nel 2006, Padula sarà trasferito d’ufficio, così come era stato disposto per Panebianco nel 2004, anche per i suoi rapporti con Silingardi.

Il libro si conclude citando una recente sentenza della Corte europea di Strasburgo del 24 novembre 2011, che condanna lo Stato al risarcimento dei danni in caso di dolo o colpa grave degli organi giudiziari nell’esercizio delle proprie funzioni. Visto il comportamento dei magistrati citati, si chiede Braccini Squeri, i risparmiatori truffati dal crac Parmalat potrebbero chiedere il risarcimento allo Stato italiano?

RECORD DI QUERELE PER I MAGISTRATI.

Record di querele per i magistrati. Quella dei giudici si conferma la categoria più permalosa del nostro Paese, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Un conto è farsi passare le carte da un magistrato, e in questo campo ci sono colleghi più esperti di me. Un altro è usare le carte per criticare l’operato di un magistrato. Compulsarle, analizzarle ed esercitare senso critico. Un azzardo che costa caro. Lo sanno bene i colleghi Andrea Marcenaro e Riccardo Arena condannati a un anno di carcere per diffamazione a mezzo stampa. Al direttore di Panorama Giorgio Mulé sono toccati otto mesi senza condizionale per omesso controllo. Ma si tratta davvero di casi isolati? L’ultima ricerca in materia è stata condotta dal giornalista Roberto Martinelli. Con un lavoro certosino Martinelli ha passato in rassegna l’ampia “letteratura” di citazioni civili e querele presentate contro quotidiani e settimanali dal 1997 al 2004. I risultati consentono di incoronare i magistrati come la categoria più permalosa d’Italia. Un vero record nazionale. Su 657 cause civili, 133 provengono dai magistrati, che si aggiudicano pure la maggioranza di citazioni in sede penale (91 su un totale di 402 casi). Non c’è che dire: le toghe non apprezzano la critica. O meglio: se prometti loro un trattamento di favore, taluni magistrati possono darti di tutto e in anticipo. Se invece le carte vuoi usarle per muovere una timida critica, ecco che arriva la citazione in giudizio. Alla sbarra, davanti ad un altro magistrato – medesima categoria – che dovrà decidere se dare ragione al collega (magari lo stesso che in un organo del Csm potrebbe decidere sul suo trasferimento o sulla sua promozione) e un giornalista, che chi lo rivede più. Martinelli pare alquanto disincantato. “La professione del giornalista è cambiata. Un tempo eravamo noi a rubare le carte. Oggi il pm te le passa e decide lui che cosa devi pubblicare”. C’era anche un tempo in cui l’Ordine dei Giornalisti si occupava di questo tema con maggiore sollecitudine di oggi. “Ricordo un convegno del ’99 intitolato «Citazioni e miliardi», in cui ci rendemmo conto che quello della diffamazione è diventato un mercato indegno in un Paese civile. I giornalisti hanno certamente le loro colpe, ma l’intimidazione che deriva da certe azioni giudiziarie strumentali fa sì che quel che resta della libertà di stampa venga sepolto per sempre”. Vale l’assioma magistrato-non-morde-magistrato. “Nel 2001 l’ex presidente della Consulta Vincenzo Caianiello propose di affidare la decisione sul contenzioso tra magistrati e giornalisti ad un organo esterno all’ordine giudiziario. La nostra Costituzione però vieta l’istituzione di giudici speciali. Per garantire maggiore trasparenza si potrebbe allora creare una giuria composta da magistrati togati insieme a semplici cittadini in rappresentanza del popolo”. C’è anche la questione non meno spinosa dell’entità dei risarcimenti. “In proposito Caianiello propose di versare all’erario le somme di denaro dovute da giornalisti ed editori a seguito di citazioni da parte dei magistrati. L’ipotesi non fece breccia tra i magistrati”. Eppure una sua logica ce l’ha dal momento che in Italia, quando il magistrato sbaglia, a pagare è lo Stato. Ma la sacralizzazione di una categoria procede per fasi successive. Viene dapprima codificata una sostanziale irresponsabilità (professionale, civile, disciplinare). Segue la decretazione della inviolabilità della sede: davanti alla Camera dei deputati potete issare qualunque bandiera, ma davanti ad un tribunale  è vietato sostare; manifestare è bestemmia. In ultimo, eccovi la punizione esemplare verso i soggetti “devianti”, che vanno dunque criminalizzati. Il gioco è fatto.

MAI DIRE MAFIA, MAFIOSO E MAFIOSITA’.

Indagato presidente del TAR Lecce solo per abuso d’ufficio e solo lui. Antonio Cavallari, presidente del Tar di Lecce indagato per abuso d’ufficio per aver favorito un’azienda in odor di mafia difesa dal noto amministrativista leccese, avv. Pietro Quinto.

Tutta la stampa ne parla.

Un’azienda in odore di mafia. E un discusso decreto del Tar. Sono questi per “Il Quotidiano di Puglia” i due elementi alla base di un’indagine su cui la Procura, comprensibilmente, vuole mantenere il più stretto riserbo. Antonio Cavallari, presidente del Tribunale amministrativo regionale di Lecce, sarebbe indagato per abuso di ufficio, proprio in relazione a un suo provvedimento adottato nel marzo 2012. Sono queste le uniche notizie che trapelano dal Palazzo di giustizia. L’inchiesta sarebbe seguita personalmente dal procuratore capo di Lecce Cataldo Motta. La vicenda riguarderebbe un appalto per il servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano, vinto dalla Cogea. L’aggiudicazione provvisoria, però, era stata revocata subito dopo dall’amministrazione casaranese sulla scorta di una informativa antimafia, ossia un documento in cui si mette in guardia dalle possibili infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico e nell’organico di un’azienda. Nel documento, nello specifico, si ipotizzava un presunto legame della Cogea con Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano già condannato per traffico illecito di rifiuti, e legato a doppio filo con il boss ergastolano Giuseppe Scarlino, avendone sposato la figlia. A quanto pare, nell’informativa si faceva riferimento a una particolare vicinanza tra la Cogea e la Geotec Ambiente: entrambe le società avrebbero lo stesso direttore tecnico. E visto che la Geotec era già stata colpita da un’interdittiva antimafia perché aveva tra i suoi dipendenti proprio Gianluigi Rosafio, lo stesso provvedimento è stato preso nei confronti dell’altra società, neo aggiudicataria dell’appalto. I tempi sono stretti: il 2 marzo 2012 il Comune di Casarano revoca l’aggiudicazione; la Cogea fa ricorso al Tar e il giorno dopo il presidente Cavallari emette un provvedimento cautelare con cui accoglie l’istanza presentata dall’azienda e quindi sospende la revoca del Comune. Sarebbe questo il passaggio finito sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori. I carabinieri, peraltro, su ordine della Procura di Lecce, hanno effettuato un veloce blitz negli uffici del Tar, in via Rubichi, a quanto pare sequestrando alcuni documenti e anche un computer. A cosa porterà l’indagine e che tipo di illecito punta eventualmente a scoprire, rimane ancora un mistero. Che verrà svelato solo quando la Procura riterrà di poter uscire allo scoperto.

Per il resto ognuno si faccia una propria idea secondo i fatti raccontati ed avvenuti.

Secondo Giangranco Lattante de “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Un blitz riservatissimo. Un fascicolo blindato, chiuso a chiave, nella stanza del procuratore Cataldo Motta che gestisce il caso in prima persona. La faccenda è delicata. Riguarda un indagato eccellente: il presidente dal Tar di Lecce Antonio Cavallari. Abuso d’ufficio è l’ipotesi di reato. Tutto il resto è top secret. La Procura ha acceso un faro su una decisione-lampo assunta dal presidente Cavallari con un decreto cautelare. Una decisione che si innesta nell’ambito di una misura interdittiva. Cosa si voglia accertare e perché sia stata avviata l’inchiesta è materia ammantata dal massimo riserbo. Ma quando i carabinieri, su disposizione del procuratore, si sono presentati negli uffici del Tar hanno acquisito carte, fascicoli e documentazione relativa proprio al decreto cautelare che sospendeva l’efficacia della revoca di un appalto che era stato bloccato da un’interdittiva antimafia. Misure di questo tipo hanno l’obiettivo di evitare infiltrazioni della malavita nel tessuto produttivo. La visita dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale risale ai primi giorni del marzo 2012. All’attenzione della Procura sarebbe finito il decreto cautelare emesso il 3 marzo (era un sabato) con il quale il presidente Antonio Cavallari ha accolto l’istanza presentata dalla società Cogea, la srl che si era visto revocare l’aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano sulla scorta di un’informativa antimafia per via di presunti collegamenti con Gianluigi Rosafio, l’imprenditore di Taurisano condannato per traffico illecito di rifiuti e marito della figlia del boss ergastolano Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita. La determinazione del responsabile del settore servizi tecnici del comune di Casarano, che aveva revocato l’aggiudicazione dell’appalto alla Cogea, era stata adottata il 2 marzo. Il giorno dopo il decreto cautelare del presidente del Tar Cavallari veniva depositato in segreteria. Più precisamente, l’interdittiva antimafia traeva origine nel fatto che il direttore tecnico di Cogea fosse lo stesso di «Geotec Ambiente», società a sua volta colpita da interdittiva per la presenza, fra i dipendenti, di Gianluigi Rosafio. L’unica volta che l’indagine è uscita allo scoperto è stato quando i carabinieri sono andati negli uffici del Tar, in via Rubichi a due passi da piazza Sant’Oronzo, per «prendere» le carte. L’episodio, peraltro, era stato vagamente richiamato dallo stesso presidente Antonio Cavallari in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale amministrativo regionale. Erano trascorsi appena sette giorni dalla decisione e dal blitz. Un’uscita, quella del presidente del Tar, che era stata sepolta da una montagna di smentite. E il Procuratore era al lavoro, a testa bassa.

“Cavallari indagato? E’ una cosa che non sta nè in cielo né in terra”. L’Avvocato Pietro Quinto a “Trnews” non nasconde la propria perplessità dopo la tegola giudiziaria che si è abbattuta solo sul Presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, indagato per abuso d’ufficio. Tutto per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. I fatti risalgono allo scorso marzo 2012: la Cogea vince l’appalto, ma l’aggiudicazione provvisoria viene revocata dalla locale amministrazione comunale retta dal Commissario prefettizio Ermina Ocello, sulla scorta di una segnalazione. Nel documento si ipotizzerebbe un presunto collegamento fra l’azienda in questione e Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano, già condannato per traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa, genero di Giuseppe Scarlino, detto "Pippi Calamita", boss del sud Salento condannato all’ergastolo. L’azienda non ci sta e assistita dall’Avvocato Pietro Quinto fa ricorso al Tar, chiedendo un decreto d’urgenza. “I tempi sono stretti – ricorda Quinto – l’informativa arriva alla vigilia dell’avvio del servizio e l’azienda che teme un danno economico, chiede un decreto d’urgenza”. Ed ecco che in assenza del giudice della terza sezione, la situazione la prende in mano il Presidente in persona, Cavallari appunto, che emette un provvedimento con cui accogliendo l’istanza presentata dall’azienda di fatto sospende la revoca del Comune di Casarano e dà il via libera al servizio che partirà di lì a poche ore. “E’ stato fatto tutto alla luce del sole – sottolinea ancora l’Avv. Quinto – impossibile anche lontanamente parlare di abuso d’ufficio”. Ma intanto i carabinieri, al cui vaglio ci sono documenti e pc sequestrati dall’ufficio di Cavallari, vogliono andare a fondo. In effetti tutta la vicenda si è consumata in sole 48 ore. C’è però un altro risvolto. Dopo la pronuncia di Cavallari, la Prefettura emise una vera e propria interdittiva nei confronti della Cogea, interdittiva recepita dal Commissario Ocello che stilò un nuovo atto di revoca del bando. Intanto la Cassazione aveva annullato con rinvio l’aggravante mafiosa nei confronti di Rosafio, chiedendo la celebrazione di un nuovo processo. Ora si attende la decisione del Consiglio di Stato che si pronuncerà solo dopo decisione del giudice penale.

Ahhh...Quante volte io e tutti gli avvocati non principi del foro che bazzicano le aule del Tar di Lecce avremmo desiderato un atto di sospensiva di sabato ed in 24 ore!!!!!!!!

PARLIAMO DEI GIUDICI AMMINISTRATIVI.

MAGISTRATI DEL TAR: TUTTO UN ALTRO MONDO

Tar, magistrati con privilegi, scrive Ulisse Spinnato Vega su “L’Espresso”.

Nei Tribunali regionali amministrativi e del Consiglio di Stato poche centinaia di togati cumulano cariche e consulenze, dal governo ai ministeri. Un emendamento al ddl anticorruzione limitava il tempo massimo per i 'fuori ruolo'. Ma subito è arrivata una lunga lista di deroghe. Una piccola casta tra le caste, una cerchia di grand commis che occupa posti da ministro e da sottosegretario, qualche poltrona nelle authority o qualche ruolo chiave nei dicasteri come il capo di gabinetto o degli uffici legislativi. E che cumula incarichi a quattro o cinque zeri tra consulenze, arbitrati, docenze e presidenze di commissioni di concorso. Sono i privilegiati tra i magistrati amministrativi, le toghe del Tar e del Consiglio di Stato. In totale la categoria raccoglie circa 400 persone, di cui 320 nei Tribunali regionali e un'ottantina all'organo di appello di Palazzo Spada. Un numero esiguo se si considerano i 65mila ricorsi l'anno cui devono far fronte. E la svolta non potrà certo arrivare dal concorso bandito in estate che dovrebbe rimpinguare le loro fila di 30 unità. Una ristretta cerchia tra essi ha quasi dimenticato cosa significhi esercitare l'attività giurisdizionale: la Pubblica Amministrazione sembra non poter fare a meno dei loro servigi e li ha cooptati, a volte sine die, per ruoli apicali di governo, in Parlamento e negli uffici dei massimi organi costituzionali. Tra loro figurano lo stesso ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, che però sono sospesi dal ruolo e dunque per ora non percepiscono lo stipendio di giudici amministrativi. E poi il potente Pasquale De Lise, ex presidente del Consiglio di Stato, che è rimasto impigliato nelle inchieste sulla «cricca» del G8 e poi ha tentato invano di occupare una poltrona nella nascente authority dei Trasporti. «Il problema non sono tanto i fuori ruolo in senso stretto, che per i Tar possono arrivare al massimo a 20 e saranno una decina per il Consiglio di Stato - ragiona Giampiero Lo Presti, presidente dell'Anma, il sindacato di categoria - da rivedere sono invece gli incarichi aggiuntivi, per esempio nei ministeri, soprattutto quando finiscono per assorbire troppo tempo all'attività giurisdizionale». I magistrati amministrativi con doppi o tripli ruoli sono tra 100 e 200. Lo Presti tuttavia non se la prende con «le docenze presso università o scuole di specializzazione, se contenute entro limiti di ragionevolezza e senza impatto sull'esercizio della giurisdizione», ma fa notare che «Esiste un gruppo ristretto di colleghi che svolgono mansioni e consulenze impegnative in modo ripetuto. E troppo spesso si dice poi che tutti i giudici amministrativi hanno doppi e tripli incarichi, mentre in realtà la maggioranza fa solo attività professionale in senso stretto». Una stima precisa e globale degli introiti extra-funzione per i magistrati amministrativi è difficile da fare, ma sicuramente siamo nell'ordine di qualche milione di euro. Giusto per rimanere agli incarichi autorizzati e conferiti nel primo semestre 2012 dal loro organo di autogoverno (Consiglio di presidenza), spiccano i 50mila euro lordi annui al consigliere Tar Roberto Caponigro per le sue consulenze al ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca o i 55mila di Claudio Zucchelli che, oltre a essere presidente di sezione a Palazzo Spada, viene pagato dalla presidenza del Consiglio in qualità di capo dipartimento degli Affari giuridici e amministrativi. Non va male nemmeno alla consigliera Tar Giulia Ferrari, che intasca 43mila euro per il ruolo di consulente giuridico dello stesso Patroni Griffi. Michelangelo Francavilla ne prende invece 45mila anche quest'anno in qualità di esperto al ministero delle Infrastrutture e per la stessa cifra Lucia Gizzi presta la propria sapienza giuridica al dicastero dell'Agricoltura. I ruoli nel governo sono quelli che garantiscono gli emolumenti più ricchi. Con le docenze, invece, ci si aggira tra i 5 e i 10mila euro. Mentre gli impegni nelle commissioni esaminatrici fruttano in media solo qualche migliaio di euro. Poi, però, ci sono succose consulenze come quella al Cnel che vale 18.500 euro per Diego Sabatino, mentre sono pochissimi gli incarichi gratuiti. Inoltre qualche giudice ne cumula più d'uno e così, ad esempio, il consigliere di Stato Sergio De Felice sfiora i 36mila euro annui con tre incarichi. Al collega Vincenzo Neri ne bastano invece due per racimolare 45mila euro. In totale, calcola l'Espresso, l'organo di autogoverno dei giudici amministrativi ha conferito e autorizzato, solamente da gennaio a giugno, 117 incarichi aggiuntivi a 93 toghe per un totale emolumenti pari a 1,2 milioni di euro. Se si tratta di impegni non gravosi, allora i compensi sembrano alquanto alti. Altrimenti, vuol dire che si sottraggono troppe energie al servizio giustizia. E' chiaro che spesso lo Stato non può fare a meno di professionalità così preziose, ma esiste il nodo delle risorse economiche spese e di quelle umane sottratte ai tribunali. Oltre a un problema di procedure, visto che consulenze e incarichi sono spesso affidati per chiamata diretta e discrezionale, in base a rapporti fiduciari e senza concorsi. Lo Presti chiarisce meglio il punto riferendosi in particolare alle collocazioni apicali: «Esiste un Dpr del 1993 che regola il conferimento: l'amministrazione che necessita di un magistrato amministrativo dovrebbe fare una richiesta non nominativa e poi l'organo di autogoverno dovrebbe designarlo con criteri di rotazione e temporaneità». Ne va infatti dell'efficienza della giurisdizione e soprattutto dell'immagine di terzietà del giudice, che tra l'altro può risultare compromessa se non si esce fuori ruolo. Invece le deroghe alla norma abbondano e soprattutto negli ultimi 10-15 anni le chiamate dirette hanno creato una super casta di bramini che popolano ministeri, Corte costituzionale, Parlamento o presidenza della Repubblica. Senza considerare che incarichi meno impegnativi come le docenze non prevedono nemmeno l'autorizzazione, ma una semplice presa d'atto. Il governo Monti ha provato a mettere un freno al cumulo di compensi con la manovra «salva-Italia», stabilendo che gli introiti aggiuntivi possono far lievitare il trattamento complessivo al massimo di un 25%. Ma la parolina magica è sempre la stessa: deroga. Nel frattempo il Senato, che ha appena approvato il ddl anticorruzione, ha smontato l'emendamento «Giachetti» che limitava a cinque anni più cinque (con pausa in mezzo di altri cinque) il lasso di tempo massimo per i fuori ruolo. Il ministro della Giustizia Paola Severino ha stabilito la soglia (più morbida) dei 10 anni consecutivi per gli incarichi in corso alla data di entrata in vigore della legge. Ed è stata stilata una lunga lista di deroghe, appunto, che mantiene in piedi i privilegi dei mandarini della giustizia amministrativa impegnati al governo, in «cariche elettive, anche presso gli organi di autogoverno», e dei «componenti delle corti internazionali comunque denominate», recita il maxiemendamento votato a Palazzo Madama. Resta dunque l'obbligo del fuori ruolo per i magistrati che ricoprono funzioni apicali. E c'è inoltre una delega al governo che entro quattro mesi dovrà individuare le ulteriori funzioni da svolgere sempre fuori ruolo. Lo Presti chiosa: «Il ddl anticorruzione? Bene l'obbligatorietà del fuori ruolo e bene il limite temporale». E sulle deroghe? «Il primo problema sono quelle che mancano? “chiude il presidente Anma? “Non si può pensare che il giudice vada fuori ruolo per una docenza o per un posto in una commissione di concorso. Significherebbe svuotare i tribunali e paralizzare il servizio giustizia».

C'è un posto, in Italia, dove i dipendenti pubblici possono aumentarsi gli stipendi da soli. Di 3 mila, 4 mila euro al mese. Così racconta l'ottima inchiesta di Emiliano Fittipaldi su "L'Espresso" ripresa da "Dagospia" e "Non sprecare". Sembra una barzelletta, ma basta fare un salto a Palazzo Spada, a Roma, sede del Consiglio di Stato. "L'Espresso" ha letto i resoconti ufficiali di alcune riunioni, e ha scoperto che la mattina dell'15 aprile 2011, mentre la Banca d'Italia diffondeva nuovi drammatici dati nazionali su occupazione e recessione economica, i rappresentanti dei magistrati del Tar e del Consiglio di Stato si sono (auto) approvati nuove e ricche indennità. Già. I membri del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa non hanno avuto nessun dubbio: non solo gli incarichi esterni, ma anche le meno conosciute cariche interne vanno pagate come si conviene. Con premi che vanno dai 20 ai 50 mila euro l'anno. Soldi, ovviamente, da aggiungere al salario di base, che - dopo pochi anni di gavetta - può superare in media i 130 mila euro lordi. Nessuno si è opposto, naturalmente, e la decisione è stata presa all'unanimità. Anche perché è difficile immaginare qualcuno che voti "no" a un regolamento che ti consente di guadagnare più di prima: tra i tanti ruoli che godranno dei nuovi compensi, i componenti del Consiglio di presidenza sono quelli che si sono assegnati l'indennità maggiore. La casta della giustizia amministrativa una ne pensa e cento ne fa. Finiti in prima pagina a causa degli scandali sulle varie cricche, recordmen degli incarichi esterni a cinque zeri, potenti consulenti di ministri e politici ed esperti del "fuori ruolo" (pratica che consente di accumulare doppi stipendi, come fa il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà), i magistrati amministrativi hanno capito che la crisi rischiava di colpire il loro tenore di vita, e sono corsi ai ripari. Aumentando, talvolta anche del 200-300 per cento, gli emolumenti che competono a chi è investito di cariche interne. Andiamo con ordine. Fino a qualche mese fa i componenti degli organi di autogoverno (il Consiglio di presidenza guidato da Pasquale De Lise è composto da 15 componenti effettivi, più 4 magistrati "supplenti") venivano retribuiti, per l'incarico svolto, con gettoni di presenza. Ora tutti, a prescindere dall'effettiva partecipazione ai lavori, prenderanno 50 mila euro l'anno tondi tondi. Non solo: il trattamento di missione per i membri che non vivono a Roma non è stato cancellato: per loro ogni viaggio è rimborsato con un bonus di circa 300 euro. Alla fine della fiera, per le nuove indennità del solo Consiglio si spenderanno 960 mila euro l'anno. A questi vanno aggiunti i 50 mila che vanno al Segretario generale della giustizia amministrativa. Anche lui appartiene alla prima fascia, quella che gode del trattamento economico migliore. Ma anche gli incarichi di seconda fascia sono stati premiati con un bonus di tutto rispetto: 40 mila euro l'anno oltre lo stipendio. Tra loro, Anna Leoni del Consiglio di Stato e Giampiero Lo Presti del Tar, i responsabili del "Servizio centrale per l'informatica e le tecnologie". "Prima prendevano poco meno di 15 mila euro", chiosa una fonte al Tar che chiede l'anonimato: "Facendo due conti, l'aumento è quasi del 300 per cento, un incremento che copre abbondantemente il rialzo dell'inflazione degli ultimi decenni". Lo Presti è da poco diventato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi, uno dei sindacati che ha chiesto di rivedere gli aumenti, proponendo un piccolo taglio dei compensi appena approvati: per ora, la richiesta non è stata messa all'ordine del giorno. I 40 mila euro in più li prendono anche i tre segretari delegati per il Consiglio di Stato, per i Tar e il Consiglio di presidenza, ruoli che hanno quasi raddoppiato il loro compenso: oggi i fortunati sono Vito Carella, Francesco Riccio e Mariangela Caminiti. Figure fiduciarie, che non vengono nominate con selezioni o interpelli, ma direttamente dal Consiglio di presidenza. "Un altro paradosso", chiosa il magistrato, "è che per tutti coloro che hanno incarichi interni è prevista l'esenzione parziale dal lavoro ordinario. Molti di questi, però, invece di concentrarsi sul delicato ruolo che devono svolgere, accumulano una sfilza di incarichi esterni". Quindi delle due l'una: o fanno poco per meritarsi le ricche indennità e hanno tempo da perdere, oppure dedicano poco impegno ad altre amministrazioni pubbliche che li pagano generosamente. Riccio, per esempio, fino a pochi mesi fa prendeva 3 mila euro al mese dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, mentre Carella quest'anno è stato presidente di una commissione di un concorso universitario e fino al 2013 sarà impegnato a presiedere l'Ufficio del Garante del Contribuente per la Regione Puglia. Anche Umberto Maiello, pur prendendo 50 mila euro come membro del Consiglio di presidenza, non ha voluto rinunciare al rinnovo della consulenza giuridica all'Agcom (che gira al magistrato del Tar altri 35 mila euro lordi l'anno), mentre il collega Marzio Branca ha il suo daffare come esperto alla segreteria della presidenza della Repubblica. In seconda fascia, quelli che vantano l'extra da 40 mila euro l'anno, ci sono pure i "magistrati addetti a tempo pieno all'Ufficio studi, massimario e formazione", come si legge nei verbali. Nessuno sapeva che Tar e Consiglio di Stato avessero creato un ufficio di questo tipo. In realtà, esisteva da qualche anno, ma con caratteristiche diverse e rimborsi ben più bassi. Dopo una sola riunione l'ufficio smise di funzionare. De Lise, invece, ha deciso di rilanciarlo: così il Consiglio nel marzo 2010 ha istituito quello nuovo, e nel marzo 2011 ha nominato i suoi 12 membri. Un numero sproporzionato per un organismo inutile e pletorico, sostengono i maligni. Di sicuro, l'ufficio costa un sacco di soldi: ai sei magistrati addetti a tempo pieno va un'indennità di 40 mila euro, ai sei a tempo parziale altri 20 mila a testa, denaro a cui aggiungere 80 mila destinati ai due docenti universitari che compongono il neonato "Comitato di indirizzo scientifico e organizzativo": in tutto la spesa supera i 440 mila euro. "L'importo dei compensi", sottolinea un recente decreto del 23 maggio 2011, "è rivalutato ogni tre anni in base al tasso d'inflazione registrato dall'Istat". Ci mancherebbe. I più fortunati possono guadagnare bonus da capogiro: fino a 240 mila euro in più, visto che l'incarico dura tre anni e il mandato è pure rinnovabile. Una curiosità: i compensi sono stati decisi dopo la nomina dei 12 magistrati, una cosa mai vista prima. Nella pattuglia è entrato alla fine anche Carmine Volpe, celebre nell'ambiente perché, nonostante abbia chiesto l'invalidità di servizio per un'ernia discale causata a suo dire dal trasporto di alcuni fascicoli, riesce a correre maratone con tempi di tutto rispetto: "Finora", aggiunge la fonte, "il nuovo ufficio ha organizzato solo un corso di formazione durato un paio di giorni. Ci si aspettava qualcosa di più". Gli incarichi di terza fascia valgono 20 mila euro l'anno. Un'indennità che prendono i magistrati addetti agli uffici del Segretariato generale, della segreteria del Consiglio di presidenza, del servizio per l'informatica. Tra loro c'è Claudia Lattanzi, sorella dell'avvocato del lobbista Luigi Bisignani, incaricata dei disciplinari interni e di altri ricorsi giudiziari. Alla fine, dunque, sono decine i magistrati amministrativi che hanno visto accresciute le loro entrare grazie alle nuove regole, mentre nessuna norma è ancora intervenuta per bloccare lo scandalo dei doppi incarichi e degli scatti automatici di carriera (persino il ministro Franco Frattini, che è consigliere di Stato fuori ruolo, nonostante da decenni non entri a Palazzo Spada, nel 2009 è stato promosso presidente di una sezione). "La Casta dei magistrati amministrativi è piccola ma potente", ripete l'anonimo che ben conosce i privilegi dei colleghi. Da poco, ricorda, sono stati approvati i nuovi incarichi esterni. Per il 2011 c'è di tutto di più: se Anna Corrado del Tar Calabria e il collega del Lazio Roberto Politi lavoreranno alla segreteria tecnica per la "Protezione della natura" del ministero dell'Ambiente per 25 mila euro l'anno (impegno previsto: un giorno a settimana), Roberto Proietti, oltre a vari incarichi per collegi, commissioni e comitati di ogni tipo, ha ottenuto 5 mila euro per "il reperimento ed esame della giurisprudenza relativa alle competenze dell'architetto junior italiano, con relativo commento". Rosanna De Nictolis ha invece guadagnato 45 mila euro per tre mesi di lavoro al ministero dei Trasporti, mentre per 35 mila euro Michele Buonauro va a fare l'esperto all'Agcom due giorni alla settimana. "Se qualcuno non è d'accordo o se pensa che qualche incarico sia ingiustificato può sempre fare ricorso", chiosano da Palazzo Spada. A chi? Ma al Tar, naturalmente. Dove sono finiti anche i ricorsi dei dipendenti pubblici che non hanno gradito il taglio imposto dal governo sugli stipendi superiori ai 90 mila euro l'anno. Tra questi ci sono anche quelli dei magistrati Tar, che hanno presentato ricorso davanti a se stessi.

Ma conosciamoli bene questi magistrati che decidono sui concorsi truccati e sulla gestione della cosa pubblica da parte della Pubblica Amministrazione.

Il resoconto del giudice Alessio Liberati su “Il Fatto quotidiano”.

1. Come si sceglie il giudice?

2. Fermate quel concorso al Tar: Il Concorso delle mogli.

3. I segreti dei magistrati.

4. I segreti dei giudici amministrativi.

5. I troppi scandali del Consiglio di Stato.

6. La lentezza di noi giudici amministrativi.

7. Lo scandalo delle missioni dei giudici amministrativi.

Il caso Ruby, così come tutti i processi a carico di politici, ha messo in evidenza quanto possa essere importante e delicata la scelta del Magistrato che si deve occupare di uno specifico caso. Una intera parte politica, infatti, ha tacciato una parte della magistratura di essere politicizzata e sostanzialmente a disposizione della sinistra (accuse gravissime, per le quali non mi stancherò mai di chiedere i nomi e le prove a chi le formula). È quindi logica conseguenza che, per quei politici, non sia desiderabile essere giudicati da “quei” magistrati. Ma come funziona l’assegnazione delle cause? Il sistema è sostanzialmente automatico, proprio per assicurare la imparzialità e la terzietà del giudice. Insomma, si è voluto evitare che attraverso meccanismi poco chiari il capo dell’ufficio o gli imputati potessero “scegliersi” il proprio giudice. Un meccanismo di garanzia e trasparenza che lascia ben poco spazio alle accuse che i politici periodicamente ci propinano. Ma è così in ogni giurisdizione? In realtà no. I giudici del Tar e del Consiglio di Stato, per esempio, hanno una grande libertà nel determinare chi deciderà una causa. In teoria esiste un criterio (estrazione a sorte), già di per sé non del tutto garantista, ma tale criterio viene sovente disatteso, o “interpretato”. Di fatto, il presidente di un Tar o di una sezione interna di Tar o del Consiglio di Stato può scegliere di assegnare ad uno specifico giudice un determinato fascicolo. Un esempio? Il presidente del Tar Lombardia, recentemente dimessosi a seguito delle indagini sulla c.d. “cricca”, si è “autoassegnato” un fascicolo relativo al c.d. concorso delle mogli (il concorso al Tar – oggetto di una recente interrogazione parlamentare – presieduto dal dott. De Lise e che ha visto vincitrici le mogli di Salvatore Mezzacapo e Vincenzo Fortunato, membri dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa che ha nominato quella stessa commissione di concorso e che, nello stesso periodo, ha nominato De Lise presidente aggiunto del Consiglio di Stato, con un provvedimento che ha suscitato molte polemiche). Il fascicolo riguardava il fratello di Fabio Mattei, magistrato amministrativo ed attuale membro dell’organo di autogoverno della Giustizia Amministrativa, e, nonostante vi fosse una palese incompetenza territoriale (il concorso al Tar non può che essere impugnato innanzi al Tar Lazio, essendo un concorso gestito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri), il presidente del Tar incompetente non solo ha giudicato sulla istanza cautelare, ma ha addirittura deciso il ricorso con una “sentenza breve”, procedura accelerata che consente di definire subito la controversia anche nel merito. La sentenza di accoglimento è stata poco dopo censurata dal Consiglio di Stato. Fabio Mattei, invece, era presente, in quello stesso periodo, alla festa di compleanno per i settanta anni del presidente di quel Tar, riservata a pochi amici. Un meccanismo di assegnazione automatica non avrebbe forse tolto dall’imbarazzante situazione quel presidente del Tar? Allora, mi chiedo, perché il Governo, che vanta tra i propri “tecnici” numerosi magistrati amministrativi che fanno il “doppio lavoro”, non ha mai eccepito nulla in merito ai criteri di scelta dei giudici amministrativi (che, peraltro, vantano tra le proprie file un non invidiabile numero di magistrati indagati, arrestati e condannati in sede penale), chiedendo meccanismi di assegnazione automatica, mentre tuona sempre contro i giudici penali “comunisti”?

Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si sta svolgendo in questo periodo un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Ora, il dubbio è questo. Se un candidato è entrato in aula con i compiti già svolti, davvero può ritenersi certo che il concorso si sia svolto regolarmente per gli altri candidati? O non è forse legittimo sospettare che i compiti possano averli avuti anche altri candidati? E allora, perché la commissione (composta quasi tutta da magistrati amministrativi e nominata di fatto dal Cpga) non ha annullato il concorso in via di autotutela? Ho già scritto in un altro post la incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Orbene, anche in questo concorso la vittoria del blasonato fratello Mattei era ampiamente anticipata da voci correnti, prima ancora della apertura delle buste contenenti i nomi, tanto da indurmi personalmente (anche per la mia qualità di Presidente di una, pur piccola, associazione di Magistrati) a formalizzare una lettera di chiarimenti, regolarmente protocollata presso l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi. Un’ipotesi rara, in cui è addirittura formalizzato ufficialmente quello che si dice che accadrà di un concorso per l’accesso in magistratura (già oggetto di indagini penali) e che si verifica puntualmente. La mia richiesta di chiarimenti purtroppo non ha mai avuto risposta, mentre pare sia notizia di questi giorni che il fratello Mattei abbia passato gli scritti del concorso per 15 soli posti. Come dicevo, il condizionale è d’obbligo, non avendo il Cpga rilasciato, almeno sinora, alcun comunicato. Vedremo, ma intanto una certezza vi è già: la commissione nominata dal Cpga non ha attivato le pratiche per annullare quel concorso e la mia lettera sulle anticipatorie voci relative alla vittoria del Mattei giace da mesi in qualche cassetto, regolarmente protocollata. Il Tar e il Consiglio di Stato sono le massime istituzioni giudiziarie italiane in materia di trasparenza amministrativa. Loro è la competenza, tra l’altro, sui ricorsi per l’accesso agli atti, sulla materia disciplinare relativa alle carriere più prestigiose, sull’operato delle amministrazioni pubbliche. Logico quindi aspettarsi, quantomeno, una trasparenza analoga a quella richiesta alla altre amministrazioni. Invece non è proprio così, almeno nella materia disciplinare. Il problema è stato recentemente sollevato anche dalla trasmissione Report. Il prossimo 31 maggio 2011 il Consiglio di Stato dovrà infatti pronunciarsi (ric.8053/2010) sul diritto di conoscere i procedimenti disciplinari proposti… nei confronti degli stessi consiglieri di Stato e dei magistrati Tar. Per completezza è bene dire che il Csm (il corrispettivo organo di autogoverno dei pm e dei giudici civili e penali) ha addirittura una pubblicazione ufficiale in materia, proprio per ragioni di trasparenza. Ad onor del vero, l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi, obbligato da una sentenza del Tar che ne censurava il diniego, è stato costretto ad esibire i precedenti disciplinari, ma si è limitato a consentire l’accesso solo a quelli per i quali era stata esercitata l’azione disciplinare. Per quelli immediatamente archiviati, invece, l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi ha ritenuto, forse contraddittoriamente (perché non far conoscere i comportamenti che dovrebbero essere meno gravi?) di non doverli consegnare, proponendo addirittura appello avverso la sentenza del Tar. L’appello è stato proposto anche a nome del presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise, già balzato agli onori della cronaca per le intercettazioni della c.d. cricca, da cui emergevano rapporti tra lui, suo cognato (avv. Leozappa), Balducci & co. Per tali fatti, però, non si sa se sia stato mai aperto un accertamento disciplinare nei confronti del presidente de Lise. Se potremo saperlo, quindi, sarà proprio il Consiglio di Stato da lui presieduto a dircelo. Una cosa, comunque, è certa. Tra quelle carte inaccessibili vi è una pratica (proposta dal sottoscritto che, quindi, ne ha conoscenza) con la quale il Cpga (Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ha ritenuto che non costituisce causa di astensione (nemmeno facoltativa) – e quindi non costituisce illecito disciplinare – l’aver deciso delle cause in cui una delle parti era assistita da un avvocato che, al contempo, assisteva anche gli stessi giudici che decidevano (in una diversa controversia, a titolo personale). Insomma, si può essere al contempo clienti e decidere le cause del proprio avvocato. Interessante anche il percorso logico che i colleghi incolpati hanno seguito, per giustificare il proprio operato: vi è chi ha sostenuto che il mandato dell’avvocato riguardasse solo la costituzione in giudizio, chi ha ritenuto che il rapporto di credito-debito fosse irrilevante, chi, più semplicemente, ha fatto rilevare che molti altri consiglieri di Stato vertevano in tale condizione. Chissà quale è stata la motivazione che ha spinto la commissione del Cpga all’epoca presieduta dal prof. Nicolò Zanon, che già aveva deliberato per la proposta disciplinare, a richiamare, con prassi davvero inusuale, la pratica in commissione ed archiviarla immediatamente. Di certo, però, tra i membri del Cpga vi era (e vi è) probabilmente il record-man di questa situazione, il consigliere Luciano Barra Caracciolo, che, assistito da anni dall’avv. Angelo Clarizia, ne ha deciso decine di cause in pendenza di mandato. Francamente, da giudice amministrativo, mi piacerebbe sapere con maggiore certezza cosa mi è permesso fare e cosa no, e credo che una assoluta trasparenza in materia disciplinare sarebbe auspicabile, sia per ragioni di trasparenza nei confronti dei cittadini cui la Giustizia si rivolge, sia per la credibilità dell’istituzione, anche per non suscitare un’inevitabile domanda: cosa vi sarà mai tra quelle carte per sempre chiuse nei cassetti e perché tanta segretezza? Avevo già raccontato la vicenda relativa alla scarsa trasparenza della Giustizia Amministrativa riguardo ai comportamenti disciplinarmente rilevanti dei Consiglieri di Stato e dei magistrati del TAR.. Le attenzioni mediatiche recentemente rivolte ad alcuni consiglieri di Stato ed ex consiglieri di Stato, quali Filippo Patroni Griffi, Carlo Malinconico, Pasquale De Lise, Paolo Salvatore , Franco Frattini, solo per citare i più noti, rendono opportuno un aggiornamento sulla questione. È bene anche rammentare che il Consiglio di Stato è l’organo deputato ad assicurare – nella Repubblica Italiana – la trasparenza delle pubbliche amministrazioni e l’accesso agli atti di queste ultime, in base alle norme vigenti. L’organo di autogoverno della giustizia amministrativa (il CPGA, cioè il “CSM” dei giudici TAR e del Consiglio di Stato), invece, è presieduto proprio dal Presidente del Consiglio di Stato. Orbene, ben tre presidenti di tale massimo organo giurisdizionale amministrativo (Paolo Salvatore, Pasquale De Lise e Giancarlo Coraggio) si sono sottratti, quali presidenti del CPGA all’obbligo di esibire i precedenti disciplinari a carico dei magistrati amministrativi. In particolare, il TAR del Lazio li ha prima condannati (sentenza n. 13848/2010 ) ad esibire i precedenti disciplinari, posto che il CPGA si rifiutava illegittimamente di ostenderli e poi, addirittura, è intervenuto per censurare nuovamente l’organo presieduto dal Presidente del Consiglio di Stato, perché non aveva ottemperato alla sentenza, avendola anzi elusa con una artificiosa distinzione (sconfessata dal TAR) tra procedimenti per i quali era stata esercitata l’azione disciplinare (consentendone l’accesso … una trentina in tutto in molti anni!) e procedimenti per i quali non era stata esercitata. Perché negare l’accesso a procedimenti che, teoricamente, dovrebbero essere meno gravi? Quali segreti si celeranno mai in quelle carte? E, soprattutto, cambierà qualcosa con il Governo Monti, visto che il Presidente del Consiglio dei Ministri (e non il Ministro della Giustizia, come per i magistrati ordinari, civili e penali) è il responsabile titolare dell’azione disciplinare dei magistrati amministrativi? Il prossimo appuntamento è per il 7 marzo, data in cui il TAR del Lazio dovrà addirittura decidere, in caso di perdurante inadempienza dell’organo presieduto dal Presidente del Consiglio di Stato, se “commissariare” (con la nomina di un commissario ad acta) il “CSM” dei giudici amministrativi, sostituendolo con un soggetto che garantisca il rispetto della sentenza. Non sarebbe opportuno che il presidente del CPGA e del Consiglio di Stato, cioè l’organo preposto ad assicurare la trasparenza e l’accesso agli atti di tutte le amministrazioni della Repubblica, fosse il primo ad adeguarsi (almeno!) ad una sentenza che già lo condanna per la mancata esibizione agli atti (fatto che già, di per sé, desta perplessità) e ad una successiva decisione che ne censura il comportamento per non aver ottemperanza alla pregressa sentenza di condanna?

Il periodo in cui alla presidenza del Consiglio di Stato vi è stato Pasquale De Lise passerà probabilmente alla storia per il numero di scandali, polemiche e inchieste in cui la magistratura amministrativa è stata coinvolta. L’ottimo articolo di Emiliano Fittipaldi su L’Espresso di questa settimana rende bene l’idea di come l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa (il Cpga) presieduto da De Lise abbia regalato ai suoi stessi membri (e a un’altra ventina di fedelissimi, selezionati fiduciariamente nelle varie procedure dal Cpga e da De Lise) decine di migliaia di euro, con mere delibere interne. Cinquantamila euro l’anno a ogni membro del Cpga, quarantamila ai magistrati segretari delegati e responsabili del servizio informatico e così via. Tutte somme che si aggiungono, ovviamente, allo stipendio. In un periodo come questo non se ne sentiva davvero il bisogno. A ciò si aggiunga l’abnorme numero di incarichi esterni (talvolta con compensi di centinaia di migliaia di euro l’anno per ogni singolo magistrato amministrativo) autorizzati dall’organo presieduto da Pasquale De Lise e contestati, in alcuni casi, da alcuni membri del Cpga medesimo, i quali ne hanno posto in dubbio addirittura l’autorizzabilità per mancanza dei presupposti di legge. Una accusa grave, che a mio avviso ne implica un’altra: se sono stati autorizzati incarichi in violazione di legge, con un conseguente vantaggio patrimoniale ingiusto, potrebbe persino configurarsi il reato di abuso di ufficio. Ma il periodo della presidenza De Lise è caratterizzato anche da una inusuale concentrazione di inchieste penali a carico dei magistrati amministrativi, che hanno coinvolto, nell’ordine, i concorsi per l’accesso al Tar e al Consiglio di Stato (da ultimo il cosiddetto “caso Giovagnoli” di cui si occupò anche Report), l’appartenenza a presunte cricche e comitati di affari (lo stesso De Lise, è bene ricordare, fu coinvolto, da non indagato, nelle intercettazioni della cosiddetta cricca ), la “gestione” dei procedimenti disciplinari da parte dell’organo di autogoverno. Per tale ultima vicenda sono attualmente indagati, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, addirittura tre membri dell’organo di autogoverno della Giustizia Amministrativa, per reati che prevedono la pena della reclusione in carcere per diversi anni. Si tratta di Marzio Branca e Cesare Mastrocola, cui si aggiunge il “laico” Luciano Vandelli, nominato dal centro-sinistra. Infine, è sempre di questo periodo l’adombrarsi di infiltrazioni della massoneria nel Consiglio di Stato, come ha denunciato addirittura il sito del Grande oriente democratico. Che dire… ormai prossimo alla pensione (e sempre che non riesca a riciclarsi in qualche altro prestigioso incarico), certamente il ricco presidente De Lise lascerà a lungo memoria di sé nell’Istituzione. Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 sia il primo presidente che il procuratore generale presso la Corte di Cassazione hanno lanciato un grido di allarme sulla lentezza dei processi, citando espressamente la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, i cui principi vengono sistematicamente violati dalla giustizia italiana. Analoga preoccupazione aveva espresso, l’anno passato, il presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise. Essendo stato “prestato” dalla giustizia italiana alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per qualche mese (nell’ambito di un programma di scambio tra giudici europei), ho potuto constatare con mano quanto sia drammatica la situazione e quante decine e decine di migliaia di euro costi al nostro Paese l’inefficienza della giustizia. Più che dei problemi, quindi, credo sia ora necessario parlare delle soluzioni. Essendo attualmente un Giudice amministrativo, mi limiterò al mio “settore”, nel quale credo sia giusto fare innanzitutto un po’ di autocritica, da parte di noi magistrati. Invero, proprio su questo blog avevo evidenziato, in passato, il numero preoccupante di magistrati amministrativi che svolgono un “doppio lavoro”. A volte, addirittura, un “triplo lavoro”. Incarichi di ogni sorta, spesso strapagati, della cui legittimità hanno dubitato, più di una volta, gli stessi membri dell’organo deputato ad autorizzarli. Recentemente c’è stata addirittura un’interrogazione parlamentare avente ad oggetto gli incarichi extragiudiziari svolti… dagli stessi membri dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa (il Cpga)! Alcuni senatori hanno infatti chiesto di sapere se, assumendo l’impegno di svolgere copiose e ben pagate attività extra, i componenti del “Csm” dei giudici amministrativi abbiano almeno rinunciato allo sgravio del lavoro ordinario, che viene loro concesso per svolgere l’attività di autogoverno, e non, di certo, altre lucrose attività, ed hanno anche domandato se i fortunati beneficiari abbiano partecipato essi stessi alle sedute in cui si autorizzavano i loro incarichi. Già questo, francamente, non mi sembra il migliore degli approcci al problema, da parte della giustizia amministrativa. Ma ciò che desta le mie più vive perplessità, oggi, è che, nonostante gli ottimi propositi enunciati dal nuovo presidente del Consiglio di Stato nel discorso inaugurale (da me stesso lodati), a distanza di sei mesi dall’insediamento del presidente de Lise la giustizia amministrativa sembra andare in una direzione nettamente opposta, rispetto a quella (dichiarata) di voler abbattere l’arretrato. Infatti, l’organo di autogoverno ha recentemente ribadito che i magistrati amministrativi devono avere dei carichi di lavoro predeterminati (di fatto non possono superare le 12 sentenze al mese circa) e che i capi degli uffici giudiziari, ove violino tali regole, sono passibili di sanzioni disciplinari. Insomma, è vietato lavorare di più. Però, al contempo, il CPGA continua ad autorizzare centinaia (sic!) di incarichi ogni anno, ai (solo) 500 magistrati circa che compongono la categoria. In questo, a mio avviso, vi è una forte contraddizione. Nemmeno costituisce una reale soluzione al problema la recente previsione normativa (introdotta dal codice di procedura amministrativa) che disciplina la c.d. perenzione: se è trascorso un certo lasso di tempo ed il soggetto interessato, interpellato, non manifesta ancora interesse alla decisione, il ricorso finisce lì. In questo caso, infatti, si avrà si un fascicolo in meno, ma, certamente, non sarà stata data “giustizia”: in sostanza è come dire che, siccome non siamo stati capaci di decidere la causa in tempo (e si parla di anni…), tanto che non hai più interesse, non te la decidiamo proprio. Oltre al danno, la beffa. Di fronte ai milioni e milioni di euro di danni provocati da questi ritardi e lentezze ci si deve chiedere, almeno, di chi sia la responsabilità. Non del magistrato amministrativo, legittimato da una normativa interna. Non del capo dell’ufficio, che se viola le regole sui carichi di lavoro rischia addirittura sanzioni disciplinari. Non resterà, allora, che verificare la legittimità dell’operato del Cpga (che limita i carichi di lavoro ed al contempo autorizza centinaia di incarichi extra) per verificare se la responsabilità sia ascrivibile concretamente a qualcuno o se, invece, anche questo danno si perderà nei tanti meandri delle irresponsabilità delle amministrazioni italiane. Di certo, la lentezza (evitabile?) della giustizia (anche amministrativa) costa ai noi contribuenti milioni di euro di danni, risarciti ogni anno dalle Corti di Appello o dal Giudice di Strasburgo. La parola alla Corte dei Conti. Forse.

Lo scandalo delle missioni dei giudici amministrativi. Ancora una volta mi trovo a parlare delle incredibili differenze (e privilegi) di cui i magistrati amministrativi (cioè i giudici del Tar e del Consiglio di Stato), di cui faccio parte, si giovano rispetto ai magistrati ordinari (i giudici civili e penali). Quanto ai magistrati ordinari, è bene premettere che è notoria la situazione di grave carenza di organico in cui versano i tribunali civili e penali. È altrettanto noto che questa mancanza, unita a una carenza di strutture e a una normativa sulle incompatibilità sempre più complessa, sta creando gravi disservizi agli utenti della giustizia. Ne sanno qualcosa i giudici, chiamati un giorno sì e l’altro pure a “tappare i buchi” che si creano continuamente. Così, specie nei tribunali più piccoli, accade che un giudice civile debba precipitarsi in tribunale per sostituire il collega penalista malato, o che un giudice fallimentare si veda assegnato per qualche mese anche il ruolo di Gip o di Gup a causa delle incompatibilità che si sono create. Il tutto con gli immaginabili problemi di studio e aggiornamento professionale cui si è continuamente costretti: le leggi cambiano, la giurisprudenza pure. Le udienze durano spesso anche il pomeriggio. I fascicoli vanno studiati. E poi si devono scrivere le sentenze e tutti gli altri provvedimenti. La notte e la domenica ci si aggiorna. Ma, se non si facesse in questo modo, la giustizia italiana già lentissima andrebbe in default, per abusare un termine molto in voga in questo periodo. E quindi, tra un insulto e l’altro da parte della politica, si china la testa e si lavora. E per i giudici amministrativi? No, ovviamente no. Non sia mai che il collega della stanza accanto si debba scomodare a scendere al piano di sotto per sostituirne un altro o che il collega che compone lo stesso collegio si prenda la briga di scrivere le sentenze del collega malato, divenendo relatore al suo posto. Le regole infatti sono diverse: si ricorre sempre e comunque all’istituto della missione, che, ovviamente, frutta soldi ai magistrati “volontari” che vanno a sostituirne altri, peraltro in barba al principio del giudice naturale precostituito per legge. Così, l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa autorizza periodicamente la spesa aggiuntiva dei magistrati amministrativi per recarsi in missione in un altro ufficio, per sostituire un collega in una determinata udienza. Il magistrato amministrativo che va in missione ha infatti diritto a 15 giorni di albergo a 4 stelle e pranzi pagati (o ad un equivalente monetario) per ogni giorno di udienza, posto che – è bene ricordarlo – i magistrati amministrativi di udienze ne fanno solo due al mese (i giudici ordinari, invece, in alcuni tribunali anche 4 o 5, ma ogni settimana). Così può accadere che un giudice del Tar di Roma vada a sostituire un collega assente dal Tar di Firenze, nello stesso giorno in cui un altro collega del Tar di Firenze va a sostituire un altro collega del Tar di Roma. Il tutto, come detto, con viaggio pagato, albergo a 4 stelle per quindici giorni, rimborso dei pranzi e delle cene (o un compenso alternativo in denaro). Ma succede anche che, mentre il collega di Firenze fa l’udienza del collega romano, un altro collega romano è impegnato in uno strapagatissimo incarico extragiudiziario: non sia mai che debba rinunciare ad arrotondare lo stipendio di qualche migliaia (o decina di migliaia) di euro per scrivere qualche sentenza in più… Non manca poi il giudice amministrativo del centro-sud che va (d’inverno) in missione presso il Tar Val d’Aosta, con un ruolo di 5-10 cause da dividere fra tre giudici: per fare la settimana bianca a spese del contribuente resta da pagare solo lo ski pass. O il giudice meneghino che se ne va in Sicilia o in Sardegna, magari per le udienze di giugno o di luglio. Con albergo e pasti pagati per 15 giorni, per un solo giorno di udienza: si deve solo affittare l’ombrellone. Sulle ferie (quelle vere) dei giudici amministrativi e sulla libertà che hanno di andarsene in vacanza (anche all’estero) senza nemmeno chiedere le ferie, invece, ho già scritto. Mentre la giustizia italiana affoga sotto una montagna di carte (e di condanne per la cosiddetta legge Pinto, che sanziona l’eccessiva durata dei processi) i giudici amministrativi (cioè quelli in servizio presso i Tar e presso il Consiglio di Stato) non rinunciano alla vacanza estiva di tre mesi, settimana più, settimana meno. Infatti, se il periodo di sospensione delle udienze previsto dalla legge va dal 1 agosto al 15 settembre di ogni anno, per la quasi totalità dei giudici amministrativi l’ultima udienza è stata celebrata nella prima metà di luglio e la successiva sarà nella seconda o terza settimana del mese di ottobre, salvo, magari, una sporadica presenza di uno o due giorni al massimo per la cosiddetta udienza feriale, in cui, però, non si scrivono sentenze “ordinarie”, ma solo provvedimenti urgenti. Come se non bastasse, siccome i giudici del Tar e del Consiglio di Stato fanno solo due udienze al mese, e sono di norma autorizzati a risiedere in altre città, in ufficio si vedono sì e no sei giorni al mese. Ma, tra un’udienza e l’altra, capita di vederli andare in vacanza (anche all’estero), anche se formalmente sono in servizio; tanto possono lavorare dove vogliono, non avendo l’obbligo di recarsi in ufficio. I danni da ritardo nel processo, che ammontano a milioni di euro ogni anno, invece, li paghiamo tutti noi. Il tutto, dicevo, mentre in questi giorni la principale preoccupazione dei magistrati amministrativi sembra essere la decurtazione dello stipendio (che ha coinvolto tutti i pubblici dipendenti, a causa della crisi), e rispetto alla quale, comunque, si sta già ipotizzando un rimedio. Le associazioni di categoria, in particolare, propongono meccanismi di assegnazione straordinaria delle cause, con una sorta di retribuzione dello “straordinario” (rispetto a che?). Qualche magistrato, invece, fa da sé: è il caso di Roberto Proietti, che oltre al proprio lavoro di magistrato è il coordinatore giuridico della struttura di missione del Ministero delle Infrastrutture e che si è fatto recentemente autorizzare anche un incarico di “ricerca di giurisprudenza” per l’ordine degli architetti di Roma, per ben 5.000 euro. O di Filippo Patroni Griffi, che si consola con un arbitrato da oltre 500 milioni di euro di petitum. O, ancora, di Umberto Maiello, che, godendo di una riduzione dello sgravio di lavoro in quanto membro dell’organo di autogoverno, trova poi il tempo di arrotondare il già pingue stipendio con un triplo lavoro presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (per ulteriori 35mila euro annui). Gli esempi sarebbero davvero troppi per riportarli tutti. Diviene però comprensibile, allora, che questi magistrati, triplicando il lavoro, abbiano bisogno di triplicare anche le ferie, per riprendersi dalle fatiche.

IN CHE MANI SIAMO? MAGISTRATI MAFIOSI.

"Era sul libro paga della 'ndrangheta". Condannato a 4 anni l'ex gip di Palmi. Così scrive “La Repubblica”. A Milano la sentenza nei confronti di Giancarlo Giusti: l'accusa era di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa. I boss gli offrivano "affari" e appagavano la sua "ossessione per il sesso". L'ex gip del tribunale di Palmi (Reggio Calabria), Giancarlo Giusti, è stato condannato a quattro anni di reclusione con l'accusa di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa. Secondo l'accusa il giudice, sospeso dal Csm dopo l'arresto nel marzo 2012, sarebbe stato corrotto dalla cosca dei Lampada con escort e soggiorni di lusso. La sentenza è stata emessa dal gup milanese Alessandra Simion, che ha condannato altre tre persone, tra cui l'avvocato Vincenzo Minasi, a quattro anni e quattro mesi. Per il magistrato, così come per l'avvocato Minasi, il giudice - che ha in sostanza accolto le richieste del pm della Dda milanese Paolo Storari - ha stabilito anche l'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Condannati anche il direttore dell'hotel Brun di Milano, Vincenzo Moretti (due anni con la sospensione condizionale della pena), e Domenico Gattuso, presunto fiancheggiatore della cosca, a sei anni. Stando alle indagini del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm Storari e Alessandra Dolci, l'avvocato Minasi era uno dei rappresentanti della cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. Giusti - 45 anni, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria, dal 2010 gip a Palmi e poi sospeso dal Csm con l'arresto - sarebbe stato invece, stando alle indagini, a libro paga della 'ndrangheta. La mafia calabrese dei Lampada, secondo l'accusa, oltre a offrirgli "affari", avrebbe appagato quella che nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Giuseppe Gennari era stata definita una vera e propria "ossessione per il sesso", facendogli trovare "prostitute" in alberghi di lusso milanesi, con le spese di soggiorno e di viaggio comprese nel prezzo della corruzione. Il giudice venne arrestato lo scorso marzo per corruzione aggravata dalla finalità mafiosa in uno dei filoni dell'inchiesta sulla cosca dei Valle-Lampada. Il direttore dell'hotel milanese Brun - uno degli alberghi frequentati da Giusti - era invece accusato di favoreggiamento personale. Il magistrato si sarebbe poi messo a disposizione in particolare di Giulio Lampada (a processo con rito ordinario assieme ad altri). Con Lampada sarebbe stato socio occulto di un società off-shore "amministrata" dall'avvocato Minasi (le cui dichiarazioni ai pm hanno fornito riscontri) e che si aggiudicò "cinque lotti immobiliari" all'asta, nel marzo 2009, del valore di circa 300mila euro.

PARLIAMO DI USURA E DI FALLIMENTI TRUCCATI?

Sei i giudici del tribunale di Bari sono indagati dalla procura di Lecce (insieme con dieci imprenditori, avvocati e commercialisti) nell'ambito di una inchiesta su presunte irregolarità che sarebbero avvenute nel 2009 nella sezione fallimentare. Le ipotesi di reato sono corruzione per atto d'ufficio, peculato e usura. Ad agosto il pm inquirente, Antonio Negro, ha chiesto e ottenuto dal gip di Lecce Alcide Maritati la proroga per sei mesi delle indagini. Scrive “Il Corriere della Sera”. Tra gli indagati figurano l'attuale presidente della sezione fallimentare del tribunale, Franco Lucafò i suoi colleghi Enrico Scoditti e Anna De Simone. C’è poi il predecessore di Lucafò, il giudice Luigi Claudio, che ora guida la sezione Lavoro, nonché Maria Luisa Traversa, presidente della Terza sezione civile ed in precedenza addetta alle esecuzioni immobiliari. Ancora, il giudice Michele Monteleone, altro ex della Fallimentare barese che ora presiede la sezione Civile a Benevento. L’inchiesta della Procura di Lecce è partita lo scorso gennaio, dopo che a novembre 2011 Bari aveva trasmesso per competenza uno stralcio dell’indagine sull’avvocato Gaetano Vignola, indagato per peculato nell’ambito della sua attività di curatore fallimentare: i finanzieri, coordinati dal pm Ciro Angelillis, contestarono a Vignola di aver falsificato numerosissimi mandati di pagamento, con la presunta complicità di alcuni giudici e cancellieri. Il presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, interviene con una nota sulla notizia dell'inchiesta della Procura di Lecce nei confronti di alcuni giudici della Sezione Fallimentare del Tribunale precisando che «non è dato conoscere riferimenti specifici di reati ai singoli giudici, che si tratta di accertamenti in svolgimento, e che gli accertamenti sono derivati da denunzie puntuali presentate dagli stessi giudici (specificamente dal presidente della sezione Franco Lucafò in servizio alla sezione fallimentare da gennaio 2009)». Nella nota, Savino precisa, inoltre, che «senza imputazioni formali e in contesto di indicazioni approssimative e generiche, non è corretto pubblicare riferimenti titolati, tali da determinare pubblico discredito per l'attuale svolgimento della attività giurisdizionale dei magistrati facenti parte della sezione fallimentare da me apprezzata per competenza, professionalità e moralità, impegnati d'altronde nella gestione di complesse ed importanti procedure fallimentari e concordatarie». «La divulgazione sulla stampa di notizie sommarie in merito a indagini doverosamente avviate a Lecce, su denuncia peraltro del Presidente della Sezione Fallimentare di Bari Franco Lucafò, e ancora in fase di approfondimento», rischia «di ingenerare ingiustificato discredito sull'operato di una intera importante Sezione del Tribunale di Bari». Lo afferma in una nota il presidente della sezione barese dell'Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro. L'Anm parla di «frettolose, incaute indicazioni giornalistiche in ordine a un possibile personale coinvolgimento di magistrati in servizio alla stessa sezione fallimentare, senza però alcuna precisazione di fatti e circostanze o imputazioni a loro carico». Secondo Casciaro, si «rischia di ingenerare ingiustificato discredito sull'operato di una intera importante Sezione del Tribunale di Bari, e sui magistrati alla stessa addetti, ledendone il prestigio e alimentando, com'è agevole intuire, falsi convincimenti nell'opinione pubblica».

Il commento:  come mai quando vengono divulgati notizie di accertamenti di privati cittadini l'Anm non prende la stessa posizione? E' l'occasione affinché la stessa possa proporre serie sanzioni disciplinari per la fuga di notizie nei confronti dei PM dal cui ufficio escono le stesse? Sarebbe credibile il rilievo se si andasse a tutto campo. Solo la casta va protetta? E la responsabilità patrimoniale del PM che sbaglia?

Il sistema dei crack pilotati spiegato da Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Fallimenti durati oltre 20 anni, gli stessi mandati di pagamento fotocopiati e presentati in banca decine e decine di volte per la riscossione. E poi, finte compravendite di appartamenti organizzate per celare, in realtà, il versamento di tangenti per ottenere la gestione dei fallimenti più ricchi. È questo il meccanismo che, per almeno quindici anni e sino al 2009, avrebbe inquinato il sistema di gestione dei fallimenti al Tribunale di Bari. L’inchiesta parte nell’estate del 2009, quando il nuovo presidente della sezione fallimentare, Franco Lucafò, appena insediatosi si accorge che c'è qualcosa che non quadra. Sul suo tavolo finisce il fallimento di una vecchia impresa di costruzioni, 26 anni dopo l’avvio di quella procedura il fallimento non era stato ancora concluso. A occuparsi della vicenda era l’avvocato Gaetano Vignola, tra i 16 indagati. Lucafò lo convoca e gli chiede una relazione scritta sulla vicenda. La difesa non convince il giudice, scattano i controlli e viene scoperto che uno stesso mandato di pagamento da settemila euro era stato fotocopiato e presentato otto volte in banca. Lucafò revoca tutti gli incarichi a Vignola e invia le carte alla Procura. Tra i raggiri utilizzati per ottenere la gestione dei fallimenti ci sarebbe anche quello della falsa compravendita di case: il curatore interessato finge di comprare un’abitazione e versa una caparra. Al momento della stipula del contratto non si presenta e l’affare (falso) salta. Ecco che, secondo gli investigatori, la caparra versata si trasforma in tangente.

Fallimentare, ecco i nomi dei sei giudici indagati, scrive “La Repubblica”. L'inchiesta per corruzione, peculato e usura è partita da uno stralcio dell'indagine sull'avvocato barese Gaetano Vignola. Nel fascicolo anche imprenditori, legali e commercialisti. C'è il presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Bari, Franco Lucafò, e il suo predecessore, Luigi Claudio, che ora guida la sezione lavoro. I suoi colleghi Enrico Scoditti e Anna De Simone, Maria Luisa Traversa (presidente della Terza sezione civile) e Michele Monteleone (ora a Benevento). Sono i sei giudici indagati dalla procura di Lecce: un'inchiesta nata da uno stralcio dell'inchiesta sull'avocato barese Gaetano Vignola, indagato per peculato nell'ambito della sua attività di curatore fallimentare. Insieme ai magistrati del Tribunale di Bari sono indagati a Lecce anche dieci imprenditori, avvocati e commercialisti, nell'ambito di una inchiesta su presunte irregolarità che sarebbero avvenute nel 2009 nella sezione fallimentare del Tribunale di Bari. Le ipotesi di reato sono corruzione in atto d'ufficio, peculato e usura. Lo scorso agosto il pm inquirente, Antonio Negro, ha chiesto e ottenuto dal gip di Lecce Alcide Maritati la proroga per sei mesi delle indagini. Il meccanismo ipotizzato dalla procura salentina è il seguente. C'è una fiduciaria. Mettiamo con sede a San Marino, oppure a Malta o magari in Lussemburgo. C'è un privato che ha un appartamento, o un qualsiasi immobile, da voler vendere. Diciamo pure che il privato è un magistrato. La fiduciaria è interessata all'affare. Le due parti firmano un preliminare d'acquisto, in sede del quale la fiduciaria versa una caparra importante con molti zero, diciamo una cifra da qualche centinaia migliaia di euro. Al definitivo però i rappresentanti della fiduciaria non si presentano. L'affare sfuma. E il privato - che magari appunto di mestiere fa il magistrato - ha diritto a tenere la caparra. E, mantenendo la proprietà dell'immobile, intasca l'assegno con molti zeri. Ecco, il meccanismo è questo. Il sospetto della Guardia di Finanza, della procura di Bari prima e di quella di Lecce ora, è che non si tratti soltanto di affari sbagliati e sfumati. Ma di una maniera per nascondere tangenti. Tangenti che imprenditori e professionisti hanno versato ad altri professionisti, curatori di importanti fallimenti. Oppure direttamente ai giudici. Tutta la vicenda è raccontata nelle carte che la procura di Bari - a firma del procuratore capo Antonio Laudati e del suo sostituto Ciro Angelillis - ha spedito circa un anno fa ai colleghi leccesi. Nel fascicolo c'erano già i nomi di sei magistrati, ora ufficialmente indagati.

Sei Giudici condizionavano i fallimenti a Bari scrivono Giovanni Longo e Masimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Imprenditori, avvocati, commercialisti e giudici fino all’agosto del 2009 avrebbero in qualche modo condizionato la gestione dei fallimenti presso il Tribunale di Bari. Dopo quella sul procuratore Antonio Laudati e sull’ex pm Giuseppe Scelsi (oggi alla procura generale), a Lecce c’è un’altra indagine che farà molto rumore: tra le 16 persone che il pm salentino Antonio Negro ha iscritto nel registro degli indagati ci sono anche sei giudici: quasi tutti lavorano - o hanno lavorato - nella sezione Fallimentare di Bari. L’inchiesta della procura di Lecce è partita a gennaio, dopo che a novembre 2011 Bari aveva trasmesso per competenza uno stralcio dell’indagine sull’avvocato Gaetano Vignola, indagato per peculato nell’ambito della sua attività di curatore fallimentare: i finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari, coordinati dal pm Ciro Angelillis, contestano a Vignola di aver falsificato numerosissimi mandati di pagamento, con la complicità (non si sa quanto volontaria) di giudici e cancellieri addetti ai fascicoli. Per questa ragione le carte, come la «Gazzetta» aveva anticipato, sono state trasferite a Lecce, ufficio competente ad indagare su magistrati in servizio nel distretto di Bari. Tra le accuse che la procura salentina ipotizza a vario titolo a carico di 16 persone c’è, infatti, anche il peculato (quello che Bari contesta a Vignola), oltre che la corruzione per atto d’ufficio e persino l’usura. Va notato che la corruzione per atto d’ufficio (articolo 318 del codice penale) è fattispecie ben diversa dalla corruzione in atti giudiziari, ed è compatibile con l’ipotesi di una falsificazione dei mandati di pagamento. In agosto il pm salentino Antonio Negro ha ottenuto dal gip Alcide Maritati la prima proroga delle indagini per altri 6 mesi: la notifica di questo atto ha causato la discovery del fascicolo. Dalle carte sin qui a disposizione non si evincono le singole accuse mosse a ciascuna delle 16 persone né tantomeno i capi di imputazione su cui gli investigatori mantengono il più stretto riserbo. Si può però dire che tra gli indagati figura l’attuale presidente della Fallimentare, Franco Lucafò, con i suoi colleghi Enrico Scoditti e Anna De Simone. C’è poi il predecessore di Lucafò, il giudice Luigi Claudio, che ora guida la sezione Lavoro, nonché Maria Luisa Traversa, presidente della Terza sezione civile ed in precedenza addetta alle esecuzioni immobiliari. Ancora, il giudice Michele Monteleone, altro ex della Fallimentare barese che ora presiede la sezione Civile a Benevento, ed è indagato insieme al padre Vittoriano Monteleone. Poi il cancelliere Luigia Valentini, quindi una serie di professionisti: la commercialista Anna Maria Accogli (parente acquisita di Vignola) e sua sorella Cosima Damiana. Ancora, una serie di professionisti romagnoli ed emiliani: l’avvocato Michele Di Lella, i commercialisti Lorenzo Ferrari ed Enzo Zafferani. Uno di loro, Ferrari, ha svolto attività professionale per altri due degli indagati, gli imprenditori cesenati Franco e Sergio Rossi, titolari dell’omonimo marchio delle calzature. Mentre Zafferani è uno dei più noti commercialisti di San Marino. L’inchiesta, come detto, è ancora in corso. La procura di Lecce ha affidato una serie di consulenze tecniche il cui esito non è ancora stato depositato: è questo il motivo con cui il pm Negro ha giustificato la richiesta al gip di prorogare le indagini per altri 6 mesi. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbero le modalità di gestione di una serie di fallimenti avvenuti a Bari fino al 2009, che includono anche la vendita di alcuni immobili: su questo punto, negli scorsi mesi, la Finanza ha ascoltato a Bari numerosi testimoni tra cui anche commercianti del centro.

PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA.

Una barbarie le toghe che fanno gli scienziati. "Grazie a magistrati senza responsabilità e irresponsabili stiamo diventando un Paese di barbari", scrive Franco Battaglia su “Il Giornale”. Grazie a magistrati senza responsabilità e irresponsabili stiamo diventando un Paese di barbari. Barbarie è stato l'arresto di un imprenditore di 86 anni accusato di aver ucciso adulti e bambini con le emissioni della sua acciaieria. Abbiamo già scritto che il rapporto epidemiologico di cui s'è servita la magistrata è scientificamente carente e redatto da signori che già in passato si erano distinti per puntare il dito contro l'inesistente inquinamento elettromagnetico. Questi signori, anziché essere oggetti di una indagine che valuti i presupposti del procurato allarme, sono i consulenti della nostra magistratura. I dati ci dicono che a Taranto non si muore né si contrae tumore più che altrove in Italia, eppure è da due giorni che tutte le agenzie di stampa strillano perché un rapporto, chiamato «shock», rivelerebbe che a Taranto si sarebbe riscontrato un «eccesso del 419% di mortalità maschile per mesiotelioma pleurico». Soltanto chi conosce solo la statistica di Trilussa si allarma. In tutta la Puglia, negli 8 anni 1993-2001, vi furono 197 maschi con mesiotelioma pleurico certo, di cui 13 nel 1993, 32 nel 1996, e 20 nel 2001. Diremmo che nel 1996, in Puglia, ve ne fu il 146% in più che nel 1993? Lo diremmo se fossimo Trilussa o abituati a procurare, impuniti, allarme, anziché riconoscere che sono numeri troppo piccoli per fare quella statistica. (Peraltro, i Trilussa avrebbero anche dovuto dire che nel 2001 ve ne furono il 38% in meno che nel 1996, ma questo non fa notizia). Dicono che il colpevole sarebbe il benzopirene misurato con concentrazioni di 1.8 nanogrammi per metro cubo, ma sembra che ignorino che chi fuma una sola sigaretta al giorno di benzopirene ne aspira 20 di nanogrammi. Ora, siccome ci sono gli elementi per rassicurare (cioè, a dispetto delle frottole di questi giorni, non è vero che a Taranto si muore o ci si ammala di più che altrove in Italia) è nostro dovere rassicurare. Rischiando così di essere sbattuti in galera da chi ha il potere - impunibile se sbaglia - di sbatterci in galera. E questa è barbarie. Come quella che ha fatto condannare a 6 anni di galera alcuni stimati uomini di scienza - uomini che dovremmo tenere in conto come nostro fiore all'occhiello - per omicidio colposo plurimo. Su questo dobbiamo però essere precisi, perché a ridere del fatto che siano stati condannati per non aver previsto il terremoto, non si rende giustizia della barbarie in atto. E, soprattutto, si giustificherebbe la barbarica condanna nel momento stesso in cui essa dovesse rivelare motivazioni diverse da quelle per le quali oggi si ride sgomenti. Non è per non aver previsto il terremoto che sono stati condannati, né di questo erano accusati, ma - hanno dichiarato i pubblici ministeri - «per una carente valutazione degli indicatori di rischio e una errata informazione». Insomma, i condannati sono colpevoli di avere rassicurato la gente. Siccome le dichiarazioni del professor De Bernardinis sono ascoltabili in rete, le riporto testuali: «Dobbiamo mantenere uno stato d'attenzione senza avere uno stato d'ansia, capendo che abbiamo da affrontare situazioni per le quali dobbiamo essere sì, pronti, ma anche sereni di poter vivere la nostra vita quotidiana». Per la magistratura italiana questo sarebbe omicidio colposo plurimo. De Bernardinis, invece, non ha fatto altro che il proprio dovere: rassicurare. Non per minimizzare il terremoto (che è stato sì devastante, ma solo col senno di poi) ma perché di fronte all'ignoranza (nessuno può prevedere né tempi né intensità dei sismi) il primo dovere è non creare i presupposti per un panico destinato ad avere, quello sì con certezza, conseguenze devastanti. Nel momento in cui scrivo un terremoto di magnitudo 3 è stato registrato sul Pollino: evacuerà la magistratura Castrovillari? La magistratura o, più precisamente, alcuni magistrati sono il nostro problema: ignoranti di statistica, di gestione dei rischi, di scienza, malati di protagonismo, imbevuti di preconcetti ideologici, sono liberi di muoversi senza freno e senza responsabilità. A cominciare dal fatto che possano far conoscere le motivazioni di una sentenza non contestualmente alla stessa, lasciando così il dubbio che possa essere aggiustata a seconda delle reazioni conseguenti. Una barbarie. Che non giova né al Paese né alla Magistratura stessa.

Travaglio. C'è un solo uomo in Italia che difende il giudice dell'Aquila. Indovinate chi? Il vicedirettore del Fatto Quotidiano sulla sentenza di condanna alla Grandi Rischi per il sisma del 2009: la colpa è dei giornali pecoroni e degli scienziati che non fecero gli scienziati, scrive “Libero Quotidiano”. Tutti contro pm e giudice dell'Aquila che ha condannato a sei anni i sismologi colpevoli di non aver dato l'allarme per il terremoto dell'aprile 2009. Politici, giornali, comunità scientifica italiana ed internazionale. I membri della commissione Grandi Rischi, falcidiata dalla sentenza di primo grado, si è dimessa in blocco. C'è una sola persona, giudici a parte, fuori dal coro. Secondo questa persona la colpa delle polemiche e dello scandalo non è della sentenza, appunto, ma dei politici e dei giornali. E magari pure degli scienziati che, sottinteso, si fanno traviare da politici e giornali. Questa persona, manco a dirlo, è Marco Travaglio, vicedirettore del Fatto Quotidiano. Stampa pecorona - Nel suo editoriale sul numero di mercoledì 24 ottobre, l'editorialista più manettaro che c'è si scatena. Sotto il titolo Rischi per fiaschi mette alla berlina la stampa pecorona non in grado di leggere le motivazioni della sentenza, che ancora non sono state depositate (naturalmente non le può avere lette nemmeno lui, ma questo non ha importanza), e in balia dei sentimenti di pancia. Po via alla filippica: "A nessun magistrato è mai saltato in mente di accusarli (i sismologi) di non aver previsto il terremoto: semmai di aver previsto che il terremoto non ci sarebbe stato, dopo una finta riunione tecnica (durata 45 minuti) a L'Aquila, 'approssimativa, generica e inefficace', in cui non si valutarono affatto i rischi delle 400 scosse in quattro mesi di sciame sismico. E alla fine, di aver fornito 'informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, le cause, la pericolosità e i futuri sviluppi dell'attività sismica in esame'". Travaglio ricorda che per questa sottovalutazione del rischio almeno 29 aquilani non uscirono di casa, come in genere facevano negli ultimi mesi, la sera del 6 aprile e finirono sepolti vivi. Attacchi a Bertolaso - Quindi il vicedirettore va all'attacco di Franco Bertolaso, ex capo della Protezione civile: "Che lo scopo della riunione fosse tutto politico e per nulla scientifico, l'aveva confidato a una funzionaria Bertolaso alla vigilia: 'Vengono i luminari, è più un'operazione mediatica, loro diranno: è una situazione normale, non ci sarà mai la scossa che fa male'. E, prim'ancora che i tecnici si riunissero, dichiarò: 'Non c'è nessun allarme in corso'". E ricorda come "nessuno verbalizzò nulla (il verbale, debitamente ritoccato, fu firmato in fretta e furia sei giorni dopo, a sisma avvenuto)". Conclusione consequenziale: gli scienziati, allora, non hanno fatto gli scienziati, proprio come in Italia i politici non fanno i politici e i giornalisti i giornalisti. Mentre i giudici, questo lo diciamo noi, non sbagliano mai.

PARLIAMO DI TOGHE INCRITICABILI.

Il direttore è un "delinquente" perché ha criticato un giudice. Le sconcertanti motivazioni della Cassazione che ha condannato Sallusti al carcere: "Attentato al potere giudiziario". Per le toghe è un "recidivo" che può colpire ancora. Ventisei pagine durissime per difendere a oltranza la categoria, scrive Anna Maria Greco  su  “Il Giornale”. Un «recidivo», con «spiccata capacità a delinquere», colpevole di un fatto di tale «gravità» e con un «particolare spessore negativo», di una «plurima condotta trasgressiva», per di più «animata da coscienza e volontà nella commissione del reato» e che neppure offre «una prognosi positiva sui comportamenti futuri».No, non parliamo di un incallito boss mafioso, di un capo della malavita comune, di un sanguinario assassino, ma del giornalista Alessandro Sallusti così come lo descrive la Corte di Cassazione. Scopriamo, dalla motivazione della sentenza che lo ha condannato a 14 mesi di carcere per diffamazione a mezzo stampa e omesso controllo, di avere per direttore uno che fa parte della categoria dei delinquenti abituali senza molte chance di redenzione, catalogata da Cesare Lombroso. Uno che merita la galera, insomma. «La storia e la razionale valutazione di questa vicenda - scrive il relatore Antonio Bevere e sottoscrive il presidente della V Sezione penale Aldo Grassi - hanno configurato i fatti e la personalità del loro autore, in maniera incontrovertibile, come un'ipotesi eccezionale, legittimante l'inflizione della pena detentiva». Altro che distaccato esame della conformità alla legge delle due precedenti condanne, altro che asettico controllo della forma, qui si entra pesantemente nel merito della questione, con 26 pagine di inusuale durezza, sorprendenti per il coinvolgimento che trasuda da ogni riga. Perché il fatto è, e questo alla fine emerge chiaramente dal verdetto, che un giornalista si è permesso di diffamare un giudice, Giuseppe Cocilovo, di attentare non solo alla sua reputazione, ma «all'autorità del potere giudiziario». Colpiti dall'articolo firmato con lo pseudonimo Dreyfus (poi rivelatosi di Renato Farina) e pubblicato nel 2007 da Libero, allora diretto da Sallusti, sono per i magistrati anche i genitori della bambina tredicenne che ha abortito e lo stesso medico che ha praticato l'interruzione di gravidanza, ma soprattutto il giudice di Torino che ha attivato la causa penale. E questo fa la differenza. Fa rientrare il caso tra le pochissime «ipotesi eccezionali» per le quali, secondo la Cassazione, anche la legislazione europea giustificherebbe la detenzione dei giornalisti. La sentenza batte molto sull'«illecita strategia di intimidatrice intolleranza, di discredito sociale, di sanzione morale, diretta contro il magistrato». Sulla durezza della «campagna intimidatoria» e «diffamatoria» nei confronti del giudice, presentato come chi ha «costretto» la bambina all'aborto, «un assassino».La libertà di espressione, si legge nella motivazione, può essere limitata con la più grave delle sanzioni «per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario». L'esigenza di tutelare questi valori «prevista dalla norma europea» giustificherebbe, dunque, la condanna al carcere che pure è l'extrema ratio. Sia per la giurisprudenza italiana che per quella della Corte di Strasburgo, questo sarebbe un raro caso in cui la libertà di opinione va messa da parte. E per la doppia esigenza di protezione della reputazione dei cittadini con la «divulgazione di informazioni riservate» e di tutela dell'immagine del potere giudiziario.«Nel caso di offesa ingiustificata a un magistrato - sostengono i Supremi giudici - viene inoltre affievolita la fiducia della collettività, che deve costituire schermo e incentivo a un corretto svolgimento di una fondamentale funzione dello Stato di diritto». Le scelte della Corte d'appello di Milano del carcere, senza sconti, senza sospensione condizionale della pena, né attenuanti generiche, per gli ermellini del Palazzaccio non sono sindacabili: «Rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito». Sallusti poi, si sottolinea, ha già a suo carico numerosi precedenti penali in pochi anni: «Sette pregresse condanne per diffamazione di cui sei in relazione all'ipotesi prevista dall'art. 57 c.p. (omesso controllo, ndr)». Il giornalista è reo di aver «sbattuto in prima pagina» un giudice, una ragazzina minorenne e la sua famiglia, travisando i fatti e senza aver fatto seguire alla pubblicazione degli articoli contestati scuse e rettifiche. Non si tratterebbe, in questo caso, solo di omesso controllo perché la Cassazione contesta a Sallusti un «meditato consenso» e una «consapevole adesione» allo scritto anonimo. «Il dolo» risulterebbe «ulteriormente rafforzato» sia «dalla mancata rettifica della notizia palesemente falsa», sia dal prosieguo, nei giorni successivi, della «crociata» contro il magistrato.Sulla diffamazione a mezzo stampa, si legge nella sentenza, da tempo si discute «senza raggiungere una condivisa scelta ed una razionale e coerente riforma». Dunque, finché non sarà cambiata la legge è questa, carcere compreso. Né il fatto che la stragrande parte dei giornalisti siano bersagliati da querele per diffamazione, spesso dallo scopo intimidatorio, può influire. Da noi, contrariamente ad altri Paesi, nessuna norma colpisce chi usa questo strumento per impedire ai mass media di indagare su fatti scomodi o comportamenti scorretti. La Cassazione spiega che «non può ammettersi l'esistenza di una lecita attività lavorativa che abbia, come inevitabili prodotti naturali, fatti lesivi di diritti fondamentali dei cittadini». Non c'è, afferma la Suprema Corte, «il diritto di mentire» e ai giornalisti non può essere riconosciuta una «zona franca». Questo processo, conclude il verdetto, è nato perché, una «legittima posizione critica» antiabortista ha avuto «come premessa e base storica fatti mai avvenuti».

PERLIAMO DI TOGHE INFAMI E FALSE.

Infamie e falsità. Se affidata a mani indegne la giustizia rischia di essere violenta, falsa e arrogante. Nella sentenza di Aldo Grassi e Antonio Bevere si legge che il direttore del Giornale avrebbe una "spiccata capacità a delinquere". La replica di Sallusti: "È una vera infamia, che non permetto neppure a un presidente di Cassazione, basata su odio ideologico e su una serie di menzogne". Così scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. C'è qualcosa che fa peggio dell'ipotesi di finire in carcere. È prendere atto di quanto violenta, falsa e arrogante possa essere la giustizia se affidata a mani indegne. È successo ieri, leggendo le motivazioni della sentenza, firmata da tale Aldo Grassi e tale Antonio Bevere (consigliere estensore), con cui la Cassazione mi condanna a 14 mesi di reclusione per un articolo neppure scritto da me. Si legge che io avrei una «spiccata capacità a delinquere», mi paragona a un delinquente abituale. È una vera infamia, che non permetto neppure a un presidente di Cassazione, basata su odio ideologico e su una serie di menzogne. Mi prendo tutta la responsabilità di quello che dico e sollevo il mio editore dal risponderne in tribunale. Ve lo dico io, in faccia, signori Grassi e Bevere: avete abusato del vostro potere, la vostra sentenza è un'infamia per me e per i miei parenti. Non si gioca con la vita delle persone come se fossero cose nella vostra disponibilità senza pagare dazio. Le motivazioni della vostra sentenza sono delinquenziali, non il mio lavoro. Sono parole basate su falsi, montate per costruire teoremi che esistono solo nella vostra testa. E ve lo spiego. È falso che io abbia scritto alcunché. È falso che io abbia deliberatamente pubblicato notizie sapendole false. È falso che io mi sia rifiutato di pubblicare una smentita, nessuno me l'ha mai chiesta né inviata. È falso che sul mio giornale dell'epoca, Libero, sia stata pubblicata una campagna contro un giudice (un articolo di cronaca ripreso da La Stampa e un commento non possono in alcun modo costituire una campagna). È falso che non fosse possibile identificare chi si celava dietro lo pseudonimo Dreyfus: bastava chiederlo, non a me che come direttore sono tenuto al segreto deontologico, ma a chiunque e avreste accertato che si trattava di Renato Farina (lui stesso lo ha scritto in un suo libro). È falso che io abbia un numero di condanne per omesso controllo (7 pecuniarie in 35 anni di mestiere) superiore alla media dei giornalisti e direttori di quotidiani italiani. Delinquente, quindi, lo dite a qualcun altro. Non vi stimo, non vi rispetto, non per la condanna, ma per quelle vostre parole indegne. Vergognatevi di quello che avete fatto. E forse non sono l'unico a pensarla così. Ci sarà un motivo se il Parlamento sta lavorando per cancellare la vostra infamia e se un vostro collega, il procuratore di Milano Bruti Liberati, si rifiuta di applicare la vostra sentenza del cavolo nonostante io mi sia consegnato alle patrie galere, in sfregio a voi, rinunciando a qualsiasi pena alternativa. E adesso fate pure quello che credete, rispetto a me e alla mia storia siete un nulla.

Ecco l'articolo di Dreyfus che ha fatto condannare Sallusti, pubblicato su “Libero Quotidiano”. Di Dreyfus: Una adolescente di Torino è stata costretta dai genitori a sottomettersi al potere di un ginecologo che, non sappiamo se con una pillola o con qualche attrezzo, le ha estirpato il figlio e l’ha buttato via. Lei proprio non voleva. Si divincolava. Non sapeva rispondere alle lucide deduzioni di padre e madre sul suo futuro di donna rovinata. Lei non sentiva ragioni perché più forte era la ragione dei cuore infallibile di una madre. Una storia comune. Una bambina, se a tredici anni sono ancora bambine, si era innamorata di un quindicenne. Quando ci si innamora, capita: e così qualcosa è accaduto dentro di lei. Lei che era una bambina capiva di aspettare un bambino. Da che mondo è mondo non si è trovata un’ altra formula: non attendeva un embrione o uno zigote, ma una creatura a cui si preparava a mettere i calzini, a darle il seno. I genitori hanno pensato: «È immatura, si guasterà tutta la vita con un impiccio tra i piedi».Hanno deciso che il bene della figlia fosse: aborto. In elettronica si dice: reset. Cancellare. Ripartire da zero. Strappare in fretta quel grumo dal ventre della bimba prima che quell’Intruso frignasse, e magari osasse chiamarli, loro tanto giovani, nonna e nonno. Figuriamoci. Tutta ’sta fatica a portare avanti e indietro la pupa da casa a scuola e ritorno, in macchina con la coda, poi a danza, quindi in piscina. Ora che lei era indipendente, ecco che si sarebbero ritrovati un rompiballe urlante e la figlia con i pannolini per casa. Il buon senso che circola oggi ha suggerito ai genitori: i figli devono essere liberi, vietato vietare. Dunque, divertitevi, amoreggiate. Noi non eccepiamo. Siamo moderni. Quell’altro che deve nascere però non era nei patti, quello è vietato, vietatissimo. Accettiamo che tutti facciano tutto, ma non che turbino la nostra noia. Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto! – decretando: aborto coattivo. Salomone non uccise il bimbo, dinanzi a due che se lo contendevano; scelse la vita, ma dev’essere roba superata, da antico testamento. Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale. Aveva gridato invano: «Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io». Hanno pensato che in fondo era sì sincera, ma poi avrebbero prevalso in lei i valori forti delle Maldive e della discoteca del sabato sera, cui l’avevano educata per emanciparla dai tabù retrogradi. Che vanno lavati con un bello shampoo di laicità. Se le fosse rimasto attaccato qualche residuo nocivo di sacralità, niente di male, ci vuole pazienza. E una vacanza caraibica l’avrebbe riconciliata dopo i disturbi sentimentali tipici dell’età evolutiva. Non è stato così. La ragazzina voleva obbedire a qualcosa scritto nell’anima o – se non ci credete – in quel luogo del petto o del cervello da cui sentiamo venir su il nome del figlio. Ma no: non anima, né petto, né cervello. Le dava dei calci proprio nella sua pancia che le dava il vomîto. Una nausea odiosa, ma così rasserenante: più antica dell’effetto serra, qualcosa che sta alla fonte del nostro essere. Si sentiva mamma. Era una mamma. Niente. Kaput. Per ordine di padre, madre, medico e giudice per una volta alleati e concordi. Stato e famiglia uniti nella lotta. Ci sono ferite che esigerebbero una cura che non c’è. Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice. Quattro adulti contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (l’altra, in realtà) costretto alla follia. Si dice: nessuno tocchi Caino, ma Caino al confronto aveva le sue ragioni di gelosia. Qui ci si erge a far fuori un piccolino e a straziare una ragazzina in nome della legge e del bene. Dopo aver messo in mostra meritoriamente questo scempio, il quotidiano torinese la Stampa che fa? Mette pacificamente in lizza due pareri. Sei per il Milan o l’Inter? Preferisci la carne o il pesce? Non si riesce a credere che ci possano essere due partiti. Sì, perché in fondo la vera notizia è questa, e cioè che ci sia un’opinione ritenuta rispettabile e che accetti la violenza più empia che esista: il costringere una madre a veder uccidere il figlioletto davanti ai suoi occhi. Non c’è neanche bisogno del cristianesimo. Basta l’Eneide di Virgilio, la saggezza classica. L’orrore è quando i greci assassinano davanti agli occhi di Priamo il figlio. Invece qui già ci sono due partiti. Quello pro e quello contro. È incredibile. Come se fosse possibile fare un bel dibattito sul genocidio: uno si esprime a favore, il secondo è perplesso. Ma che bella civiltà, piena di dubbi. Come scriveva Giovanni Testori, più battiti e meno dibattiti. Specie quando il battito di un innocente è stato soffocato con l’alibi della libertà e della felicità di una che non sa che farsene, se il prezzo è l’aborto. Questo racconto tenebroso è specchio dei poteri che ci dominano. Lasciamo perdere i genitori, che riescono ormai a pesare solo come ingranaggi inerti. Ma che la medicina e la magistratura siano complici ci lascia sgomenti. Però a pensarci non è una cosa nuova. Nicola Adelfi propose, sempre sulla Stampa, l’aborto coattivo, in grado di eliminare i fastidiosi problemi di coscienza, perle donne di Seveso rimaste incinta al tempo della diossina (2 agosto 1976). Abbiamo udito qualcosa di simile a proposito di lager nazisti e di gulag comunisti. Ma che questo sia avvenuto in Italia e che abbia menti pronte a giustificarlo è orribile.

PARLIAMO DELL’INTIMIDAZIONE DEI MAGISTRATI CHE CAUSA CENSURA ED OMERTA’

GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SE NO TI TACCIO. MA IN CHE MANI SIAMO?

«Silvia mia carissima, mi regge feroce la certezza della mia onestà totale. Lo sbigottimento per questa mascalzonata, o errore, o macchinazione, o non so cosa. L’unica cosa che so è che sono innocente. Voglio, devo vivere fino a sentirlo dire. Dopo non mi importerà più di nulla. Mia dolcissima Silvia aspetto con tanta ansia in questo zoo di disperati un tuo scritto. Qui non faccio che vedere gente che da sette mesi od un anno aspetta un interrogatorio. Questo, te lo confermo, è un paese infame. Se c’è un posto dove sorge automatico il disgusto per questo Italia, beh questo posto è proprio la galera. Sai qui si vive come i malati di un ospedale lugubre. O come scoiattoli che girano sempre alla stessa ruota. Sento la radio e non ho più colpi al cuore quando mi accorgo che il mio nome è diventato il grottesco pretesto per una macabra pulcinellata. Così è, Silvia. Così è andata. Mai come adesso ho fatto appello a quel poco che so di filosofia e di stoici. Io sono, certe volte, proprio disperato. In questo paese non succede nulla. E’ questo che mi avvelena e mi dispera. Una ad una le speranze di una rigenerazione morale se ne vanno. Una Stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo ed ai circensi. Aliena ai problemi veri e reali. Uno spettacolo immondo. Quanto dovrà passare per la riforma dei codici e per la riduzione della carcerazione preventiva? Sono deluso Silvia. Mi pare di aver gettato via la mia vita e debbo fare anche autocritica. Credevo nella legge, nei magistrati e nelle istituzioni. Non promettete mai una lettera, una visita, se poi non mantenete. Il carcere corrompe anche i sogni. Ho sognato di far parte, comportandomi benissimo, di una banda di svaligiatori di appartamenti. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini, ma pietre. Pietre senza suoni, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. Ed il mondo gira: indifferente a quest’infamia.» Questa, per chi non lo sapesse è la testimonianza di Enzo Tortora alla figlia Silvia. La testimonianza di un innocente sbattuto in quell’inferno auspicato dai tanti benpensanti. Questi sono coloro che, quando le disgrazie capitano agli altri godono, se non che sbraitano quando gli altri sono loro.

Prendendo spunto dalla parole di chi è diventato la luce per gli innocenti in carcere ed al fine di contestualizzare il processo di Taranto sul delitto di Sarah Scazzi in un quadro nazionale e locale, evidenziando l'ignominia dei giornalisti sulla tv e la carta stampata nei rapporti con la verità e con la sudditanza all'alterigia dei magistrati permalosi, è utile conoscere alcuni risvolti riguardanti i magistrati ed i giornalisti con cui ci rapportiamo ogni giorno. Si legge sul “Il Corriere della Sera” che sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini per abuso d'ufficio al procuratore di Bari, Antonio Laudati, e al suo ex sostituto Giuseppe Scelsi. Il caso riguarda il procedimento penale sulle escort che l'ex imprenditore barese, Gianpaolo Tarantini, ha portato dall'ex premier Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Lo stesso atto, che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione. L'inchiesta a carico del procuratore di Bari è stata avviata dopo che Laudati è stato accusato da un suo ex pm, Scelsi (ora sostituto procuratore presso la Corte d'appello di Bari), di aver di fatto rallentato l'indagine sulle escort. Dopo i primi accertamenti, la procura di Lecce aveva indagato Laudati per favoreggiamento personale, abuso d'ufficio e tentativo di violenza privata. I sei giornalisti indagati per diffamazione sono stati invece denunciati dal procuratore Laudati nel corso del tempo. A proposito del procuratore di Bari, Antonio Laudati, la procura di Lecce ipotizzando il reato di abuso d'ufficio scrive: «Nello svolgimento delle funzioni di procuratore avrebbe intenzionalmente arrecato ingiusto danno ai magistrati Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo consistito nella indebita aggressione alla sfera della personalità per essere stati i due magistrati illecitamente sottoposti da parte della guardia di finanza ad investigazioni e ad abusivo controllo della loro attività professionale e della loro immagine». Ed ancora è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini Laudati avrebbe «delegato, senza alcun atto scritto, al personale di polizia giudiziaria della guardia di finanza attività d'indagine - seguendone personalmente gli sviluppi - sulle modalità di conduzione delle indagini sulla sanità pubblica pugliese svolta dai sostituti procuratori Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo e sulle irregolarità e criticità di esse in violazione sia dell'articolo 11 del codice di procedura penale, sia delle disposizioni del decreto legislativo n. 109/2006 in materia di accertamento della responsabilità disciplinare nonché della relativa normativa secondaria del Csm che non consentivano di avviare di iniziativa indagini per accertare eventuali profili di legittimità svolte dai magistrati del suo ufficio». Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, è anche accusato di favoreggiamento personale per aver aiutato sia «Gianpaolo Tarantini ed altri indagati» ad eludere le indagini sulle escort, sia «aiutato» Silvio Berlusconi ad eludere le stesse indagini «dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». A Laudati viene contestato di aver disposto «arbitrariamente», il 26 giugno 2009, due mesi e mezzo prima di insediarsi nell'incarico di procuratore di Bari, che le indagini sulle escort portate da Tarantini nelle residenze di Berlusconi «venissero sospese e non si adottasse alcuna iniziativa fino a quando non avesse assunto le funzioni» di capo della procura. L'incontro avvenne nella scuola allievi della Guardia di finanza di Bari alla presenza del pm inquirente, Giuseppe Scelsi, e di ufficiali della Gdf a cui erano state delegate le indagini. L'insediamento di Laudati avvenne il 9 settembre 2009. Dando quelle disposizioni - secondo l'accusa - «con abuso dei poteri e violazione dei doveri di magistrato» Laudati, tra l'altro, ha impedito «l'assunzione di sommarie informazioni dalle altre escort non ancora ascoltate» e ha causato «ritardo ed intralcio nello svolgimento delle investigazioni per la maggiore difficoltà di accertamento di fatti e circostanze conseguente alla maggiore distanza temporale del momento investigativo dal loro verificarsi». In questo si è concretizzato - secondo i magistrati salentini - il reato di favoreggiamento personale aggravato contestato al procuratore di Bari. Laudati avrebbe quindi - è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini - «aiutato Gianpaolo Tarantini e gli altri indagati» ad «eludere le indagini» nel procedimento per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione delle «cosiddette escort» avviato dal pm Giuseppe Scelsi «nel quale era coinvolto quale fruitore delle prestazioni sessuali il presidente del Consiglio dei ministri, on. Silvio Berlusconi (al fine di favorire indirettamente quest'ultimo preservandone l'immagine istituzionale) ed aiutato anche quest'ultimo ad eludere le suddette indagini, dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». Avrebbe «intenzionalmente arrecato ingiusto danno» ad un altro pm della procura di Bari, Desirèe Digeronimo, e a un'amica di quest'ultima, Paola D'Aprile, attuando una «indebita aggressione alla sfera della loro personalità» intercettandone le conversazioni «per fini estranei alla funzione giurisdizionale»: è con questa motivazione che la procura di Lecce contesta al pm barese Giuseppe Scelsi (ora sostituto procuratore generale) il reato di abuso di ufficio nell'avviso di conclusione delle indagini a suo carico e a carico del procuratore di Bari, Antonio Laudati. La vicenda attribuita a Scelsi nel capo di imputazione è estranea alle indagini escort che riguardano il suo ex capo Antonio Laudati. La contestazione del reato all'ex pm riguarda invece le inchieste sulla sanità della Regione Puglia che tra il 2008 e il 2009 conducevano sia Digeronimo (che aveva tra gli indagati l'ex assessore Alberto Tedesco) sia Scelsi stesso, che avrebbe agito per «ripicca», secondo la procura di Lecce, e per «costringere» la collega ad astenersi. Per perseguire le proprie finalità «estranee alla funzione giurisdizionale», Scelsi, infatti, avrebbe più volte usato «surrettiziamente» elementi acquisiti durante altre intercettazioni, che lui stesso alcuni mesi prima aveva ritenuto penalmente irrilevanti. Sempre per perseguire il proprio intento, avrebbe anche coinvolto la guardia di finanza chiedendo informative che giustificassero le sue richieste di intercettazione di D'Aprile, che sapeva amica di Digeronimo. L'accusa dei confronti di Antonio Laudati per abuso di ufficio è invece legata alla costituzione di un'aliquota di finanzieri voluta dallo stesso procuratore e che aveva l'incarico di lavorare esclusivamente ai suoi ordini. Secondo la denuncia presentata a suo tempo da Scelsi quei finanzieri avrebbero però svolto una sorta di indagine parallela sul modo in cui veniva condotta l'indagine su Tarantini. La Procura di Lecce sostiene oggi che di fatto Laudati "spiò" il pm Scelsi e la collega Desierè Digeronimo eseritando nei loro confronti una vera e propria violenza privata, deleggitimandone anche la funzione agli occhi dei finanzieri incaricati di controllarli. Sul caso era intervenuta anche la commissione disciplinare del Csm che aveva tuttavia archiviato il fascicolo. L'avviso di conclusione delle indagini è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa al procuratore di Bari, Antonio Laudati. I cronisti indagati sono di Massimiliano Scagliarini de "La Gazzetta del Mezzogiorno" per un articolo che riguarda la stessa materia per la quale oggi la procura ha indagato Laudati. Poi Gianni Lannes, accusato di aver offeso in un articolo la reputazione di Laudati, del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, e dell’allora capo di gabinetto di quest’ultimo, Francesco Manna. L’articolo faceva riferimento ad un finanziamento concesso dalla Regione ad un convegno sulla giustizia organizzato a Bari da Laudati. Gli altri 'pezzi' ritenuti diffamatori per la reputazione del procuratore Laudati sono quelli della cronista di "Repubblica-Bari", Mara Chiarelli, (di omesso controllo risponde il direttore del quotidiano Ezio Mauro), e di Nazareno Dinoi del "Corriere del Mezzogiorno-Puglia" e direttore de “La Voce di Manduria” (di omesso controllo è accusato il direttore della testata, Marco De Marco).

Quando si dice la legge del contrappasso. Nazareno Dinoi, citato pocanzi è il giornalista di Manduria ben informato sulle carte del processo Scazzi, tant’è che ha pubblicato le famose foto della ragazza morta. Lui come i suoi colleghi non disdegna di sbattere il mostro in prima pagina. E’ incline a pubblicare le disgrazie degli altri. Oggi tocca a lui essere il mostro di turno sbattuto sulle prime pagine dei giornali nazionali: un po’ poco su quelli locali, molto attenti al rispetto della colleganza ed al rispetto per i magistrati. In loco la notizia è apparsa sul tg di Antenna Sud e sul tg di Tele Norba (con critiche del direttore ai magistrati di Lecce), niente di niente su TRNews, il tg di Tele Rama di Lecce. Nazareno Dinoi non ha avuto alcuno scrupolo nel scrivere, sui giornali che gli consentivano di farlo, della condanna in primo grado per abusivo esercizio della professione e per circonvenzione d’incapace a carico del sottoscritto dr Antonio Giangrande, per aver difeso una sua cliente nell’esercizio della professione forense, con regolare abilitazione. Condanna infondata e che non poteva essere altrimenti né in cielo, né in terra. Condanna generata dalla grave inimicizia con i magistrati di Taranto per non aver adottato la comune omertà in riferimento ai grossolani errori ed abusi che questi commettono. Non solo ha scritto della condanna, ma ha evidenziato il fatto che il Giangrande fosse il Presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio notoriamente non di sinistra. Questo per creare nocumento al Giangrande ed ancor di più alla sua associazione. Il Giangrande era lo stesso che ha denunciato magagne ai concorsi pubblici quando Manduria era sostenuta da una Giunta di Sinistra. Denuncie ben censurate sulla stampa di Manduria. Certamente Nazareno Dinoi ha pensato bene di non scrivere, però, sullo stesso giornale in cui ha dato la notizia a caratteri cubitali della condanna, che in appello la condanna non è stata confermata e che il magistrato del primo grado è stato denunciato a Potenza perché non nuova a sentenze ritorsive contro lo stesso Giangrande. Ha pensato bene di non scrivere di questa assoluzione come di tutte le altre assoluzioni per non aver commesso il fatto riguardo alle incriminazioni del reato di diffamazione a mezzo stampa. Reato che tocca proprio i giornalisti e che è il loro spauracchio. Oggi tocca a lui e di questo mi dispiace, perché non si augura a nessuno quello che si prova ad essere vittima di gogna mediatica.

Ma i giornalisti sono vittime od artefici di questo sistema informativo-giudiziario censorio od omertoso. «Con un’informazione libera l’Italia cambierebbe in 24 ore. I giornalisti italiani si suddividono in tre categorie: gli indipendenti (pochi, eroici e spesso emarginati), gli schiavi (tantissimi, sfruttati e pagati 5/10/20 euro a pezzo) e i Grandi Trombettieri del Sistema, nominati in posizioni di comando dai partiti e dalle lobby (direttori di testata, caporedattori, grandi firme, intellettuali per meriti sul campo). - E’ quanto scrive Beppe Grillo sul proprio blog, nell’iniziativa "Intervistiamo i giornalisti". - Il conflitto di interessi tra informazione e potere economico e politico è diventato insopportabile - sottolinea il comico - Siamo manipolati dai partiti, dalle banche e dalle industrie che, attraverso i media, stravolgono la realtà. L'Italia è un'Isola dei Famosi, un reality show di sessanta milioni di persone che ascoltano favole, racconti fantastici in dosi così massicce e da così lungo tempo da aver trasformato il Paese in un gigantesco Truman Show in cui la verità è menzogna e la menzogna è verità. Più il Sistema si decompone, più i media ne diventano l'ultimo feroce baluardo (dopo infatti non c'é più alcuna difesa) perdendo ogni ritegno e vergogna. La maggior parte degli italiani è informata da sette televisioni e tre giornali. Rai1, Rai 2 e Rai 3 sono occupate dai partiti, Canale 5, Italia 1 e Retequattro sono di proprietà di Berlusconi, a capo di un partito, la7 appartiene a Telecom Italia. La Repubblica è di De Benedetti, tessera numero uno del Pdmenoelle, La Stampa è della famiglia Agnelli, gli azionisti di riferimento del Corriere della Sera sono le banche e Confindustria. Siamo manipolati dai partiti, dalle banche e dalle industrie che, attraverso i media, stravolgono la realtà - aggiunge il fondatore del Movimento 5 Stelle. - Vorremmo però sapere qualche cosa di più su chi ci informa. Una questione di reciprocità. Il perché talvolta non riportano i fatti, se sono costretti o se è una loro attitudine. Vorremmo sapere quali direttive ricevono da parte dei loro giornali o telegiornali. Perché fanno le domande che fanno (talvolta tendenziose per dimostrare una tesi a priori). Vorremmo conoscerli più da vicino: i loro nomi, il loro curriculum, i loro pensieri» conclude Grillo.

Riguardo alla violazione del diritto di cronaca su “Il Giornale” c’è un appunto di Filippo Facci Quando una campagna tipo «Sallusti libero» mette d’accordo praticamente tutti (destra e sinistra, da Libero a Ingroia, dal Giornale a Di Pietro) vien voglia di rimettere qualche puntino sulle i e di sforzare la memoria prima di rincoglionire del tutto. Allora:

1) Non è vero che il caso Sallusti accomuna tutti i giornalisti nello stesso modo: il cosiddetto «omesso controllo» riguarda solo i direttori della carta stampata ed esclude invece i direttori delle testate online e delle testate televisive.

2) Non è vero che siano finiti in galera per diffamazione solo Giovanni Guareschi e Lino Jannuzzi. A parte che Jannuzzi finì solo ai domiciliari (prima di essere graziato) finirono dentro altri colleghi tra i quali ricordiamo solo Stefano Surace (che finì dentro a 70 anni per una diffamazione di trent’anni prima: Libero ci fece una campagna) e poi Gianluigi Guarino (direttore del Giornale di Caserta) per non parlare dei casi di Vincenzo Sparagna e Calogero Venezia del periodico Il Male.

3) Non è vero che Sallusti mercoledì potrebbe finire in carcere: in caso di conferma della condanna, essendo la sua pena inferiore ai 3 anni e non essendo quindi immediatamente esecutiva, occorrerebbe attendere che la Cassazione notifichi la sua decisione alla procura di Milano (e già qui passa del tempo) e poi che la Procura faccia eguale notifica ai legali di Sallusti (altro tempo che passa) sinché da quel momento, cioè dalla ricezione, gli avvocati avrebbero altri 30 giorni di tempo per proporre delle pene alternative come per esempio il classico affidamento ai servizi sociali. La semi-libertà no, perché la pena supera i sei mesi. Insomma, tempo per fare qualcosa ce n’è.

4) Non è vero che i giudici si sono limitati ad applicare la legge. Il tribunale può giostrarsi tra sospensione della pena e riconoscimento delle attenuanti generiche, e, anche se la pena non fosse sospesa, possono decidere se infliggere il carcere in totale discrezionalità: in genere infatti si limitano a una pena pecuniaria. Così non è stato.

5) Non è vero, purtroppo, che le cause intentate dai magistrati corrano in corsia di sorpasso surrettiziamente: l’hanno addirittura codificato e previsto da una circolare del Csm (la n. 5245 dell’11 giugno 1981) che teorizza «la trattazione più sollecita» dei procedimenti riguardanti i magistrati. Chi l’ha deciso? I magistrati.

6) Non è vero, o pare strano, che i legali del giudice diffamato, ora, dicano che ingabbiare Sallusti non gli interessa e che a fronte di un «equo risarcimento» ritirerebbero la querela: la sentenza della Corte d’Appello ha già previsto multe e quantificazione del danno (5000 Sallusti, 4000 Montinone, altri 30mila generici) e quindi non è chiaro perché la querela non la ritirino subito, visto che il pagamento è obbligato. Se ingabbiare Sallusti non fosse stato tra gli obiettivi, dunque, non è chiaro perché non si siano limitati ad un’azione civile (che puntasse solo ai soldi) e perché il pm che rappresenta l'accusa, soprattutto, abbia formulato Appello e dunque richiesto che carcere fosse.

7) È vero che molti giornalisti e molti giornali, ormai, tendono a considerare le cause per querela come un costo ordinario da mettere a bilancio: i tempi e i costi della giustizia portano a transigere (si paga una cifra e buonanotte) e si rinuncia a far valere le proprie ragioni. Qui le colpe sono da ripartire tra la lentezza della giustizia e una certa pigrizia di qualche avvocato e giornalista, non c’è dubbio.

8) È vero che la situazione di Sallusti è stata peggiorata da recenti decisioni dei governi di centrodestra: anche se è vero che tutti i governi, negli ultimi lustri, se ne sono fottuti. Per diffamazione semplice non si può finire in carcere, ma per quella «a mezzo stampa» sì in quanto è quasi sempre «aggravata» dall’attribuzione di un fatto determinato. Dalla famigerata «ex Cirielli» del 2005 in poi, peraltro, è impedito ai recidivi (come Sallusti, colpevole di altri «omessi controlli») di ottenere la sospensione del carcere per le pene che non superino i tre anni; non bastasse, sono state introdotte delle restrizioni nell’accedere alle pene alternative per chi abbia dei precedenti come i citati «omessi controlli». Nel caso di Sallusti, tuttavia, va detto che di precedenti che prevedano la carcerazione non ce ne sono: il direttore ha solo delle condanne indultate o trasformate in pena pecuniaria, nessuna delle quali per articoli scritti da lui.

9) È vero che la solidarietà tra penne d’ogni bandiera è una buona cosa, ma certi toni di sufficienza fanno prudere la penna. Il Giornale - direttore Maurizio Belpietro - nell’estate 1998 pubblicò la prima inchiesta in assoluto sul tema della diffamazione a mezzo stampa: 9 puntate, 60.277 battute a cura dello scrivente. Seguirono pochi servizi di Panorama e del Foglio mentre la Fnsi, sollecitata, fece solo sapere che: «Abbiamo chiesto agli editori l’istituzione di un fondo per coprire le spese legali». Traduzione: per risolvere il problema delle querele, basta pagare; come a dire che per risolvere il problema della malagiustizia basta andare in galera. Fu il Giornale a pubblicare regolarmente i monitoraggi del professor Vincenzo Zeno-Zencovich (anche qui, silenzio) e furono giornalisti di centrodestra o comunque non di sinistra (Roberto Martinelli, Alessandro Caprettini) a promuovere incontri e convegni. Di una fantomatica proposta di legge annunciata da Luciano Violante non si seppe più nulla, di un’altra presentata dal senatore radicale Pietro Milio, pure ispirata dalle inchieste del Giornale, pure nulla. Analogo destino ebbe una proposta del senatore Marcello Pera di Forza Italia. Tutto questo sempre nel silenzio: tranne un paio di casi (forse uno solo, nel 2009) in cui il condannato era di sinistra e allora c’è stato un po’ di baccano.

10) È vero che Antonio Di Pietro ora fa il buono e invoca un decreto per salvare Sallusti. Ma andrebbe ricordato che un suo progetto di legge prevedeva il «decreto cautelare di rettifica» oltreché la rilettura obbligatoria dei virgolettati agli intervistati, nonché - inevitabile - un inasprimento delle pene per il reato di diffamazione: alle testate che di tale diffamazione si macchiassero, a suo dire, doveva appunto essere imposta un’esponenziale sospensione delle pubblicazioni: più diffamazioni ergo più sospensioni, ogni volta più prolungate. Se per salvare Sallusti finiamo nelle mani del molisano, uh, siamo a posto.

A questo punto ci tocca dare la parola all'indagato. Cosa che nè i giornali fanno, nè i magistrati consentono. Laudati contrattacca con una intervista a di Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Mi accingo a chiedere formalmente alla Procura di Lecce di essere sentito. Non si possono condurre indagini sull'attività di un procuratore senza ascoltarlo». Amareggiato, ma al tempo stesso combattivo. Il Procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati, indagato dalla Procura di Lecce, respinge le accuse e fa quadrato intorno all’ufficio inquirente che dirige da tre anni. L’inchiesta è quella partita dalla denuncia del Pm Giuseppe Scelsi (oggi alla Procura generale), il magistrato che per primo ha indagato sulle escort reclutate da Gianpaolo Tarantini per partecipare a feste esclusive in residenze private dell’ex premier Silvio Berlusconi.

Procuratore, due giorni fa alcuni suoi sostituti sono stati sentiti come persone informate sui fatti dal procuratore di Lecce Cataldo Motta. Come commenta la notizia?

«Ho il massimo rispetto delle procedure istituzionali e sono convinto che chi svolge una funzione come la mia pubblica e di rilievo deve essere sottoposto a ogni forma di controllo. Sono sicuro di non avere nulla da temere perché ho improntato il mio comportamento al rispetto della legge, all’imparzialità della mia funzione e al perseguimento della giustizia».

Prima il Csm, poi gli ispettori ministeriali (i cui accertamenti al momento sono finiti con un nulla di fatto), infine la Procura di Lecce. Le verifiche sul suo operato non finiscono mai?

«Non posso non rilevare che questo tipo di accertamenti è iniziato un anno fa, ma un’indagine a carico di un procuratore non può durare tanto. Occorre dare risposte rapide sia che siano stati commessi reati, sia che non siano stati commessi, soprattutto per la credibilità dell’ufficio».

La pensano allo stesso modo migliaia di persone indagate che vivono in un «limbo» e che chiedono senza fortuna di potere dire la loro. La giustizia non è uguale per tutti?

«Capita a me quello che accade a tanti cittadini. Rappresento, però, che, indipendentemente dalla vicenda personale, la questione si riverbera sull'intero ufficio. Non sostengo che la mia posizione è diversa, ma lamento che così si mette a rischio la credibilità della giustizia e delle istituzioni. Una situazione che deve essere definita in tempi rapidi. Per questo voglio subito essere interrogato».

In realtà l’inchiesta di Lecce sembra volere accendere un faro non tanto o non solo sulla sua attività, ma anche su quella di alcuni suoi sostituti. Qual è il clima che si respira nel Palagiustizia?

«Non so se la vicenda riguarda altri magistrati, e comunque, leggendo i giornali, si tratta di cose avvenute prima del mio arrivo a Bari. Sono dispiaciuto della rappresentazione che viene data del nostro ufficio. In questi tre anni abbiamo svolto una grande mole di lavoro in rapporto all’organico e alle scarse risorse disponibili. Occorrerebbe guardare quello che facciamo tutti i giorni e mandare in soffitta tutti i veleni».

Eppure proprio l’indagine più delicata sarebbe stata rallentata. E poi ci sono l’aliquota e la banca dati volute da lei.

«Al mio arrivo mi sono posto due obiettivi: trasparenza ed efficienza. Ho istituito pool di magistrati, un coordinatore, è stata potenziata la polizia giudiziaria, ho applicato alla Procura di Bari quanto ho imparato in Antimafia: si lavorava in pool per garantire maggiore correttezza possibile delle decisioni (sei occhi guardano meglio di due) e per evitare la sovraesposizione di un singolo Pm».

Alla luce delle accuse che le vengono mosse, considera gli obiettivi raggiunti?

«L’inchiesta Tarantini è stata divisa in sette tronconi tutti a processo, prima che arrivassi non era stato neanche arrestato. Il processo Tedesco è all’udienza preliminare, prima del mio arrivo non era stata notificata neanche un’informazione di garanzia. Per tutti questi processi c'è la valutazione di Gip, del Riesame e della Cassazione. Trovo una certa amarezza nel fatto che il lavoro dei miei colleghi, al prezzo di grandi sacrifici anche personali, passi in secondo piano. Nessun rallentamento, dunque, per non parlare della fantomatica ricostruzione della “aliquota”. Sono solo stati creati gruppi “ad hoc” di Carabinieri (per Tedesco) Gdf (per Tarantini) e Polizia (per le fughe di notizie) decisi dai vertici della forze di polizia. L’accusa è smentita dai fatti».

Pensa di avere commesso qualche errore?

«Sì, per esempio, con il senno di poi, non avrei trasmesso al Procuratore generale presso la Cassazione la “relazione Sportelli”, in cui venivano evidenziate tutte le anomalie commesse prima del mio arrivo. Pensavo fosse mio dovere segnalarle, e, invece, la relazione si è ritorta contro di me».

Prima dello scandalo si parlava di lei come possibile Procuratore di Napoli o Roma o come prossimo Procuratore nazionale antimafia. Tutto sfumato? Pentito, oggi, di avere scelto Bari?

«Chi assume un ruolo come il mio in un distretto importante come Bari accetta anche il rischio della sovraesposizione. Sono stati anni pesanti, ma ho fatto una scelta di cui non mi pento. Sono convinto che il tempo è galantuomo e mi darà ragione».

Tra un anno scade il suo primo «mandato». Ne seguirà un altro? Cosa farà da grande?

«Chi fa il Procuratore ha incarichi a termine, indipendentemente dalla propria volontà. La legge stabilisce quanto devo rimanere, ma è un problema che non mi pongo adesso anche perché fino a quando non avrò dimostrato ai cittadini l'assoluta infondatezza di tutte le questioni sollevate nei miei confronti, mai penserò di cambiare incarico. Credo di dovere dare ai cittadini la sicurezza che hanno avuto un Procuratore al di sopra di ogni sospetto e che non ha commesso alcun reato».

Perquisizioni e spogliarelli: le intimidazioni ai cronisti, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Uno studio rivela i metodi dei magistrati, dai blitz alle ispezioni "personali". Scrivere per il Giornale, o per qualsiasi altro giornale, sta diventando rischioso. Se adesso si va dritti in galera non è che fino a ieri la magistratura ci andasse leggera e non avesse altri strumenti per renderti la vita e la professione impossibili. Utilizzava (e utilizza) intercettazioni a strascico e soprattutto si avvale di uno strumento invasivo, ritorsivo, intimidatorio: quello della perquisizione-sfregio, a casa e in ufficio, nelle stanze dei tuoi bimbi o in redazione, a ficcare il naso nelle tue agende, aprendo i libri, i cd, tra la biancheria, in garage o in frigorifero, nell'appartamento di mamma e papà, perfino dai tuoi nonni. Tutto per scoprire la «fonte» e sequestrare il documento - che non trovano mai - all'origine di quella rappresaglia. Ormai è routine: si presentano all'alba, ti sequestrano fisicamente spesso fino a notte fonda, con decine di sbirri a mettere Le mani nel cassetto (e talvolta anche addosso), come titola uno studio del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti rintracciabile su internet sui cronisti perquisiti. Storie drammatiche e paradossali. Il Giornale ovviamente la fa da padrone con Vittorio Feltri e Nicola Porro a raccontare la violenza del blitz che colpì anche Sallusti, sulla farsa del ricatto all'ex presidente di Confindustria. «La Procura di Napoli era partita lancia in resta contro la supposta macchina del fango da me diretta - racconta Feltri - nel frattempo però mi ero dimesso, cedendo il comando a Sallusti (...) e al mio posto fu perquisito lui che non c'entrava nulla, al tempo dei fatti, salvo aver firmato il pezzo. Fu perquisito anche Nicola Porro. Fisicamente. Carabinieri dappertutto: al Giornale e nelle abitazioni dei reprobi. Roba da matti. Ventiquattr'ore dopo pubblicammo davvero un dossier sulla Marcegaglia». Era un falso, collezionato con gli articoli dei giornali illuminati e progressisti. Porro non se lo scorderà più quel giorno. Nudo davanti ai carabinieri come un boss mafioso. «Sono stato perquisito per un'intercettazione telefonica. Il sottoscritto all'epoca dell'intercettazione non era indagato. Il reato di cui mi sarei macchiato (violenza privata) non è di quelli per cui il codice prevede le intercettazioni. Con questi criteri anche Babbo Natale sarà presto messo sotto controllo (...)».Tra i racconti dei cronisti del Giornale inseriti nel pamphlet anche quello di chi scrive, recordman del triste settore (una ventina di perquisizioni all'attivo, l'ultima in albergo a Montecarlo per la casa Fini-Tulliani). Poi c'è il nostro Stefano Zurlo, anzi suo figlio Giacomo (all'epoca aveva 4 anni) a cui le forze dell'ordine piombate in cameretta chiesero dove papà nascondesse le carte di uno scoop su Pacini Battaglia. E che dire di Anna Maria Greco «colpevole» di aver recentemente pubblicato su questo quotidiano un atto sulla pm Boccassini: perquisita davanti alla famiglia schierata, invitata a spogliarsi e sottoporsi a ispezione personale («...Mi dicono: "ci dia i documenti, così la finiamo qui: dove li ha nascosti?". Ho risposto: "Non ce li ho". Mi hanno detto che dovevano procedere anche alla perquisizione "personale". Mi sono preoccupata seriamente quando la donna carabiniere ha infilato i guanti di lattice. Mi ha fatto entrare in un bagno e mi ha detto di spogliarmi. "Anche la biancheria intima", ha precisato. Non volevo crederci. "E che, nascondo documenti segreti nelle mutande?"». Sull'onda del trattamento-Greco passiamo ai perquisiti degli altri giornali, come Roberta Catania di Libero, anche lei invitata a togliersi tutto per accertare che non nascondesse una chiavetta-dati coi segreti dell'inchiesta sul G8. Idem Carlo Mion de la Nuova Venezia che a quattro mesi dalla pubblicazione di un video dell'inchiesta Unabomber, è sollecitato a denudarsi: «Eh no, mi offendete! Ma pensate che per quattro mesi vado in giro col dischetto infilato da qualche parte?». Lo spogliarello è evitato, la perquisizione no. A Fabio Amendolara della Gazzetta del Mezzogiorno, per il caso Claps, e ad Enzo Bordin del Mattino di Padova, per una storia di trafficanti di droga, in assenza della pistola fumante sequestrarono interi archivi e fascicoli estranei al caso. Quanto capitato nel 2008 a Emiliano Fittipaldi e a Gianluca Di Feo de l'Espresso, per inchieste su camorra e politica, non ha eguali: «Ho subito due perquisizioni a una settimana l'una dall'altra su due inchieste differenti», racconta il primo. Anche Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera è stata perquisita due volte in una settimana, nel 2002, «perché nel primo controllo non era stata trovata la mia agenda personale». Nella casetta delle Barbie delle figlie della brava Alessandra Ziniti di Repubblica il Ros cercò l'identikit del capomafia Provenzano. L'appartamentino venne smontato, senza alcun riguardo per i vestitini, le scarpe e le borse delle bambole. La faccia del boss non saltò fuori. Quella della figlia Giulia, arrabbiatissima per il mini guardaroba in disordine, i carabinieri non la scorderanno. Le pagine del rapporto curato dall'Ordine dei giornalisti nel 2011 sui cronisti fatti perquisire dai magistrati è sotto gli occhi di tutti.

Direttori plurindagati in tutte le redazioni: non solo al Giornale, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Anche a carico di chi guida "Corriere" e "Repubblica" decine di inchieste per diffamazione. La pena più dura? Sotto i sei mesi. Ventisei nell'arco di due anni. E solo al tribunale di Milano.  È il numero degli articoli del Corriere della sera finiti sotto processo insieme ai giornalisti che li hanno scritti e al direttore della testata. Un record, ma in una graduatoria affollata di imputati. Il Giorno è a quota 17, Panorama segue a ruota a 15, poi via via tutti gli altri. Fa parte del mestiere, una professione che si svolge su un confine difficile, mai fissato con chiarezza. Basta poco e scatta l'accusa di diffamazione. L'avvocato Sabrina Peron ha sviluppato nel 2007 uno studio approfondito, uno dei pochi sul tema, per conto dell'allora presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo. La fotografia è un po' datata ma molto interessante perché al setaccio del legale sono passate tutte la cause arrivate al tribunale di Milano fra il 2003 e il 2004 e poi tutti i procedimenti definiti dalla corte d'appello del capoluogo lombardo nel triennio 2003-2005. Le cifre del contenzioso sono imponenti: un flusso continuo di carte bollate che ritorna nelle aule in cui si discutono i procedimenti di secondo grado. Qua troviamo il Giornale che sfuggiva al rilevamento precedente perché gran parte delle sentenze che lo riguardano arriva dal tribunale di Monza. E il Giornale è al vertice di questa poco invidiabile classifica con 55 processi, ma gli altri vengono dietro, sia pure a distanza: Panorama è a 19, Repubblica a 16, il Corriere della sera a 13, la Padania a 8, le tv di Mediaset a 7. Non è possibile generalizzare, ma si può affermare che i processi per diffamazione sono all'ordine del giorno, per non parlare di quelli civili che richiedono alti conteggi. Attenzione: una sentenza come quella che riguarda Alessandro Sallusti si fa però fatica a trovarla. In tribunale, nel giro di 24 mesi, la punizione più dura è sempre sotto i 6 mesi. E in corte d'appello si scende ancora, anche se su un calendario spalmato su tre anni: il massimo della pena è di 4 mesi e 15 giorni, a correzione di un verdetto precedente, non di matrice ambrosiana, che aveva appioppato al giornalista una pena pesantissima di 24 mesi di carcere. In secondo grado, come si vede, la punizione è stata mitigata, il contrario di quel che è accaduto ad Alessandro Sallusti che in prima battuta era stato condannato a pagare 5mila euro, ovvero una pena pecuniaria. La multa è la pena standard di questi processi, il carcere l'eccezione. Si è chiuso a colpi di euro il 94 per cento dei processi in tribunale, solo il 6 per cento delle querele è finito con la condanna al carcere, ma sempre con una pena poco più che simbolica. In corte d'appello le proporzioni cambiano ma non di molto: il 72 per cento delle condanne non va oltre la multa e solo il 20 per cento si traduce in una condanna detentiva. Insomma, il caso Sallusti è in controtendenza: è raro che la pena salga passando dal primo al secondo grado. È ancora più difficile trovare una condanna a 14 mesi e, anche se mancano dati specifici, sembra davvero un unicum la mancata concessione della condizionale. Non sorprende invece il fatto che a querelare il direttore dimissionario del Giornale sia stato un magistrato. In tribunale, dove già sono di casa, i giudici sono parte offesa nel 18 per cento dei procedimenti per diffamazione. Le persone giuridiche, quindi società e associazioni, rappresentano il 14 per cento del totale, contro il 9 per cento dei politici. In appello i magistrati svettano con il 19 per cento delle querele, ma i politici li appaiano con la stessa percentuale, mentre gli amministratori delle persone giuridiche si fermano al 9 per cento. I custodi della legge sono dunque fra le categorie più attente nel non farsi pestare i piedi. L'alluvione di numeri può anche risultare indigesta, ma aiuta a far capire lo guerriglia che si combatte su quel confine inquieto. In particolare sul terreno della cronaca dove spesso si accende la scintilla della disputa: nel 46 per cento dei casi in tribunale, un po' meno in secondo grado. Certo, nove sentenze su dieci puniscono l'assenza del criterio di verità, insomma la pubblicazione di notizie false. Patacche. Ma in appello emerge un altro fenomeno allarmante che rischia di mandare al macero tutti gli altri numeri: un quarto dei processi svanisce nella nuvola della prescrizione. Le cancellerie sono ingolfate, ma col passare del tempo le accuse si assottigliano e le pene scendono. Con Sallusti è successo tutto il contrario. Ma, si sa, le statistiche non hanno la faccia del direttore del Giornale.

Tortora, Sallusti. E Giangrande?

Enzo Tortora, icona dell’ingiustizia in Italia: un esempio per nulla. E poi Alessandro Sallusti esempio inane di ritorsione censoria. Ma perché nessuno parla di Antonio Giangrande?

«Questa è un’Italia ipocrita e dissimulatrice. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Italiopolitania, Italiopoli allo sbaraglio”.  La premessa alla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Si parla sempre a sproposito di meritocrazia, ma nulla si fa contro le rendite di posizione. Ruoli, funzioni ed incarichi pubblici immeritati? No! Meglio parlare sempre e solo di crisi e di soldi o sparlare di quella politica stantia che gli italioti votano e sempre voteranno. Il solito populismo sempre in cerca di una competenza ed onestà di parte. Periodicamente si parla di Enzo Tortora come icona dell’ingiustizia e di tutti coloro che scontano da innocenti le pene dell’inferno in carcere:  “Silvia mia carissima questo, te lo confermo, è un paese infame. Io sono, certe volte, proprio disperato. In questo paese non succede nulla. E’ questo che mi avvelena e mi dispera. Una ad una le speranze di una rigenerazione morale se ne vanno. Una Stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo ed ai circensi. Aliena ai problemi veri e reali. Uno spettacolo immondo. Sono deluso Silvia. Mi pare di aver gettato via la mia vita e debbo fare anche autocritica. Credevo nella legge, nei magistrati e nelle istituzioni. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini, ma pietre. Pietre senza suoni, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. Ed il mondo gira: indifferente a quest’infamia.” (lettere di Enzo Tortora alla figlia Silvia). Enzo Tortora un martire che illumina le battaglie per la responsabilità dei magistrati, che i manettari non vogliono. Poi si è passati a parlare di Alessandro Sallusti come la vittima esemplare della ritorsione censoria del potere giudiziario. Un esempio per tutti i giornalisti liberi e coraggiosi che scrivono anche contro i magistrati, denunciandone abusi ed omissioni. Ma la Cassazione smentisce sé stessa pur di irrorare una pena esemplare: punire uno per tacitarne mille. La sentenza 19985 del 30 settembre 2011 della terza sezione della Cassazione parlava di «immediata rilevanza in Italia delle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo», di «obbligo, da parte del giudice dello Stato, di applicarle direttamente» e di «tenere presente l'interpretazione delle norme contenute nella Convenzione che dà la Corte di Strasburgo attraverso le sue decisioni». Ma cosa dicono la Convenzione e la Corte Europea si chiede “Il Giornale”? Innanzitutto, stabiliscono un principio cardine e fondamentale: nessun giornalista può andare in carcere per il reato di diffamazione. L'assunto è stato ribadito nella sentenza del 2 aprile 2009 nella quale la Corte di Strasburgo ha condannato la Grecia a risarcire il giornalista Kydonis perché «le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione» e perché «il carcere ha un effetto deterrente sulla libertà dei giornalisti di informare con effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta diritto a ricevere informazioni». Se ciò non bastasse, la Corte di Strasburgo ha anche sottolineato come la previsione del carcere sia «suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa». Anche la Corte Costituzionale è stata snobbata. Nella sentenza 39/2008, la Consulta aveva stabilito che «le norme della Convenzione europea devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati a uniformarsi». Concetto espresso anche dal Consiglio d'Europa. Oltretutto è indagato il magistrato che querelò Sallusti: però, fascicolo fermo. Così scrive Andrea Morigi su “Libero”.

L'accusa a Cocilovo: abuso d'ufficio nella gestione del patrimonio di una donna. Il figlio: "La rovinò". Dal 2009 nessuna novità. Il magistrato Giuseppe Cocilovo dovrà pazientare ancora un po’ per affermare che «giustizia è fatta». Almeno finché non si risolverà la vicenda giudiziaria che lo vede iscritto al registro degli indagati sin dal 15 giugno 2009 per il delitto di abuso d’ufficio. È un esposto, depositato alla Procura di Milano una decina di giorni prima, a chiamarlo in causa per una vicenda che risale agli anni fra il 2006 e il 2008, quando Cocilovo era giudice tutelare presso la VII sezione civile del tribunale di Torino. Per qualche motivo ancora da chiarire, tutta la documentazione relativa al procedimento giaceva fino a venerdì mattina sul tavolo del giudice per le indagini preliminari Fabrizio D’Arcangelo, nonostante una motivata richiesta d’archiviazione da parte del pubblico ministero Grazia Colacicco risalente al 17 febbraio 2010. Certo, com’è noto per l’articolo a firma Dreyfus comparso su Libero nel febbraio 2007, nel giro di soli cinque anni e mezzo si è giunti a una sentenza definitiva di condanna contro Alessandro Sallusti. Ma in quel caso il torto subito dal magistrato è stato riparato. A questo punto, anziché indignarsi contro i magistrati, monta l’antipolitica e lì la stampa a cavalcare l’indignazione sugli sprechi dei politici. Dallo spreco e dall’approfittamento si passa direttamente a parlare di corruzione. I giustizialisti ed i manettari sviano i temi forti e sono sempre lì pronti a crocifiggere tutti coloro che sono, addirittura, colpiti solo da un rinvio a giudizio. Tapini loro che si beano della loro ignoranza o dissimulano la loro malafede. Loro non sanno, o fanno finta di non sapere, che ben pochi sono coloro che hanno il privilegio di subire un giudizio, rispetto a milioni di denunce, che spesso ci si astiene dal presentare per l’improvvida conclusione (insabbiate o archiviate), e che il Gip-Gup non è altro che la “Longa Manu” del Pubblico Ministero. Spesso tali rinvii a giudizio sono per reati bagatellari commessi da poveri cristi o per reati di opinione. Molte volte tali giudizi si risolvono in assoluzioni o proscioglimenti in senso lato. Quasi mai si procede per abuso d’ufficio: il reato dei poteri forti. Ergo: l’arma pretestuosa della giustizia per discernere i buoni (ricchi e potenti) dai cattivi (poveri ed analfabeti); gli amici (di sinistra) dai nemici (di destra). In questo stato di appannamento mentale, influenzato dalla crisi, che addita i politici della fazione opposta come causa di tutti mali, c’è chi racconta una realtà diversa. Antonio Giangrande è il portavoce nel mondo in video ed in testi (non icona, non esempio) di chi in questa Italia bigotta voce non ha. Rappresenta centinaia di migliaia di candidati non idonei ai concorsi pubblici truccati, denunciandone le anomalie: per questo da 15 anni avvocati e magistrati non lo abilitano alla professione forense. Gente, che lui ha denunciato, solo in 2 minuti giudica i suoi elaborati, lasciandoli immacolati ed immotivati. Elaborati tecnici che, a parte le operazioni ante e post, si leggono con la dovuta attenzione in non meno di 10 minuti. Egli rappresenta centinaia di migliaia di innocenti in carcere, raccontando della malagiustizia che rende il sistema inefficiente e facendo conoscere singole storie di ordinaria ingiustizia che altrimenti rimangono nell’oblio. Egli, a parte ciò, racconta l’Italia per quella che è, approfondendo tutte le problematiche che l’attanagliano. Ma non senza, però, dal presentare al mondo con la sua “Tele Web Italia” la bellezza di cui la penisola è composta. Egli discerne l’Italia dagli italiani. Per questo i suoi siti web di informazione vengono chiusi e lui accusato del reato di diffamazione a mezzo stampa. Peccato però, che a differenza di Alessandro Sallusti, egli in sentenza è sempre dichiarato estraneo ai fatti. Non innocente, ma estraneo ai fatti incriminati. Già. Ma, stante l’utilità sociale del suo operato e le ritorsioni subite, perché di Antonio Giangrande nessuno ne parla?»

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI.

A quanto ammonteranno i compensi per i custodi giudiziari dell’ILVA?

I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti.

«Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. Ma a ciò bisogna far buon viso a cattivo gioco (giudiziario), se no succede quello che succede a me - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Malagiustiziopoli” nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Io sono inviso dalla classe forense e giudiziaria, in quanto rendo pubbliche le magagne che si annidano presso gli uffici giudiziari. Il giornalista che va per la maggiore non vuole o non può pubblicare certe notizie, perché non ha il coraggio o, pur saccente, non ha la perizia giuridica per affrontare tematiche processuali, che solo scaltri avvocati riescono a scalfire. Per esempio, pragmaticamente, su sollecitazione di molti avvocati di Taranto vicini all’Associazione Contro Tutte le Mafie, prendiamo il caso concreto della decisione del Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli. Già abbiamo affrontato il caso di quel consulente tecnico che non ha risposto alle domande postegli dal giudice delegante ed anzi andò in antitesi alla consulenza tecnica della parte convenuta e ben oltre la richiesta della consulenza tecnica della parte attrice. In quel caso il Pm archiviò a carico del CTU la denuncia per falso, ma, ciò nonostante, il dr Antonio Morelli estromise tale CTU dall’apposito elenco e per gli effetti quel consulente non fu più chiamato. L’archiviazione dette modo al consulente estromesso di rivalersi contro il denunciante per calunnia. Il denunciante a sua volta denunciò, inopinatamente il sottoscritto che lo difendeva in giudizio, per diffamazione a mezzo stampa per aver svolto un’inchiesta giornalistica sul funzionamento della giustizia a Taranto. Una golosa occasione per i magistrati di Taranto per tacitarmi, così come spesso hanno fatto, non riuscendoci. Ma arriviamo al caso di specie. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Questa differenza fa sorgere qualche dubbio circa la bontà legale dei presupposti, a fondamento della richiesta, e la susseguente decisione di accoglimento della stessa. Va da sé che i giudicanti sono ingiudicati e poi si sa che su tutto si trova una giustificazione. E’ da scuola la lezione, però, data dal presidente del Tribunale, Antonio Morelli, al suo collega Giudice dell’Udienza Preliminare. Morelli ha spiegato che è sbagliato considerare il custode giudiziario tour cour come amministratore e per gli effetti liquidare un compenso maggiore. Per due ordini di motivi: il primo è che non è ancora intervenuto il DPR previsto dal DLgs 14/2010 (istituzione dell’albo degli amministratori giudiziari); il secondo è che l’attività ed i compiti del custode, che danno diritto all’indennità prevista dall’art. 58 del DPR 1157/2002, sono infatti quelli di custodire e conservare la cosa custodita. “Né la figura dell’amministratore giudiziario, inserita dal legislatore nell’ampio contesto normativo di contrasto alle associazioni mafiose ed alle forme di criminalità similari, ha soppiantato la figura del custode, ma soprattutto non ha abolito, pur nell’ambito della sua qualifica, le attività tipiche di quello e cioè la custodia e la conservazione del bene sequestrato. E’ sufficiente, oltre che alla logica ed ai principi generali, fare riferimento al comma 8 dell’art. 2 sexies della legge 575/1965 che attribuisce all’amministratore il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione ed alla amministrazione dei beni sequestrati anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi. Il senso del ragionamento - spiega Morelli - è che in concreto, tenuto conto della natura dei beni sequestrati, l’amministratore può svolgere attività tipiche del custode (custodire e conservare la cosa custodita), indipendentemente dal criterio nominalistico che lo definisce. Se si ragionasse diversamente si dovrebbe ritenere diverso dal custode colui che, nominato amministratore in procedimento per reati che prevedono tale figura, in concreto fosse chiamato a  svolgere compiti di mera custodia o di conservazione del bene nel senso sopra definito. Nel caso di specie i beni “amministrati” erano semplici immobili ad uso abitativo e le attività svolte non possono che considerarsi appropriata alla figura del custode e più in particolare al suo compito di sovrintendere alla conservazione del bene. Le argomentazioni di cui sopra conducono ad una conclusione di notevole rilievo in ordine ai criteri per determinare il compenso in maniera proporzionata alla natura e alla consistenza dei beni e delle attività svolta dal custode/amministratore. È infatti noto che ai sensi degli artt. 58 e 59 del DPR 115/2002 le tariffe relative alle indennità di custodia sono devolute a un decreto ministeriale e in mancanza agli usi locali. È noto, altresì, che il decreto ministeriale 256/2006 unico a provvedere un tariffario, contempla soltanto alcuni beni (motocarri, autoveicoli, motoveicoli e natanti) e che per gli immobili di cui al sequestro in questione, non vi sono usi locali che determinano le indennità di custodia. Non può allora che farsi ricorso ad un criterio di liquidazione secondo equità che, a parere del giudicante, deve prescindere dalle tariffe stabilite dagli ordini professionali, in quanto tutta la normativa in tema di custodia, così come di perizia e di consulenza tecnica, si scosta notevolmente dalle tariffe professionali, stante la diversità ontologica tra i compensi per attività chieste liberamente da privati e i compensi per attività costituenti un incarico di carattere pubblicistico. Prova di tale conclusione sta proprio nella necessità che il legislatore ha sentito di devolvere ad un decreto, non ancora emesso, un tariffario che, se avesse voluto, avrebbe potuto identificare con quello della categoria professionale. Alla stregua di tale considerazione, considerato il tempo della custodia, nonché la diligenza e la puntualità con la quale la stessa è stata espletata, ma anche la natura e la consistenza del patrimonio amministrato e la relativa semplicità degli interventi gestionali spiegati, si stima equo determinare l’indennità in euro 30.000,00” e non 72.000,00!!

Tutto ciò sta a dimostrare che spesso e volentieri vi è una certa complicità tra magistrati ed ausiliari a speculare sulle disgrazie di chi, poi spesso, è prosciolto dalle accuse.  Caso limite  e quello di Giuseppe Marabotto. Come racconta “La Stampa” ed altri organi d’informazione, Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato. Per questo motivo anche a Taranto si augura lunga vita professionale al Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, anche perché il pensiero corre ai custodi giudiziari nominati per lo spegnimento degli impianti ILVA. Si pensi un po’, prendendo spunto da quanto suddetto ed adottando i criteri di liquidazione del GUP, quanto a questi sarà riconosciuto come compenso?»

CORSI E RICORSI STORICI.

A proposito di come funzioni la giustizia (con la g minuscola) in questi paraggi riportiamo questo stralcio di premessa del libro-inchiesta del giornalista Alfredo Ancora: "Un anno dopo, a maggio del 2010, tutti gli imputati di cui si parla in questi articoli di stampa sono stati prosciolti dall'accusa di corruzione; il giudice Tommasino anche da quella per la fuga di notizie. Solo l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto Petrucci è stato rinviato a giudizio con l'accusa di peculato, perché avrebbe utilizzato per uso personale il cellulare di servizio. Ad ogni modo fui molto colpito dalle notizie di stampa che annunciavano l'inchiesta di Taranto, perché alcuni anni prima l'allora procuratore aggiunto della Repubblica di Lecce, Aldo Petrucci, era stato l'autore di un'inchiesta mirata e puntigliosa che aveva portato all'arresto dell'ex sindaco di Calimera, Giorgio Aprile, del suo vice sindaco Fernando Gaetani, e di chi scrive, Alfredo Ancora, allora capogruppo del Pds in Consiglio comunale. Non eravamo dei ladri, non eravamo corrotti, non eravamo accusati di nessuno dei reati per i quali in quegli anni era nata ed è poi divenuta famosa l'inchiesta milanese di "Mani Pulite", quali concussione, corruzione, peculato, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato, etc.. No, nulla di tutto questo. Fummo arrestati con un'ordinanza di custodia cautelare emanata a causa di una mia lettera di dimissioni dalla carica di consigliere comunale. Una vicenda oscura e strana che aveva portato tre cittadini, i quali per anni, da postazioni e con intensità diverse, avevano combattuto contro il malaffare e la gestione allegra della cosa pubblica, a finire quasi in prigione. Solo la "magnanimità" del giudice per le indagini preliminari consentì che ci fosse risparmiata l'onta delle manette e del carcere. Finimmo però agli arresti domiciliari. Per una lettera di dimissioni per la quale una prima inchiesta era stata archiviata. Ma l'inchiesta fu riaperta dopo un anno dal procuratore aggiunto Aldo Petrucci, senza alcun fatto nuovo che non fosse la nostra attività politica e di amministratori a Calimera. Al termine di un'indagine che aveva anche visto un mandato di perquisizione e il sequestro del mio computer, quando le prove della nostra presunta colpevolezza sembravano essere state tutte raccolte, ecco arrivare l'incredibile ordinanza di custodia cautelare. Gli arresti domiciliari durarono otto giorni e furono una violenza insopportabile alla nostra coscienza di cittadini onesti. Alla fine, rinviati a giudizio, il teorema accusatorio rivelò tutta la sua inconsistenza, sia in fatto che in diritto, e cadde miseramente come un castello di sabbia. Fummo assolti. Non senza che, durante tutta quella vicenda, il procuratore aggiunto Aldo Petrucci mostrasse nei nostri confronti un forte pregiudizio che lo portò ad avere un atteggiamento che ho definito allora, e non esito a definire ancora oggi, persecutorio. Perché è bene si sappia: nonostante in quel Comune negli anni fino ad allora trascorsi fossero accaduti fatti che avrebbero meritato, quelli sì, l'attenzione della magistratura, l'unico sindaco arrestato nella storia di Calimera è stato Giorgio Aprile; gli unici amministratori arrestati di quel Comune della Grecìa Salentina siamo stati noi, che non abbiamo rubato una lira ma che, anzi, ci abbiamo rimesso di tasca nostra, sindaco e giunta più dei consiglieri. Finimmo invece arrestati per una banale lettera di dimissioni. Appropriazioni indebite, clamorosi falsi in atti pubblici, ammanchi di denaro pubblico, truffe elettorali, e una gestione allegra della cosa pubblica che avevano portato quel Comune alla bancarotta certificata da decreti ministeriali, mai avevano visto la magistratura così puntigliosa come lo fu con noi in quel caso, quando arrivò addirittura ad ordinare gli arresti. Mai una giunta comunale aveva subito tante e tali inchieste, basate tutte sul nulla e che portarono al nulla totale, ma nate tutte col solo scopo di intimidire chi aveva osato ribaltare trentennali equilibri di potere, come invece era accaduto a quella giunta, guidata prima da Giorgio Aprile e poi da Rocco Montinaro. Passata la tensione di quei mesi, una volta assolti gli imputati, la vicenda è finita nel dimenticatoio. La politica e il paese avevano bisogno di guardare avanti, a noi erano stati restituiti la serenità e l'onore che, per la verità, agli occhi dei nostri concittadini non avevamo mai perduto. Poi, dopo 15 anni, ecco questa storia del nostro inquisitore che viene a sua volta messo sotto inchiesta. E per reati molto più gravi di quelli per i quali egli ci mise sotto accusa e ci fece arrestare. Sarebbe stato facile dire, come dicevano gli antichi, che "il tempo è galantuomo". Sarebbe stato, forse, anche un po' meschino. Certo, non possiamo non notare come lui, il dottor Petrucci, messo sotto accusa, si sia augurato, come farebbe ogni indagato, «che nell'inchiesta non abbia trovato cittadinanza la maldicenza». Non si preoccupò però quando nella sua inchiesta di allora, che portò ai nostri arresti, la maldicenza egli la lasciò entrare, eccome. Comunque al procuratore della Repubblica Aldo Petrucci auguriamo sinceramente di avere la coscienza tranquilla almeno quanto l'avevamo noi, Aprile, Gaetani ed il sottoscritto, quando fummo arrestati e poi rinviati a giudizio; gli auguriamo che egli, nel procedimento a suo carico, dimostri, come facemmo noi, la sua innocenza e la totale estraneità anche al reato di peculato per il quale sarà sottoposto a giudizio. La giustizia italiana è fin troppo malata per potersi permettere che al suo interno agiscano magistrati sui quali pesi anche solo l'ombra di un uso distorto del loro posto di lavoro, e di potere. Resta da capire cosa avevamo fatto noi, o cosa lui pensava avessimo fatto noi, di peggio delle cose delle quali lui è stato accusato dai Pm di Potenza al punto che noi meritammo la custodia cautelare e lui no. Forse, come io ero e sono convinto, si voleva solo darci una lezione, per imparare a stare al nostro posto. Ma è inutile fare ipotesi che il lettore non capirebbe se non raccontando, carte alla mano, tutta la storia relativa al nostro arresto. Anche perché oggi, chiunque venga a sapere che tre persone furono arrestate per una banale lettera di dimissioni di un consigliere comunale, ha una reazione di sorpresa e incredulità. E in tanti mi hanno esortato: «Perché non scrivi questa storia?». E' quanto mi accingo a fare, chiedendo perdono a quanti si vedranno scaraventati, attraverso queste pagine, in una fase della vita che essi consideravano ormai alle spalle. Anche perché dopo tanti anni il tempo ha sparigliato le carte, cambiato le vite e i pensieri di molti dei protagonisti di allora. Alcuni di loro, purtroppo, non ci sono più. Ma il passato, che piaccia o no, fa parte della nostra vita. E col passato i conti vanno fatti, senza ipocrisie. Soprattutto quando il presente sembra fornire di esso nuove chiavi di lettura."

Glocal editrice è una piccola realtà editoriale del Salento portata avanti con coraggio e tenacia dal giornalista Lino De Matteis. Specializzata soprattutto in editoria d’inchiesta, tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo “Giornali e democrazia” di Beppe Lopez, “Il Giallo di Ugento” di Lino De Matteis sul controverso caso di nera riguardante Giuseppe Basile, e tutta una serie di e-book scaricabili gratuitamente sul sito dell’editore  dalle tematiche accattivanti come “Le mani sulla Puglia”, un’inchiesta sulla criminalità organizzata in Puglia e sulla zona grigia in cui si annidano i rischi di collusione tra criminalità e politica, oppure l’interessantissimo “Il caso Fonte. La prima vittima della mafia nel Salento” ovvero un reportage sull’assassinio dell’assessore comunale repubblicano di Nardò, Renata Fonte, avvenuto nel 1984. Ora Glocal editrice punta su un libro che farà discutere ovvero “Un processo per caso” di Alfredo Ancora, volume che racconta il caso emblematico di “mala-giustizia”, avvenuto a Calimera (un piccolo centro del basso Salento), raccontato da uno dei protagonisti. Tutt’altro che un fatto locale, la vicenda può divenire un vero e proprio esempio di un fatto accaduto a tre pubblici amministratori arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro. Fatto accaduto a tre amministratori pubblici vittime di un accanimento persecutorio da parte di un giudice, che mette piede in una vicenda squisitamente politica. Ora Alfredo Ancora, vuole dire la sua, e lo fa mettendo in luce la disparità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre integerrimi amministratori (sono stati poi tutti assolti) che vengono arrestati per una normale lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati certamente più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Fuori da ogni dubbio la vicenda dei tre amministratori rappresenta l’incarnazione perfetta delle disfunzioni della Giustizia nel nostro Paese, e soprattutto il libro si presta a mantenere aperto il dibattito sulla giustizia che ancora oggi non ha trovato alcun punto di efficienza e obiettività. 

Il libro "Un processo per caso. Storia di tre arresti per dimissioni" (Glocal Editrice, pp. 208) del giornalista Alfredo Ancora. La storia è quella di tre amministratori di un Comune del Sud Italia, Calimera, arrestati diversi anni fa per una semplice lettera di dimissioni. Lettera che un consigliere comunale di maggioranza aveva presentato in Comune e che vicesindaco, prima, e sindaco, poi, avevano iscritto nel protocollo riservato. Dall’opposizione arrivò la richiesta di copia di quella lettera, che fu negata dal sindaco perché la ritenne riservata. Partì un esposto alla Procura che avviò un’inchiesta, ma il sostituto procuratore incaricato non rilevò alcun reato e archiviò tutto. Partì allora un secondo esposto alla Procura Generale e si riaprirono le indagini a conclusione delle quali ci furono tre ordinanze di custodia cautelare a carico di sindaco, vicesindaco e del consigliere dimissionario. Mentre in Italia infuriava la bufera di Tangentopoli, nel Salento avveniva questa vicenda surreale, conclusasi con l’assoluzione di tutti e tre gli imputati al termine di un processo d’appello celebrato – fatto più unico che raro – sulla base del ricorso del procuratore aggiunto della Repubblica contro le conclusioni del Pm di udienza nel processo di primo grado che i giudici del Tribunale, peraltro, avevano accolto. Una storia assurda sul filo dei rapporti tra giustizia e politica, che qui viene raccontata da uno dei protagonisti, con grande passione e rigore documentale. L’autore del volume è nato a Zollino (LE) nel 1953 e dal 1976 vive a Calimera. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Bari discutendo una tesi sul rapporto di lavoro giornalistico, ha subito iniziato un’intensa attività pubblicistica. È stato infatti direttore del giornale “Il ponte”, poi de “La civetta”, ha collaborato con “Calimera città futura” e con la “Kinita”, tutti giornali editi a Calimera. Assunto dal “Quotidiano di Lecce” nel 1979, è diventato giornalista pubblicista nel 1982 e professionista nel 1999. Nel 2003 ha iniziato la collaborazione con il “Corriere del Mezzogiorno”, protrattasi per alcuni anni, e con il settimanale “Città Magazine” diretto allora dal collega Mino De Masi. Attualmente collabora con il “Nuovo Quotidiano di Puglia”. Nella sua attività giornalistica si è sempre interessato soprattutto di politica, di politica-amministrativa e di giustizia amministrativa. È anche stato consigliere comunale di Calimera dal 1985 al 1996, prima eletto come indipendente nelle liste del Pci, poi in quelle del Pds. Durante questa esperienza politica è accaduta la vicenda raccontata nel libro Un processo per caso. Negli anni ’90 ha assunto la direzione di Radio Salentina. Nel 2003 ha iniziato le collaborazioni con la rivista dell’Università di Lecce, “Unile”.

Una storia tra politica e persecuzione giudiziaria di tre pubblici amministratori, raccontata da uno dei protagonisti. Non è un fatto locale, come si potrebbe pensare, poiché la vicenda è talmente emblematica e unica che diventa un caso universale nel panorama della “malagiustizia” italiana. Non era mai successo, infatti, che tre pubblici amministratori venissero arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro, con un accanimento persecutorio da parte di un giudice che entra a gamba tesa in una vicenda squisitamente politica. Ma il “colpo di scena”, se così si può dire, sta nel fatto che proprio quel giudice che si era tanto accanito all’epoca contro i tre amministratori, un giudice noto in Puglia per essere stato prima procuratore aggiunto a Lecce, poi procuratore capo a Taranto e, infine,  di nuovo procuratore capo al Tribunale dei minorenni di Lecce, Aldo Petrucci, è passato di recente agli onori della cronaca, pugliese e nazionale, perché imputato di corruzione e peculato in un’inchiesta sulle “toghe sporche” a Taranto (poi è stato prosciolto dall’accusa di corruzione ma rinviato a giudizio per peculato). Indipendentemente, comunque, dalle conclusioni della vicenda giudiziaria, è la fase istruttoria dell’inchiesta che ha riguardato Petrucci che ha fatto scattare la voglia di raccontare la sua esperienza ad Ancora, mettendo in parallelo proprio la diversità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre onesti amministratori (sono stati infatti poi tutti assolti) che vengono arrestati per una semplice lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati molto più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Al di là di quello che potrebbe sembrare una sorta di curioso contrappasso dantesco, comunque, la vicenda dei tre amministratori è emblematica per come certa giustizia può accanirsi sui semplici cittadini impotenti a difendersi e come invece il corso della giustizia possa essere frenato o aggirato facilmente dagli uomini di potere. Il dibattito sulla giustizia è aperto ed è, anzi, oggi al centro della vita pubblica italiana: la vicenda raccontata da Ancora ne è a pieno titolo uno dei tasselli di cui bisogna discutere.

PROFESSIONE: IMPUNITI

I magistrati tendono a convincere i cittadini che eliminare un grado del processo, giovi alla celerità dei processi ed all’efficienza dell’amministrazione della giustizia. Secondo loro il cancro della giustizia è la prescrizione. Come se la lungaggine dei processi debba essere addebitata ad altri e non a loro stessi. Bisogna chiedersi: ma chi amministra la giustizia? I magistrati o il panettiere sotto casa? Se la questione la si vede dal loro punto di vista, ciò è giustificato. Tenuto conto che il “gravame”, spesso, porta a dei risultati opposti all’atto impugnato, modificandone radicalmente l’efficacia e gli effetti degli atti propedeutici, ciò comporta un sindacato di legittimità e di merito del magistrato impugnato, che smaschera l’incapacità e il pressapochismo dei magistrati giudicanti e requirenti attenzionati. Attività, quando sostenuta con impegno, che porta a scoprire pacchiani errori giudiziari. Errori che danno vita al risarcimento del danno a carico dello Stato. E così i magistrati vogliono che rimanga tale. In tutti i modi i magistrati, cooptati con concorso pubblico "tutto italiano", vogliono elevarsi come dio in terra, escludendo ogni loro possibile responsabilità per gli errori da loro stessi commessi. Ed i loro lacchè in Parlamento gli danno un forte sostegno contro gli interessi dei cittadini che dovrebbero rappresentare. Si noti bene che, oltretutto, del diritto ad impugnare una sentenza, ci si avvale solo se vi è interesse, ovvero capacità economica a sopportare tempi lunghi ed oneri di giustizia. Il tutto con il dubbio annesso che non vince chi ha ragione, ma chi ha maggior forza dirompente per la libera e spesso arbitraria convinzione dei giudizi sui fatti di causa. Un’amicizia, una tangente, e chissà cos’altro possono influire su una decisione. Come per esempio la parentela. Spesso ci si ritrova genitori giudici e figli avvocati che operano presso lo stesso foro: Latina, Parma, Brindisi, Taranto, Lecce. Inammissibile, si direbbe. Già, ma chi lo scopre; chi lo denuncia; chi interviene? Il CSM si direbbe: sì, ma solo se interpellato ed a morte di papa. E le tante inchieste stanno lì a rammentarcelo. Per questi motivi, bisogna dirlo, spesso e volentieri si rinuncia all'appello. C’è da chiarire anche un’altra cosa. Il fulcro dell’amministrazione della giustizia non è in mano ai magistrati, che, spesso, hanno ben altro da fare che svolgere la loro professione: convegni, permessi, altri incarichi, ecc. In verità il monte fascicoli giudiziari è deciso dai magistrati onorari: giudici di pace e giudici onorari. Avvocati che giudicano le cause dei loro colleghi. Poveretti: senza alcuna tutela contrattualistica. Se poi, addirittura, è ammesso il sindacato sulle commissioni d’esame dei concorsi pubblici, vuol dire che le decisioni di chi giudica sono sempre e comunque campate in aria. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. La Cassazione ammette che ci possano essere commissioni che sbagliano. Naturalmente i TAR adottano due pesi e due misure, in base ai ricorrenti ed al principe del foro che li accompagna. Per questo il cittadino deve diffidare da strumentali proposte avanzate da chi ha tutto l’interesse a farlo. Se già quasi tutte le decisione, ancorchè sbagliate, sono confermate nei gradi successivi in virtù di una solidarietà corporativistica, perché togliere la speranza di trovare qualche magistrato onesto, capace ed imparziale che possa far luce su vicende viziate da insabbiamenti o disattenzioni, spesso frutto di errori giudiziari impuniti?

Guardiamo per esempio la sentenza sui fatti del G8 di Genova: Condannati i vertici della Polizia. In appello ribaltato il giudizio di primo grado. Il testo integrale della decisione di secondo grado ribalta completamente quella del tribunale. Una diversa lettura degli stessi elementi che avevano portato all'assoluzione, determinano le condanne di agenti e funzionari. In Cassazione le torture di Bolzaneto: per medici e poliziotti "massimo disonore". Quarantaquattro imputati fra poliziotti, guardie penitenziarie e medici sono stati ritenuti responsabili civilmente, anche se i reati sono prescritti. In sette condannati anche penalmente. Uomini senza onore scrive Marco Preve su “La Repubblica”. Poliziotti, carabinieri, agenti della penitenziaria di ogni ordine e grado e addirittura medici. Secondo i giudici della Corte d'Appello di Genova hanno disonorato le loro divise, la loro missione. Nei giorni del G8 del 2001 la caserma del Reparto Mobile di Genova venne trasformata in prigione speciale con l'autorizzazione della procura di Genova. Di fatto un luogo privo di diritti, una delle pagine più nere nella storia delle democrazie occidentali secondo Amnesty International. I detenuti, oltre 300, privati della possibilità di incontrare i loro legali, vennero brutalizzati, umiliati, picchiati, minacciati in ogni modo. Il 5 marzo 2010 la Corte d'Appello di Genova ha dichiarato responsabili civilmente tutti i 44 imputati del processo, anche se ha dichiarato prescritti i reati. La sentenza di secondo grado ha ribaltato il verdetto di primo grado (15 gli imputati condannati a complessivi 23 anni e 9 mesi di reclusione mentre furono 30 le assoluzioni), condannando al risarcimento del danno anche gli imputati che erano stati assolti dal tribunale. Sette imputati sono stati condannati anche penalmente a pene comprese fra uno e tre anni. I sette imputati condannati sono l'assistente capo della Polizia di stato Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi divaricò le dita della mano di un detenuto fino a strappare la carne), gli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e il medico Sonia Sciandra (2 anni e 2 mesi). Pene confermate a 1 anno per gli ispettori della Polizia di Stato Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi, che avevano rinunciato alla prescrizione. "Richiamarsi platealmente al nazismo e al fascismo, al programma sterminatore degli ebrei, alla sopraffazione dell'individuo e alla sua umiliazione, proprio mentre vengono commessi i reati contestati o nei momenti che li precedono e li seguono, esprime il massimo del disonore di cui può macchiarsi la condotta del pubblico ufficiale" è uno dei passaggi più significativi delle 647 pagine delle motivazioni della sentenza.

E poi c’è il caso della Diaz, dove interviene Manganelli. "Questo è il momento delle scuse". Il capo della Polizia dopo la sentenza Diaz: "Mi rivolgo ai cittadini che hanno subito danni e a chi esige da noi sempre più professionalità ed esperienza". Il ministro dell'Interno: "Fiducia a chi lavora per la sicurezza del Paese giorno dopo giorno". L'associazione dei funzionari di Polizia. "Mai più ripetere errori". Dopo undici anni, questo è "il momento delle scuse". Antonio Manganelli, capo della Polizia, commenta così la sentenza di condanna per i fatti accaduti nella scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001. "Scuse dovute", dice Manganelli. Soprattutto ai cittadini "che hanno subito danni". E anche a quelli che, avendo fiducia nella Polizia, "l'hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza". Le parole del capo della Polizia giungono all'indomani del verdetto della Cassazione che ha confermato le condanne d'Appello per falso nei confronti della catena di comando all'epoca del G8 di Genova, causando come effetto collaterale l'azzeramento degli attuali vertici dell'anticrimine, che dovranno lasciare i loro incarichi ed essere sostituiti. Manganelli si dice poi "orgoglioso di essere il Capo di donne e uomini che quotidianamente garantiscono la sicurezza e la democrazia di questo Paese". Un orgoglio che non mette in discussione né il "rispetto della magistratura", né "del principio costituzionale della presunzione d'innocenza dell'imputato, fino a sentenza definitiva". Per questo, "l'istituzione che ho l'onore di dirigere ha sempre ritenuto fondamentale che venisse salvaguardato a tutti i poliziotti un normale percorso professionale, anche alla luce dei non pochi risultati operativi da loro raggiunti". E dopo le scuse, l'impegno: "Assicurare al Paese democrazia, serenità e trasparenza dell'operato delle forze dell'ordine, garantendo il principio del quieto vivere dei cittadini". A Genova sono stati commessi "gravi errori". Ed è giusto che "i responsabili paghino". Così il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri. Che aggiunge: "Il G8 di Genova è una pagina dolorosa per la Polizia e questo mi ferisce". Ancora: "Ho visto come tutti le immagini di quello che è successo all'interno della Diaz e posso dire che non condivido nulla di quella operazione. Di fronte a errori gravi è giusto che i responsabili subiscano le conseguenze". Per il ministro però, "questa non può diventare la condanna di tutte quelle migliaia di uomini e donne che ogni giorno, indossando la divisa, fanno il proprio dovere". Dalle sentenze non vanno tratti "nè motivi di soddisfazione nè di amarezza". Ma insegnamenti a "non ripetere gli errori e la Polizia di Stato lo sta facendo da tempo". E' quanto si legge in una nota dell'Associazione Nazionale Funzionari di Polizia. "A Genova fu fatale l'adozione di un approccio ispirato alla militarizzazione della città per gestire l'evento, mediante una impostazione rigida, impreparata a governare una situazione complessa e ricca di diversità. Noi come gli organizzatori del Social Forum abbiamo la responsabilità di non aver saputo interpretare i fermenti avvelenati che circolavano nell'evento". Ancora: "Sono anni che la Polizia non commette più errori collettivi, sono anni che non ha reazioni che travalichino i limiti imposti dalla legge, fino al punto che qualcuno ci rimprovera di essere afflitti dalla 'sindrome del G8'. Vogliamo essere molto espliciti: non è nella missione della Polizia usare violenza nemmeno in risposta alla violenza".

Diaz, un processo italiano

 Undici anni dalla notte in cui, a Genova, nel quartiere di Albaro, la "democrazia venne sospesa" e quattrocento poliziotti impazziti e maldiretti entrarono nella scuola elementare "Diaz" per massacrare di botte 92 persone. Il 5 luglio 2012, la Cassazione ha emesso la sua sentenza. Ma non tutto è stato chiarito. Il mistero lo svela l’inchiesta di “La Repubblica”.

IL retroscena

Gli invisibili e gli intoccabili, ecco i convitati di pietra del G8. Politici e dirigenti delle forze dell'ordine lasciati fuori dall'inchiesta. Dall'allora capo della polizia Gianni De Gennaro al vicepremier Fini, passando per il ministro dell'interno Scajola. E i 400 poliziotti che fecero irruzione sono ancora oggi ignoti. L’amaro commento di Carlo Bonini su “La Repubblica”. Il processo è chiuso. Ma il giorno dopo, le parole dell'avvocato Rinaldo Romanelli, difensore del comandante del VII Nucleo Mobile Vincenzo Canterini, hanno il lampo della provocazione. "Se dovessimo ragionare da storici, ma con la logica della sentenza della Corte di appello, direi che, a spanne, alla condanna mancano almeno 500 persone". È un'iperbole, appunto. Che tuttavia tocca il nervo scoperto di questa storia: i suoi convitati di pietra. Uomini degli apparati ed ex ministri della Repubblica di cui, come in certe foto di gruppo ritoccate, è scomparsa la silhouette. In 11 anni, Claudio Scajola, in quei giorni dell'estate 2001 ministro dell'Interno, non ha mai ritenuto opportuno dover chiarire o riferire quali indicazioni politiche aveva fornito al capo della Polizia Gianni De Gennaro. Quali comunicazioni ebbe con lui la notte della Diaz e nei giorni successivi. Perché non ne chiese le dimissioni o perché non gli furono mai offerte. Né è stato mai di alcun aiuto lo stesso De Gennaro, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e già capo del Dis, il vertice della nostra intelligence. In quel luglio del 2001, intervistato da Enrico Mentana, all'epoca direttore del Tg5, dice: "La Diaz era una semplice operazione di identificazione che si è trasformata in un'azione di ordine pubblico perché gli agenti sono stati attaccati. Se ci sono stati eccessi da parte di singoli saranno verificati. Comunque non ci sono stati errori di valutazione o di comportamento collettivi". Nelle parole dell'allora capo della Polizia non c'è una sola circostanza vera, o anche soltanto verosimile, come il processo ha accertato. Ma, da subito, le sue parole definiscono il perimetro entro cui, per anni, l'intera catena di comando di quella notte comincia il suo lavoro di ostruzione alla ricerca della verità. De Gennaro, evidentemente, scommette su un'inchiesta penale destinata nelle sue previsioni a non andare da nessuna parte. Anche perché il Parlamento decide di ritirarsi in buon ordine rinunciando a un'indagine indipendente, e soprattutto perché l'appoggio del governo è ventre a terra. Non fosse altro perché il disastro del G8 crea un legame malato e indissolubile tra chi, di quei giorni, ha avuto la responsabilità politica e chi quella tecnica e, dunque, dalla verità può solo ottenere un danno. Del disastro genovese nessuno sembra portare la paternità. Non De Gennaro, appunto. Non Scajola. Non il ministro della giustizia Roberto Castelli, il solo ad aver visitato la prigione di Bolzaneto nei giorni del G8 senza avere la percezione del lager in cui era stata trasformata. Non il vicepremier Gianfranco Fini, che pure ha ritenuto di essere presente nella sala operativa della questura di Genova non si capisce a quale titolo e con quale utilità. Accompagnato dall'allora maresciallo dei carabinieri e futuro deputato di An Filippo Ascierto. Anche Arnaldo La Barbera e Ansoino Andreassi, rispettivamente capo dell'Ucigos e vicecapo della Polizia e dunque vertice tecnico-operativo della catena di comando presente a Genova, sembrano, almeno all'inizio, un problema risolto. La Barbera, allontanato dall'Ucigos, viene nominato vicedirettore del Cesis. Andreassi transita al Sisde come numero due del generale Mori. Così come un problema che viene presto risolto è Vincenzo Canterini, il comandante del VII Nucleo, premiato con una ricca sinecura in Romania quale alto rappresentante dell'Interpol. Finché la tela si straccia. L'inchiesta penale afferra i primi bandoli della matassa e la morte di Arnaldo La Barbera (2002) convince tutti i protagonisti di quella notte che è bene sfilarsi e anche rapidamente da quel disastro. Ansoino Andreassi che, nei giorni successivi alla Diaz, ha arringato gli uomini del VII nucleo nella caserma di Castro Pretorio rassicurandoli che "la polizia italiana non si farà processare", diventa teste di accusa. Accredita la circostanza di essere stato "commissariato" da La Barbera (un morto che non può difendersi) e di aver espresso il suo dissenso nella riunione in questura che precedette l'irruzione nella scuola. Salvo, inspiegabilmente, non chiarire perché quel dissenso, a maggior ragione dopo gli esiti disastrosi di quella notte, non venne mai esplicitato nei giorni e nelle settimane successive. Altrettanto rapidamente si sfila e diventa teste di accusa il vicequestore Lorenzo Murgolo, che, quella notte, è il delegato dell'allora questore Francesco Colucci di fronte alla Diaz. Anche lui armeggia con Gratteri e Luperi intorno al sacchetto con le molotov portate all'interno della scuola. Ma ha più fortuna dei suoi colleghi. Il processo non lo coinvolge e la sua carriera prosegue nel Sismi di Nicolò Pollari. Sulla notte della Diaz, negli apparati si consuma una resa dei conti che l'autorità politica finge di non vedere o che, se vede, ignora. Tra il luglio del 2001 e il maggio del 2010 si succedono al Viminale quattro ministri dell'Interno: Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu, Giuliano Amato, Roberto Maroni. Non uno di loro risulta abbia imposto o anche solo sollecitato che la Polizia consegnasse alla magistratura genovese l'identità dei 400 poliziotti che fecero irruzione in quella scuola e che, ancora oggi, restano incredibilmente degli incappucciati. Parlamento e governo non hanno fatto la loro parte, la polizia si è arroccata in un'attesa a volte omertosa, il movimento si è consumato nell'esercizio su chi avesse diritto al "primato della memoria". E così il procedimento giudiziario è diventato un'ordalia che troverà la sua ultima pronuncia con la sentenza della Cassazione. I giudici della Suprema Corte potranno scegliere se confermare l'impostazione più colpevolista dell'Appello o tornare a quella di primo grado che non vide quasi responsabili. Oppure trovare una specie di "terza via". Undici anni sono un tempo infinito. Inconcepibile. Per le vittime, per gli imputati, per un'opinione pubblica, anche internazionale, che dal 21 luglio del 2001 attende una parola definitiva sulle responsabilità di quella notte alla "Diaz". Non fosse altro perché nulla, in questa storia, ha mai avuto anche solo la parvenza della "norma". A cominciare, evidentemente, dalle brutalità su 92 donne e uomini inermi consumate in quella scuola. In 11 anni, lo Stato (nelle sue diverse articolazioni istituzionali) non ha trovato il tempo, né l'occasione, per un gesto di pubbliche scuse, premessa indispensabile di ogni riconciliazione, rifugiandosi dietro il pavido argomento che questo avrebbe significato "ammettere" la responsabilità di chi stava affrontando il processo. O, peggio, fornire il destro per un "indiscriminato processo alla Polizia italiana". Come se non fosse un dato condiviso e oggettivo (dunque avulso da qualsiasi giudizio di responsabilità penale) che quella notte furono certamente "uomini dello Stato" (quale che fosse la loro identità) a violare diritti umani fondamentali. Ma c'è di più: il Parlamento ha rinunciato da subito, e in tre successive legislature, a indagare con gli strumenti della politica, della responsabilità pubblica, quella che "Amnesty International" ha definito "la più grave sospensione dei diritti civili dalla seconda guerra mondiale". Né ha trovato maggioranze disposte ad adeguare il nostro codice alla legislazione internazionale che prevede il reato di tortura, come se le indicibili violenze della caserma di "Bolzaneto" non interpellassero la qualità della nostra democrazia e l'urgenza di una sua continua manutenzione. La Polizia (tolta qualche isolata voce sindacale) si è arroccata in un'attesa silenziosa e auto-referenziale, talvolta omertosa, regolarmente riduttiva, convinta che il tempo e un processo di riforma interno (che pure è indiscutibilmente avvenuto) delle routine di ordine pubblico avrebbero medicato la ferita e aiutato l'oblio. "Credo e sono d'accordo con Repubblica - scrisse in una lettera aperta a questo giornale il capo della polizia Antonio Manganelli il 16 novembre 2008, dopo la sentenza di primo grado che mandò assolta la catena di comando dell'irruzione nella scuola - che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L'Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali". Ma, in quattro anni, di quell'impegno, nelle sedi istituzionali e costituzionali, non si è trovata traccia. Forse perché nessuno, davvero, in quelle sedi, avvertiva o ha avvertito l'urgenza di rispondere pubblicamente al "perché" di quella notte. O quantomeno di cercarlo. In questa fuga e rifiuto di un dibattito pubblico e trasparente, la supplenza affidata al lavoro della magistratura ha così messo d'accordo tutti: classe dirigente ed apparati. E' diventata salvacondotto delle loro rispettive fragilità. E non ha aiutato né la qualità, né la serenità nella ricerca della verità. La Procura genovese, per anni, ha vissuto prigioniera di una sindrome da accerchiamento, non sempre indotta, che l'ha convinta a coltivare con ostinazione un'ipotesi di infedeltà costituzionale dei vertici degli apparati di sicurezza dello Stato che i processi di merito avrebbero smentito e secondo cui "la Diaz" sarebbe stata figlia di una preordinazione illegale e violenta dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Né ha giovato l'eutanasia di un Movimento - ma meglio sarebbe dire di quel poco che ne era rimasto - che si è consumato in un esercizio autofago, spesso rancoroso, su chi avesse diritto al "primato della memoria" e dunque all'esercizio della critica e del dubbio che non fosse "ortodosso". E' in questo perimetro che la storia di quella notte - e più in generale i giorni del G8 di Genova - è stata degradata e ridotta ad affare esclusivamente penale che ha finito ineluttabilmente per farsi ordalia. E che in questa settimana troverà, forse, la sua ultima pronuncia, con una sentenza di Cassazione che deciderà su quanto non è già stato cancellato dalla prescrizione. Il primo di tre verdetti che, entro la fine di luglio, chiuderanno il giudizio penale sui fatti di quell'estate di 11 anni fa: "Diaz", "Bolzaneto", le condanne di dieci ex militanti per la devastazione e il saccheggio di Genova. La settimana di udienze tra l'11 e il 15 giugno (prima che il processo venisse aggiornato al 5 luglio 2012) è stata lo specchio delle tossine che questo tempo infinito ha depositato. Mostrando come siano rimaste intatte. I giudici della quinta sezione penale hanno infatti ascoltato argomenti che, pur nel rispetto di una discussione su questioni di "legittimità" e diritto quale è un processo di ultima istanza, hanno finito per aggredire la sostanza della posta in gioco. Chi deve pagare il conto di quella notte? Per dirla altrimenti: le due dozzine di imputati di oggi sono "i colpevoli", o scontano al contrario responsabilità che condividono o che sono proprie di chi al processo è sfuggito? Perché l'allora vicecapo della Polizia Ansuino Andreassi o il questore Lorenzo Murgolo (poi transitato al Sismi di Nicolò Pollari e presente sulla scena della Diaz) solerti nel complimentarsi con il lavoro del VII Nucleo la notte dell'irruzione, e dunque perfettamente consapevoli di quanto era accaduto, si sono trasformati nell'indagine penale in pallidi figuranti svuotati di ogni responsabilità di comando? Il procuratore generale Pietro Gaeta ha sostenuto che "i processi si fanno ai presenti, non agli assenti". Che insomma non è più il tempo di interrogarsi se questo processo consegnerà alla storia dei responsabili tout court o dei "capri espiatori", vittime di una cinica resa dei conti tra bande all'interno degli apparati. E che è senz'altro vero che il 21 luglio, nei locali della "Diaz" si rovesciò "una macedonia di polizia" (per dirla con le parole dell'ex comandante del VII nucleo celere Vincenzo Canterini). Almeno 400 uomini rimasti per lo più tutti senza un volto e senza un nome (la Polizia, incredibilmente, non è mai stata in grado di indicarne le generalità). Ma che è altrettanto vero che la scelta di processare e condannare chi, quella notte, ebbe in un modo o in un altro responsabilità di comando (dai capisquadra del VII nucleo celere, ai funzionari e dirigenti di Digos e Sco intervenuti nella scuola dopo l'irruzione che procedettero all'arresto degli occupanti) non può essere considerata una abdicazione alla ricerca delle responsabilità individuali, o, peggio, una scorciatoia per affermare "un inconcepibile principio di responsabilità oggettiva".

Che dire poi dei due processi agli antipodi. Il processo di primo grado lavorò su questo canovaccio decidendo di caricare l'intero peso di quella notte sulla "bassa forza" (i comandanti e i "capisquadra" del VII Nucleo, compreso, per dirne una, chi non comandava alcuna squadra, come il sottufficiale Fabrizio Basili). Sulla Celere, dunque, e qualche funzionario di secondo piano. Ultime carrozze di un treno più lungo e articolato, e per questo semplici da sganciare. L'Appello, al contrario, stabilì che, quella notte, non ci furono innocenti. E che la costruzione di false prove necessarie a giustificare a posteriori la "mattanza" di 92 innocenti (a cominciare dall'introduzione nella scuola di due bottiglie molotov, per proseguire con la falsa dichiarazione di "aver incontrato resistenza") fu per la Polizia una pagina persino più vergognosa di quella che voleva dissimulare. E per la quale tutti gli imputati dovevano pagare. A maggior ragione, chi aveva un ruolo di comando e si difende dichiarandosi "vittima dell'inganno", peggio del "tradimento", di poliziotti infedeli. Non facendo alcuna differenza, sul piano della consapevolezza, l'avere formalmente sottoscritto o meno atti di polizia (i verbali di sequestro e arresto di quella notte, successivi all'irruzione) che attestavano ciò che sarebbe risultato calunnioso. E ancora: non essendo una "scriminante" l'aver messo collettivamente la propria firma sotto un pezzo di carta di cui si dava "per scontata" una verità che tale non era, solo perché "questa è la prassi". La Cassazione ha avuto due strade. Fare proprio il giudizio di appello, confermandolo, così come è stato, o distinguere, come fece il giudice di primo grado. Magari accogliendo una almeno delle pregiudiziali di costituzionalità sollevate dalle difese (quella che, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo vuole un terzo processo di merito nei confronti di quegli imputati che siano stati prima assolti e quindi condannati sulla base di una semplice e opposta valutazione di una medesima prova testimoniale). Tornando così a separare i "sommersi" e i "salvati". La "testa" dal "braccio". Ovvero, lavorando sul grado di responsabilità personale di ciascuno degli imputati. Con qualche certezza, quale che sia la soluzione. Che la posta in gioco è altissima. Perché, con questa sentenza, si gioca insieme l'immagine dello Stato, il rispetto delle vittime, il destino di venticinque imputati. Alcuni di loro, in questi 11 anni, sono stati la spina dorsale della nostra Polizia (Francesco Gratteri, Gilberto Caldarozzi, Giovanni Luperi, solo per fare qualche nome). Altri, di cui l'opinione pubblica ricorda a stento il nome, hanno cominciato a scontare la pena dopo la sentenza di primo grado, in un'amministrazione che, di fatto, li ha già collocati in quel limbo dove normalmente transita chi è in odore di "mela marcia". Gli uni e gli altri chiedono di essere "uguali di fronte alla legge". Lo stesso principio che invocano le vittime di quella notte. Consapevoli tutti che non c'è sentenza che potrà metterli né d'accordo, né in pace gli uni con gli altri. Al punto che il "dopo Diaz" potrebbe persino essere più lacerante di questa "vigilia" durata 11 anni. E la Corte di Cassazione ha confermato le condanne per falso nei confronti dei vertici della polizia coinvolti nel pestaggio e negli arresti illegali dei no-global alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. La Suprema corte, invece, ha dichiarato prescritte le condanne per le lesioni inflitte dagli agenti del reparto Celere. Le vittime del pestaggio, circa 60 persone, potranno ora ottenere i risarcimenti dovuti. Il ministero dell'Interno aprirà i procedimenti disciplinari a carico dei 25 imputati, anche quelli prescritti. La sentenza ha sostanzialmente confermato il pronunciamento espresso dalla Corte d'Appello di Genova il 18 maggio del 2010. A quasi (questione di giorni) undici anni dal tragico G8 di Genova sono state confermate in via definitiva le condanne per falso aggravato inflitte agli alti funzionari di polizia coinvolti nelle violenze alla scuola Diaz risalenti al 21 luglio 2001. Lo ha deciso la quinta sezione penale della Cassazione. Nel dettaglio, la suprema corte ha confermato l'impianto accusatorio della Corte d'Appello di Genova del 18 maggio 2010. Convalidata la condanna a 4 anni per Francesco Gratteri, capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia. Convalidati i 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8 e poi capo del reparto analisi dell'Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), i 3 anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, capo dello Sco (Servizio centrale operativo). Convalidata anche la condanna a 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma. La conferma delle condanne comporterà la sospensione dal servizio per i funzionari dal momento che nei loro confronti è stata applicata la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Prescritti, invece, i reati di lesioni gravi contestati a nove agenti appartenenti al settimo nucleo speciale della Mobile all'epoca dei fatti. La madre di Giuliani: "Giustizia incompleta". La sentenza dimostra che "la giustizia c'è benché incompleta". Lo ha detto Heidi Giuliani, madre di Carlo ucciso durante il G8. "In verità le responsabilità sono più ampie - ha aggiunto la donna - e penso all'assoluzione dell'allora capo della polizia e al mancato processo per la morte di mio figlio". Il padre di Giuliani: "C'è ancora un barlume di giustizia". "Una notizia positiva. Succede di rado, ma quando accade bisogna accoglierla con soddisfazione. Vuol dire che in questo Paese c'è ancora un barlume di giustizia", sono state invece le parole di Giuliano Giuliani, padre di Carlo. Avvocati vittime: "Giustizia é fatta". "Giustizia è fatta: ci sono voluti 11 anni per arrivare a questo verdetto e la Cassazione è stata coraggiosa. Mai, nelle democrazie occidentali, si è arrivati ad una condanna per funzionari della Polizia di così alto livello", è la reazione dell'avvocato Emanuele Tambuscio, legale di alcuni no-global picchiati alla Diaz. Cancellieri: "Sentenza va rispettata". "La sentenza della Corte di Cassazione di oggi va rispettata, come tutte le decisioni della Magistratura. Il ministero dell'Interno ottempererà a quanto disposto dalla Suprema Corte". Lo afferma in una nota Annamaria Cancellieri. "La sentenza - prosegue il ministro dell'Interno - mette la parola fine a una vicenda dolorosa che ha segnato tante vite umane in questi 11 anni. Questo non significa che ora si debba dimenticare. Anzi, il caso della Diaz deve restare nella memoria. Ma proprio le definitive parole dei giudici - riprende il ministro dell'Interno - ci devono spingere a guardare avanti sicuri che le Forze di Polizia sono per i cittadini italiani una garanzia per la sicurezza e per la democrazia". Manganelli: "Impegno a migliorare". "La Polizia accoglie la sentenza della magistratura con il massimo dovuto rispetto e ribadisce l'impegno a proseguire nel costante miglioramento del percorso formativo relativo al complesso campo dell'ordine e della sicurezza pubblica". Queste le parole del Capo della Polizia, Antonio Manganelli, dopo la sentenza. Manganelli, inoltre, ha espresso "apprezzamento e orgoglio per la maturità, l'onestà, la dedizione e l'entusiasmo con cui quotidianamente il paese viene servito dalle donne e dagli uomini delle forze di polizia". Nel blitz del 21 luglio oltre 60 feriti e 93 arrestati. Oltre 60 feriti e 93 giovani, di cui molti stranieri, arrestati e poi prosciolti. Fu il bilancio del blitz degli agenti alla scuola Diaz, dove il Comune di Genova aveva alloggiato i no global del Genoa Social forum giunti nel capoluogo ligure per le manifestazioni contro il G8 del 2001. L'operazione avvenne nella notte tra il 21 e il 22 luglio, poche ore dopo la morte di Carlo Giuliani. Quasi 400 agenti di polizia fecero irruzione nel complesso scolastico, molti no global vennero picchiati, le immagini delle loro facce insanguinate fecero il giro del mondo.

Sì, ma chi pagherà i danni alle vittime della Diaz e di Bolzaneto? Alla fine è probabile che il conto da decine di milioni fra risarcimenti e spese legali andrà ai cittadini italiani mentre i superpoliziotti dell'assalto alla scuola vedranno tutelati i loro stipendi e i loro beni. E intanto la mamma di una ragazza pestata si rivolge a Napolitano: "Ci faccia lui quelle scuse che in 11 anni nessun ministro o capo della polizia ha voluto farci". E' uno Stato che deve ancora finire di pagare il conto, e risarcire tutte quelle ossa spezzate, le mascelle fratturate, i polmoni perforati dalle costole, le menti ferite per sempre da umiliazioni, minacce di morte o di stupro. Ma è anche uno Stato che in undici anni non si è mai degnato di chiedere scusa alle sue vittime innocenti, scrive ancora Marco Preve su “La Repubblica”. Ora l'ultima speranza, per un gesto di minimo pentimento, è affidata a Giorgio Napolitano. Enrica Bartesaghi la mamma di una delle ragazze pestate alla Diaz e imprigionate nel carcere dei torturatori di Bolzaneto, si è rivolta al capo dello Stato per chiedergli: "Ci faccia avere lui quelle scuse che nessun ministro dell'Interno o capo della polizia ha mai voluto farci in 11 anni". Neppure dopo che nel 2011 l'allora Procuratore Generale di Genova Luciano Di Noto le aveva sollecitate assieme alle dimissioni dei responsabili gerarchici. Ma per quanto importante, pesante e al contempo delicata sia la richiesta formulata al Presidente da Enrica Bartesaghi, assai più complesso, intricato, quasi un giallo, appare il tentativo di dare una risposta ad un'altra domanda: chi pagherà? La domanda non è superflua perché ci sono ottime probabilità che, alla fine, per la macelleria messicana e per il lager di Bolzaneto, in tutto circa 16 milioni, a pagare non siano i colpevoli ma tutti i cittadini italiani. Non solo. Probabilmente finiranno a carico degli italiani anche le spese legali pagate agli avvocati dei condannati, un'altra vagonata di milioni. Vediamo come. Intanto partiamo dalle cifre. Per le 97 Parti civili della scuola Diaz, le provvisionali (ovvero un anticipo per le lesioni o per le false accuse e l'ingiusta detenzione subite, incassate le quali ogni vittima potrà comunque intentare cause civili per ulteriori richieste danni) fissate dai giudici di primo e secondo grado superano i due milioni e mezzo ai quali ne vanno aggiunti altri tre e mezzo di spese legali. I processi Diaz e Bolzaneto sono durati anni, decine di udienze, un enorme lavoro di raccolta di testimonianze, traduzioni, migliaia di immagini visionate e centinaia di ore di video analizzati fotogramma per fotogramma. Sia le provvisionali che le spese legali della Diaz sono state risarcite quasi interamente (all'appello mancano pochi casi per questioni relative alla loro reperibilità) dal ministero dell'Interno. Anche in caso di assoluzioni da parte della Cassazione è assai probabile che non subiranno modifiche i risarcimenti per le lesioni provocate dalla polizia, che sono un dato storico e incontestabile. Ma per il processo di Bolzaneto le cose sono andate in maniera opposta. Dei dieci milioni circa tra provvisionali per le 155 parti offese e spese legali non è stato pagato un euro. Ufficialmente il motivo è legato al mancato accordo tra i tre ministeri coinvolti. Se alla Diaz era il solo dicastero dell'Interno, per la caserma del reparto mobile diventata prigione speciale sono stati condannati agenti della penitenziaria, quindi ministero della Giustizia, e in appello anche alcuni carabinieri, quindi il ministero della Difesa. Ma secondo Enrica Bartesaghi del Comitato Verità e Giustizia per Genova: "Non vorrei che dipendesse dal fatto che si vogliano tutelare beni e stipendi degli alti funzionari condannati per la Diaz a dispetto dei meno autorevoli condannati per Bolzaneto". Le provvisionali dovrebbero essere pagate dai colpevoli, così come a loro i rispettivi ministeri dovrebbero chiedere il rimborso degli anticipi versati agli avvocati difensori. Il condizionale, però, in questo caso non è una svista. Infatti, una leggina, come è stata soprannominato l'articolo 2 bis della legge "Misure urgenti in materia di sicurezza" approvata il 17 dicembre 2010, potrebbe "coprire" tutte le spese, sia i risarcimenti che il costo dei legali, specie quello dei superpoliziotti della Diaz. Parcelle sui cui anticipi girano indiscrezioni che parlano di una decina di milioni - impossibile ottenere dall'avvocatura di Genova la cifra esatta, quasi fosse un segreto di Stato - ai quali vanno aggiunte le scorte e l'accompagnamento a Genova e ritorno di due avvocati, residenti a La Spezia e Lucca, per tutta la durata del processo Diaz a causa di minacce nei loro confronti. La leggina, attraverso la costituzione di un "fondo di solidarietà civile" per vittime di "manifestazioni sportive" ma anche, genericamente, "di manifestazioni di diversa natura", e poi con la creazione di una cassa alimentata dal "fondo unico di giustizia" potrebbe andare a saldare tutti quei costi per vicende nelle quali lo Stato potrebbe graziare i suoi dipendenti condannati, salvandoli dal prelievo forzoso del quinto dello stipendio o dal pignoramento della liquidazione e dei beni. Un'eventualità resa possibile da una frase a suo modo rivoluzionaria contenuta nella legge: "Modalità relative all'esercizio di rivalsa o all'eventuale rinuncia ad esso". La rinuncia, appunto, che verrà valutata da una speciale commissione presieduta da un prefetto e interna al Viminale. Cioè tutti colleghi degli imputati eccellenti del processo Diaz.

CORSI E RICORSI STORICI: QUANDO LE COSE IN ITALIA NON CAMBIANO MAI.

C'è differenza tra fare il giudice ed essere giudice.

In Italia si diventa magistrato per concorso pubblico, così come può essere un concorso all'italiana. Spesso si è predestinati per discendenza nell'assolvere quel compito, per interesse familistico od ideologico. Quindi non si può essere certi che chi siede sullo scanno sia all'altezza del suo compito. La magistratura è un mestiere? Una missione? Una predisposizione? La risposta la dà Dante Troisi con “Diario di un giudice”.

Ancora “insuperato” nel suo genere, per riprendere una definizione di Italo Calvino, il Diario di un giudice di Dante Troisi è un libro problematico, di potente carica morale, permeato fino al midollo da un severo sguardo sul mondo dei vinti, degli sconfitti di una società meridionale primitiva e solitaria. Scrittore acutissimo e raffinato, Troisi racconta la sua vita di giudice in una Cassino ancora distrutta e avvolta dalle macerie della guerra, ma abitata da giudici e avvocati che regolano, giudicano, accusano, condannano e assolvono i molteplici componenti di un tempo terribilmente arcaico. Quando venne pubblicato nel 1955 questo diario fece scandalo. Fu ritenuto lesivo per l’ordine giudiziario e l’autore, giudice a Cassino, fu sottoposto a procedimento dalla Corte disciplinare di Roma che si concluse con una censura. Una parola odiosa allora come oggi. Il libro, con evidenza autobiografico, rivelava con crudezza come si amministrava la giustizia: in forma di diario, con linguaggio essenziale, raccontava la vita di ogni giorno in un tribunale alternando verbali di carabinieri e interrogatori, con il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della giustizia e quello del popolo in nome del quale essa viene esercitata. Non vi sono parole più efficaci per raccontare il “Diario di un giudice” di quelle della recensione che Alessandro Galante Garrone ne fece sulla «Stampa» nell’agosto del 1955: «Un giudice vero, di quelli che siedono in tribunale, distanti impassibili immoti nella loro nera toga; un giudice che non solo racconta quel che giorno per giorno gli passa dinanzi, ma dalla sala di udienza ti introduce di soppiatto nella camera di consiglio e ti rivela le pieghe più minute di quel mondo arcano, inaccessibile ai profani; scruta e osserva i colleghi e gli avvocati, senza indulgenza, anzi con ironia amara e crudele; e sente l’angoscia e il disgusto di sé, di quel fare giustizia ridotto a mestiere, e il lento franare delle speranze in una “giustizia nuova”. Ma nel libro c’è, prima di tutto, una mirabile vivacità di scrittore». Il tema della giustizia, del potere, delle garanzie non ha mai perso la sua centralità nell’Italia repubblicana. Oggi come negli anni Cinquanta. Una questione cruciale della nostra società nel racconto di uno scrittore impietoso e di talento.

Tra testimonianza e finzione in forma di diario e con linguaggio essenziale, la vita di ogni giorno in un tribunale; con verbali di carabinieri e interrogatori e il racconto dei casi della povera gente. Ne emergono due mondi lontanissimi fra loro: quello della giustizia e quello del popolo in nome del quale essa viene esercitata. Una riflessione, dolente, impietosa, sul fare giustizia. Diario di un giudice uscì nel 1955 nei «Gettoni», celebre collana diretta da Elio Vittorini per Einaudi e, come sovente succedeva con le opere di denuncia nel nostro paese, l’autore finì nei guai. Per averlo scritto, «diffamando la magistratura», il giudice Dante Troisi fu sottoposto a provvedimento disciplinare e sanzionato con una «censura». Elio Vittorini interpretò il testo sottolineando il suo essere specchio di una «società primitiva, impetuosa e insieme come stupefatta di non riuscire ad avere altro di civile che avvocati e giudici». Tra testimonianza e finzione, il libro si presenta al lettore come un diario nel vero senso della parola, in cui un uomo che di mestiere giudica gli altri, destinato per ufficio a una cittadina meridionale, riversa giorno per giorno, a ciglio asciutto, dal lunedì alla domenica, tutto ciò che gli capita, nel lavoro, in famiglia, tra colleghi, in città. E ciò che succede nella sua coscienza.   Così, accanto alla rappresentazione di una società inesorabilmente arretrata e di magistrati che si sentono non uomini di giustizia ma d’ordine quasi fossero l’occhio vigilante di una gerarchia il cui corpo morale è costituito dal prete, dal medico, dal militare, dal signore, la lettura fa oggi l’effetto di una riflessione, dolente, impietosa, sul fare giustizia. Una riflessione resistente al tempo. 

Mentre scava nella coscienza dell’imputato, il giudice lacera la sua. Registra, con uno stupore non logorato dalla routine, il consegnarsi del dolore del vivere, che si libera senza ritegno e senza mediazioni nella camera rituale. Scruta facce e storie misteriosamente predestinate alla colpa, che non hanno dalla loro nemmeno la fortuna di suscitare pietà. S’interroga su come l’arbitrio sugli esseri umani possa diventare un campo di interessi e di favori. Riconosce quell’aria conventuale, quel tanfo di sagrestia che terribilmente sembra separare i magistrati dalla vita. Infine, confessa come un segreto di cui è urgente liberarsi, l’attrazione angosciosa che esercita il potere di giudicare. «Ho la vocazione a fare il giudice. Mi sono agitato per negarlo, ma in questa professione ho il migliore rifugio, la difesa più sicura».  Diario di un giudice è un racconto di concreta verità e insieme una meditazione di grande fervore esistenziale.  Questo mescolarsi di cronaca sociale e confessione ne fa un classico: forse il più importante romanzo su un giudice mai pubblicato in Italia.

Troisi, se il giudice non è al di sopra di ogni sospetto. Questa l'analisi del giurista Carlo Federico Grosso su "La Stampa". Nel racconto di Dante Troisi, uscito la prima volta negli Anni Cinquanta, "l'angoscia per quel fare giustizia ridotto a mestiere". Ritorna la denuncia impietosa sulla magistratura che negli Anni Cinquanta costò all’autore una condanna disciplinare. Nel suo Diario Troisi racconta, giorno, dopo giorno ciò che gli capita in ufficio, nel rapporto con i colleghi, in famiglia. E spiega ciò che succede nella sua anima: sentendo «crescere l’angoscia per quel fare giustizia ridotto a mestiere» e per «quel lento franare delle speranze in una giustizia nuova» (Galante Garrone, su La Stampa, in una bella recensione del 1955 alla prima edizione).

Nel libro di Troisi, ora ripubblicato cinquant'anni dopo da Sellerio, si alternano resoconti di processi, rapporti di carabinieri, storie (piccole o terribili) di povera gente di provincia, riflessioni personali. Soprattutto si affiancano mondi fra loro lontanissimi: lembi di una società arretrata e dolente, predestinata a delinquere e inesorabilmente condannata, una magistratura (fatta di uomini d’ordine più che di giustizia) che, pur esercitando la funzione giudiziaria «in nome del popolo sovrano», quel popolo considerava un suddito fastidioso, nei cui confronti occorreva, principalmente, utilizzare la durezza delle leggi. Emergono, per altro verso, i rituali della carriera, il gusto del potere, l’arbitrio sulle persone, l’interferenza degli interessi, o, comunque, le modalità burocratiche con le quali si esercita, molte volte, il mestiere giudiziario. C’è, poi, la descrizione delle antipatie, delle gelosie, delle compiacenze (nei confronti dei superiori e della gerarchia ministeriale), dell’isolamento (quell’aria «conventuale» che allontana i magistrati dalla vita). Perché, si domanda a un certo punto l’autore, quando affrontiamo il tema dell’efficienza ci chiediamo se è stato celebrato un numero sufficiente di processi e mai se si è giudicato in modo giusto? Perché molti magistrati non vivono con la preoccupazione di operare bene, ma, piuttosto, di riuscire graditi ai superiori? E poi, in un crescendo, c’è la denuncia delle sciatterie, dei pregiudizi, delle arroganze, delle intransigenze. C’è ad esempio, annota lo scrittore, il pubblico ministero che, comunque vada il dibattimento, ha già segnato la misura della pena; il presidente che controlla l’orologio e conta i processi da sbrigare; il giudice che pensa palesemente ad altro. C’è il giudice che, giovanissimo, procede convinto di esercitare una missione (al quale mai, pertanto, verrebbe in mente di «far prevalere la pietà sulla durezza della legge»), e c’è il giudice che, segnato dalle esperienze o dalla frustrazione, condannerà o assolverà con fastidio routinario (ma in fondo, soggiunge l’autore, non so chi dei due sia peggiore).

Siamo «tabù», soggiunge Troisi, ci sentiamo divinità, non accettiamo critiche. Molte volte siamo, con gli imputati, come i medici con i malati poveri (con riferimento ai quali, essendo pagati in misura forfettaria, sentono, ad ogni nuovo arrivo, soltanto fastidio). Per altro verso i nostri figli, standoci vicini, crederanno che il mondo sia diviso in buoni e in cattivi, e noi «dalla parte dei buoni» (oggi basta infatti infierire contro qualcuno per farsi catalogare fra i giusti; quindi «nessuno è più giusto di noi»). Vorrei, invece, egli scrive, che gli imputati capissero che siamo «zeppi di difetti, di dolori, di noia, di ambizioni, di desideri meschini». Forse, soggiunge, «essi lo intuiscono», siamo noi che «troppo sovente ce ne dimentichiamo, e non ci giova». Diario di un giudice è dunque, come ha scritto un acuto commentatore, «racconto di concreta verità e insieme una meditazione di grande fervore esistenziale». Questo «mescolarsi di cronaca sociale e di confessione personale» ne fa, forse, «la storia più importante mai pubblicata in Italia su giudici e giustizia». Si tratta, d’altronde, di una riflessione resistente al tempo, tuttora di grandissima, sconvolgente, attualità.

La magistratura, oggi, è molto diversa da allora (ma l’intera nostra società ha mutato pelle, è diventata più ricca, complessa, articolata). Costume e mentalità sono cambiati, non c’è più quel «sistema d’ordine» in forza del quale il magistrato si sentiva «occhio burocratico vigilante» di una gerarchia della quale erano parte il prete, il militare, il poliziotto, il signore (bellissima la descrizione di questa situazione a p. 222 della nuova edizione del Diario). E’ scomparsa quella «società primitiva», descritta in modo così ricco e penetrante, sulla quale si esercitava allora, senza controlli, la coercizione giudiziaria. La Costituzione, e i suoi diritti, si sono pian piano incarnati nel Paese, ed anche i magistrati hanno dovuto tenerne conto (molti di essi, anzi, negli anni settanta sono stati protagonisti del cambiamento).

Eppure, quella denuncia impietosa mantiene l’originaria forza propulsiva. Oggi, come allora, Troisi insegna che qualità primarie del giudice dovrebbero essere attenzione, sensibilità, umanità, coscienza critica. Guai a chi esercita il mestiere con arroganza, a chi si lascia abbagliare dalla funzione esercitata, a chi si pavoneggia con la «nobile» professione conquistata, e poi, magari, la interpreta in modo routinario, sciatto, superficiale (pensando, soprattutto, alla carriera, alle ferie, al rapporto con il capo). Oggi, sicuramente, nell’ordine giudiziario vi sono molti più «Troisi» di un tempo. Sacche d’ignavia, compromesso, piaggeria, favori chiesti e ricambiati, o, per altro verso, di arroganza e prepotenza, sono comunque perduranti. Sono ancora sul tappeto, in particolare, i temi centrali di una giustizia più «giusta», di un ordine giudiziario che non sia in larga misura espressione di potere, di una magistratura attenta alle garanzie dei cittadini.

Ecco perché il Diario di un giudice, nonostante i grandi cambiamenti, mantiene, intatta, la sua efficacia dirompente. Vale la pena ricordare, a questo punto, che nel 1956 Troisi fu condannato (disciplinarmente) per avere infangato, con il Diario, l’ordine giudiziario; e che nel 1974, a seguito dello scioglimento (nel 1973) della «sezione penale» della quale era diventato presidente («ha dato fastidio – ha commentato Troisi in una conferenza stampa - che questo collegio non si limitasse a sfogliare il codice per comminare condanne e cercasse, invece, di capire perché era stato commesso un reato»), diede le dimissioni lasciando anzitempo la magistratura.

L’altra casta. Ecco le toghe multistipendio.

La casta dei magistrati: doppi incarichi, consulenze e indennità che si accumulano.

Il governo Monti squarcia il velo dei doppi incarichi. Consulenze, cumulo di stipendi e conflitti di interesse. Il Resoconto di Francesco Grignetti su “La Stampa”.

È davvero arrivata l’era della trasparenza. Il governo per la prima volta squarcia il velo dell’oscurità e presenta in Parlamento i dati su stipendi e doppi incarichi, o terzi, o quarti, dei magistrati italiani. Non soltanto gli ottomila della magistratura ordinaria, ma anche quelli in organico all’Avvocatura dello Stato, Tar, Corte dei Conti, Consiglio di Stato. Nel mazzo c’è davvero di tutto. Si va dal rigorosissimo Giuseppe Esposito, magistrato del Tar di Napoli, che partecipa a incontri con le scolaresche di Vico Equense e devolve gli 800 euro di compenso alla biblioteca scolastica, al caso ben diverso del consigliere di Stato Gabriele Carlotti che, oltre lo stipendio regolare, riceve dall’Autorità per l’Energia 100 mila euro l’anno in quanto responsabile della direzione Affari giuridici. Un’operazione di glasnost senza precedenti resa possibile da un emendamento del deputato Roberto Giachetti, Pd, che chiede di fissare paletti precisi sugli incarichi «fuori ruolo». Già, perché la miriade di doppi incarichi pone problemi etici, possibili conflitti di interessi, commistioni. Ma anche economici. E su tutti sta per abbattersi la scure del tetto da 294 mila euro, pari al guadagno del presidente della Cassazione.

Alcuni numeri, innanzitutto. Il ministro della Giustizia Paola Severino ha la radiografia dei magistrati ordinari: su 8.734 toghe, sono 227 quelle collocate fuori ruolo, pari al 2,6% del totale. Nell’ultimo anno, poi, il Csm ha autorizzato 1423 incarichi a tempo parziale. «Nella gran parte dei casi si tratta di incarichi di docenza». Perlopiù sono lezioni universitarie e i magistrati in questione incassano poche migliaia di euro.

Altro discorso (e altre cifre) quando il ministro Filippo Patroni Griffi consegna gli emolumenti dei 516 giudici della magistratura amministrativa, i 456 della contabile, i 360 dell’avvocatura dello Stato. Interessante è la dinamica salariale di questi ultimi: incassano stipendi per 54 milioni di euro, da ultimo decurtati per le misure di solidarietà a 53 milioni, più un’indennità particolare detta «propina» che rappresenta altri 55 milioni di euro. Per fare un solo caso esplicativo, il capo dell’ufficio, l’avvocato generale dello Stato, sua eccellenza Filippo Ignazio Caramazza, gode di un trattamento fondamentale di 289 mila euro a cui va aggiunta la «propina» di altri 324 mila euro. Caramazza risulta avere un incarico extragiudiziale in quanto membro della commissione di accesso ai documenti amministrativi. Senza cifre. Pierluigi Di Palma, vicesegretario generale della Difesa, giudice dell’Avvocatura di Stato che incassa 179 mila euro di trattamento fondamentale e 186 mila di «propina», ha ottenuto nel corso del 2011 anche 70 mila euro come consulente giuridico dell’Agenzia spaziale italiana. Risulta essere anche presidente del collegio arbitrale per una vertenza tra Anas e Asfalti Sintex, ma non è indicato l’emolumento. La categoria dei giudici amministrativi - provenienti da Tar e Consiglio di Stato - rappresenta la spina dorsale dei ministeri. Sono moltissimi quelli che hanno il doppio incarico di giudice e di capoufficio legislativo o capogabinetto. Il più noto è forse Filippo Patroni Griffi, presidente di sezione del Consiglio di Stato. In quanto ministro alla Pubblica amministrazione è colui che ha portato questi dati in Parlamento e doverosamente ha inserito anche i dati che lo riguardano. Patroni Griffi comunica quindi di essere fuori ruolo dal momento della nomina nell’Esecutivo. Da quella data guadagna 17 mila euro al mese in quanto ministro. Ha appena esaurito anche l’incarico extragiudiziario di presidente del Consiglio arbitrale in una vertenza tra Fiat e Tav, percependo 76.950 euro netti. Da questi elenchi emerge una raffica di doppi incarichi: Michele Buonauro cumula l’incarico di giudice del Tar con la consulenza giuridica all’Autorità per le Comunicazioni e che per due giorni a settimana di impegno incassa 35 mila euro lordi; Paolo Carpentieri ottiene 60 mila lordi come capo dell’ufficio legislativo del ministero per i Beni culturali; Giuseppe Caruso prende 58 mila lordi in quanto membro della commissione di valutazione dell’impatto ambientale al ministero dell’Ambiente; il sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà è fuori ruolo e incassa 25 mila euro netti annui dalle funzioni di segretario del Consiglio dei ministri; Claudio Contessa incassa 73 mila euro per l’ufficio legislativo del ministero del Lavoro; Roberto Garofoli ottiene 70 mila euro lordi in quanto capo di gabinetto del ministro per la Pubblica amministrazione. Di moltissimi poi lo stesso ministero non ha ancora i dati sugli emolumenti e si riserva di comunicarli.

ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.

Sono stati sorpresi mentre si scambiavano una mazzetta di quattromila euro. Così sono stati presi, in flagranza di reato, il giudice Pietro Vella e l'avvocato Fabrizio Scarcella. I due sono stati arrestati il 13 marzo 2012 su ordine di cattura firmato dal gip del Tribunale di Potenza su richiesta della locale procura della Repubblica che è competente per i procedimenti a carico dei magistrati di Taranto. Vella e Scarcella, che operavano nel settore civile, portati nel carcere del capoluogo jonico devono rispondere di concussione. I carabinieri di Taranto che hanno indagato su delega della procura hanno sorpreso i due in flagranza di reato mentre si scambiavano una mazzetta di quattromila euro. La vicenda riguarda una presunta concussione ai danni di un imprenditore di Taranto titolare di una grossa stazione di servizio. L'uomo aveva un contenzioso con la compagnia petrolifera che minacciava di ritirargli il marchio. L'avvocato Scarcella avrebbe fatto avvicinare l'imprenditore da un suo collaboratore che lo avvisava di una prossima visita degli ispettori delle Entrate che lo avrebbero rovinato. L'emissario consigliava quindi di rivolgersi al legale che avrebbe risolto il problema. All'appuntamento con l'avvocato Scarcella l'imprenditore avrebbe ricevuto la proposta di una mazzetta di ottomila euro che il legale avrebbe diviso con il giudice Vella al quale toccava il compito di aggiustare il contenzioso con la compagnia petrolifera. L'imprenditore avrebbe finto di accettare l'accordo raccontando tutto ai suoi avvocati e ai carabinieri che avrebbero organizzato la trappola. Con una telecamera nascosta, il presunto concusso si sarebbe recato in mattinata nello studio dell'avvocato con la prima tranche della mazzetta di quattromila euro in banconote tutte precedentemente fotosegnalate. Per tutto il pomeriggio i carabinieri hanno pedinato l'avvocato che si è incontrato con il giudice al quale avrebbe consegnato la sua parte di banconote. A quel punto è scattata la trappola.

Ma il giudice non è nuovo agli altari della cronaca. Ruolino di marcia disastroso anche per Pietro Vella, giudice a Taranto. Le sue sentenze arrivavano dopo il periodo previsto: con 700-800 giorni di ritardo in 14 casi (in 12 dei quali superiore a due anni); 800-900 giorni dopo il tempo stabilito in 28 casi; con 900-1.000 giorni di troppo dopo in 28 casi. Vella ha addirittura infranto 47 volte il muro dei 1000 giorni; in 21 di questi 47 casi ha cincischiato più di tre anni e 5 volte ha indugiato più di quattro anni, con una punta massima di 1684 giorni. Per la sezione disciplinare del Csm si tratta di «ritardi pluriennali gravemente lesivi del generale interesse pubblico... sintomatici di negligenza e di insufficiente laboriosità, nonché di inadeguata capacità di organizzazione del lavoro giudiziario». Risultato: l’ammonimento !!!

Ma ci sono altri precedenti di arresti eccellenti. Il pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, è stato arrestato dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con l’accusa di concussione. Di Giorgio è stato arrestato al termine di un’inchiesta avviata nel 2008. Secondo quanto è stato possibile apprendere, i Carabinieri hanno cominciato ad indagare dopo una serie di denunce presentate da cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Le indagini hanno permesso di stabilire che Di Giorgio avrebbe compiuto atti contrari al suo ufficio e avrebbe ricevuto in cambio numerose utilità, ma non denaro. L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Lecce.

Il procuratore chiedeva tangenti. Arrestato Marabotto: 30% su false consulenze.

Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato. Il magistrato, che in questi anni da indagato è riuscito prima a farsi trasferire alla Corte d’appello di Genova e ad andare poi in pensione, è stato arrestato e portato da Torino nel carcere di Pavia insieme al commercialista Ruggero Ragazzoni. Gli altri due ammanettati di giornata, il professionista Mario Emanuele Florio e il ginecologo, medico legale anche per pm torinesi e collettore delle tangenti, Dario Vizzotto, sono stati destinati al carcere di Opera. Ma il secondo a sera era ancora in procura, a Milano, interrogato su richiesta del suo legale (Mauro Anetrini). Tirava aria di confessione.

Magistrati di spicco, politici di primo piano, uomini delle forze dell’ordine e affiliati: è un’operazione anti-’ndrangheta che coinvolge tutti i livelli. Corruzione, favoreggiamento personale, rivelazione del segreto d’ufficio con l’aggravante di aver agevolato le attività della ‘ndrangheta: con queste accuse, la Dda di Milano ha arrestato il giudice Vincenzo Giglio, 51 anni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria e della prima sezione della Corte d’assise, esponente della corrente di sinistra di Magistratura democratica, docente di diritto penale alla Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università statale Mediterranea di Reggio Calabria. Secondo gli inquirenti, avrebbe favorito un esponente del clan Valle-Lampada, di origine reggina ma insediato da decenni in provincia di Milano, legato ai Condello di Reggio. In cambio avrebbe ottenuto “spinte” di carriera per la moglie Alessandra Sarlo, dirigente della Provincia e commissario straordinario della Asl di Vibo Valentia, poi messa sotto inchiesta per mafia.

Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. La sentenza è stata firmata dal giudice Beatrice Cristiani che ha condannato anche a 2 anni il commercialista Luciano Quadrini in relazione al crac appunto dell' Immobiliare Europa. Sotto processo oltre a Pierluigi Baccarini e Luciano Quadrini era finito anche Ercole Pugliese ( condannato a 3 anni) , arrestati alla fine del 2004 e poi tornati in libertà. Tra gli imputati anche la moglie del magistrato, Luisa Fasoli (condannata a 2 anni e 4 mesi) e l' avvocato Oreste Fasano che è stato assolto. L' inchiesta, per corruzione anche in atti giudiziari è stata coordinata dai pm Sergio Sottani, Roberto Rossi e Andrea Claudiani. Secondo l' accusa il giudice Baccarini per cinque anni, dal ' 99 al 2004, il giudice avrebbe «ricevuto ingenti somme di denaro» per agevolare le procedure assegnate con «artifici» al suo ufficio. Nella distribuzione delle consulenze avrebbe «favorito costantemente» Pugliese e Quadrini e a quest' ultimo avrebbe assicurato una gestione del crack dell' Immobiliare Europa, ex immobili Dc, «atta a garantire gli interessi» curati dal commercialista. L' inchiesta era scattata a Roma dalle indagini dei pm Giuseppe Cascini e Stefano Pesci che nel 2005 avevano scoperto una sorta di "comitato d' affari" che gestiva l' attività fallimentari degli uffici di viale Giulio Cesare.

La "cortesia" di dare parere negativo alla questura di Imperia che chiedeva di applicare la sorveglianza speciale a un pregiudicato aveva un prezzo. E questo prezzo era naturalmente a carico del pregiudicato in questione. Pregiudicato che si è premurato di promettere una certa somma di denaro al giudice che doveva dare il proprio parere sulla richiesta della polizia. Si chiama corruzione in atti giudiziari ed è uno degli spunti che la procura di Torino ha portato dal gip per ottenere l’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari per il giudice Gianfranco Boccalatte, presidente del tribunale di Imperia. Da oggi dunque Boccalatte, che nell’inchiesta era indagato, è agli arresti in quel di Limone Piemonte, 1500 abitanti sulle montagne di Cuneo, dove ha una casa. In carcere invece sono finiti quelli che la procura di Torino ha identificato come suoi sodali, e nel caso appena citato, corruttori: oltre a Giuseppe Fasolo, autista-factotum del giudice già detenuto alle Vallette di Torino, accusato con Boccalatte di corruzione in atti giudiziari e millantato credito tentato, anche due pregiudicati calabresi che frequentavano, come dimostrano video e foto della questura, la casa del giudice. Si tratta di Nicola Sansalone e Leonardo Michele Andreacchio. Proprio a quest’ultimo, la procura di Torino contesta la corruzione del giudice Boccalatte che avrebbe dovuto esprimere quel famigerato parere negativo sulla proposta della questura di Imperia.

E questo è niente in confronto a quello che non si dice ed a quello che si insabbia.

Giorgio Napolitano il 27 aprile 2010 parla da garante dell'autonomia e indipendenza della magistratura, nella sua doppia veste di presidente della Repubblica e del Csm, evidenziando nel suo intervento tutti gli abusi e le omissioni di un apparato elevato a casta impunita, composto, però, da semplici funzionari dello Stato: «La magistratura non può sottrarsi a una seria riflessione critica su se stessa, ma deve proporsi le necessarie autocorrezioni, rifuggendo da visioni autoreferenziali. Non vanno assecondate chiusure corporative, dissimulate insufficienze professionali, tollerati casi di inerzia o cattiva conduzione degli uffici. Fare attenzione a non cedere a esposizioni mediatiche o a sentirsi investiti di missioni improprie ed esorbitanti oppure a indulgere ad atteggiamenti impropriamente protagonistici e personalistici, che possono offuscare e mettere in discussione l'imparzialità dei singoli magistrati, dell'ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale».

La riforma della giustizia "è necessaria, perché è un'emergenza grave, in quanto le indebite ingerenze della magistratura su altri poteri dello Stato costituiscono una vera emergenza democratica". Così Silvio Berlusconi intervenendo a Mattino 5 del 24 dicembre 2010.

In un dispaccio del 2008 pubblicato da Wikileaks Spogli, l’ex ambasciatore Usa a Roma, sottolinea che “sebbene la magistratura italiana sia tradizionalmente considerata orientata a sinistra, l’ex premier ed ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha detto che la magistratura è la più grande minaccia allo Stato italiano”.

Una testimonianza allucinante. Nemmeno uno può più dire: nessuno tocchi la Magistratura.

E il giudice si tolse la toga "Non sopportavo più l’idiozia di troppi colleghi".

Su “Il Giornale”: Per 42 anni al servizio dello Stato, 80mila sentenze e mai un giorno d’assenza. Sei volte davanti al Csm per le critiche alla corporazione: "Sempre prosciolto".

Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione».

Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia.

Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm».

Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia.

Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto - ragiona - provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti».

Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure».

Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura.

Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

Perché ha fatto il magistrato?
«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.
«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?
«Ma è evidente! Perché i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano».

Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.
«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

Sono sconcertato.
«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

Può fare qualche caso concreto?
«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro - con costi miliardari, parlo di lire - i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

Prego. Sono rassegnato a tutto.
«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.
«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

Cioè?
«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?
«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

Un sistema che ha fatto scuola.
«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?
«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

Come mai la giustizia s’è ridotta così?
«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.
«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?
«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.
«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

No, no, non mi risparmi nulla.
«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

In che modo se ne esce?
«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

E per le altre magagne?
«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

Ci provi.
«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?
«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?
«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

Gli chiese scusa?
«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza».
«In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia».

Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato.
«Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?
«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?
«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

MAGISTRATURA: LOTTA ALL’ILLEGALITA’, LOTTA DI POTERE, O POTERE DI INTIMIDAZIONE PER L’ESERCIZIO DEL POTERE POLITICO?!?

Facciamo nostra l’analisi di Jimmomo (Federico Punzi) su Legno Storto. Ogni anno lo stesso vigoroso discorso, e se il capo dello Stato non ravvisasse con preoccupazione delle pesanti anomalie nei comportamenti di certi magistrati, non sentirebbe l'esigenza ogni anno di ripetere raccomandazioni così specifiche ai giovani magistrati. Nelle aperture dei loro siti internet ("Basta scontri tra politica e toghe") i giornali mainstream di fatto nascondono il monito del presidente, che è tutto rivolto all'indirizzo dei magistrati (leggere per credere). Napolitano il 21 luglio 2011 è stato eloquente, a parole, ma nei fatti, in qualità di presidente del Csm, è latitante. L'organo di autogoverno della magistratura non sanziona adeguatamente i comportamenti che il suo presidente a parole denuncia. Anzi, i magistrati che più indulgono in questi comportamenti "deviati" vengono premiati e onorati, dalla categoria e dai media.

Per il presidente della Repubblica «alla crisi di fiducia in atto» nel sistema-giustizia concorre «anche un offuscamento dell'immagine della magistratura, sul quale non mi stanco di sollecitare una seria riflessione critica». Esorta i giovani magistrati a «ispirare le proprie condotte a criteri di misura e riservatezza, a non cedere a fuorvianti "esposizioni mediatiche", a non sentirsi investiti di "improprie ed esorbitanti missioni", a non indulgere in atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono mettere in discussione la imparzialità dei singoli, dell'ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale». Atteggiamenti evidentemente diffusi anche secondo il capo dello Stato, se sente il bisogno di mettere così caldamente in guardia le nuove leve della magistratura.

«L'affermazione e il riconoscimento del ruolo dei magistrati - prosegue Napolitano - non può prescindere dal rispetto dei limiti che, di per se stesso, tale ruolo impone. Il magistrato deve assicurare - in ogni momento, anche al di fuori delle sue funzioni - l'imparzialità e l'immagine di imparzialità su cui poggia la percezione che i cittadini hanno della sua indipendenza e quindi la loro fiducia». Non solo imparziali nelle loro funzioni, dunque, i magistrati devono anche apparire imparziali, è il monito di Napolitano, perché ne va della loro stessa indipendenza e credibilità.

«Vanno perciò evitate - ammonisce il capo dello Stato - condotte che comunque creino indebita confusione di ruoli e fomentino l'ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura. Ciò accade ad esempio, quando il magistrato si propone per incarichi politici nella sede in cui svolge la sua attività oppure quando esercita il diritto di critica pubblica senza tenere in pieno conto che la sua posizione accentua i doveri di correttezza espositiva, compostezza, riserbo e sobrietà».

Ma Napolitano rileva delle anomalie e degli abusi anche nell'uso delle intercettazioni e della carcerazione preventiva, raccomandando caldamente, «nell'avvio e nella conduzione delle indagini», di «applicare scrupolosamente le norme e far uso sapiente ed equilibrato dei mezzi investigativi bilanciando le esigenze del procedimento con la piena tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Il discorso vale, in specie, per le intercettazioni cui non sempre si fa ricorso - come invece insegna la Corte di Cassazione - solo nei casi di "assoluta indispensabilità" per le specifiche indagini e delle quali viene poi spesso divulgato il contenuto pur quando esso è privo di rilievo processuale, ma può essere lesivo della privatezza dell'indagato o, ancor più, di soggetti estranei al giudizio». Dunque, raccomanda di «evitare l'inserimento nei provvedimenti giudiziari di riferimenti non pertinenti o chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti stessi», così come invita «a usare il massimo scrupolo nella valutazione degli elementi necessari per decidere l'apertura di un procedimento e, a maggior ragione, la richiesta o l'applicazione di misure cautelari».

Napolitano con le sue raccomandazioni e i suoi moniti traccia un identikit molto preciso, che corrisponde perfettamente a Woodcock e Ingroia. Ma viene palesemente preso per il culo, visto che ciò nonostante proprio i magistrati che più di tutti eccedono nei comportamenti che si sforza di stigmatizzare vengono premiati e onorati.

Il Corriere della Sera ne parla. Rischia il trasferimento d'ufficio per incompatibilità «ambientale» o «funzionale» il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, titolare dell'indagine sulla cosiddetta P3, su Finmeccanica e su altre delicatissime vicende. Il Consiglio superiore della magistratura ha aperto una pratica sul pranzo, a dicembre 2010, nell'abitazione dell' avvocato Luigi Fischetti in cui erano presenti, oltre a Capaldo, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il suo allora consigliere politico Marco Milanese, il deputato del Pdl per il quale i giudici di Napoli hanno chiesto alla Camera l'autorizzazione all'arresto. L'apertura della pratica, affidata alla Prima commissione, è stata sollecitata da consiglieri togati che fanno capo ad Area, il cartello elettorale delle correnti di sinistra di Magistratura democratica e dal Movimento per la giustizia. Durissima la reazione di Capaldo. «È da oltre un anno che resisto a tentativi diretti a delegittimarmi e a impedirmi di portare avanti, insieme con altri colleghi, inchieste molto scomode. E non voglio credere alle voci di corridoio le quali sostengono che quanto sta accadendo ruota intorno alla poltrona del futuro procuratore della Repubblica di Roma», ha aggiunto la toga, ritenuto da molti il candidato naturale alla successione dell'attuale procuratore, Giovanni Ferrara. «Sono sereno», ha aggiunto Capaldo. «Mi fa piacere che il Csm si stia interessando a una vicenda emblematica di una clamorosa strumentalizzazione massmediatica: mi auguro che sappia trovare la forza di individuare le gravi responsabilità di chi manipola la verità per conquistare illegittimamente fette di potere». Accuse gravi, che rischiano di scatenare un'altra bufera. E di cui c'è traccia anche in un colloquio con «L'Espresso». «È un attacco, attraverso la mia persona, anche al mio ufficio. L' aumento dell'attività della Procura di Roma, che ha svolto molte inchieste importanti colpendo santuari politici, economici, finanziari e criminali - ha sottolineato -, ha fatto convergere su noi i riflettori dei mass media. È possibile che in ambienti collegati ai soggetti colpiti dalle nostre inchieste si stia cercando di delegittimare il nostro lavoro». Quanto al pranzo con Tremonti e Milanese, «nulla di illecito: solo i malpensanti possono credere che si sia parlato di fatti giudiziari. È diritto di un magistrato e di un ministro potersi incontrare, se non fanno cose illecite». Capaldo ha detto di non sapere che al pranzo avrebbe partecipato Milanese, peraltro all'epoca non ancora indagato» da Roma. Il procuratore aggiunto non ha rinunciato a qualche frecciata ai colleghi di Napoli riguardo alle indagini su episodi avvenuti nella Capitale: «È importante la competenza perché non è solo un fatto burocratico, ma è un primo aspetto di legalità. Il nostro Paese - ha osservato - difetta di legalità e la magistratura deve dare l'esempio di una legalità complessiva. Svolgere indagini per cui non si è competenti è una forma di violazione alla norma. Una forma di illegalità». E aggiunge che se le inchieste di Roma appaiono sulla stampa «è per l'importanza oggettiva delle inchieste e non per il clamore, un po' provinciale, che qualcuno vuole dare alle proprie indagini». Il procuratore di Napoli, Giandomenico Lepore, si dice convinto che il collega non si riferisca alla procura partenopea: «Nel caso mi sbagliassi, preferisco non aggiungere altro per evitare clamori provinciali».

Stefano Zurlo su Il Giornale. Questa volta il velo di silenzio è caduto. La guerra di potere che normalmente si combatte nelle ovattate stanze della magistratura italiana è arrivata alla superficie. L’ingorgo delle inchieste che si incrociano e si sovrappongono fra Roma, Firenze, Napoli, Perugia ha scosso le palline nel bussolotto. Sono in palio almeno tre poltrone di lusso: quella di procuratore nazionale antimafia e quelle di procuratore capo a Roma e Napoli. Per piazzale Clodio si combatte una partita durissima e dunque Giancarlo Capaldo, candidato naturale alla successione di Giovanni Ferrara, esce allo scoperto con una dichiarazione più affilata di un coltello: «Non voglio credere alle voci di corridoio le quali sostengono che quanto sta accadendo ruota intorno alla poltrona del futuro procuratore di Roma». Capaldo è nel mirino dei pm di Napoli che indagano sul cosiddetto «sistema Milanese». E Napoli, dopo la cacciata di Agostino Cordova, è un feudo di Magistratura democratica e delle cosiddette toghe rosse. Si sa, tutte le indagini di per sé sono ineccepibili e l’azione penale è obbligatoria. Ci mancherebbe. Ma la politica giudiziaria aiuta a capire, il mosaico del potere della magistratura e la sua incredibile, quasi surreale, suddivisione in correnti e sottocorrenti che si combattono aspramente e si spartiscono il potere, serve come una lente d’ingrandimento per comprendere quel che avviene nel backstage dei palazzi di giustizia. E nelle zuffe, di solito «secretate» dai protagonisti, fra toghe nere, rosse e azzurre. Con successivo intasamento, a colpi di ricorsi, dei vari Tar.

Ci sono inchieste che accelerano all’improvviso, altre che dormono sonni profondi, com’è stata quella sui Grandi eventi e la cricca finché è rimasta nelle mani della Procura di Roma, altre che convergono sullo stesso obiettivo. E ci sono indagini che corrono fra squilli di tromba, dipingono scenari tenebrosi, ma al dunque si perdono in niente senza partorire nemmeno il classico topolino. Esagerazioni?

La lunga inchiesta che il Giornale ha condotto, nel silenzio generale, sui «rovinati da Woodcock» dovrebbe insegnare qualcosa. Il Giornale ha intervistato un catalogo intero di personaggi, volti noti e noti e facce sconosciute, indagati, azzoppati o arrestati dai giudici di Potenza su richiesta del Pm John Henry Woodcock. Dall’ex sindaco di Campione Roberto Salmoiraghi, al principe Vittorio Emanuele di Savoia a Ernesto Marzano, fratello dell’ex ministro Antonio e via elencando. Il quadro: vite rovinate, carriere troncate, affetti dispersi come la cenere portata via dal vento. Un disastro che si è ripetuto in anni diversi, lungo piste investigative diverse e con modalità diverse, ma sempre con gli stessi, sconcertanti, risultati sul piano giudiziario: lo zero assoluto. È mai possibile che imprenditori incensurati siano stati intercettati per mesi e mesi, indagati per corruzione e associazione a delinquere, qualche volta blindati in cella, per poi essere puntualmente prosciolti? Attenzione: prosciolti e non assolti, perché il più delle volte altri pubblici ministeri, dopo aver letto i fascicoli ereditati da Woodcock per competenza, hanno semplicemente chiesto l’archiviazione e non se la sono sentita nemmeno di chiedere ad un Gip il processo per questo o quell’indagato. Un’anomalia che è difficile trasformare in una successione precisa di numeri, e un’anomalia le cui responsabilità vanno naturalmente suddivise fra l’ufficio della procura e quello del Gip di Potenza che ha firmato gli arresti, ma un’anomalia che alla fine è passata inosservata. Non è stata valutata e non è stata pesata: resta solo nei racconti, di parte ma drammatici, di chi è stato investito da quel ciclone e nella tempesta ha perso molto se non tutto.

Oggi Woodcock si è trasferito a Napoli, epicentro delle grandi inchieste italiane, e da Napoli prosegue sempre, fra standing ovation e consensi acritici, il suo lavoro di scavo, concentrato negli ultimi tempi su quel mistero dei misteri chiamato P4. Vedremo: ma le indagini finite nel nulla a Potenza, come certe malinconiche incompiute del Sud, e le dichiarazioni di Capaldo - che pure sono da accogliere con cautela vista la sua delicata posizione - dovrebbero servire a far decollare una riflessione seria. Senza i veli dell’ipocrisia. La magistratura non può continuare ad esercitare un potere enorme senza contrappesi. Gli errori devono essere puniti e chi sbaglia deve pagare. Senza che questo provochi riflessi condizionati o venga letto come il solito intervento a piedi uniti della politica. Qualcosa nell’apparto giudiziario non funziona e, senza retorica, le storie che abbiamo messo in fila lo dimostrano. Il Csm, l’Anm e i parlamentini vari di cui abbonda la corporazione dovrebbero prenderne atto. Arrossire. E battere un colpo.

Di Woodcock parla il suo vecchio Procuratore Generale in un servizio di Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica su Il Giornale. Una requisitoria spietata. Che porta per una volta idealmente alla sbarra Henry John Woodcock, uno che di solito è più a suo agio se sta dall’altra parte. Il 19 marzo 2007, di fronte al Csm, il procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano, viene chiamato a dire la sua sul clima avvelenato nel palazzo di giustizia lucano. E il Pg non si fa pregare. I suoi strali sono per il procuratore capo Giuseppe Galante, che si dimetterà poco dopo, per il pm Vincenzo Montemurro e per il gip Alberto Iannuzzi. Ma soprattutto, per Woodcock. Descritto come poco attento all’altrui privacy, ma anche all’altrui libertà, e molto, troppo attento a conquistare visibilità. A costo di crearsi una struttura autogestita.

Sul punto, un «fatto gravissimo», Tufano è tanto diretto quanto duro. «Il dottor Woodcock - attacca - si è creato una procura dentro la procura, un’enclave impenetrabile di pretoriani suoi, fatti di vigili urbani e di polizia stradale. Un’enclave impenetrabile allo stesso procuratore. Porte chiuse. Fedelissimi che danno conto solamente a lui». Per Tufano l’utilizzo dei vigili urbani è «uno schiaffo alle forze dell’ordine», perché «è come se le investigazioni le dovesse fare una polizia privata, sua, per sfiducia nei confronti di carabinieri, gdf e polizia». E a titolo di esempio degli effetti della «procura privata» di Woodcock, Tufano ricorda il Savoiagate: «Quando c’è stato il caso Savoia, il procuratore Galante non sapeva assolutamente niente». A dirglielo a giochi praticamente fatti è Woodcock, secondo Tufano, che ricorda il pm rivolgersi a Galante in corridoio in questi termini: «Procurato’, allora l’arrestamm a stu fetentone do Re?».

Quanto ai rapporti con le forze dell’ordine, rammenta ancora il Pg, Woodcock nelle sue inchieste ha indagato molti pezzi grossi dell’Arma, aprendo un fronte di scontro con i carabinieri. Sono finiti indagati o arrestati (in inchieste poi archiviate) il generale Stefano Orlando, poi passato al Sisde, l’ex comandante generale dell’Arma Guido Bellini, il comandante provinciale Blangiardo. «Woodcock - continua Tufano - ha intercettato perfino i carabinieri, ma a livello di capo di Stato maggiore regionale, Improta, e del comandante provinciale. E li ha intercettati mentre la mia procura generale, insieme ai carabinieri, faceva un’inchiesta delegata proprio sulla procura della Repubblica. Un fatto estremamente grave di cui ho dato conto nelle mie relazioni», conclude il Pg. Che snocciola l’ultimo motivo di contrasto tra procura e Arma. Un’indagine durata 18 mesi, «il massimo delle proroghe», a carico del comandante provinciale Polignano, che «aspirava a diventare comandante dell’aliquota carabinieri». Nel fascicolo «quasi niente», però «gli hanno bruciato la candidatura». La storia finisce «come finiscono tante cose della procura di Potenza, con un’archiviazione», dice Tufano, ricordando che persino per «firmare lo stampato di accoglimento» il gip Iannuzzi ci ha messo altri sette mesi».

Già, Iannuzzi. Il rapporto tra Woodcock e questo gip, dice Tufano, è «un grumo che deve essere chiarito». Troppo automatico il passaggio dalle richieste all’ordinanza. «C’è la richiesta di un arresto e c’è un gip che la concede, e questo gip è Iannuzzi», ricorda il Pg a proposito dell’arresto (poi annullato) del presidente della camera penale di Basilicata Piervito Bardi, «e lì c’è un copia-incolla che io ho già denunciato pubblicamente (...), perché la libertà della gente è sacra»....

Altra vicenda significativa è la «sequenza» del Savoiagate. «Il 29 maggio parte questa richiesta di 2.200 pagina, 30-40 faldoni (...) e in 17 giorni il giudice Iannuzzi esamina 30-40 faldoni e scrive un’ordinanza di 2.300 pagine. In 17 giorni. Tutto è possibile. Se però si confrontano ordinanza e richiesta, si vede ancora una volta che è il copia/incolla del cd-rom. Tra questo sostituto e Iannuzzi passa il cd-rom... ».

Proprio nel Savoiagate Tufano individua molte anomalie nell’operato di Woodcock. Il Pg rivela un retroscena nella vicenda dell’ex portavoce di Gianfranco Fini, Salvo Sottile, finito in manette per iniziativa del pm potentino. Per Tufano Woodcock l’ha infilato ad arte nel tritacarne dell’inchiesta. «Quella - mette a verbale nell’audizione a Palazzo dei Marescialli - è una vicenda particolarissima. Le telefonate che riguardavano questo signor Sottile, poche, si fermano nel maggio di un anno prima. A quel punto, il pm avrebbe dovuto raccogliere queste cose, iscrivere il Sottile e mandare le carte a Roma». Ma Woodcock no. «Lo iscrive un anno dopo - insiste il Pg - per immetterlo nel calderone Savoia, lo arresta prima, poi mandano le carte a Roma». E l’affaire Savoia, prosegue il procuratore generale, contiene «un altro aspetto grave», ossia quello dei «poveracci che non c’entrano niente con le indagini ma che si ritrovano con i nomi sui giornali, con il trucco». Un «trucco» che consiste nel mettere nella richiesta anche elementi poco attinenti all’indagine, e poiché la richiesta del pm quando arriva al gip «viene trasfusa direttamente e diventa ordinanza», il gioco è fatto. E i «poveracci», spiega Tufano, «vanno sui giornali per cose che non hanno niente a che vedere con l’indagine e si generano degli effetti terribili, negativi: famiglie lacerate, reputazioni distrutte». Qualche esempio? «Caso Savoia: vanno nella richiesta di misura cautelare i colloqui della moglie di Fini, ci va a finire D’Alema, come colui che avrebbe portato i soldi all’estero. Bruno Vespa, la Saluzzi. Persino Piero Grasso, il procuratore antimafia».

In 36 mesi, 129 anni di intercettazioni e 7 milioni di euro di spesa. È nota la passione per l’ascolto di Woodcock, ma il Pg rivela un «fatto grave»: «Ha intercettato i colloqui tra i difensori e i loro difesi», nascondendo cimici in una saletta. Altro dettaglio inquietante: 30 faldoni di «atti di risulta», in gran parte intercettazioni telefoniche tra privati, mandati al macero da Woodcock finirono in una discarica «dove chiunque avrebbe potuto prenderle e leggersele».

Tufano si fa infine qualche domanda sulla «spinta ad avere notorietà» di Woodcock, oltre che sulla «disinvoltura per la libertà delle persone, Vip in questo caso» che il pm manifesta. Il riferimento è alla richiesta, nel 2002, dell’«autorizzazione per la cattura di due deputati», Angelo Sanza di Fi e Antonio Luongo dei Ds. La Camera «ovviamente» rigettò, ricorda Tufano, ma «se fosse dipeso da Woodcock sarebbero dovuti andare a finire in galera». Sul mancato arresto di Luongo il Pg ha un altro aneddoto al vetriolo, che riguarda la richiesta di archiviazione per il deputato, in cui Galante, Montemurro e Woodcock, scaricano la «colpa» del nulla di fatto sull’innovazione legislativa, con l’entrata in vigore della Pecorella. «Ma se il Riesame in tutti quei casi ha detto “qua addirittura non c’è nemmeno la motivazione”, se la Cassazione ti dice che non c’è niente, tu vuoi dare la colpa del fatto che non c’è niente alla legge?». La passione per i Vip del pm anglonapoletano torna nelle parole del Pg quando questi ricorda al Csm che nel 2003 Woodcock indaga «Sergio D’Antoni, Franco Marini, Flavio Briatore, Tony Renis, Umberto Vattani, Anna La Rosa e Gasparri». «Ho letto che c’è stata archiviazione - chiosa Tufano - ma lui chiede, per esempio, la cattura di Tony Renis, e i domiciliari per Anna La Rosa. Il gip Romaniello gliele rigettò, ma se fosse stato per lui queste persone erano meritevoli di cattura».

In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando, accusa qualcuno di loro di essere sovversivo e comunista, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Specie se ci si ostina ad ignorare l'ipotesi del "Difensore Civico Giudiziario" con poteri della magistratura a tutela dei cittadini.

La Casta, com’è stata chiamata quella dei magistrati, difende se stessa con la giustizia «domestica» e corporativa. Quella del Csm, dove si celebrano i processi promossi dai titolari dell’azione disciplinare: il ministro della Giustizia e il Procuratore generale della Cassazione. Nell’ultimo decennio in Italia la media dei magistrati colpiti dalla rimozione dall’ordine giudiziario per gravi illeciti disciplinari, è di 1,3 ogni anno. Tra il 2000 e il 2007 la sanzione più grave è stata applicata 6 volte, nel triennio 2008-2010 ha riguardato 7 toghe. Nel 2008 le sanzioni disciplinari di vario grado hanno colpito meno dello 0,5 per cento dei magistrati.

Per il Pg della Suprema Corte Vitaliano Esposito, che ne ha parlato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, qualcosa sta cambiando. Ma rimane il fatto che l’altissimo numero degli esposti di privati cittadini, dice l’alto magistrato, «è la testimonianza più evidente dell’insoddisfazione, largamente diffusa, per il “servizio giustizia”». Delle 1.382 denunce arrivate lo scorso anno alla Procura generale ne risultano 573 di privati, anche se per Esposito in realtà sono molti di più per un errore di classificazione. Le cause intentate dai cittadini vittime di ingiusta detenzione o errori giudiziari, negli ultimi 10 anni sono costate allo Stato italiano circa 400 milioni di euro. Quello dei ritardi nel deposito delle sentenze è un problema enorme. Ed Esposito denuncia: «Non siamo più in grado neanche di pagare gli indennizzi dovuti per la violazione dei canoni di un giusto e celere processo (legge Pinto, ndr.». La Corte europea di Strasburgo ci ha condannato per 475 casi di ritardi nel pagamento dei risarcimenti: si è passati da quasi 4 milioni di euro del 2002 agli 81 del 2008.

Ma perché i magistrati che sbagliano non pagano mai?

Il nodo riguarda tutti noi, comuni cittadini prigionieri di una casta, quella dei magistrati, che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, potere e una immunità che non ha pari al mondo. Quando un chirurgo sbaglia ad amputare una gamba viene cacciato sui sue piedi. Se un pm o un giudice sbaglia, clamorosamente ed evidentemente, nulla accade. Le loro incapacità e lentezze causano drammi personali e danni ingenti alla nostra economia, tenendo lontano dal mercato investitori stranieri e scoraggiando i nostrani. Negli ultimi sette anni, su 1.010 magistrati finiti sotto processo disciplinare, 812 sono stati assolti, 126 sono stati ammoniti, 38 censurati, 22 multati e soltanto 6 rimossi. Nessun ordine professionale ha una casistica di autointervento sui propri iscritti così blanda.

Che un magistrato sia infallibile, sempre in buona fede e comunque in sé, è una leggenda da sfatare. Sono uomini come tutti, con i loro limiti e convinzioni. Il Giornale pubblica una serie di storie raccolte da Stefano Zurlo che i giornali gazzette delle Procure si guardano bene dal raccontare. Sciatteria. Errori plateali. E, in qualche raro caso, anche comportamenti da valutare col metro del codice penale. Per scoprire vizi e difetti della magistratura italiana - di una minoranza, sia chiaro - bisogna leggere le carte delle sentenze sfornate dalla sezione disciplinare del Csm, il tribunale dei giudici italiani. Le storie che Stefano Zurlo ha raccolto, una settantina, compongono il libro "La legge siamo noi, la casta della giustizia italiana", Piemme editore.

C’è quella del Giudice (Leggi qui) che organizza una sorta di raid punitivo contro l’agenzia di viaggi che gli aveva venduto un viaggio inesistente da 1300 euro per l’Egitto; o (leggi qui) che scarcera l’ergastolano con la più sorprendente delle motivazioni: è depresso; o (leggi qui) che ubriaco minaccia i carabinieri; o (leggi qui) che dimenticano i detenuti, in cella o ai domiciliari, per mesi; o quella delle toghe che, in vena di goliardate, spalmano barattoli interi di Nutella nei bagni del tribunale; o (leggi qui) che non paga il conto al ristorante e in risposta alle proteste del gestore manda i carabinieri; o (leggi qui) che chiede l'elemosina sotto il tribunale e che pur giudicata incapace di intendere e volere resta al suo posto; o (leggi qui) che fa ipnotizzare un imputato per saperne di più.

C’è il giudice del copia e incolla, specializzato nel riprodurre per pagine e pagine le memorie scritte dagli avvocati (leggi qui). Senza ritegno. C’è il magistrato che concede ad un detenuto, e non è una barzelletta, il permesso di incontrare la figlia per il compleanno, ma firma l’atto dodici volte in dodici mesi (leggi qui). Poi non contento si supera: dà a un altro carcerato l’ok per far visita al fratello in punto di morte; solo che qualche tempo prima l’aveva autorizzato a partecipare al funerale dello stesso fratello, risorto dunque per l’occasione. Senza memoria. E c’è la toga che pensa di essere sul set di un qualche film sgangherato, dove il copione è infarcito di parolacce e insulti (leggi qui). Frasi offensive che lui indirizza agli stimati colleghi, invitandoli a «non prenderlo per il c...» e chiedendo infine un’inverosimile «perizia “anofonica” perché ormai non si è più sicuri neanche nell’intimità del cesso». Sono alcune delle storie trattate dalla Sezione disciplinare del Csm e raccolte nel libro. Storie incredibili, accadute in Italia negli ultimi anni e spesso chiuse dal tribunale dei giudici con sentenze di assoluzione. Oppure con condanne all’acqua di rose.

Non solo “sti signori” sono impuniti per motivi di colleganza e di casta, ma, addirittura è impedito parlarne. Su “Panorama”  e su “Il Giornale” la testimonianza di una giornalista. “Non sono ancora le 9 quando in casa di Anna Maria Greco, la cronista de "Il Giornale" «colpevole» di aver scritto un articolo intitolato La doppia morale della Boccassini, suonano alla porta. Tranne la figlia che si sta preparando per uscire, gli altri dormono tutti. Ad alzarsi è il marito. L’uomo non fa in tempo ad aprire, che in un attimo quelli hanno già imboccato la strada per la camera da letto. Manco si trattasse di dover scovare un pericoloso latitante pluricondannato, i carabinieri si presentano in cinque. Devono subito localizzare la giornalista e notificarle l’ordine di perquisizione disposto dal procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani nell’ambito dell’indagine a carico del membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura Matteo Brigandì, accusato di abuso d’ufficio per aver passato, proprio a lei, un fascicolo riservato. Anna Maria non è indagata di nulla. Ha solo scritto un articolo riguardante un procedimento disciplinare a carico di Ilda Boccassini risalente al 1982 quando, la principale accusatrice di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, fu costretta a difendersi davanti al Csm dopo essere stata beccata in atteggiamenti amorosi con un giornalista di "Lotta continua". Anna Maria non è indagata, eppure le rivoltano la casa: setacciano stanza per stanza, smontano cassetto per cassetto, controllano foglio per foglio. Alla fine della perquisizione le porteranno via il suo pc personale, le agende, i documenti, ogni singolo foglio con la sigla “Csm”, come se non fosse normale trovarne nella casa di una cronista che da vent’anni si occupa di giudiziaria. «La cosa più grave – racconta Anna Maria a "Panorama.it" mentre è ancora in attesa di firmare il verbale della perquisizione assistita dal suo avvocato – è che si sono portati via pure il pc di mio figlio, al quale io non ho mai nemmeno avuto accesso. Speriamo che almeno quello ce lo restituiscano in fretta». Eh già, perché magari è proprio nel computer del figlio 24enne che Anna Maria avrebbe potuto nascondere il fascicolo incriminato, a meno che non l’abbia occultato nella redazione romana del Giornale perquisita anch’essa in mattinata. «Io quel fascicolo l’ho visto, ma non ce l’ho. E comunque non sapevo che si trattasse di carte segrete dal momento che riguardano un procedimento risalente all’’82 conclusosi, come ho anche scritto nel mio articolo, con un’assoluzione per la Boccassini. Dov’è il segreto?» . La Greco, che in tutta la sua carriera non ha mai subito una perquisizione domiciliare, non nasconde rabbia e sorpresa. Da una parte è ancora scossa per quanto accaduto poche ore prima in casa sua, dall’altra si sente delusa e amareggiata perché a “denunciarla” su un giornale è stata proprio una che fa il suo stesso mestiere. Anna Maria non fa nomi, ma è semplice capire a chi alluda. Il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo, infatti, su "Repubblica" Liana Milella svela la presunta fonte dello scoop del Giornale sulla Boccassini, ossia lo stesso Brigandì oggi accusato d’abuso d’ufficio. «Qui siamo davanti a un fatto clamoroso: una giornalista che, invece di tutelare un principio cardine del nostro lavoro come la copertura delle fonti, arriva a fare una cosa del genere. Dovrebbe vergognarsi». Nessun attestato di solidarietà, dunque, da chi per mesi si è battuto contro il bavaglio alla libera informazione? «Macché solidarietà! Da altri sì, non certo dai colleghi di Repubblica». A parte scovare il fascicolo che le avrebbe passato Brigandì, secondo la Greco, dietro la doppia perquisizione ordinata oggi in casa sua e al Giornale, c’è una chiara intenzione intimidatoria nei confronti di chi esercita questa professione. «Da oggi il mio lavoro diventerà ancora più difficile di quello che è normalmente, – spiega la cronista - occuparsi di giustizia, e in particolare della condotta dei magistrati, è sempre più rischioso. Anche quando hai in mano fatti e documenti certi che comprovano delle responsabilità a loro carico, devi muoverti in punta di piedi». Secondo la Greco, invece di essere una casa di vetro, trasparente agli occhi dei cittadini, la giustizia è sempre più una casa di piombo, «se nemmeno dopo 30 anni dalla chiusura di un procedimento a suo carico, la gente ha diritto di sapere cosa ha fatto un magistrato, che democrazia è? Perché non si dovrebbe parlare oggi di un fatto che può essere d’interesse per l’opinione pubblica dal momento che quel magistrato si sta occupando di un’indagine che riguarda la privacy di una persona? Perché – si chiede ancora Anna Maria mentre aspetta solo che la lascino andare a casa e riprendere il suo lavoro – i cittadini non dovrebbero sapere certe cose?».”

«I carabinieri - ha spiegato la giornalista - mi hanno detto che dovevano procedere a una perquisizione personale e, di fronte a una donna carabiniere, ho dovuto spogliarmi integralmente. Non si tratta quindi semplicemente di una consegna degli abiti, come sostenuto dalla procura, ma di una procedura molto imbarazzante. Confermo altresì, come scritto nel mio articolo, di non essere stata toccata. Mi chiedo - ha concluso - se sia normale che una giornalista venga costretta a rimanere nuda di fronte a un'esponente delle forze dell'ordine senza nemmeno essere indagata. Lascio il giudizio ai lettori».

Fughe di notizie. Fughe inarrestabili. Fughe senza colpevole. È così che va la giustizia italiana da quando la giustizia fa notizia. Dal primo ciak di Mani pulite. Certo, allora gli arresti si susseguivano sul nastro della procura, al quarto piano, e qualche volta il Gabibbo arrivava sotto casa prima dei carabinieri e prima delle manette. Oggi gli spifferi portano sui giornali frammenti di verbali in tempo reale, notizie che servono a far discutere, ma non aggiungono un grammo all’inchiesta, intercettazioni che poi, a bocce ferme, riservano sorprendenti riletture. La contabilità degli incendi mediatici, quella non la tiene più nessuno. Figurarsi. Già nell’ormai lontanissimo 1995, un’epoca fa, gli avvocati del Cavaliere, contestavano 130 fughe non ortodosse. Numeri che oggi, se aggiornati, verrebbero polverizzati. Numeri che, naturalmente, nessuno dentro i palazzi di giustizia ha mai preso sul serio. Perché le Procure spesso considerano la fuga un episodio deplorevole, ma non un reato, così come invece è, specie se commesso da un loro collega. E perché le poche indagini aperte sono davvero, per dirla con il linguaggio della magistratura, atti dovuti. Atti dovuti e nulla più. Atti senza futuro. Gli avvocati del Cavaliere, ma non solo loro, hanno depositato nel tempo diverse denunce, a Milano, e anche a Brescia, competente per i reati compiuti dalla magistratura di rito ambrosiano. In un caso e nell’altro i risultati sono stati nulli.

Ed è inutile contestare, tanto il potere in Italia è nelle mani della magistratura, non nelle mani del popolo. Ed infatti, a seguito della perquisizione del 1 febbraio 2011 presso l’abitazione di Anna Maria Greco e presso la redazione de "Il Giornale" disposta dalla procura di Roma attinente alla pubblicazione di documenti interni al Csm riguardanti il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, la Federazione nazionale della stampa aveva commentato in una nota: “Oggettivamente, non se ne può più. Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse. La perquisizione di oggi a carico della collega de 'Il Giornale' Anna Maria Greco appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva". "Le notizie 'riservate', non escono mai con le proprie gambe. - aggiungeva la nota FNSI - Ma se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell''utilizzatore finale'. Cosi non si può andare avanti. Ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti". Critica sulla vicenda, per altri profili, anche l'Unione Camere Penali. "Si possono esprimere ampie riserve, non solo estetiche, in merito allo 'scoop', strumentale e bacchettone, del 'Giornale' sulla dottoressa Ilda Boccassini, che segna l'ennesimo episodio di imbarbarimento dello scontro in atto, cosi come si possono anche avanzare fondati interrogativi - afferma una nota della Giunta UCPI - sulla necessita di custodire come il terzo segreto di Fatima gli atti dei procedimenti disciplinari dei magistrati risalenti a trenta anni fa, ma non ci si può esimere dal registrare anche l'inusitato spiegamento di mezzi processuali con cui, ancora una volta, la magistratura reagisce quando viene coinvolto un collega". "Mentre tante Procure leggono sonnacchiose sui quotidiani gli atti dei propri processi, di cui per legge e vietata la pubblicazione, quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch'esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione", commentano i penalisti. "Se ce ne fosse stato ancora bisogno, abbiamo avuto la riprova", conclude la nota UCPI, "di quanto sia discrezionale non solo l'esercizio dell'azione penale, ma anche le sue stesse modalità, con buona pace del principio di eguaglianza che tutti invocano". 

“Così strozzano la magistratura”, il titolo di un’inchiesta del “L’Espresso” a firma di Emiliano Fittipaldi.

Raccomandazioni a iosa. Concorsi illegittimi. Promozioni politiche. Familismo esasperato. E pressioni della massoneria... Un giudice del Tar denuncia, con nomi e cognomi, i comitati d'affari del sistema giustizia.

Alessio Liberati è stanco di combattere. Ma ha giurato di non mollare, e con questa intervista sembra volerlo dimostrare a tutti. Per cominciare ai suoi nemici, che ormai sono davvero tanti. Liberati fa il magistrato da dodici anni. Prima in terra di 'ndrangheta, a Locri, dove faceva il giudice penale, poi alla Corte d'appello di Catania. "Oggi lavoro al Tar Toscana, e da due anni sono impegnato nella politica sindacale interna. Ne ho viste di tutti i colori, ho denunciato fatti assai strani agli organi preposti, ma non mi hanno dato ascolto. Allora faccio quello che non ho mai fatto prima: parlare con un giornale". Ora ha deciso di metterci la faccia. Prima ha fondato l'Ami, una nuova associazione che coinvolge, tutti insieme, giudici, pm, magistrati amministrativi e contabili. Ora a "L'espresso" fa una lunga lista di nomi e cognomi, di storture e scorrettezze che, dice, "stanno minando la credibilità dei massimi organi della giustizia amministrativa. Consiglio di Stato in testa". E che pochi vogliono vedere. La battaglia del magistrato inizia nel 2007, quando viene bocciato al concorso per passare dal Tar al Consiglio di Stato: "Ponevo dei dubbi sui titoli di uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, che a mio parere non aveva i requisiti per partecipare al bando. Più una serie di gravi errori procedurali. Ho fatto ricorso, e così è cominciato il mio inferno". Naturalmente si è pensato che avesse vestito i panni del Torquemada solo per ripicca, per vendetta. Ma lui replica così: "Pochi giorni fa è uscita la sentenza del Tar. Che su Giovagnoli non è entrata nel merito, ma ha dichiarato che il concorso è di fatto illegittimo". Il concorso "illegittimo", però, non è stato annullato, e Liberati ha avuto un risarcimento beffa: mille euro. "Ora la palla passa alla presidenza del Consiglio, che potrebbe intervenire facendo chiarezza sul più importante concorso della giustizia amministrativa. Ma da Palazzo Chigi tutto tace". Sarà una coincidenza, ma dopo il ricorso comincia per Liberati una lunga via Crucis. Da accusatore ad accusato. Azioni disciplinari e pressioni non si contano: "Il nostro organo di controllo ha disposto il monitoraggio di tutte le e-mail, in cui denunciavo fatti gravi per verificare se siano lesive del prestigio della categoria. L'ex presidente del Consiglio di Stato Paolo Salvatore ha aperto un procedimento disciplinare contro di me".

I rimproveri, chiamiamoli così, sono tanti: "In primis mi dicono di aver diffuso un verbale non pubblico nel quale un mio collega poneva dubbi sul caso Giovagnoli.

Poi sostengono che abbia diffamato e irriso Carmine Volpe, un magistrato che ha chiesto un'invalidità di servizio per una patologia alla schiena". La storia merita di essere ascoltata. E Liberati la racconta così: "Secondo Volpe, l'ernia gli era venuta perché alzava fascicoli troppo pesanti sul lavoro. L'invalidità inizialmente gli è stata negata, poi lui ha fatto ricorso al Tar che gli ha dato ragione. Io, in un dibattito pubblicato on line su una mailing list dedicata ai giudici amministrativi, mi sono "complimentato" con lui. Visto che avevo scoperto che nel frattempo aveva corso una frazione, tre chilometri, di una maratona di beneficenza". Chissà se si tratta dello stesso Carmine Volpe che qualche tempo fa ha fatto di meglio, chiudendo la mezza maratona Roma-Ostia, 21 chilometri, in un'ora e 44 minuti. "C'è stata anche un'interrogazione parlamentare, ma il governo non ha mai risposto. Il paradosso è che mentre io sono sotto inchiesta per aver denunciato i rischi della giurisdizione domestica (cause di giudici che possono essere decise da colleghi che lavorano nella porta a fianco), Volpe è entrato a far parte dello staff del ministro Raffaele Fitto ed è stato promosso presidente di sezione del Consiglio di Stato".

La terza accusa, così come la racconta Liberati, suona paradossale. Il magistrato ha ricevuto una lettera anonima sulla sua scrivania che parlava, letteralmente, di sentenze truccate, giudici indagati, arbitrati usati come ricompensa e raccomandazioni: "I fatti erano specifici, e ho mandato la missiva al Consiglio di presidenza per eventuali accertamenti. Loro non hanno fatto nessuna istruttoria, ma hanno aperto una pratica disciplinare contro di me. Dicendo che, spedendola acriticamente, ho fatto implicitamente mie le accuse dell'anonimo".

Torna l'accusa di fondo: la sua campagna è mossa dall'invidia perché ha perso il concorso, sostengono i suoi detrattori. Ai quali risponde: "Legittimo pensarlo, per carità. È vero, è andata male, anche se ero primo per titoli. Ma non ce l'ho con nessuno. Chiedo solo trasparenza e chiarezza per uno dei concorsi pubblici più importanti del Paese, per il massimo organo della giustizia amministrativa. Ricordo che sono consiglieri personalità come il ministro Franco Frattini, Antonio Catricalà, Nicolò Pollari".

E allora, visto che c'è, Liberati ne racconta un'altra ancora, quella sul cosiddetto concorso delle mogli: "Qualche tempo fa due colleghi, Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti, e Salvatore Mezzacapo hanno partecipato alle nomine della commissione del concorso al Tar a cui partecipavano le rispettive consorti. Sarebbe stato opportuno che i due si astenessero dalle pratiche, e invece hanno partecipato anche alla votazione con cui fu nominato presidente aggiunto del Consiglio di Stato Pasquale De Lise, presidente della commissione di quel concorso. Le mogli hanno vinto...". Non si tratta di fatti e comportamenti difficili da accertare, eppure tutto tace. De Lise l'anno scorso è diventato presidente al posto di Salvatore. Entrambi sono finiti nel mirino di Liberati, che ne ha pagato il fio. Oltre le tre azioni disciplinari in corso, infatti, contro il giudice rompiscatole ne sono state aperte altre, però rimaste, per sua fortuna, solo sulla carta. Ecco com'è andata.

"Notai che il nome e la corrispondente data di nascita del presidente di un'associazione dei magistrati di Palazzo Spada, Filoreto D'Agostino figurava in un elenco di massoni pubblicato da un sito Web. Ho chiesto così di verificare l'eventuale iscrizione di magistrati alle logge (come si sa, il vincolo di obbedienza che si deve ai "fratelli" è incompatibile con incarichi in magistratura). Anche in questo caso, fatti non difficili da accertare, ma non è successo niente, anzi hanno aperto un'istruttoria contro di me, dicendo che la lettera poteva essere lesiva dell'onore della categoria". Ancora: "Un'altra pratica è stata intentata quando mi accusarono di aver offeso Salvatore e De Lise su Internet. Non so di cosa si trattasse, visto che lo stesso De Lise mi negò l'accesso agli atti. Certo, ho ricordato, nella solita mailing list per addetti ai lavori, che Salvatore è stato indagato nel 2008 per concorso in corruzione in atti giudiziari e abuso d'ufficio. E ho pubblicato le intercettazioni della cricca che riguardavano De Lise. Ma non ho offeso proprio nessuno". Poi non se n'è fatto niente. Nel frattempo esplodeva l'inchiesta su Angelo Balducci e la Protezione civile, e spuntavano i nomi dell'ex presidente del Tar Lombardia Pier Maria Piacentini e dei giudici contabili Antonello Colosimo e Mario Sancetta.

Ormai fedele al suo ruolo, Liberati ha aperto un ennesimo fronte, stavolta con altri magistrati: gli incarichi esterni ("Un consigliere prende in media 130 mila euro lordi l'anno, ma alcuni vi aggiungono lavori extra da decine di migliaia di euro che non sarebbero rimborsabili"), l'assenza di trasparenza, gli arretrati pazzeschi della giustizia amministrativa. E sempre con nomi e cognomi. Accuse fondate? Non dovrebbe essere difficile verificarlo. Intanto però Liberati si sente deluso: " Sto pensando di andare a lavorare all'estero. Ma vada come vada, non potrò esimermi dal fornire alle procure competenti gli elementi che, per difendermi, ho raccolto sui rapporti tra magistrati amministrativi, comitati d'affari, politica e massoneria. Non è coraggio, è la mia coscienza che me lo impone".

I Papponi in Toga. L’appetito dell’ultracasta. I giudici del CSM sono 27 e ci costavano 29 milioni di euro l’anno. Ne hanno chiesti al governo 35  milioni.  Far tintinnare le manette conviene, così da un’inchiesta di “Libero”.

L’unico a tirare la cinghia è il suo presidente, Giorgio Napolitano, che per la prima volta nella storia ha ridotto la spesa per il Quirinale. L’esempio del Capo dello Stato non ha contagiato però Nicola Mancino e i giudici che lo affiancano nell’organo di autogoverno della magistratura. Non hanno alcuna intenzione di mettersi a dieta, anzi. Dopo avere sfondato già nel 2008 e nel 2009 le previsioni di spesa costringendo il Tesoro a mettere una pezza da due milioni di euro, ora mettono le mani avanti chiedendo al Governo ben 35,3 milioni di euro contro i 28,6 previsti nel bilancio pubblico.

La cifra poi lieviterebbe di un altro milione e mezzo nel biennio successivo e sarebbe davvero difficile spiegare perché tutte le amministrazioni dello Stato debbono contrarre la spesa pubblica e i giudici no. Anche se raramente una richiesta che arriva dalle toghe viene cestinata da chi la riceve. Un po’ come ha raccontato l’ex democristiano (poi passato al Pdl), Giuseppe Gargani in un suo libro ricordando l’approvazione parlamentare delle due leggi del 1966 e del 1973 che stabilivano gli scatti automatici di carriera e di portafoglio dei magistrati: «Molti di noi, tra i quali Francesco Cossiga, erano contrari agli automatismi. Fummo convocati dal capogruppo Flaminio Piccoli che, furioso, ci disse: “Se questa legge non passa, quelli ci arrestano tutti”. E la legge passò». Il costo del Csm riguarda un numero assai più ristretto di magistrati: quelli eletti in consiglio e quelli segretari contabili, ma anche lì la politica non si è mai permessa brutti scherzi. Anche il rigidissimo ministero del Tesoro, poi divenuto ministero dell’Economia, ha chiuso spesso almeno un occhio sui bilanci del Csm, che quasi mai hanno rispettato le previsioni iniziali, sfondando ogni capitolo di spesa, compreso quello tenuto in assai considerazione degli stipendi dei magistrati lì eletti.

È accaduto anche con il documento contabile ufficiale: quello relativo al 2008 e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 14 ottobre 2009. Nicola Mancino & c avevano in budget 5,9 milioni di euro alla voce “spese per compensi e altri assegni ai componenti del Csm”, e cioè le sole indennità e rimborsi spese per i membri togati e non togati del consiglio superiore.
Quel tetto di spesa è stato sfondato di 318.776 euro, e a consuntivo se ne sono pagati 6 milioni e 272 mila euro. Cifra assai simile a quella che spende l’organo di autogoverno della magistratura per la formazione delle toghe. Una voce fra le meno sondate e che porta a pagare le spese di convegni come quello che sui processi in tv (con gettoni di presenza essenziali pagati a Giovanni Floris o Aldo Grasso) o come quello con protagonisti non troppo diversi (di scena ancora Floris) su come tenere riservate le indagini durante l’istruttoria: sono sicuramente i giornalisti gli esperti della materia.

CORTE COSTITUZIONALE E CONSIGLIO DI STATO: ORGANI DI GARANZIA ??

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari.

Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento".

Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta".

La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra).

Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”.

Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina.

Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili».

Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro».

E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili.

Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Parliamo ora del Consiglio di Stato e di casta.

Le ovattate stanze di Palazzo Spada ne hanno viste di tutti i colori, così non sorprende che davanti al nuovo scandalo che ha travolto il Consiglio di Stato nessuno abbia fatto una piega. La storia recente è costellata di indagini e manette: nel 2003 un consigliere fu condannato (in primo grado) a tre anni per concussione, nello stesso anno un collega finiva alla sbarra accusato di ricettare tesori archeologici, nel 2007 un terzo membro è stato arrestato per associazione a delinquere e corruzione in atti giudiziari. I 13 anni che i pm di Milano hanno chiesto per Nicolò Pollari sono stati commentati con un'alzata di spalle, nonostante l'ex capo del Sismi, messo in Consiglio dal governo Prodi, sia stato definito addirittura come il "regista di un sistema criminale" che ha coperto la Cia nel sequestro dell'ex imam di Milano Abu Omar.

Pollari non si è dimesso dall'incarico. Niente di nuovo: persino il presidente supremo Paolo Salvatore, quando nel 2008 finì indagato dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, preferì rimanere incollato alla sua poltrona.

Nessuno si sognerebbe mai di lasciare una delle cariche più ambite d'Italia, rifugio dorato per generali, ex ambasciatori, prefetti e trombati eccellenti della politica. All'organo "di rilievo costituzionale", che ha la doppia funzione di dare pareri legislativi al governo e fare da appello al Tar, non è facile accedere: il 25 per cento dei posti è riservato ai vincitori del concorso, stessa quota è appannaggio di Palazzo Chigi, mentre il 50 per cento è destinato ai magistrati del Tar con circa trent'anni di anzianità alle spalle. Una volta entrati nella casta dei consiglieri, il gioco è fatto. È difficile quantificare il loro lavoro in maniera oggettiva, ma quasi sempre chi viene nominato dal governo viene inserito nelle sezioni che danno pareri ai ministeri, mentre sembra consuetudine che i magistrati di lungo corso si dedichino alle sentenze, più delicate.

Il consigliere Antonio Catricalà, di sicuro, se ne sta con le mani in mano. Oggi è ufficialmente presidente di sezione fuori ruolo, ma da tempo immemore non entra a Palazzo Spada, avendo preferito fare il capo di gabinetto, il consigliere giuridico e il segretario generale dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Poi capo dell'Authority per la concorrenza e il mercato (Antitrust) e guadagna 477 mila euro annui, a cui aggiunge quelli percepiti come presidente di sezione. Un extra da "ottomila euro al mese", ammette a "L'espresso" con onestà intellettuale. Sembra incredibile ma accumulare due stipendi è un suo diritto. Non solo: chi è "prestato" ad altre istituzioni conserva sia il salario base sia l'indennità giudiziaria, la voce legata ai rischi di essere un giudice. La intasca anche chi, di fatto, fa un altro mestiere.

E dire che ci si rivolge a lui, quale presidente dell'AGCOM, per ripristinare la legalità circa gli abusi di lobby e caste e loro accesso tramite concorsi pubblici truccati. Risposta: siamo incompetenti.

Il doppio trattamento è un privilegio di altri undici "fuori ruolo": da Salvatore Mario Sechi, consigliere del presidente della Repubblica, a Alessandro Botto dell'autorità di vigilanza dei Lavori pubblici, dal vice segretario della presidenza del Consiglio Luigi Carbone al braccio destro del ministro Sacconi, Caro Lucrezio Monticelli. Che spiega: "Prendo 8300 euro netti come consigliere, ma solo la parte accessoria dello stipendio di capo di gabinetto. Quant'è? Circa 4 mila euro netti al mese". Pure Franco Frattini è un consigliere, che non consiglia da un pezzo, visto che passa da lustri da un incarico politico all'altro. Il ministro degli Esteri ha rinunciato allo stipendio parlamentare, ma la carriera "fantasma" a Palazzo Spada continua ad andare a gonfie vele: è stato promosso, due settimane fa, presidente di sezione. Ruolo che farà lievitare la sua busta paga.

Fare un giro nello splendido Palazzo Spada è illuminante. Il Consiglio di Stato è un Eden spesso semivuoto, dove 84 consiglieri (più dieci fuori ruolo) beccano in media 130 mila euro l'anno lordi e i 21 presidenti, quasi un quinto del totale del personale, si intascano secondo dati ufficiali circa 14 mila euro lordi al mese. Gli scatti d'anzianità arrivano puntuali ogni due anni. Un monte stipendi che allo Stato costa oltre 14 milioni l'anno, senza contare le spese per le otto auto blu, a disposizione dei vertici, tutte a noleggio Consip. Macchine, sussurra qualcuno, che spesso fanno avanti e indietro portando solo i documenti che i magistrati firmano da casa: i consiglieri hanno dentro la sede solo un "appoggio" e un armadietto, e spesso lavorano dal loro salotto facendosi vedere solo nei giorni d'udienza. "Palazzo Spada è piccolo", si giustificano. Non è tutto: per far funzionare la macchina circa 25 milioni vanno nella busta paga di 324 dipendenti, un esercito tra dirigenti, distaccati e personale di ruolo. In pratica, l'organismo pesa sulle casse dello Stato una quarantina di milioni di euro, a cui vanno aggiunte le spese di gestione e bollette varie.

Entrare nella casta del Consiglio di Stato attraverso il concorso pubblico è il sogno di molti, e il casting dovrebbe essere davvero accurato. Negli ultimi tre anni ce l'hanno fatta solo in cinque.

Badate, questi signori sono poi quelli che, quale organo supremo amministrativo, devono dirimere le controversie attinenti i concorsi truccati in tutta l’amministrazione pubblica.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo. Intanto Giovagnoli si è subito iscritto al gioco preferito dei suoi colleghi più anziani, quello degli incarichi multipli: da gennaio fa il dopolavorista come docente per la Ita spa, un'attività da 48 mila euro l'anno. Giuseppe Barbagallo per 30 mila euro lavora invece come giudice all'Organizzazione internazionale del Lavoro, mentre Francesco Bellomo prende 35 mila euro dalla società "Diritto e Scienza a.r.l.". Roberto Chieppa guadagnerà 7.200 euro per 8 lezioni alla Trentino School of Management, Ermanno De Francisco arrotonda di 40 mila l'anno facendo il consulente del dipartimento per gli Affari giuridici.

Paradossali i casi di Umberto Maiello e Francesco Riccio: hanno ruoli interni che per legge gli consentono l'esenzione parziale dal lavoro, ma hanno il tempo per l'attività all'Agcom il primo (35 mila euro per il 2009) e all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori (3 mila euro al mese fino al 2011, poi si vedrà) il secondo.

La lista è infinita, e delle due l'una: o fanno poco a palazzo Spada e hanno molto tempo libero oppure, se dedicano qualche ritaglio di tempo al secondo incarico, le altre amministrazioni pubbliche li pagano assai generosamente. Di sicuro dentro la casta non si dice di no a nessuno. Nemmeno a Carlo Deodato, il capo di gabinetto del ministro antifannulloni Renato Brunetta. Che somma lo stipendio da consigliere, gli 80 mila euro per l'incarico al ministero e i 28 mila l'anno come tecnico di supporto del "commissario straordinario per la gestione dell'emergenza idrica del Simbrivio". L'anno passato aveva garantito, come si legge in un verbale del 9 luglio scorso, "che non avrebbe mai più chiesto ulteriori proroghe". La proroga è stata invece chiesta, votata con scrutinio segreto e, a maggioranza, autorizzata.

PROCESSO AI MAGISTRATI: LA CASTA DELLE CASTE.

Scarsa produttività. Merito non premiato. Così nei tribunali si sono accumulate 9 milioni di cause non smaltite.

Fannulloni? Improduttivi? La stragrande maggioranza. Eppure i magistrati potrebbero da soli dare un duro colpo alla crisi della giustizia. Trasformare l'autogoverno, spesso usato come scudo a difesa della corporazione, in leva per riscattare la credibilità dello Stato. Ci vuole poco: basta che lavorino tutti di più e si organizzino meglio. Questo non farebbe uscire la dea bendata dal baratro in cui l'hanno sepolta nove milioni di cause non smaltite e una valanga di leggi create apposta dai governi per insabbiare i processi. Ma di sicuro con un'autoriforma della magistratura si potrebbe cominciare a far arrivare aria nuova nei tribunali italiani. Da una inchiesta de “L’Espresso” si rileva tutto ciò.

I modelli virtuosi. Una rivoluzione è possibile. Anche senza nuovi soldi. I primi studi statistici sulla produttività dei giudici mostrano che ci sono ampi margini per cambiare rotta e aumentare la quantità di fascicoli smaltiti. Un ricerca guidata da Andrea Ichino, Decio Coviello e Nicola Persico indica la possibilità di far decollare la produttività anche del 40 per cento. Dati teorici, certo. Che però trovano conferma in alcuni esempi molto concreti. Persino la Cassazione, un tempo simbolo di magistratura polverosa e arcaica, sta diventando un modello di rivincita. La Suprema Corte si è data una scossa, ridefinendo le procedure, inserendo più informatica, organizzando meglio i ranghi. Tanto è bastato a creare uno scatto: nel civile il bilancio è andato in attivo, sbrogliando molti più processi di quanti ne arrivino. Lo scorso anno ne sono stati licenziati 33 mila mentre le nuove pratiche sono state 30 mila. E tutto senza compromettere il garantismo. A Torino, il Tribunale civile ha stravolto la consuetudine del lavorare con lentezza. Il segreto? Un decalogo con 20 regole semplici, concordate con gli avvocati. Dal 2001 la montagna di arretrati è stata amputata di un terzo: dagli archivi hanno dissepolto liti per eredità vecchie di due generazioni e controversie commerciali per prodotti diventati nel frattempo antiquariato. Adesso in quelle aule si riesce a vedere l'Europa: il 93 per cento delle cause si chiude entro tre anni, il 66 in un anno. Ma anche nel tribunale penale di Roma c'è stata una razionalizzazione.

Profondo nero. E allora, perché la situazione nazionale continua a peggiorare? Certo, c'è un quantità mostruosa di cause che si riversano nei tribunali, anche per colpa di governi che rendono tutto reato, persino la contrattazione con le prostitute. E c'è un proliferare di ricorsi che non ha pari nel mondo, fatti apposta per alimentare una schiera di avvocati altrettanto vasta. Ma a dispetto di questa tempesta di nuova cause e a dispetto dei primati delle corti modello, la produttività pro capite dei magistrati italiani continua a precipitare. I giudici dei tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno del 2001 a soli 533 del 2006. È come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca di dare un peso alla statistica, allora diventa ancora più grave la frenata delle corti d'appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145. E ogni ritardo in questa fase apre le porte alla prescrizione che cancella i reati e si trasforma nella negazione di ogni giustizia. La radiografia della catastrofe è stata presentata dal Ministro della Giustizia. L'arretrato civile è di 5.425.000 fascicoli, quello penale di 3.262.000. Un processo civile dura in media 960 giorni per il primo grado, 50 mesi l'appello. Quasi sette anni prima di arrivare alla Cassazione: un tempo umiliante che distrugge la vita delle aziende e dei cittadini. Nel penale ci vogliono 426 giorni per la prima sentenza e due anni per l'appello: il che significa l'impunità assicurata per un'infinità di crimini. Un altro studio disegna la Caporetto della giustizia. È un lavoro condotto da Riccardo Marselli e Marco Vannini, professori che si dedicano da anni ad applicare valutazioni oggettive nel mondo confuso dei tribunali: ben 17 distretti giudiziari su 29 risultano 'tecnicamente inefficienti'. I due docenti giungono a una conclusione pessimistica: la quantità dei fascicoli che si accumula è tale da annichilire ogni speranza. Senza demolire questa zavorra non si può rendere efficace il sistema. Allo stesso tempo però la ricerca statistica sottolinea come si possa fare di più: se tutti i magistrati si portassero sul livello dei più sgobboni, un decimo dell'arretrato nel civile e il 14 per cento di quello penale potrebbe venire cancellato. Una stima che aumenta nei tribunali meridionali, meno dinamici: un quinto dei fascicoli accatastati nel civile e quasi un quarto di quelli penali scomparirebbero. Utopia?

Senza qualità. Tutti sostengono che i fannulloni sono pochi. Ma dietro i giudici da prima pagina, dietro i pool che sgobbano in silenzio, dietro i pm antimafia che rischiano la vita c'è una massa di magistrati 'senza qualità'. Hanno fatto del quieto vivere una regola aurea: evitano errori e grane, detestano stakanovismi e protagonismi, diffidano dell'informatica e dei modelli aziendali. Più sciatti che lavativi, talvolta arroganti con i colleghi e maleducati con gli utenti, ma soprattutto poco produttivi. Era rivolto a loro il discorso choc pronunciato dal segretario di Magistratura Democratica, la corrente 'rossa' delle toghe ma anche quella storicamente più impegnata sul fronte dell'efficienza: "Nessuno dovrà sentirsi indifferente alla esigenza di un progetto organizzativo minimo per ogni ufficio. Dovremo osare di più, perché nessuno potrà rifugiarsi nella rivendicazione di un ruolo indipendente. Che, se non produce risultati, non serve a nessuno ed è destinato inevitabilmente a declinare", disse l'allora segretario Juan Ignazio Patrone. E ancora: "Il quieto vivere della corporazione non è più compatibile con il dovere di offrire risposte adeguate e qualitativamente decenti alla domanda sociale di giustizia". Belle parole. Ma chi controlla se le toghe lavorano?

Carriera garantita. Finora venivano promossi per anzianità, anche se si rimaneva a compiere le stesse mansioni: oggi quasi sette magistrati su dieci ricevono uno stipendio superiore all'incarico che svolgono. Ma se il lavoro non cambia, allora in cosa consiste la promozione? Nello stipendio, anzitutto. Dal 2003 al 2006 il numero di magistrati ordinari è leggermente diminuito, ma la spesa per le loro paghe è lievitata: oltre il 16 per cento in più. Nel 2003 per 9.043 tra giudici e pm lo Stato spendeva 842 milioni; un triennio dopo l'organico era sceso a 9.019, ma il costo era arrivato a 978 milioni: 136 in più, un incentivo niente male. E i dati mostrano che le retribuzioni medie delle nostre toghe (vedi tabella seguente) sono tra le più alte d'Europa. Il premio c'è, senza legami con la quantità o la qualità. Ma la punizione? Poche le sanzioni del Consiglio superiore. E ancora di meno quelle proposte dagli ispettori ministeriali: nell’ultimo anno si sono contate sulle dita di una mano. Il bilancio del Csm, organo di autogoverno della magistratura, può essere letto in chiaro scuro. In un decennio ha giudicato 1.282 toghe. Ne ha condannate 290, spesso con sanzioni simboliche che pesano però sulle nomine chiave; altre 156 si sono dimesse prima del verdetto: in tutto, fa circa 45 'puniti' l'anno sui 9 mila magistrati italiani, lo 0,5 per cento. "Le verifiche statistiche sul lavoro dei magistrati sono insensate", taglia corto Piercamillo Davigo, protagonista di Mani pulite oggi giudice di Cassazione: "Non voglio fare il corporativo. Ma anche nei militari esistono valutazione periodiche: nel loro sistema l'indipendenza non è un valore, anzi. Eppure le loro valutazioni si concludono sempre con giudizi eccellenti. Perché nessuno se ne preoccupa? Anche loro finiscono con il diventare tutti generali. Se si discute solo della nostra produttività, temo che le finalità siano diverse". Davigo cita un episodio: il record di produttività di un procuratore aggiunto lombardo. "Era un cialtrone, ma si vantava di avere smaltito 330 mila procedimenti in un anno. Come faceva? Aveva una squadra di carabinieri, armati con un timbro di gomma che riproduceva la sua firma, che su tutti i fascicoli stampavano 'Non doversi procedere perché rimasti ignoti gli autori del reato'". L’odierno sistema di valutazione ha un solo limite: l'esame è affidato al consiglio giudiziario, un piccolo parlamento eletto dai magistrati a livello locale su modello del grande Csm nazionale. "In pratica gli eletti devono valutare i loro elettori. È come se in un'azienda le promozioni fossero illimitate e decise dai rappresentanti dei dipendenti. Ve lo immaginate?", spara a zero Carlo Guarnieri, docente a Bologna e tra i più attenti critici 'laici': "Ci vorrebbero commissioni esterne, nominate dal Csm. Così questi meccanismi sono inutili, anche perché non ci sono incentivi: chi non ha voglia di lavorare sa di rischiare poco". Mentre per essere puniti bisogna farla veramente grossa. Ennio Fortuna, procuratore generale di Venezia, ha scritto sulla rivista dell'Associazione magistrati: "Nel nostro ambiente i pochi che ci marciano sono ben noti a tutti". E perché non vengono denunciati? Perché è necessario che gli otto anni di ritardo nello scrivere le motivazioni di una sentenza, con conseguente scarcerazione dei condannati, diventino un caso solo dopo la denuncia di 'Repubblica'? La vicenda di Edi Pinatto, giudice ragazzino passato da Gela a Milano lasciando l'arretrato in sospeso è diventata esemplare.

Nei palazzi di giustizia si sente spesso una lamentela, comune tra pm e avvocati. I capi non denunciano i fannulloni. I capi non organizzano il lavoro. I capi non aggrediscono l'arretrato. Quella dei dirigenti è l'altra grande questione, fondamentale per risollevare la produttività. Finora la managerialità non pesava nella designazione: si diventava procuratori e presidenti per anzianità e accordi tra le correnti sindacali.

Il peso dell'arretrato È chiaro, da soli i magistrati non potranno mai risolvere tutto l'handicap. Una ricerca del ministero indica l'impresa come impossibile. Per rianimare le Corti d'appello ci vorrebbero 134 nuovi giudici, tutti Stakanov, tutti preparatissimi e capaci di dare subito il massimo. Senza nuove regole organizzative, però, ogni rinforzo sarebbe inutile. Nella Corte d'appello penale, l'anticamera della prescrizione e quindi la discarica dei processi, servirebbero 32 mesi di lavoro solo per smaltire l'arretrato. Ma con poche regole di buon senso si potrebbe invertire la rotta. Ad esempio la standardizzazione dei fascicoli. Avete mai messo le mani nei faldoni di un processo? Spesso somigliano alle valige di fine vacanza: sciogliendo i lacci esplodono, rivelando una confusione profonda. Quando l'incartamento passa da un pm al suo sostituto, ci vogliono ore solo per trovare il bandolo della matassa. Invece, basterebbero pochi schemi condivisi per non sprecare tempo. Ma la rivoluzione può arrivare anche da un uso integrato dell'informatica: creare procedure a misura di rete. A Milano fino a dieci anni fa nelle udienze civili a turno uno degli avvocati scriveva a mano il verbale. Oggi nella stessa città usando il Web per uno solo dei passaggi del processo civile si sono guadagnati 60 giorni: il decreto ingiuntivo telematico ha fatto risparmiare due mesi di meno ad avvocati, cittadini e tribunale. Cosa ci vuole ad estenderlo a tutta Italia?

Autonomia e corporativismo. Alla politica l'efficienza non interessa. E c'è la resistenza 'culturale' di una parte consistente dei magistrati. Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino, ha dedicato un intero capitolo del suo ultimo libro 'La questione immorale' alle "colpe dei magistrati". Racconta tra l'altro del programma informatico che aveva creato per coordinare le agende dei protagonisti del processo ed evitare quei rinvii che sfiancano la giustizia. Un'iniziativa che invece di procurargli una medaglia venne accolta con disprezzo dal Csm. "Quel programma è ancora lì ma nessuno lo usa. E ho capito che il processo penale è quello che è per via delle leggi stupide, delle leggi ad personam, della carenza di uomini e mezzi, ma anche, e in chissà quale percentuale, per via dell'incapacità organizzativa dei magistrati e dei dirigenti degli uffici".

E ai governi i giudici fannulloni sono sempre piaciuti: "La politica offre uno scambio ai meno produttivi: io non minaccio i tuoi privilegi, tu non minacciare me", sintetizza il professor Guarnieri. Perché un modello di efficacia la magistratura italiana lo ha creato e imposto nel mondo. Una squadra che lavorava sette giorni su sette, con processi avviati in fretta e una percentuale di condanne irripetibile, un elevato livello di informatizzazione e una produttività mai eguagliata. Si chiamava pool Mani pulite. Lo detestavano politici, imprenditori e grand commis. Lo detestava una fetta consistente degli stessi giudici. Ed è proprio per evitare che quel modello venisse riprodotto ancora oggi si varano riforme su riforme, destinate a distruggere ogni speranza di giustizia.

Busta paga togata. Proiezione retribuzione mensile magistrati con le nuove valutazioni quadriennali di professionalità  

 

QUALIFICHE

 

VECCHIE QUALIFICHE

 

ANZIANITÀ

 

STIPENDIO

 

LORDO INCLUSE INDENNITÀ

Magistrato ordinario in tirocinio

Uditore dopo 6 mesi

1

2.037,24

3.429,92

Uditore dopo 6 mesi

2

2.037,24

3.429,92

Magistrato ordinario

Magistrato di Tribunale

3

2.858,12

4.830,06

Magistrato di Tribunale

4

2.858,12

4.830,06

Magistrato ordinario dalla prima valutazione di professionalità

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

5

3.966,65

6.006,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

6

3.966,65

6.006,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

7

4.204,65

6.244,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

8

4.204,65

6.244,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

9

4.442,65

6.482,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

10

4.442,65

6.482,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

11

4.680,65

6.720,29

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

12

4.680,65

6.720,29

Magistrato ordinario dopo un anno dalla terza valutazione di professionalità

Magistrato di Corte di Appello

13

5.877,04

7.950,53

Magistrato di Corte di Appello

14

5.877,04

7.950,53

Magistrato di Corte di Appello

15

6.148,28

8.221,77

Magistrato di Corte di Appello

16

6.148,28

8.221,77

Magistrato di Corte di Appello

17

6.419,53

8.493,02

Magistrato di Corte di Appello

18

6.419,53

8.493,02

Magistrato di Corte di Appello

19

6.690,78

8.764,27

Magistrato ordinario dalla quinta valutazione di professionalità

Magistrato di Cassazione

20

8.074,23

10.181,57

Magistrato di Cassazione

21

8.074,23

10.181,57

Magistrato di Cassazione

22

8.262,01

10.369,34

Magistrato di Cassazione

23

8.262,01

10.369,34

Magistrato di Cassazione

24

8.449,78

10.557,12

Magistrato di Cassazione

25

8.449,78

10.557,12

Magistrato di Cassazione

26

8.637,55

10.744,89

Magistrato di Cassazione

27

8.637,55

10.744,89

Magistrato ordinario alla settima valutazione di professionalità

 

Magistrato di Cassazione F.D.S.

28

10.343,59

12.504,25

Magistrato di Cassazione F.D.S.

29

10.343,59

12.504,25

Magistrato di Cassazione F.D.S.

30

10.563,67

12.724,33

Magistrato di Cassazione F.D.S.

31

10.563,67

12.724,33

Magistrato di Cassazione F.D.S.

32

10.783,74

12.944,40

Magistrato di Cassazione F.D.S.

33

10.783,74

12.944,40

Magistrato di Cassazione F.D.S.

34

11.003,82

13.164,48

Magistrato di Cassazione F.D.S.

35

11.003,82

13.164,48

Magistrato di Cassazione F.D.S.

36

11.223,90

13.384,56

Magistrato di Cassazione F.D.S.

37

11.223,90

13.384,56

Magistrato di Cassazione F.D.S.

38

11.443,97

13.604,63

Magistrato di Cassazione F.D.S.

39

11.443,97

13.604,63

Magistrato di Cassazione F.D.S.

40

11.664,05

13.824,71

Magistrato di Cassazione F.D.S.

41

11.664,05

13.824,71

Magistrato di Cassazione F.D.S.

42

11.884,13

14.044,78

Magistrato di Cassazione F.D.S.

43

11.884,13

14.044,78

Magistrato di Cassazione F.D.S.

44

12.104,20

14.264,86

Magistrato di Cassazione F.D.S.

45

12.104,20

14.264,86

Magistrato con funzioni apicali di legittimità

Primo Presidente della Corte di Cassazione

 

16.628,45

18.854,71

Ci sono magistrati che la toga, si può dire, quasi non l’hanno indossata. Sono fuori ruolo a oltranza. E si costruiscono quelle che il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009, ha definito “carriere parallele”. Stesso termine usato dal Csm nella circolare del marzo 2008 con la quale ha cercato di mettere un freno a “un numero eccessivo di richieste di destinazione di magistrati a funzioni extragiudiziarie, in un momento storico caratterizzato da gravi scoperture di organico e da un’intollerabile lunghezza dei tempi del processo”. Concetto che, il 26 maggio 2009, è diventato un vero appello al ministro Angelino Alfano.

Vediamo qualche esempio. Claudio Buttarelli: nominato uditore giudiziario nel 1986, 3 anni dopo lascia il posto e rimane fuori ruolo ininterrottamente fino a oggi, è garante aggiunto europeo per la protezione dei dati personali, dopo essere stato segretario generale dell’Autorità per la privacy.

C’è anche Francesco Crisafulli, in magistratura nel 1986 e fuori ruolo dal 1992: prima alla presidenza della Repubblica poi, dal 2000, come esperto giuridico alla Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa. Il Csm ha di recente autorizzato un prolungamento del suo status di fuori ruolo con una motivazione singolare: riconosciuto che è stato superato qualsiasi normale limite temporale, l’interessato non andrebbe più considerato un magistrato, ma “quasi” un ambasciatore.

Di limiti temporali, in effetti, ne sono stati fissati nel 2008, con una legge e una circolare del Csm: 5 anni, poi un’interruzione di altrettanti e ancora un’autorizzazione per altri 5, fino al massimo di un decennio. Ma l’Italia è il paese delle deroghe. Claudia Gualtieri, giudice di tribunale a Venezia dal 1998, lascia le funzioni giudiziarie nel 2003 per diventare esperto nazionale presso la Commissione europea (direzione generale Giustizia, libertà e sicurezza) e poi la rappresentanza italiana presso l’Unione Europea: su 9 anni, insomma, fa il magistrato solo per 5.

Casi eclatanti che sono stati raccolti in un dossier dall’Unione camere penali (Ucpi), che da anni denuncia il paradosso di un sistema giudiziario che ha vistosi buchi d’organico, accumula inefficienza e lentezze eppure è di manica larga, larghissima, quando si tratta di prestare, anche per decenni, i magistrati ad altre amministrazioni, a organismi politici e internazionali in tutto il mondo.

Oggi i fuori ruolo con altri incarichi sono 256 e arrivano a 277 con quelli in aspettativa come parlamentari, amministratori di comuni, province e regioni, membri del Csm e per altri motivi (vedere la tabella in basso). Questo mentre ci sono 1.357 posti vuoti negli uffici giudiziari sempre più in affanno. E poi si dovrebbero aggiungere i tanti magistrati che ottengono incarichi extragiudiziari part-time e non lavorano a tempo pieno.

Mentre un po’ in tutte le sedi si cercano soluzioni per ricoprire le sedi vacanti, l’Anm contrasta i trasferimenti d’ufficio prospettati dal governo in nome dell’inamovibilità delle toghe, ma accenna solo timidamente, secondo i penalisti, all’esercito dei magistrati fuori ruolo sottratti alle funzioni giudiziarie per lavorare a Palazzo Chigi, nei ministeri, alla Corte costituzionale, al Quirinale, in commissioni e autorità, organismi internazionali e ambasciate, missioni varie all’estero.

Tutte queste toghe fuori ruolo continuano a percepire il loro stipendio al quale aggiungono in alcuni casi indennità che vanno dai 50 mila euro l’anno per gli assistenti dei giudici costituzionali ai 115 mila per i più gratificati dalle varie amministrazioni, con punte che arrivano addirittura oltre i 300 mila. Queste cifre generano un notevole squilibrio retributivo, se si pensa che il primo presidente della Cassazione, cioè il magistrato italiano più alto in grado, ha uno stipendio di 278 mila euro l’anno.

“Il fenomeno dei fuori ruolo” dice il presidente dei penalisti Oreste Dominioni “inquina gravemente i rapporti tra politica e magistratura, compromettendo l’indipendenza dell’una e dell’altra. Crea una supercasta di potere, che è quella che realmente regola i rapporti con la politica. Così si sacrificano le risorse giudiziarie sull’altare del potere. I numeri parlano chiaro e così gli “eccellenti” emolumenti economici riconosciuti a questa supercasta giudiziaria, paragonabili solo a quelli degli alti funzionari dello Stato. Si richiami subito in ruolo la stragrande maggioranza di questi magistrati, perché ritornino a esercitare le loro funzioni. Si parla tanto di sedi vacanti, ma la loro copertura è impedita da anacronistici privilegi”.

Vediamo dove sono dispersi questi magistrati fuori ruolo. Mettiamo da parte quelli cosiddetti elettivi, cioè i 12 parlamentari, i 4 che hanno mandati in regioni, province e comuni, l’unico (Luigi De Magistris) candidato alle elezioni europee e i 16 componenti del Csm. Guardiamo invece ai 132 impegnati per il governo, come capi di gabinetto, capi e addetti all’ufficio legislativo, fino a quelli con semplici funzioni amministrative: dai 12 alla presidenza del Consiglio ai 71 al ministero della Giustizia, più i 16 all’Ispettorato sempre di via Arenula e il resto disperso negli altri ministeri.

La giustizia italiana poi si concede pure di avere ben 7 magistrati nella missione Eulex in Kosovo, alcuni dei quali già in passato sono stati per anni fuori ruolo per altri incarichi.

“Questi magistrati” incalza Dominioni “svolgono funzioni del tutto estranee a quella giudiziaria o assolutamente indifferenti alla loro esperienza professionale”. E cita i 28 alla Corte costituzionale, i 9 nelle istituzioni e commissioni del Parlamento e delle diverse autorità e la trentina di esperti presso ambasciate o istituzioni estere, più i 17 che svolgono funzioni amministrative al Csm.

Per legge, nel 2008, è stato fissato un tetto massimo per i fuori ruolo di 200 unità, senza calcolare quelli da destinare alla presidenza della Repubblica, al Csm, alla Corte costituzionale e gli eletti, per un totale di 82. Il tetto attuale è quindi di 282, mentre quello stabilito poco prima con una circolare del Csm era di 65, più i soliti casi speciali (ministero della Giustizia, Csm, Scuola della magistratura) fino ad arrivare a 248.

Non basta: al Csm c’è un certo allarme (infatti l’ufficio studi ha elaborato un parere in proposito) perché sono in aumento le domande di aspettativa per motivi vari da parte di magistrati che scelgono le più diverse destinazioni professionali, spesso lontane dagli interessi dell’amministrazione giudiziaria, e c’è il rischio che questo strumento sia utilizzato proprio per aggirare il limite fissato per i fuori ruolo.

Quanto al problema delle candidature dei magistrati, l’Ucpi con la sua proposta tocca un punto dolente. Anche il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, è convinto che dopo essersi candidato e quindi avere “ammesso di essere divenuto di parte, non foss’altro perché si è schierato con una forza politica”, un magistrato non possa tornare a indossare la toga. Lo ha detto a Palazzo de’ Marescialli in marzo, quando il plenum ha esaminato la richiesta di aspettativa di De Magistris per le europee. Secondo Mancino il Parlamento dovrebbe vietare il rientro in magistratura e garantire, a domanda, la mobilità nella pubblica amministrazione, nella funzione e nel ruolo corrispondenti a quello precedente. Ma i penalisti chiedono l’ineleggibilità dei magistrati che dovrebbero perciò dimettersi 6 mesi prima di accettare una candidatura.

Ma per la poltrona le toghe bloccano la giustizia. Giudici contro giudici. Uomini di legge che - forse per la prima volta - si sentono a loro volta vittime di una ingiustizia. Perché non hanno ricevuto il posto che volevano, che forse meritavano, anzi, che certamente meritavano. Oppure - altra ingiustizia! - perché vengono sfrattati dalle poltrone che occupavano da anni, a volte da decenni, e che ambivano ad occupare ancora. Colpa, in ogni caso, del Consiglio superiore della magistratura. Contro le decisioni del Csm piovono centinaia di ricorsi dei giudici che si sentono traditi dall’organo di autogoverno, cioè proprio dall’organo che dovrebbe tutelarne libertà, autonomia, diritti. E che, nel loro caso, ha clamorosamente fallito. Così dicono.

Nella dura lotta tra giudici per le poltrone che contano, è sempre accaduto che qualche magistrato sconfitto imboccasse la strada - consentita dalla legge - del ricorso alla magistratura amministrativa: prima il Tar del Lazio, poi il Consiglio di Stato. Ma ora è diventata moda, alluvione, prassi costante. Non c’è quasi delibera del Csm che non venga impugnata da chi si è visto scavalcare per un posto di procuratore o di presidente di tribunale. Ricorsi, controricorsi, richieste di sospensiva, appelli incidentali, e poi su su fino all’ultimo gradino, la richiesta al Colle, l’istanza al Presidente della Repubblica affinché si scomodi a stabilire chi diamine ha il diritto di andare a dirigere la procura di Dronero o Roccacannuccia. Una montagna di carte e di ricorsi che intasa la già malconcia giustizia amministrativa. Ma, nelle intenzioni dei ricorrenti, tutto questo accade a fin di bene, nell’interesse non tanto del singolo appellante ma in quello superiore della giustizia. In questi giorni il Csm si è dovuto occupare di un’altra infornata di ricorsi. Una lettura istruttiva, quella dell’ordine del giorno. Vi si intravedono drammi di uomini ormai non più giovani, ombre di lotte fratricide, di rancori antichi e nuovi, di manovre correntizie. C’è il giudice Michelino Ciarcià, che fece domanda per presiedere il tribunale di Sciacca, e venne bocciato. Rifece domanda per il tribunale di Gela, e fu bocciato pure lì, e ora impugna tutto quanto. Col giudice Carminantonio Esposito il Csm è stato ancora più spietato: né il tribunale di sorveglianza di Firenze, né quello di Bologna, e nemmeno quello più modesto di Potenza sono stati ritenuti alla sua portata. Poteva Carminantonio Esposito non fare ricorso? Non poteva.

Così, uno dopo l’altro, dal Nord al Sud (soprattutto) i giudici sconfitti si ribellano e nella marea di opposizioni contestano la «discrezionalità» delle delibere pronunciate dal Consiglio superiore della magistratura e gli avanzamenti di carriera che - dicono - terrebbero conto più dell’area politica di appartenenza che del curriculum. E insieme a loro si ribellano quelli che il Csm vuole costringere a lasciare una sedia che occupano ormai da troppi anni. Lo prevede una legge, che - come si è ammesso da destra e da sinistra - ha posto fine al malvezzo di procure e tribunali occupati a vita come satrapie, con i loro titolari che diventavano parte integrante e inamovibile del potere locale. Eppure c’è chi non si rassegna. A volte, si intuisce, perché la poltrona è importante. Più spesso perché lo è così poco da divenire una sinecura. Ci sono giudici che trovano intollerabile l’idea di lasciare dopo anni il tribunale di Oristano, il tribunale dei minori dell’Aquila, una sezione del tribunale di Frosinone. E fanno ricorso al Tar.

Conoscono la legge, e non si arrendono con facilità, a costo di trasformarsi in stakanovisti del ricorso. Il giudice Vincenzo Serpotta, non avendo alcuna intenzione di mollare il posto di procuratore aggiunto a Catania, inanella quattro ricorsi uno dietro l’altro. Il dottor Domenico Platania (che pure vorrebbe andare a fare il procuratore a Ragusa, e per questo ha presentato un altro ricorso) si rivolge addirittura al Quirinale perché nel frattempo il Csm gli vuole togliere la seggiola di procuratore a Modica. E via di questo passo.

Come vanno a finire, questa valanga di ricorsi? Male, quasi sempre. Ma intanto si è prodotta una valanga di carta, si è intasata ancora un po’ la giustizia, e come effetto collaterale si è lasciata ancora un po’ a bagnomaria una sede giudiziaria che magari aspettava da tempo il nuovo capo, che finalmente l’ha visto arrivare e che però non sa se il capo resterà lì davvero o verrà spodestato prima o poi da una sentenza del Tar del Lazio. Una delle cariche più importanti della Repubblica, quella di primo presidente della Cassazione, è rimasta per mesi e mesi in balia dei ricorsi incrociati. E negli ultimi mesi, una dopo l’altra, due poltrone di uffici giudiziari importanti - quella per la Procura generale di Venezia e per la Corte d’appello di Brescia e per un posto di procuratore aggiunto a Catania - sono tornate senza titolare sicuro dopo che il Tar del Lazio, accogliendo il ricorso degli sconfitti, ha annullato le nomine faticosamente varate dal Csm.

10 giugno 2009. Angelino Alfano, Ministro della Giustizia parla, alla rubrica “Punto di vista”  del Tg2  della RAI, di nomine lottizzate ai vertici degli uffici giudiziari; "un planning, all'interno del quale si dice: a questa corrente spetta questa procura, a quest'altra corrente due procuratori aggiunti da un'altra parte". Parole che provocano una bufera al Csm.

Tre consiglieri di sinistra - i togati Giuseppe Maria Berruti (Unicost), Ezia Maccora (Magistratura democratica) e il laico dei Ds, Vincenzo Siniscalchi - si dimettono dalla Commissione per gli incarichi direttivi, di cui sono stati presidenti, a tutela della "dignità" del Consiglio e ritenendo di essere stati accusati da Alfano del compimento di reati. Un fatto tanto più grave visto che ad accusarli è proprio il "loro" ministro, i cui rapporti con il Csm dovrebbero essere improntati alla leale collaborazione.

Dopo le dimissioni dei tre consiglieri del Csm in polemica con le dichiarazioni del ministro della Giustizia riguardo alla presunta«lottizzazione» degli incarichi, il Guardasigilli Alfano ha precisato: «Lo hanno fatto non dimettendosi dal Csm, ma dalla Commissione incarichi direttivi che a luglio sarebbe scaduta comunque. Mi sto battendo per evitare che i vertici degli uffici giudiziari, cioè i procuratori e i presidenti di Tribunale vengano lottizzati. Cioè non è possibile che si faccia un planning, all'interno del quale si dica : a questa corrente spetta questa procura, a quest'altra corrente, siccome non ha avuto un procuratore, spettano due procuratori aggiunti da un'altra parte. Questi sono meccanismi che orami sono rifiutati anche in politica. Penso che invece a guidare le procure debbano andare i migliori, senza bisogno di controllare prima di mandarli a guidare un ufficio giudiziario qual è lo spillino della corrente che hanno affisso sulla giacca».

TOGHE MASSONICHE

Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o pm che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali.

Dai tribunali massonici “ordinari” fino alle regole inconoscibili delle Logge coperte o non riconosciute. Con una serie di misteri non ancora svelati.

Che il giuramento massonico non sia uno scherzo, ma un impegno tremendamente serio, lo confermano tanto i diversi testi “sacri” conservati nelle Logge, quanto i massimi studiosi delle regole muratorie, e non solo in Italia.

Qual è, allora, la punizione per chi viene meno?

Stando alle regole ufficiali, esistono tribunali massonici che partendo dal livello regionale, in tre gradi di giudizio, emettono la sentenza. Il peggio che può capitare ad un affiliato di livello medio-basso è il provvedimento di espulsione. E' il caso, ad esempio, delle infinite beghe all'interno del Grande Oriente d'Italia sede napoletana, con tanto di accuse reciproche di furti, appropriazioni indebite, truffe.

Il tribunale massonico è peraltro venuto alla luce nel corso dei diversi procedimenti penali (quelli della magistratura ordinaria, naturalmente) che hanno visto massoni coinvolti, come nel caso della Loggia Spinello.

Tutto questo riguarda i comuni mortali, le decine di migliaia di ragionieri, avvocati, impiegati e funzionari pubblici che troviamo regolarmente negli elenchi. Ma come funziona per i vip, quasi sempre iscritti in logge coperte o, come abbiamo visto, in obbedienze di più recente fondazione ma riconosciute all'estero e comunque avvolte dal più fitto mistero? Cosa succede, insomma, ad un confratello di altissimo grado che viene meno al giuramento? Qual è il castigo per colui che, dopo aver avuto accesso al sancra sanctorum dei segreti - anche personali, giudiziari o economici - dei confratelli, decide di infrangere il patto di sostegno incondizionato ai confratelli o, peggio, di rivelare ciò che ha appreso nelle alte sfere delle super logge?

«In questi casi - spiega un noto consulente delle Procure - non esistono regole conosciute. Ciò che a noi risulta sono solo i giudizi dei tribunali massonici ufficiali». Ed è proprio lungo questo vago confine che si rincorrono le ipotesi - molte presenti anche sul web con tanto di circostanziate ricostruzioni - su alcuni stranissimi “incidenti” o improvvisi e inspiegabili “suicidi” degli ultimi anni. Si tratta, in tutti i casi che qui ricorderemo, di personalità non ufficialmente iscritte alla massoneria, ma sulla cui vicinanza o appartenenza alle Logge sono stati spesso avanzati dubbi.

Cominciamo da Lorenzo Necci che, grazie alla militanza nel Pri - il partito che si richiama al padre della massoneria Giuseppe Mazzini e che contava tra le sue fila il maggior numero di confratelli - e all'amicizia personale con Ugo La Malfa, da figlio di un ferroviere era diventato numero uno delle Ferrovie di Stato, dal cui portone principale era uscito lasciando nelle casse un buco da miliardi di euro. A maggio 2006 Necci muore senza un perchè, in ospedale, dopo essere stato investito dalla Range Rover di un piccolo artigiano locale mentre si recava in bicicletta al campo da golf nella zona di Ostuni, dove trascorreva i week end. Senza che nessuno avverta la necessità di chiedere l'autopsia. Ha portato con sè, fra gli altri, tutti i segreti del colossale buco nero di denaro pubblico denominato “Treno ad Alta Velocità”, che proprio in quegli anni stava arrivando all'attenzione della magistratura.

26 novembre. Siamo sempre nel 2006, anno maledetto. L'imprenditore televisivo Giorgio Panto si leva in volo, come fa abitualmente quasi tutte le settimane, con il suo elicottero verso l'isola di Crevan, nella laguna di Venezia. Un percorso conosciuto a menadito per un pilota, come lui, superesperto. Non ci sono condizioni meteorologiche avverse ma all'improvviso il cielo è squarciato da una fiammata. L'elicottero si schianta in laguna. Perde così la vita l'uomo che aveva osato sfidare il centro-destra italiano. Fino al punto da sancire la vittoria, alle politiche di quell'anno, del centrosinistra di Romano Prodi. Con i 92.079 voti raccolti dalla lista autonoma di Panto, infatti, la destra di Silvio Berlusconi avrebbe ottenuto il premio di maggioranza, vincendo le elezioni. Era vicino alla massoneria, Panto? Non ci sono elementi sicuri per affermarlo. A parte l'amicizia con i redattori della rivista Il Piave, cui collabora regolarmente Licio Gelli.

Meno di un anno dopo - siamo a luglio 2007 - ancora una morte, improvvisa e del tutto inspiegabile, di una personalità molto in vista. Dopo essere rientrato da una mattinata di udienza al tribunale di Prato il re degli avvocati milanesi, Corso Bovio, rientra tranquillamente nel suo studio di via Podgora a Milano. E' di umore normalissimo. Saluta i collaboratori e si chiude nella sua stanza. Pochi minuti dopo si toglie la vita sparandosi un colpo di pistola in bocca. Questa la versione ufficiale, l'unica, su un caso che avrebbe meritato, per le tante stranezze, ben altri approfondimenti. Era iscritto alla massoneria, il principe del foro Corso Bovio, sui cui manuali hanno studiato intere generazioni di giornalisti italiani? Non appare in alcun elenco ufficiale. Ma di sicuro lo era la sua famiglia, a cominciare dal nonno Giovanni Bovio, illustre giurista e senatore della repubblica, cui è intitolata una fra le più importanti logge del Grande Oriente d'Italia che ha sede a Napoli, la città dove Corso Bovio era nato nel 1948. Difensore di personaggi come Marcello Dell'Utri, Paolo Berlusconi e, più recentemente, Stefano Ricucci, secondo indiscrezioni, pubblicate dal Sole 24 Ore all'indomani della sua scomparsa, Bovio custodiva un archivio “esplosivo”, dal quale sarebbe stato possibile riscrivere la vera storia del capitalismo italiano. Dopo il sequestro da parte della Procura milanese, su quelle carte, da allora, è caduto il silenzio.

Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni - regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte - che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l'iniziazione, si può cancellare solo con la morte.

Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra».

Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l'ho lasciata da tempo...», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l'imputato - o, più spesso, l'avvocato di quest'ultimo - è un grembiulino come lui?

Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei pm in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perchè spesso la scelta dell'“assonnamento” è dovuta all'assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell'iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”».

Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno nè potrà essere mai svelata l'identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo.

E' sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall'allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall'elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere.

Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d'Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d'Italia di Palazzo Vitelleschi).

Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell'iniziativa, che è di beneficenza. E' stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all'iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica.

Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell'alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell'olimpo supermassonico dell'Arco Reale, rito di York. «Il baricentro - dice ancora il nostro esperto - ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco».

Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro pm-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all'epoca impegnato nell'inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell'inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma.

E' tradizionalmente considerato l'approdo su cui vanno a dissolversi le inchieste giudiziarie più scottanti, quelli che chiamiamo - e che probabilmente resteranno - i misteri di Stato. E la sua fama leggendaria di porto delle nebbie il tribunale di Roma non ha mancato di alimentarla, con vicende come quelle che hanno investito, per fare solo qualche esempio, magistrati quali il gip Renato Squillante o, anni addietro, il piduista Carmelo Spagnuolo. Ma quali sono realmente oggi gli assetti in quella enclave giudiziaria e, soprattutto, nella sua Procura? A rivelare particolari inediti è il consulente delle Procure Antimafia Gioacchino Genchi, vicequestore, esperto informatico e per anni al fianco dell'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. Le rivelazioni, che emergono dalla sua lunga esperienza sul campo, esplodono nelle pagine del monumentale “Il Caso Genchi” scritto col giornalista Eduardo Montolli edito da Aliberti.

Più volte nel libro ricorre la figura di Giancarlo Elia Valori, potentissimo grand commis di Stato, l'uomo che De Magistris riteneva di aver individuato come il grande vecchio della massoneria transnazionale. Frequentissime le conversazioni telefoniche fra lo stesso Valori ed il procuratore aggiunto della capitale Achille Toro, lo stesso inquirente che decide di non astenersi quando si tratta di sequestrare l'archivio Genchi, benchè nei tabulati delle conversazioni di Valori fosse presente tante volte il suo stesso nome. E benchè - ricorda Genchi - da quei tabulati risultassero le tante telefonate fatte proprio da Toro e dalla sua famiglia all'indagato numero uno di Why Not, l'avvocato di Valori e parlamentare Pdl Gianni Pittella. Valori: l'uomo che aveva ammesso a Palazzo San Macuto di aver presentato il generale Peron a Licio Gelli... Notizie su un altro procuratore aggiunto della capitale arrivano dall'ambiente degli avvocati e riguardano Giancarlo Capaldo. In particolare le attenzioni di alcuni settori forensi si appuntano sulla notizia che l'alto magistrato è fratello di Pellegrino Capaldo, il potente banchiere, vicino all'Opus Dei, da sempre in prima fila per sostenere i politici impegnati nell'operazione Grande Centro per far rinascere una balena bianca di stampo affarista. «Stupisce perciò - sbotta un avvocato - che indagini delicate come quelle sull'Operazione Sofia, finalizzata ad un analogo obiettivo, fossero state affidate proprio al pm Capaldo».

Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, Agostino Cordova, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.

ABBADESSA Lorenzo - Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all'albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura generale della repubblica presso la Corte d'Appello, in via Falcone e Borsellino.

ALIBRANDI Tommaso - Nato a Roma l'8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla telefonia dal pm della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme - fra gli altri - a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all'ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell'ufficio legislativo del ministero dei Beni culturali, presidente del Tar della Val D'Aosta nonchè ex “uomo ombra” dell'allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede Pri è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.

ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell'organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l'altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato Pretore in Valle D'Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talchè subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione». Al Csm Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l'organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l'altro fatto meritare consistenti avanzamenti all'interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. E' accaduto nel 2008, quando il coordinatore Pdl Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura - ci informa la Nazione il 19 novembre - e non se ne fece nulla.

ARMANI Giuseppe - Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benchè abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del Csm. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l'idea di un'Italia laica e liberale.

CASOLI Giorgio - Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d'Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall'80 all'87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col Psi, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai pm milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell'Umbria”, è considerato oggi in area Pd, dopo l'avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.

D'AGOSTINO Luciano - La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D'Agostino, classe 1955, è pm a Locri. «Sono sconcertato - dichiara ai giornali - queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D'Agostino assistiamo alle affermazioni - peraltro senza prove - su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d'Italia, per segnalare che ritenevo l'esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l'appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il Csm, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l'appartenenza alla massoneria è lesiva dell'imparzialità dell'ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D'Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l'altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l'udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al tribunale di Salerno. L'accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l'affidamento ad una ditta dell'incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D'Agostino era in servizio alla Dda di Catanzaro.

DI BLASI Salvatore - Attualmente giudice al tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell'elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda Innse, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Nicolò - Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d'Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo Imi-Sir. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al Csm per quell'antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi, non il Csm, ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l'appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all'inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

LA SERRA Renato - Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell'ambito dell'inchiesta a carico dell'ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall'imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l'allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al Csm.

MAESTRI Angelo Massimo - Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d'Appello del tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell'affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal Csm, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10 mila euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal Csm, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell'ex pretore “ad un organo collegiale”.

MARSILI Mario - Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l'onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal Csm (nell'89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro pisuista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo. Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell'84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all'assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull'eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l'inchiesta sulla strage dell'Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.

MEZZATESTA Michele - No, non era un'affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del tribunale fallimentare di Palermo. Perchè alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all'ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino. La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all'Aisi, attuale sancta sanctorum dei Servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.

MONDELLO Fabio - Consigliere di Corte d'Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all'allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell'ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l'avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.

MONTI David - Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all'inchiesta, condotta quando era pm ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici intarnazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l'anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all'epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell'affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell'ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è gip a Firenze.

MONTI Mauro - Classe 1947, riveste attualmente l'alta carica di sostituto procuratore aggiunto al tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al gup.

NANNARONE Paolo - I problemi cominciano fin dall'83, perchè il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal Csm. E benchè lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d'Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall'attuale parlamentare di An Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d'Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell'organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.

PINELLO Francesco - Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sè per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l'allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del Csm a suo carico.

PONE Domenico - In quegli elenchi del ‘92 c'era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all'epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall'ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.

RESTIVO Nicola - E' giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.

RINAUDO Antonio - Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. In servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è occupato dell'ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l'ex plenipotenziario del calcio italiano ed il pm Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»...

ROMAGNOLI Riccardo - E' in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il Csm inflisse la perdita di due anni d'anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d'Italia.

ROMANO Guido - E' presidente del Tar della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione - il nome era presente negli elenchi del ‘92 - non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell'allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al Csm i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.

SALEMI Guido - Consigliere di Stato, giudice al Tribunale superiore delle acque pubbliche e componente della Commissione tributaria centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.

SCARAFONI Stefano - Fra quelle carte c'era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all'epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.

SERGIO Ferdinando - Il suo nome - al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini - venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della Anm.

SERIANNI Vincenzo - Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d'Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l'anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.

SPINA Antonio - Ad aprile ‘95 il Csm gli commina la sanzione disciplinare per l'affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.

TONINI Paolo - Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di Diritto processuale penale, che insegna all'Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal Csm per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.

TRAPANESE Mario - A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito - insieme ai colleghi-confratelli - alla sezione disciplinare del Csm dall'allora ministro Conso. Origini napoletane, l'anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un'associazione benefica, la Lega del Filo d'Oro.

VELLA Angelo - Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell'Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALI Massimo - Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d'Appello.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Premesso che appartenere alla massoneria non è sgradevole ed affermare ciò riferito ad una persona non è diffamatorio, con la presente rettifica ci accingiamo a soddisfare la pretesa dell’istante.

Correzione dalla Voce delle Voci dell’articolo su magistrati e massoneria. Dalla Voce delle Voci in edicola.

C’è un caso di omonimia nella nostra inchiesta di gennaio 2010 sui “Magistrati Massoni”. A seguito della lettera che qui di seguito pubblichiamo integralmente, precisiamo che il dottor Guido Romano, attualmente consigliere di Stato e già presidente di sezione al Tar della Calabria, NON E’ l’omonimo magistrato ordinario Guido Romano il cui nome fu ritrovato, insieme a quelli di altri magistrati, fra le carte sequestrate nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Il dottor Guido Romano consigliere di Stato, residente a Roma, non ha mai fatto parte della massoneria ne’, come ipotizzavamo nell’articolo, e’ mai passato dai ranghi della magistratura ordinaria a quelli della magistratura amministrativa, dal momento che ha prestato servizio sempre e solo nella magistratura amministrativa. Ce ne scusiamo col diretto interessato, pregando i colleghi dei siti internet che avessero ripreso il nostro articolo di apportare al più presto – come già abbiamo fatto noi – la correzione e la rettifica.

Oggetto: richiesta di smentita ai sensi e per gli effetti della legge n. 47 del 8 febbraio 1948, nel testo vigente.

Lo scrivente Guido Romano, nato ad Aversa (Caserta) l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, nominato Giudice Amministrativo nel settembre 1984, quale vincitore di pubblico concorso, ha svolto le relative funzioni nei TT.AA.RR. della Lombardia, sede di Brescia, dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, della Campania, sede di Napoli, del Lazio, sede di Roma, e della Calabria, sede di Catanzaro, nonchè dal settembre 2007 presso il Consiglio di Stato ove tuttora esercita le funzioni giurisdizionali. Esso scrivente è venuto a conoscenza che nel n,1 dell’anno 2010 della versione cartacea del mensile “La Voce delle Voci” appare, in copertina, a lettere cubitali, il titolo “Magistrati Massoni” ed all’interno e’ inserito articolo a firma del condirettore Rita Pennarola nel quale vengono elencati, in ordine alfabetico, i nomi di magistrati che, per affermazione dell’articolista, sarebbero affiliati alla massoneria. In detto articolo è inserito il nome di “Romano Guido” che, essendo immediatamente seguito dalla precisazione “… è Presidente del Tar della Calabria…”, non può che riferirsi alla persona dello scrivente, tenuto conto che in tale sede giudiziaria amministrativa lo stesso scrivente ha prestato servizio per circa due anni, esercitando la funzione di Presidente della Seconda Sezione (e non anche di Presidente dell’intero TAR, come invece è affermato nell’articolo) e che nella storia del TAR Calabro nessun altro magistrato amministrativo, avente nome e cognome identico allo scrivente, vi ha mai prestato servizio fino ad oggi. Peraltro, tale oggettivo, quanto falso, riferimento alla persona dello scrivente ha trovato conferma anche nel fatto che numerosi colleghi, amici e conoscenti, specialmente nelle Regioni Campania e Calabria, hanno immediatamente manifestato allarme, incredulità e stupore per la notizia appresa nella lettura dell’articolo in questione, pubblicato anche sul sito Internet della “Voce delle Voci” e ripreso da altri siti Internet quali, per quel che allo stato consta, “Facebook” e “Terracina Social Forum”.

Ciò premesso, lo scrivente precisa al riguardo, innanzi tutto, che:

1) non è stato mai affiliato alla massoneria (ne’ coperta ne’ scoperta) e non lo è tuttora:

2) non ha mai fatto parte della Magistratura Ordinaria, ma soltanto della (distinta e autonoma) Magistratura Amministrativa, nei cui ruoli è iscritto dal 1984 a seguito di pubblico concorso;

3) ha esercitato dal 1968 l’attività di “praticante procuratore legale”, prima di accedere, dal 16 gennaio 1972, sempre a seguito di pubblico concorso, al ruolo dei “funzionari direttivi” del Ministero della Pubblica Istruzione, dal quale è, poi, transitato nella magistratura amministrativa (TAR).

Contesta, conseguentemente, ad ogni effetto di legge, che il riferimento alla propria persona, così come operato nell’articolo in questione, quale iscritto nell’elenco dei magistrati massoni, e’ certamente falsa ed è frutto del comportamento del tutto poco accorto e non diligente dell’autore dell’articolo predetto, tenuto conto che l’autrice non si è preoccupata, evidentemente, di operare alcuna verifica degli elementi utilizzati.

Infatti sarebbe stato sufficiente verificare se il nominativo “Guido Romano” – che si afferma nello stesso articolo essere contenuto, come gli altri nominativi di magistrati, negli “… unii elenchi (comprensivi delle logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova…” – fosse l’unico esistente nei distinti ruoli delle varie Magistrature, per cui non poteva non essere quello del magistrato amministrativo individuato nell’articolo in questione come “…Presidente del TAR della Calabria…”, ovvero esistesse nel 1977 (data riportata nella lettera ritrovata nella villa uruguaiana di Licio Gelli e riferita al presunto finanziamento per l’elezione della A.N.M.) e nello stesso 1992 (data di redazione dei citati elenchi Cordova) altro magistrato ordinario con lo stesso nome e cognome; sarebbe stato sufficiente, altresì, ricorrere a nozioni di comune conoscenza quale la notoria distinzione dei magistrati amministrativi del TAR (quale lo scrivente dal 1984 e nel 1992) dai magistrati ordinari (civili e penali), amministrati da distinti organi di autogoverno (C.P.G.A. per i giudici amministrativi e C.S.M. per i magistrati ordinari). Inoltre, l’autrice dell’articolo non si è evidentemente preoccupata neppure di leggere il contenuto complessivo del proprio scritto poichè, diversamente, si sarebbe resa conto che il riferimento operato alla mia persona, attraverso lo specifico e qualificante richiamo alle funzioni di “…Presidente del TAR della Calabria…” contraddiceva, in maniera del tutto oggettiva, le altre notizie ed affermazioni contenute nello stesso articolo e cioe’, sia il successivo riferimento, operato sempre nello stesso contesto descrittivo della mia persona, al fatto che “… la decisione dell’allora Guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi…”, essendo notoriamente competente il predetto Guardasigilli soltanto per i magistrati ordinari, e non anche per quelli amministrativi, diversamente governati dal citato apposito organo di autonomia, sia l’affermazione, questa volta operata nel contesto del profilo descrittivo di altro magistrato ordinario citato dallo stesso articolista nell’elenco (Sergio Ferdinando), che quest’ultimo, “… al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini… (omissis) … venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati quando nel ’77 erano stati eletti ai vertici dell’ANM…”.

E’ evidente, in sintesi, che nel 1977 lo scrivente, in quanto funzionario direttivo dei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione, non apparteneva (come non ha mai appartenuto) alla magistratura ordinaria e, quindi, non poteva ne’ candidarsi, ne’ essere eletto nel direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati, del quale ha, invece, fatto parte l’omonimo “… magistrato ordinario Guido Romano”, citato nella lettera ritrovata nella villa di Gelli in Uruguay ed inserito negli elenchi “… sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova”.

Orbene, per tutto quanti sin qui precisato, lo scrivente chiede che venga, immediatamente, effettuata puntuale ed adeguata smentita – con le modalità prescritte dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nel testo vigente – della notizia contenuta nell’articolo di stampa in questione, concernente la mia persona, con la quale dovrà essere chiarito, con tutte le necessarie puntualizzazioni e senza alcuna possibilità di equivoco, che il nome del magistrato Guido Romano che appare nell’elenco riportato in detto articolo (pubblicato sia sul mensile cartaceo La Voce delle Voci n. 1 del 2010 e sia sul corrispondente sito Internet www.lavocedellevoci.it) non e’ in alcun modo riferibile al dottor Guido Romano, nato ad Aversa l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, già Presidente della Seconda Sezione del TAR Calabria ed attuale Consigliere di Stato, trattandosi all’evidenza di caso di mera omonimia con altro magistrato ordinario.

Alla rettifica, così come impone la citata norma di legge, dovrà essere dato il dovuto risalto. Attraverso collocazione, caratteri e dimensioni grafiche eguali a quelli utilizzati per la redazione dell’articolo in questione, e dovrà essere pubblicata non soltanto nel numero cartaceo del mensile La Voce delle Voci di febbraio 2010, ma anche, ed immediatamente, sul sito Internet sopra indicato, con speciale avvertenza degli effetti della citata legge, risultando esso, allo stato, certamente ripreso, come già segnalato più innanzi, da altri siti Internet quali “Facebook” e “Terracina Social Forum”. Lo scrivente, infine, resta in attesa di un pronto riscontro che assicuri l’immediata pubblicazione della rettifica richiesta, salvo e riservato ogni altro diritto ed azione a tutela della propria dignità ed onorabilità. Guido Romano.

Diffamazione, chiude “la Voce delle Voci”. Ma scatta indagine sul giudice che l’ha condannata. Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico, scrive Thomas Mackinson il 14 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari. La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008 e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni. Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale. Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia: non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto. A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”. Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”. 

TOGHE ASSENTEISTE

Brunetta: «La giustizia? E' una cosa troppo seria per lasciarla ai magistrati, lavorano poco»

«Non ho nulla contro i magistrati, mi sono anche simpatici», tuttavia «la giustizia è cosa troppo seria per lasciarla ai magistrati». Così il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, torna a spiegare la sua proposta di introdurre i tornelli negli uffici giudiziari. Intervenendo a Porta a porta del 27 ottobre 2008, alla quale ha partecipato anche il presidente dell'Anm, Luca Palamara, Brunetta ha spiegato: «I tornelli servono ad una organizzazione scientifica del lavoro, così da misurare la produttività e l'efficienza. È noto che i magistrati lavorano poco. Nei tribunali ci sono caos, confusione e ritardi».

«Non ce l'ho con i magistrati, ma non possono esistere della aree protette dalla trasparenza e dalla produttività. Meno che mai dove ci si occupa dei diritti dei cittadini - dice Brunetta in una lettera pubblicata dalla Stampa - La fine dell'anarchia giudiziaria, dal punto di vista dell'organizzazione degli uffici è solo un primo passo perché i costi della giustizia che non funziona sono insopportabili, sia in termini di spesa pubblica, sia di civiltà collettiva. Non vedo proprio perché qualcuno debba sentirsi sminuito se si controllano le entrate e le uscite dal lavoro al fine di evitare i tanti deserti pomeridiani nei nostri tribunali. Ci guadagneranno quelli che lavorano tanto, i cittadini e l'economia del Paese. Abbiamo avviato l’operazione trasparenza sull’assenteismo nella Pubblica Amministrazione.

Come sono andate le cose nel comparto della giustizia? Non lo so, non lo sa nessuno, perché quei dati non sono mai arrivati. Hanno risposto alcune amministrazioni centrali, ma la trasparenza è stata rifiutata dall’insieme degli uffici periferici. Non abbiamo dati relativi alle presenze dei magistrati, ma neanche dei cancellieri e dell’altro personale amministrativo, che sono tutti dipendenti pubblici. Che sia chi amministra la giustizia a sottrarsi alla trasparenza non è un bell’esempio.

I tempi della giustizia italiana (penale, civile, amministrativa) sono scandalosamente lunghi, al punto da esporci a fondati e preoccupanti rilievi internazionali. Una giustizia che viaggia con i tempi italiani non merita di chiamarsi giustizia. Di questo, naturalmente, non portano la responsabilità solo i magistrati, essendoci colpe enormi del legislatore. Ma sono responsabili anche i magistrati. Per esempio: la legge è chiarissima, stabilendo che le motivazioni delle sentenze si depositano contemporaneamente o pochi giorni dopo la lettura del dispositivo, e solo in casi eccezionali entro tre mesi. La regola, di fatto, è che le motivazioni arrivano dopo molti mesi, e talora dopo anni. Nessuno paga, perché i tempi che riguardano i cittadini sono perentori (quindi obbligatori), mentre quelli cui devono attenersi i magistrati ordinatori (vale a dire che sono solo indicativi). Non credo sia tollerabile.

Dei procedimenti penali che s’iniziano arrivano a sentenza sì e no il 30%, fra questi risultando numerosi gli assolti. Significa che più del 70% dei procedimenti si perde per strada, risucchiato dai tempi delle prescrizioni. Una pacchia, per i criminali. Nel solo tribunale penale di Roma quasi l’80% dei rinvii è dovuto ad errori procedurali commessi dagli uffici, il che meriterebbe un serio controllo di produttività, con premi a chi lavora bene e sanzioni per chi lo fa come capita. Ogni volta che si solleva il tema la risposta dei magistrati è: servono più soldi. Ma noi abbiamo più magistrati e spendiamo più della media europea. Spendiamo troppo, non troppo poco, ma spendiamo male, come dimostra il capitolo informatizzazione: ci sono 7000 server al servizio della giustizia (ne basterebbe il 10%) e 169 sale dedicate (ne basterebbero 29). Tutto questo non solo è costato per gli acquisti, ma costa ogni anno, in servizi di assistenza e manutenzione, un occhio della testa. E non funziona, perché la telematica richiede integrazione dei sistemi, non moltiplicazione dei centri autogestiti ed autoreferenziali. E integrazione vuol dire scientificità dell’organizzazione con relative responsabilità manageriali e di gestione che, nei nostri palazzi di giustizia, semplicemente non esistono. Ognuno per sé, magari in buona fede, ma in totale disorganizzazione.»

TOGHE PAZZE

NON ESISTE L'ESAME PSICOFISICO - ATTITUDINALE PER I MAGISTRATI 

Perché Berlusconi non può auspicare un esame di idoneità mentale per i magistrati? Perché Veltroni deve ravvisarvi «uno scarso senso dello Stato»? Che risponde, di serio, l’Associazione magistrati?

Una vera risposta non c’è.

In genere si ricorda che viceversa esistono professioni cariche di responsabilità anche mediatica (chirurghi e medici su tutti) ma poi si glissa. Andrebbe rispolverata la casistica raccolta da un ex consigliere del Csm, laddove si ricorda che i magistrati italiani non vengono sottoposti a esami psichiatrici (né prima né durante) come appunto è obbligatorio per altri professionisti.

Se un giudice è pazzo, posto che ce ne si accorga, pazienza: deciderà della libertà altrui.

Nella casistica si raccontava del giudice che si vide respingere una denuncia perché ritenuto infermo di mente: concluse tranquillamente la sua carriera.

C’è il caso del giudice che in piena udienza si alzava gridando «Ho i ceci sul fuoco».

C’è quello fissato sull’incostituzionalità dell’ora legale:andava alle udienze solo in base all’ora solare.

C’è la storia del consigliere d’Appello arrestato perché aveva compiuto atti osceni con un ragazzo adescato al cinema: il Csm lo prosciolse riconoscendogli una totale incapacità di intendere e di volere, ma riprese servizio.

Volersi occupare di questo tuttavia ha già pronta l’accusa: vogliono chiudere i giudici in manicomio. Basterebbe a casa loro.

Ci sono pazzi e pazzi, anche tra i magistrati. Come scrive Filippo Facci sulla casta in toga che, a differenza di altre caste, sfugge all’esame dell’idoneità mentale, di casi psichiatrici ve ne sono svariati oltre a quello citato nella rubrica: dal giudice che abbandona l’aula perché «signor presidente, ho i ceci sul fuoco» e che giudica incostituzionale l’ora legale, al consigliere d’appello sorpreso nel bagno di un cinema a fare sesso con un ragazzo ma assolto dal Csm perché ha sbattuto la testa sulla porta della toilette «e ciò lo avrebbe reso - scrive Mauro Mellini nel libro La fabbrica degli errori edito da Koinè - per un certo tempo incapace di intendere».

È di qualche giorno addietro la storia del giudice di La Spezia indagato per aver tagliato le gomme all’auto di una collega per questioni di parcheggio: un po’ come quel pretore di Nicosia che litigò coi carabinieri per il «posto riservato» ai magistrati, che in realtà non esisteva. Sempre in Liguria, anni fa, due magistrati finirono sotto accertamento per il tiro al bersaglio, con rivoltelle, sui fascicoli riposti in archivio. Quanto ai pm «pistoleri», le cronache rimandano a due episodi: un gip arrestato in Sicilia per aver fatto sparare a un professore universitario reo d’aver bocciato la nipote quattro volte di seguito e un pm di Milano «ammonito» per aver estratto minacciosamente la Beretta in faccia a un avvocato e per aver sparato in aria al culmine di un litigio nel traffico.

Uno, dieci, troppi casi. A un sostituto sono stati contestati atti di libidine su un handicappato mentre un giudice marchigiano, senza motivo, non si è recato in tribunale per tre mesi, finendo con l’essere dichiarato incapace di intendere e di volere. In Calabria un giudice ha picchiato e insultato un guardalinee in un campionato dilettanti, un altro è stato beccato mentre tirava calci in una serie minore sotto falso nome perché colpito da squalifica per ingiurie. Tra i casi celebri - alcuni riportati ne La giustizia dimenticata di Massimo Martinelli, di prossima uscita con Gremese - quello della donna in toga sorpresa a fare regate transoceaniche nonostante fosse in congedo per malattia: «Le ferie erano concordate. E il ritorno mediatico che c’è stato è stato solo un fatto positivo che ha dato onore e prestigio alla magistratura».

Scalpore fece la storia di quel giudice accusato di eccesso di retorica nei dispositivi delle sentenze: i riferimenti andavano da Virgilio a Polifemo, dal mago Houdini a Kafka, da Cicciolina a Montesquieu passando per Aristotele, Bach, Madonna (la popstar), la legge delle dodici tavole e buon ultima la Sibilla Cumana. La denuncia al Csm parlava di motivazioni infarcite di citazioni stravaganti e bizzarre, spesso al limite del grottesco, ritenute «superflue, non pertinenti». Un magistrato di Rimini ha prodotto un’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale a forma di piece teatrale. La stravaganza non è estranea nemmeno alla toga di origini sarde che, per fare un dispetto ai colleghi, ha imbrattato con «abbondanti strisciate di Nutella» le pareti del bagno dell’ufficio. Ammonito. Il Csm si occupò anche di un giudice pugliese accusato di ossessionare con le sue avances segretarie e cancelliere del tribunale. E un’eccessiva inclinazione per i piaceri della carne costò il trasferimento per incompatibilità ambientale a una toga marchigiana accusato di perseguitare l’amante e suo marito, arrivando a dichiarare la sua relazione extraconiugale in diretta tv.

C’è poi il pretore piemontese che, stando al Csm, finì sospeso perché «pronunciava a breve distanza di tempo sentenze radicalmente contrastanti sul medesimo oggetto del contendere» con «motivazioni emozionali e metagiuridiche». Pescando a caso spunta l’incredibile vicenda del magistrato chiamato dal Csm a giustificare comportamenti «confusi e deliranti». L’interessato affida la sua difesa a 13 cartelle scritte in stile Ionesco. Un passaggio: «Sentivo l’incombenza di un pericolo che soverchiava il mio destino (di coda di lepre da buttare innanzi alla muta), e toccava la sicurezza dello Stato... mancai poi il suicidio, giacché caddi sui piedi. Tornai così in servizio con nuove funzioni». Il Csm decise di non decidere. Il magistrato restò in servizio, anni dopo si tolse la vita. E che dire di quel pm di Ancona che per dimostrare la sua tesi accusatoria è arrivato a sottoporre a «seduta ipnotica un testimone al fine di recuperare ricordi rimossi». Poi capita che la politica parli di toghe impazzite e di test. C’è chi scomoda Woodcock, il pm dei vip, e come Gasparri di An finisce in tribunale. E chi come Andreotti è stato perseguito per aver dato del folle al magistrato Mario Almerighi: «È pazzo, dica quello che vuole, mi procura solo divertimento».

TOGHE CORPORATIVE

CSM, 1.282 GIUDICI SOTTO PROCESSO

È il numero dei procedimenti disciplinari in 10 anni. 290 condannati, 156 dimessi prima della sentenza.

I numeri: oltre mille segnalazioni all’anno contro i magistrati alla Procura generale della Cassazione. Solo il 10% va alla disciplinare.

Le accuse: molti giudizi sono per i ritardi nella definizione dei procedimenti. Poi ci sono i comportamenti delle toghe.

C’è qualche nome noto, coinvolto nelle più recenti burrasche giudiziarie, come Luigi de Magistris (condannato) e Henry John Woodcock (assolto). E qualche altro meno noto ma importante (procuratori in carica, giudici di processi delicati o che hanno appassionato l’opinione pubblica), molti dei quali assolti, ma alcuni condannati; per esempio i magistrati del tribunale di sorveglianza di Palermo che concessero la semilibertà al «mostro del Circeo» Angelo Izzo facendolo tornare a Campobasso dove uccise di nuovo, ai quali è stato inflitto un «ammonimento ».

Infine c’è un elenco di nomi quasi mai balzati all’onore (o al disonore) delle cronache.

E’ il piccolo esercito di toghe finite sotto processo davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura: il «tribunale» che giudica gli illeciti commessi al di fuori di eventuali reati. E’ l’organo di giustizia interno all’ordine giudiziario e al suo autogoverno, spesso finito a sua volta sotto processo perché di manica troppo larga.

L’idea che le toghe si autoassolvano fa ormai parte del «comune sentire» anche se i magistrati (ma pure qualche osservatore esterno) la considerano soprattutto un luogo comune. Fatto sta che un diverso sistema, come la collocazione della Disciplinare fuori dal Csm, è uno dei temi sul tavolo quando si parla di riformare la giustizia, come di questi tempi. E scavare tra qualche cifra può forse aiutare a comprendere il problema.

Fino alla riforma varata nel 2006, che comincia a far vedere i suoi effetti soltanto adesso, doveva andare sotto processo disciplinare (avviato dal procuratore generale della Cassazione o dal ministro della Giustizia) «il magistrato che manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario ».

Formula forse troppo vaga che però, con un andamento un po’ ondivago da un anno all’altro, nell’ultimo decennio 1998-2007 ha portato davanti alla Sezione del Csm 1.282 magistrati (punta massima nel 2006, 153, e minima nel 2007, 87) su un numero complessivo di toghe italiane che oggi è arrivato a 9.000; ma bisogna tener conto dei casi in cui uno stesso giudice o pubblico ministero è stato giudicato più volte.

Degli oltre 1.200 casi giudicati, i condannati sono stati 290 (in media 29 all’anno), cioè il 22 per cento. Ma in questa valutazione bisogna considerare un altro dato: i 156 «imputati» che hanno abbandonato l’ordine giudiziario prima della sentenza, interrompendo così il procedimento. Comunque la percentuale dei condannati è quella, mentre la media dei colpevoli nei processi penali dopo i tre gradi di giudizio arriva a circa il 40 per cento.

Le sanzioni inflitte dalla Disciplinare vanno dalla più lieve (l’ammonimento) alla più grave (destituzione dall’ordine giudiziario) passando per misure intermedie come la censura e la perdita dell’anzianità.

La maggior parte delle condanne sono alla pena minima, ma il consigliere «laico» dell’attuale Csm e della Sezione disciplinare Michele Saponara commenta: «Anche sanzioni lievi, o addirittura certe assoluzioni, pesano sulla carriera del magistrato perché finiscono nel fascicolo personale e vengono considerate quando c’è la valutazione di professionalità per le promozioni o altro. Quindi un semplice ammonimento può avere conseguenze pesanti per chi lo subisce».

Saponara non è un «laico» qualunque. E’ un avvocato che ha dato battaglia in processi movimentati (difendeva Previti nei dibattimenti «toghe sporche», coimputato Berlusconi) ed è stato parlamentare di Forza Italia. Non può essere sospettato di «tenerezza» nei rapporti con i magistrati, e dopo due anni passati a giudicare le toghe spiega: «Direi che il funzionamento è fisiologico, e sinceramente non vedo grosse storture nel sistema. Certo, si può pensare come sostiene qualcuno di aumentare la componente "laica" rispetto a quella "togata" (attualmente è di un terzo, 2 su 6, secondo la proporzione che la Costituzione stabilisce per il Csm), ma non cambierebbe molto. Spesso mi ritrovo ad essere il più buono al momento del giudizio, perché conosco il sistema giudiziario e mi rendo conto che ci sono molte componenti dietro il comportamento di un magistrato incolpato». I numeri di coloro che finiscono sotto processo disciplinare (e quel 20 per cento o poco più di condannati) sono il risultato di un lavoro che parte da cifre molto più vaste. Ogni anno alla Procura generale della Corte di Cassazione, il «motore» dell’azione disciplinare verso i giudici, arrivano oltre mille segnalazioni; dagli uffici giudiziari (con la riforma i procuratori generali locali sono obbligati a segnalare gli eventuali illeciti, pena finire loro stessi sotto procedimento disciplinare, dal ministero all’esito delle ispezioni, da semplici cittadini. E ancor più ne vengono «lavorate», scartando quelle infondate o da archiviare dopo una semplice istruttoria. Nel 2007 ne sono arrivate 1.307, ne sono state definite 1.479 (smaltendo un po’ di arretrato) e alla fine è stata esercitata l’azione disciplinare davanti al Csm solo in 103 casi. Nel 2008,(secondo i dati del 15 dicembre), sono state definite 1.457 posizioni (su 1.361 sopravvenute) e s’è avviato il procedimento per 99 magistrati.

«La Disciplinare è uno dei cardini dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura — spiega il sostituto procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, che ne ha fatto parte da "togato" del Csm — giacché è preposta non solo a giudicare la deontologia e sanzionare comportamenti scorretti, ma anche a garantire i singoli magistrati da iniziative infondate. Il problema, semmai, è che nel settore disciplinare finiscono problemi che hanno a che fare con la valutazione della professionalità, dove ci sarebbe molto da innovare».

Buona parte dei giudizi davanti al Csm sono per i ritardi nella definizione dei procedimenti, (ritardi, spesso, pretestuosamente giudicati fisiologici dalle toghe per le difficoltà strutturali degli uffici giudiziari). Ma le più recenti sentenze hanno stabilito una soglia di quei ritardi, oltre la quale la sanzione arriva anche se non viene acclarata l’indolenza del magistrato.

Poi ci sono i comportamenti, dentro e fuori i processi, sanzionati secondo un elenco di casi espressamente previsti dalla legge del 2006, con la «tipizzazione» degli illeciti. «Forse questa riforma— dice Elisabetta Cesqui, componente "togata" del Csm per Magistratura democratica, nonché membro della Disciplinare—ha lasciato scoperte delle aree di comportamenti che invece andrebbero sanzionati, ma è ancora presto per valutarne gli effetti. Conviene sperimentarla. Non si può dire che quello attuale sia un sistema che funziona alla perfezione, ma per lo meno è trasparente rispetto ad altri casi di giustizia domestica. E che sia domestica, nel nostro caso, lo stabilisce la Costituzione. A volte si commette l’errore di caricare il settore disciplinare di troppe attese, dovute al mancato funzionamento della responsabilità civile del giudice e di altri problemi che invece dovrebbero trovare soluzioni nei meccanismi della giustizia ordinaria».

Questo è lo scandalo maggiore in Italia. Non è possibile che un magistrato giudichi in modo esclusivo un collega per abusi od omissioni, insabbiamenti od accanimenti giudiziari. Ogni avvocato è a conoscenza dell’esito scontato degli esposti rivolti al CSM in riferimento al comportamento irrituale adottato da alcune “toghe” locali, come lo è per le denunce penali presentate presso i colleghi degli stessi. Esposti e denunce non scevri di ritorsioni. Per questo è indispensabile una figura istituzionale di tutela dei diritti del cittadino. Istituzione con poteri giudiziari, che non sia un magistrato. Con la nuova Istituzione, saranno sempre i magistrati ad indagarsi ed a giudicarsi, ma, intanto, il “DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO” verifica ogni atto adottato nel procedimento contestato dal cittadino, controllando se l’atto stesso sia stato attinente alla legge. Se così non fosse, il procedimento contestato con i rilievi sollevati passerebbe alla competenza di altro distretto giudiziario.

Caso esemplare per dimostrare l'opera di insabbiamento di una categoria che si eleva al di sopra della legge, rendendosi impunita ed immune.

Giudice del tribunale di Milano sorpreso a fare sesso con un quattordicenne nella toilette di un cinema: assolto perché tre anni prima aveva sbattuto la testa. No, non c’è niente da ridere. Di questi tempi, con un premier indagato a Milano per sfruttamento della prostituzione minorile senza che vi siano agli atti prove certe di un suo rapporto intimo con una diciassettenne, occorre ripensare a certe storture della giustizia. Ecco perché alcuni componenti del Csm hanno sentito il bisogno di rispolverare a “Il Giornale”, a firma di Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica, una storiaccia a luci rosse su un magistrato milanese sporcaccione. Gli atti dei tre gradi di giudizio del processo a carico di un ex giudice di corte d’appello e gli approfondimenti svolti dal giornalista Stefano Livadiotti (nel libro scritto nel 2009 «Magistrati l’ultracasta») e prim’ancora dall’ex parlamentare radicale Mauro Mellini (nel pamphlet «il golpe dei giudici») ci consegnano uno spaccato indecente della casta in toga. La vicenda si sviluppa lungo un quarto di secolo, partendo dalla metà degli anni Settanta. La toga in questione si ritrova in un cinema di periferia della Capitale. Per sua sfortuna, in sala, tra gli spettatori, c’è un poliziotto fuori servizio che si precipita nella toilette quando sente urlare «zozzone, zozzone». Era successo che la «maschera» aveva sorpreso il giudice e il ragazzino chiusi in bagno. Quest’ultimo, preso a verbale, confermerà le avances dell’adescatore che, a suo dire, si era avvicinato alla sua sedia, gli aveva sfiorato i genitali riuscendo successivamente a convincerlo a procedere oltre in bagno, in cambio di denaro. E qui, stando al processo, si sarebbe consumato un rapporto orale. Il giudice finisce dritto in cella. Nega ogni addebito, ma finisce alla sbarra per atti osceni e corruzione di minore. Contestualmente la Disciplinare del Csm che lo sospende dalle funzioni. La condanna, a sorpresa, è però di lieve entità: un anno appena. «Atteso lo stato del costume» l’approccio sessuale viene considerato dai giudici solo «contrario alla pubblica decenza». In appello il reato diventa «atti osceni». Ma poiché - scrive Livadiotti - il primo «approccio col ragazzino è avvenuto nella penombra e l’atto sessuale si è poi consumato nel chiuso del gabinetto» i giudicanti del giudice imputato arrivano a sostenere che «il fatto non costituisce reato». Il Nostro viene condannato ad appena 4 mesi, ma la Cassazione lo premierà ancor di più annullando la sentenza «senza rinvio», limitatamente al delitto di corruzione di minorenne «a seguito dell’estinzione del reato in virtù di sopravvenuta amnistia». Il Csm si adegua alla Supreme Corte revocando la sospensione dal servizio. Ma la sezione Disciplinare, guidata dal numero due di Palazzo dei marescialli, Vincenzo Conso, è pronta al miracolo. Durante l’istruttoria si fa presente che il medico curante del giudice ha sostenuto di aver sottoposto la toga imputata a intense terapie... tre anni prima «a causa di un trauma cranico riportato per il violento urto del capo contro l’architrave di una bassa porta. Si trattava di ferite trasversali da taglio all’alta regione frontale» dice il sanitario. Tre anni prima? E che c’entra con quanto avvenuto tre anni dopo? Non è chiaro nemmeno perché sia stato chiamato a testimoniare un notaio la cui sorella era stata la dolce metà del giudice: «Il loro fidanzamento è stato ineccepibile dal punto di vista morale». Per i più che comprensivi componenti del Csm, infatti, «ciò che colpisce e stupisce, in questa dolorosa vicenda, è che l’episodio si staglia isolato ed estraneo nel lungo volgere di un’intere esistenza fatta di disciplina morale, studi severi, impegno professionale». Isolato ed estraneo. Per cui le spiegazioni di quel rapporto orale sono due: un raptus o una devianza sessuale. Si propende per la prima ipotesi, anche perché, prendendo a prestito quanto riferito dagli psichiatri, «l’episodio in esame non solo costituisce l’unico del genere ma esso, anzi, ponendosi in contrasto con le direttive abituali della personalità, è da riferirsi a quei fatti morbosi psichici» che iniziati tre anni prima «si trovano in piena produttività» tre anni dopo. Traducendo: la vecchia botta in testa, con un ritardo di oltre mille giorni, è stata fatale. «Ha svolto un ruolo di graduale incentivazione delle dinamiche conflittuali latenti nella personalità - osserva il Csm - fino all’organizzazione della sindrome nell’episodio de quo». Il giudice è diventato scemo in ritardo e solo per un po’, perché è subito tornato normale. «Proprio l’alta drammaticità delle conseguenze scatenatesi del fatto, unita alle ulteriori cure e al lungo distacco dai fattori contingenti e condizionanti - prosegue il Csm - hanno favorito il completo recupero della personalità nella norma, com’è testimoniato dai successivi 8 anni di rinnovata irreprensibilità». S’è trattato di un banale incidente di percorso. L’imputato può tornare a giudicare? Certo. Perché «trattasi di episodio morboso transitorio che ha compromesso per breve periodo la capacità di volere, senza lasciare tracce ulteriori sul complesso della personalità». Il giudice sporcaccione va assolto. Non è punibile, udite udite, perché ha agito «in stato di transeunte incapacità di volere al momento del fatto». Transeunte. Dopodiché è tornato sano come prima, ha ripreso servizio, e stando a quanto racconta l’ex radicale Mellini «è stato valutato positivamente per la promozione a consigliere di Cassazione conseguendo però tale qualifica con un ritardo di molti anni». Ciò ha comportato un cumulo di scatti d’anzianità sullo stipendio di consigliere d’appello. E per il «principio del trascinamento» il giudice si è ritrovato «a portarsi dietro, nella nuova qualifica, lo stipendio più elevato precedentemente goduto grazie a tali scatti e a essere quindi pagato più di tutti i suoi colleghi promossi in tempi normali. Questi ultimi, grazie al principio del galleggiamento, hanno ottenuto un adeguamento della loro retribuzione al livello goduto dal giudice». Fatti due conti, l’onere per lo Stato di questo «marchingegno» ha sfiorato i 35 milioni di euro di oggi. Tanto è costato l’incontro nel wc, transeunte parlando.

OMESSE LE INFORMATIVE AL CSM CONCERNENTI I PROCEDIMENTI PENALI A CARICO DI MAGISTRATI

INFORMAZIONI CONOSCIUTE DALLA STAMPA

(CSM. Circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995)

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 28 settembre 1995, ha approvato la circolare in oggetto, che di seguito si riporta:

“Con deliberazione n. 151/91 in data 13 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura ha richiesto ai Procuratori Generali ed ai Procuratori della Repubblica:

a) di dare immediata comunicazione al Consiglio, con plico riservato al Comitato di Presidenza, di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio;

b) prescindendo dall’obbligo di informazione previsto dall’art. 129 disp. att. c.p.p. di informare di loro iniziativa il Consiglio, oltre che dei fatti cui il procedimento si riferisce e del suo inizio, anche del suo svolgimento, nelle varie fasi e nei diversi gradi, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone;

c) di trasmettere di loro iniziativa i provvedimenti più rilevanti e quelli conclusivi nelle diverse fasi e nei vari gradi dei procedimenti e dei processi a carico di magistrati.

Con la deliberazione in data 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il Consiglio ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità in linea di principio del segreto investigativo e della rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza.

Si sono dovute constatare notevoli difficoltà di adempimento da parte di numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le dovute comunicazioni ed il Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso la stampa di procedimenti riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti alla conclusione della indagine preliminare.

Quasi mai gli uffici del pubblico ministero provvedono ad una informativa sui fatti cui il procedimento si riferisce, né trasmettono di loro iniziativa gli atti conclusivi delle fasi e gradi del procedimento, né i provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi di indicazioni utili al Consiglio.

Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non siano nel medesimo tempo fatte ai titolari della azione disciplinare, con evidente pregiudizio per l’esigenza di pronta informazione del Ministro di Grazia e Giustizia e del Procuratore Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione.

Tale stato di cose impedisce al Consiglio di svolgere le proprie funzioni e si traduce in uno spreco di attività di comunicazione, richiesta, sollecitazione, ecc..

8 ANNI PER LE MOTIVAZIONI: IL CSM NON SOSPENDE PINATTO.

IL PG DI CALTANISSETTA, BARCELLONA: "SONO ESTEREFATTO".

La decisione del Csm di non sospendere in via d'urgenza il giudice Edi Pinatto, il magistrato che ha impiegato otto anni per depositare le motivazioni della sentenza del processo di mafia "Grande Oriente" quando era in servizio al Tribunale a Gela, lascia "allibito ed esterrefatto" il procuratore generale di Caltanissetta, Giuseppe Barcellona, perché, spiega il magistrato, il "corporativismo non può arrivare fino a questo punto" e "non si può soprassedere a colpe e responsabilità ben chiare".

"È dal 2002, da quando sono scaduti i termini per la presentazione della motivazione di quella sentenza - afferma il Pg Barcellona, competente sui giudici di Gela, in un'intervista, che scrivo continuamente al Csm, chiedendo provvedimenti disciplinari nei confronti del giudice Pinatto.

Una lettera all'anno per sei anni, e per sei anni il Consiglio superiore della magistratura mi ha puntualmente risposto che avrebbe provveduto e invece...". "E invece - aggiunge il Pg Barcellona - siamo qui a distanza di sei anni dalla prima lettera ad assistere ad una decisione, come quella di venerdì scorso, che lascia allibiti ed esterrefatti.

Il corporativismo del Csm non può arrivare fino a questo punto. Non si può soprassedere a colpe e responsabilità ben chiare".

IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI

Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata.  Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.

Scherzi della politica e dell’informazione: ipocriti e codardi. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge, non si era mossa foglia. Ogni tentativo era andato a sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che avevano il comune obiettivo di abbattere Berlusconi. Ricordate? Toccare i giudici era considerato un attentato alla Costituzione. Poi all’improvviso, quando meno te lo aspetti, cioè il 2 febbraio 2012, ecco arrivare un voto segreto che introduce la responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia pagherà di persona, come avviene per qualsiasi cittadino lavoratore. L’idea, cioè l’emendamento alla legge comunitari 2011, è della Lega, ma coperti dal segreto l’hanno sostenuta in massa a destra come a sinistra, come probabilmente addirittura da alcuni esponenti dell’IDV. Quei furbetti del governo Monti, per bocca del Guardasigilli, hanno fatto la parte degli indignati perché anche a loro i pm fanno un po’ paura. Prima hanno chiesto al parlamento di votare contro. Poi, smentiti dalla loro maggioranza Pd-Pdl, si sono augurati, sempre per bocca della ministra della Giustizia Severino, che il Senato bocci la legge. I magistrati sono furenti, ovviamente. Traditi pilatescamente dal governo dei professori e da una parte della sinistra che dopo averli usati in chiave antiberlusconiana adesso li scarica. Ma hanno poco da urlare, le toghe. Non si capisce perché possano essere toccati presunti privilegi di tassisti, benzinai, farmacisti, pensionandi e non i loro. Del resto la Camera non ha fatto altro che accogliere, con 25 anni di ritardo, la volontà degli italiani che in un referendum del 1987 avevano (invano) deciso che i magistrati dovevano pagare personalmente per i loro errori e per dolo o colpa semplice. Sulla responsabilità civile la Camera vota in linea con l'Europa, facendo passare un emendamento della Lega che prevede la possibilità di fare ricorso contro giudici solo nel caso agiscano con dolo o colpa grave. Una posizione sacrosanta, che garantisce il giusto processo e tutela i cittadini e, questa l'indicazione dei vertici Ue, può sanare un grave difetto di sistema della giustizia italiana che allontana gli investitori stranieri. Ecco perché migliorare il processo civile può significare più competitività e non solo più "civiltà" (basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, senza contare gli errori giudiziari.

Sì alla responsabilità civile dei magistrati. La Camera ha approvato l'emendamento presentato dal leghista Gianluca Pini votando contro il parere del Governo. A scrutinio segreto voluto dalla Lega, l'emendamento è passato con 264 sì e 211 no. Immediata la reazione delle opposizioni. Il leader Idv Antonio Di Pietro ha invocato il ricorso ai "forconi" da parte degli italiani, mentre il futurista Italo Bocchino ha definito il voto di Montecitorio "la vendetta della Casta" nei confronti della magistratura. Anche l'Associazione Nazionale Magistrati ha usato toni assai aspri criticando la decisione dei deputati.

Si sa. In Italia i magistrati dovrebbero applicare la legge, e spesso non ci riescono, ma vorrebbero anche emanarla.

Cosa dice l'emendamento - La norma prevede che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave (non semplice colpa come per i comuni mortali, compresi i medici, gli ingegneri, ecc.) nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto - si legge nel testo presentato dal deputato Pini - deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonchè se abbia   ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea".

Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, semmai si acclamerà l'errore da parte di un suo collega (sic), mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori.

Solo 4 condanne - "Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici", ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di dolo e colpa grave. "Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte".

La posizione del governo - Il governo, come scritto, si era detto contrario all'emendamento leghista ribadendo però "l'impegno ad affrontare il tema della responsabilità dei magistrati nel quadro di una discussione organica ed in tempi rapidi, in una logica di insieme nella debita sede e in maniera organica". Lo ha ribadito il ministro per le Politiche comunitarie Enzo Moavero prima del voto, spiegando che "la legge comunitaria mal si presta ad affrontare tematiche di respiro più ampio rispetto al mero recepimento di normative. La sentenza della Corte di Giustizia Ue richiamata dall'emendamento - ha aggiunto - si riferisce a questioni di diritto europeo".

Con l’approvazione dell’emendamento è finita con Antonio Di Pietro a gridare contro una «maggioranza trasversale piduista» e l’Associazione nazionale magistrati a denunciare una «norma incostituzionale» contro la quale il sindacato delle toghe è pronto alle «più estreme forme di protesta». A partire dallo sciopero. A far infuriare l’ex pm e l’Anm, il via libera dell’Aula di Montecitorio all’emendamento del leghista Gianluca Pini che introduce la responsabilità civile dei magistrati modificando la “legge Vassalli” del 1988, che finora ha consentito al cittadino, in caso di errore grave delle toghe, di rivalersi esclusivamente sullo Stato. I sì sono stati 264, i voti contrari si sono fermati a 211. Uno l’astenuto: l’ex ministro prodiano Giulio Santagata (Pd). Un esito che ha scatenato la caccia al franco tiratore con accuse incrociate tra Pdl e Pd. In mezzo il governo, in realtà il vero sconfitto: in Aula Enzo Moavero, ministro per gli Affari europei, aveva espresso parere contrario al provvedimento. Moavero prende la parola perché Pini presenta l’emendamento all’interno della legge comunitaria 2011. Motivazione: la sentenza della Corte di giustizia europea del 24 settembre 2011 che ha condannato l’Italia, «uno dei pochissimi Stati occidentali che non permette ad un cittadino che ha subìto un’ingiustizia o un danno» di ricorrere contro le toghe. Moavero, però, commette l’errore di schierare l’esecutivo contro l’emendamento. Meglio affrontare la materia, spiega, «in una logica di insieme, nella debita sede e in maniera organica». Un autogol perché di lì a poco Gianfranco Fini accoglierà la proposta della Lega di votare a scrutinio segreto: si tratta, spiega il presidente della Camera, di un tema che «incide sull’articolo 24 della Costituzione». Protetti dal segreto, i deputati si liberano dal vincolo dell’obbedienza al governo e l’emendamento passa addirittura con 26 voti in più della maggioranza richiesta. È il finimondo: Dario Franceschini, capogruppo del Pd, accusa il Pdl di aver disatteso gli impegni. «Non possiamo veder rispuntare la vecchia maggioranza», rincara la dose il segretario, Pier Luigi Bersani. Attacchi che Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, bolla come «ingiustificati». I numeri gli danno ragione: sulla carta l’ex maggioranza (più i Radicali e l’intero gruppo Misto) disponeva di 227 voti. Lo stesso Pdl, inoltre, scontava 55 deputati assenti e 12 in missione. Conclusione: il testo non sarebbe potuto passare senza i franchi tiratori di Pd e Terzo polo. Una ricostruzione sposata da Di Pietro, che infatti denuncia l’esistenza di «cinquanta traditori che hanno votato in modo difforme dai loro gruppi. E cinquanta è un numero troppo grosso perché siano tutti di un solo gruppo: vanno cercati tra quanti si erano dichiarati contro l’emendamento Pini. Ovvero Pd, Udc, Fli e Idv». Fatto sta che il governo, incalzato dall’Anm che parla di «ritorsione contro la magistratura», non ci sta e invoca un intervento del Senato per correggere la norma. «Prendo atto della volontà del Parlamento. Confido però che in seconda lettura si possa discutere qualche miglioramento», avverte Paola Severino, ministro della Giustizia, che dice no a «interventi spot». E Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, risponde all’appello: «La norma si potrà correggere. I magistrati aspettino a scioperare». Parole che non piacciono ad Alfredo Mantovano, ex sottosegretario all’Interno, che in Aula ha difeso l’emendamento: «Non vogliono questa norma? Ne scrivano una migliore. Ad esempio un disegno di legge organico al quale possa essere assicurata una corsia preferenziale. Il governo dia seguito alla pronuncia di una larga parte della maggioranza che sostiene l’esecutivo». Il Guardasigilli è nel mirino del Pdl, dove non sono passate inosservate le sue ultime nomine. Dopo la scelta di due esponenti di Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell’Anm, per le poltrone di capo di gabinetto e capo degli ispettori di via Arenula, Filippo Grisolia e Stefania Di Tomassi, il consiglio dei Ministri potrebbe rimuovere Franco Ionta dal vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Al suo posto, Severino è pronta a proporre la nomina di Giovanni Tamburino, presidente del tribunale di sorveglianza del Lazio. Negli anni Ottanta, Tamburino è stato tra i fondatori del “Movimento per la giustizia”, altra corrente di sinistra delle toghe.

LA STORIA

Il Partito Radicale, il Partito liberale italiano e il Partito socialista italiano, presentavano nel 1987 la richiesta di tre referendum per ottenere la responsabilità civile dei magistrati, come risposta ai sempre più frequenti problemi della giustizia.

Tra i principali protagonisti che in quegli anni si battevano per la riforma della giustizia vi era Enzo Tortora, conduttore televisivo accusato sulla base di alcune dichiarazioni di pentiti di essere colluso con la camorra e il traffico di stupefacenti, rivelatesi successivamente false. La lunga detenzione del conduttore, e la successiva elezione nelle liste Radicali che sosteneva le sue battaglie politiche, contribuiva ad alimentare la discussione pubblica nel paese e nei mezzi di comunicazione circa la situazione della giustizia italiana.

L'appello radicale per la riforma della giustizia veniva sottoscritto anche da molti magistrati: «L’otto novembre gli italiani sono chiamati ad esprimersi su due aspetti particolarmente rilevanti della crisi della giustizia. Di fronte a insensibilità politiche e a resistenza corporative, i referendum sulla giustizia rappresentano un’occasione unica offerta ai cittadini per riaffermare fondamentali principi dello stato di diritto, abolire anacronistici privilegi e irresponsabilità e rivendicare improrogabili riforme. Lo strumento referendario restituisce così la parola ai cittadini. Non è più accettabile che i magistrati che, per colpa grave, abbiano danneggiato un cittadino non siano chiamati a risponderne dinnanzi ad un loro collega. Introducendo la responsabilità civile dei magistrati per colpa grave (grave negligenza, grave imperizia, gravi omissioni) non si intacca ma si riafferma la loro autonomia ed indipendenza. Abrogando i poteri istruttori della commissione inquirente per i reati dei ministri si eliminano inammissibili impunità. Noi voteremo SI ed invitiamo a votare SI perché anche politici e magistrati rispondano, come ogni cittadino, di fronte alla legge».

I referendum abrogativi dell'8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei «si».

Dopo la scelta degli italiani circa la responsabilità civile dei giudici, il Parlamento approvava la cosiddetta «legge Vassalli» (votata da Pci, Psi, Dc), che, secondo i Radicali, si allontanava decisamente dalla decisione presa dagli italiani nel referendum, facendo ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sullo stesso, ma solo entro il limite di un terzo di annualità dello stipendio.

 

totale

percentuale (%)

 

Iscritti alle liste

45 870 931

 

 

Votanti

29 866 249

65,10

(su n. elettori)

Quorum raggiunto

Voti validi

25 896 355

86,70

(su n. votanti)

 

Voti nulli o schede bianche

3 969 894

13,30

(su n. votanti)

 

Astenuti

16 004 682

34,90

(su n. iscritti)

 

 

 

Voti

 %

RISPOSTA AFFERMATIVA

20 770 334

80,20%

RISPOSTA NEGATIVA

NO

5 126 021

19,00%

bianche/nulle

 

3 969 894

 

Totale voti validi

 

25 896 355

100%

 

 

 

 

 

 

 

 

LA LEGGE

"Art. 11 C.P.P. (Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati).

1.                             I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge.

2.                             Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 il magistrato stesso é venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.

3.                             I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato sono di competenza del medesimo giudice individuato a norma del comma 1".

"Art. 30-bis C.P.C. (Foro per le cause in cui sono parti i magistrati). Le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale.

Se nel distretto determinato ai sensi del primo comma il magistrato è venuto ad esercitare le proprie funzioni successivamente alla sua chiamata in giudizio, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello individuato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale con riferimento alla nuova destinazione".
"Spostamenti di competenza per i procedimenti penali nei quali un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato. 

Tabella A
 

Dal distretto di

Al distretto di

ROMA

PERUGIA

PERUGIA

FIRENZE

FIRENZE

GENOVA

GENOVA

TORINO

TORINO

MILANO

MILANO

BRESCIA

BRESCIA

VENEZIA

VENEZIA

TRENTO

TRENTO

TRIESTE

TRIESTE

BOLOGNA

BOLOGNA

ANCONA

ANCONA

L'AQUILA

L'AQUILA

CAMPOBASSO

CAMPOBASSO

BARI

BARI

LECCE

LECCE

POTENZA

POTENZA

CATANZARO

CAGLIARI

ROMA

PALERMO

CALTANISSETTA

CALTANISSETTA

CATANIA

CATANIA

MESSINA

MESSINA

REGGIO CALABRIA

REGGIO CALABRIA

CATANZARO

CATANZARO

SALERNO

SALERNO

NAPOLI

NAPOLI

ROMA

Il testo vigente dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante: "Risarcimento di danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati", come modificato dalla legge 420/98 , é il seguente: "Art. 4 (Competenza e termini).

1.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente é il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

2.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si é verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l'azione é esperibile.

3.                  L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si é concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si é verificato.

4.                  Nei casi previsti dall'art. 3 l'azione deve essere promossa entro due anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza.

5.                  In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio non abbia avuto conoscenza del fatto".

Il testo vigente dell'art. 8 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117, come modificato dalla legge 420/98, é il seguente: "Art. 8 (Competenza per l'azione di rivalsa e misura della rivalsa).

1.                  L'azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

2.                  L'azione di rivalsa deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

3.                  La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta, anche se dal fatto é derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.

4.                  Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa é calcolata In rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa é calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta".

LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE

ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma

Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione

Responsabilità Civile e Tutela Legale

(si prega di scrivere in stampatello)

Il sottoscritto_________________________________________________________________________________

Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________

Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________

Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:

Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________

Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________

Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza

Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:

a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.

Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.

_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma

CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: I MAGISTRATI RESPONSABILI ANCHE PER COLPA SEMPLICE

Sussiste la responsabilità dei magistrati per colpa semplice secondo la Corte di Giustizia europea.

Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi dello Stato è regolato dalla legge.

L’art. 3 della Costituzione esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti.

Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio o lesioni o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc.

L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche.

Al dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno riconosciuto.

Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati.

I magistrati sono liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona.

I magistrati sono liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per calunnia e diffamazione.

Al cittadino, che per anni ha subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto prosciolto, ovvero da vittima del reato ha visto il reato prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi.

C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni.

Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:

«1.      Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.

2.      Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

3.      Costituiscono colpa grave:

a)             la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b)            l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

b)             la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c)             l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria».

Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione di cui esso fa parte.

Se, come da molti è considerato, il magistrato è dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente.

Per il diniego di giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa, l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità di chi amministra la giustizia, ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia.

I magistrati devono meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini unti dal signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad equilibrare gli interessi in campo.

L’azione di rivalsa opera solo in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità dello Stato e ricade sulle spalle del cittadino.

La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati, e, con essa, il mancato utilizzo dell’art. 234 CE, attraverso la SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) del 13 giugno 2006:

«Responsabilità extracontrattuale degli Stati membri – Danni arrecati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado – Limitazione, da parte del legislatore nazionale, della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice – Esclusione di ogni responsabilità connessa all’interpretazione delle norme giuridiche e alla valutazione degli elementi di fatto e di prova compiute nell’ambito dell’esercizio dell’attività giurisdizionale»

Nel procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa

Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica italiana.

La sentenza, di seguito acclusa, si inquadra in un risalente filone nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva inoltre rifiutato di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

<Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.

Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler>  

A questo punto non si può pretendere che il cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.

LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE E CIVILE DEI MAGISTRATI

LA SENTENZA 13 GIUGNO 2006 DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL LUSSEMBURGO: LA LEGGE 117/88 VIOLA I PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO COMUNITARIO, NELLA PARTE IN CUI LIMITA ARBITRARIAMENTE L'AMBITO DELLA RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI.

CONVINTA ADESIONE DEI PRIMI AUTORI DELLA DOTTRINA.

La più autorevole, fra le conferme alle nostre tesi, non può che provenire dalla recentissima Sentenza 13 giugno 2006 resa dalla più alta magistratura esistente nell'ordinamento comunitario europeo, vale a dire dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. del Lussemburgo.

La pronunzia, integralmente pubblicata su www.aziendalex.kataweb.it/, oltre che (sempre integralmente) sui settimanali giuridici ""Diritto e Giustizia"" fasc. 29/2006, pagg. 105 segg., e ""Guida al Diritto"", fasc. nr. 4 / 2006 <>, pagg.30 - 39, si caratterizza per l'affermazione, netta e categorica, dei seguenti principi di diritto, assolutamente dirimenti a favore della dimostrazione della fondatezza delle tesi qui sostenute:

I. Gli Stati membri dell'U.E. rispondono a titolo extracontrattuale del danno patito dai singoli, in conseguenza di violazioni manifeste del diritto comunitario compiute dagli organi giurisdizionali, quand'anche tali violazioni derivino dall'attività di interpretazione delle norme o di valutazione dei fatti e delle prove;

II. Per stabilire quando una violazione del diritto comunitario debba ritenersi manifesta "" si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.234, terzo comma, del Trattato C.E., ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia "" (così il punto 43. della sentenza 13 giugno 2006); su questo punto, inoltre, il massimo giudice europeo conferma le precedenti sue statuizioni, rese a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C - 6 / 90 e C - 9 / 90 ricorrenti ""Francovich ed altri"", e poi dalla sentenza 5 marzo 1996 cause riunite C - 46 / 93 e C - 48 / 93, e in ultimo dalla la sentenza 30 settembre 2003 causa C - / 224 / 01 ricorrente ""Kobler"";

III. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto comunitario.

I primi commenti della dottrina si registrano in termini di grande interesse ed enfasi.

TOGHE MAFIOSE, EVERSIVE E SOVVERSIVE

DE MAGISTRIS: COLLUSIONE MAFIA, ISTITUZIONI, ECONOMIA E POTERI OCCULTI.

Una parte rilevante della magistratura calabrese non è affatto estranea al sistema criminale che gestisce affari in Calabria.

Lo ha detto Luigi De Magistris, giudice del Riesame di Napoli, in un’intervista a Sky Tg24 del 18 ottobre 2008. E ha continuato: «Senza una parte della magistratura collusa, la criminalità organizzata sarebbe stata sconfitta. E il collante in questo sistema sono i poteri occulti che gestiscono le istituzioni. Io stavo indagando su questo fronte e ritengo che uno dei motivi principali del fatto che io sia stato allontanato dalla Calabria risiede proprio in questi fatti».

Luigi De Magistris ha perso il 16 settembre 2008 il suo incarico da pubblico ministero della Procura di Catanzaro per assumere quello di giudice del riesame a Napoli. A chiedere il trasferimento di De Magistris era stato l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, circa presunte irregolarità da parte del pm nella gestione delle inchieste Why Not, Poseidone e Toghe Lucane. Solo gli atti di quest’ultima erano rimasti a De Magistris, mentre Why not fu avocata dalla Procura generale e la delega per Poseidone gli fu tolta dall’allora procuratore di Catanzaro, Mariano Lombardi.

Il Csm, al termine del procedimento, accogliendo solo in parte le richieste della Procura generale, ha deciso nel gennaio scorso la sanzione della censura ed il trasferimento di sede e di funzioni per il magistrato. Al magistrato, tra l’altro, erano stati contestati due provvedimenti «abnormi»: quello con cui aveva disposto che i nomi di due suoi indagati fossero chiusi in un armadio blindato e il decreto di perquisizione nei confronti di un magistrato di Potenza, in cui si riferivano fatti «non pertinenti come la relazione extraconiugale tra due magistrati». Per i prossimi tre anni De Magistris non potrà svolgere la funzione di pm.

Si è aperto un conflitto dagli esiti imprevedibili tra i magistrati di Salerno e quelli di Catanzaro: dopo il sequestro e le perquisizioni ordinati dalla Procura di Salerno a danno dei loro colleghi della Procura Generale e della Procura di Catanzaro è, infatti, scattata un'analoga azione nel capoluogo calabrese. Ma la questione Salerno-Catanzaro è diventato un enorme e senza precedenti caso nazionale che ha visto protagonisti il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il vicepresidente del Csm Nicola Mancino.

Il Capo dello Stato ha chiesto alla Procura di Salerno ed a quella di Catanzaro la trasmissione di "ogni notizia e - ove possibile - ogni atto utile a meglio conoscere una vicenda senza precedenti", le perquisizioni e il sequestro degli atti delle inchieste Why Not e Poseidone, al centro dell'attuale battaglia giudiziaria, inchieste che aveva all'inizio Luigi De Magistris, poi avocate e revocate. L'iniziativa decisa dalla procura calabrese "ha introdotto - secondo una nota del Quirinale - elementi di ulteriore, grave preoccupazione sul piano delle conseguenze istituzionali, configurando un aperto, aspro contrasto tra Uffici giudiziari".

Il Vice presidente del Csm, Nicola Mancino, è invece citato da De Magistris per una telefonata fatta ad Antonio Saladino, il principale indagato dell'inchiesta Why Not. Oggi Mancino, dopo aver precisato che quella telefonata fu fatta da un collaboratore del suo studio, si è detto pronto a lasciare il suo incarico. "Se una campagna di stampa - ha detto Mancino - dovesse incidere sulla mia autonomia, non esiterei a togliere l'incomodo". A Mancino hanno espresso solidarietà i componenti del Csm, secondo i quali gli attacchi al vicepresidente mirano a "colpire tutti noi" ed esponenti politici dei due schieramenti.

In una intervista a "Il Foglio", del 5 dicembre 2008, il Guardasigilli definisce lo scontro tra le due procure la dimostrazione che "siamo all'implosione di un ordine giudiziario, che non solo si trasforma in potere ma pretende anche di non incontrare limiti".

Ma è nel merito della vicenda che la guerra tra le due procure è aspra e non risparmia i magistrati di Salerno, sette in tutto, in testa il procuratore Luigi Apicella, che ora sono indagati per i reati di abuso e interruzione di pubblico ufficio. L'azione giudiziaria avviata dalla procura generale di Catanzaro è, secondo il procuratore Enzo Jannelli, una reazione ad un "provvedimento eversivo e finalizzato alla destabilizzazione di una istituzione dello Stato".

Mentre negli uffici giudiziari di Catanzaro l'attività diventava così frenetica, con un susseguirsi di incontri tra magistrati e carabinieri, a Salerno la notizia del sequestro e dell'indagine è stata appresa con sorpresa. Il commento del procuratore campano, Luigi Apicella, è secco e perentorio. "Non dico nulla - ha detto - non commento. La situazione è molto delicata direi delicatissima. Non abbiamo nulla da dire".

"Siamo sgomenti e preoccupati, ciò che è in gioco è la credibilità della funzione giudiziaria". E' quanto dichiarano il presidente e il segretario dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara e Giuseppe Cascini, in merito alla 'guerra' tra le procure di Catanzaro e Salerno sul caso De Magistris.

Che sia un caso «senza precedenti» lo ha scritto il Segretario generale del Quirinale, Donato Marra, nella lettera al Procuratore generale presso la Corte d'appello di Salerno. E «senza precedenti» è anche l'iniziativa di Giorgio Napolitano, che per ben due volte è intervenuto nella guerra tra Procure non in veste di Presidente del Csm, ma come Presidente della Repubblica, garante del buon funzionamento della giurisdizione e della sua «indefettibilità» sancita dalla Corte costituzionale. Il sequestro dell'inchiesta Why not da parte dei magistrati salernitani è un caso «con gravi implicazioni istituzionali» e la successiva reazione dei magistrati di Catanzaro, che hanno sequestrato gli atti sequestrati e iscritto nel registro degli indagati i colleghi di Salerno, conferma che è in atto un «aperto, aspro contrasto tra Uffici giudiziari». Il Capo dello Stato è «gravemente preoccupato» per il rischio, più che concreto, che il processo resti paralizzato sine die.

Il punto è che, già con il sequestro disposto dalla Procura di Salerno, gli atti di indagine rischiano di diventare pubblici prima del tempo. E questa è una delle tante anomalie di una vicenda che «ha mandato in tilt» il sistema giurisdizionale, spiegano al Colle. Si è verificato un corto circuito istituzionale per cui un processo è stato, di fatto, bloccato.

La vicenda, oltre che inquietante, è diventata surreale e grottesca. Salerno indaga sulle toghe di Catanzaro e sequestra l'inchiesta Why not (nessuna delle due Procure può proseguire le indagini); Catanzaro sequestra gli atti sequestrati e indaga sui colleghi salernitani; per motivi di competenza, l'inchiesta dovrebbe finire a Napoli dove, però, c'è Luigi De Magistris, parte offesa nel procedimento aperto a Salerno, per cui gli atti potrebbero dirigersi nella capitale... Ma se in questo bailamme ci fossero dei detenuti, che fine farebbero? A chi dovrebbero rivolgersi? Possibile che non ci fossero altri strumenti per acquisire le carte? È vero o no che Salerno aveva chiesto copia degli atti a Catanzaro e la risposta è stata negativa perché erano coperti da segreto? Oppure il rifiuto non stava in piedi?

Giovedì 4 dicembre 2008. È una data da annotarsi perché sotto questa luna la magistratura, come ordine (potere) dello Stato, autonomo e indipendente da qualsiasi altro potere, raggiunge il punto più basso del suo prestigio istituzionale; livelli infimi di attendibilità, di rispetto di se stessa, di ossequio alle regole.

Si infligge da sola, come in preda a una follia autodistruttiva, un'umiliazione che lascerà tracce durevoli. Coinvolge nella mischia, ingaggiata irresponsabilmente da due procure (Salerno, Catanzaro) anche il capo dello Stato. Giorgio Napolitano chiede notizie e, se non segreti, atti dell'inchiesta che i due uffici, come bambini prepotenti e irresponsabili, si sequestrano e controsequestrano accusandosi reciprocamente di reato.

Non c'è nessuno che si salva in questa storia, da qualsiasi parte si guardi. La procura di Salerno indaga, su denuncia di Luigi De Magistris, sugli ostacoli che hanno impedito al magistrato di concludere le inchieste Why Not e Poseidone. Mette sotto accusa i procuratori di Catanzaro; il procuratore generale della Cassazione che ha promosso il provvedimento disciplinare contro De Magistris; il sostituto procuratore generale che ha sostenuto l'accusa al palazzo dei Marescialli; il vicepresidente del consiglio superiore e, nei fatti, l'intero Consiglio.

Con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine porta via da Catanzaro i fascicoli delle inchieste ancora in corso. La procura di Catanzaro replica che l'iniziativa è "un atto eversivo". Mette sott'inchiesta, a sua volta, le toghe di Salerno per abuso d'ufficio e interruzione di pubblico servizio e si riprende i fascicoli. Il Presidente della Repubblica, dinanzi all'inerzia di una procura generale della Cassazione, si muove. Con un'iniziativa senza precedenti e, secondo alcuni addetti impropria, chiede a Salerno notizie utili sull'inchiesta (contro Catanzaro) e più tardi lo stesso fa con Catanzaro (contro Salerno).

Sono ore di smarrimento per chi ha fiducia nella funzione giudiziaria. Un ufficio essenziale dello Stato di diritto pare affidato a bande che si fanno la guerra in modo così estremo e furioso da coinvolgere anche l'arbitro. Del tutto irresponsabilmente, stracciano ogni apparenza di decoro, di leale collaborazione istituzionale, ogni traccia di rispetto delle regole e delle sentenze già scritte. Un cittadino non può che pensare che la sua libertà personale, i suoi beni, la sua reputazione sono affidati a una consorteria scriteriata e incosciente. Non può che prendere atto che il "potere diffuso" della giurisdizione è fallito come si è rivelato una rovina la gerarchizzazione degli uffici. Non può che concludere che la magistratura (per l'imprudenza o l'arroganza di pochi) appare non consapevole che autonomia e indipendenza si declinano con responsabilità o si perdono per sempre.

FINANCIAL TIMES: «IN ITALIA LE TOGHE PIÙ POTENTI DELL'OCCIDENTE»

Scrive il quotidiano: in Italia «i giudici hanno raggiunto un livello di potere unico in Occidente», esercitando una sorta di «reggenza giudiziaria» sugli eletti dal popolo. Un potere che, secondo il Financial Time, è «a lungo andare, dannoso per la democrazia» e che costituisce tra l'altro «uno dei motivi per i quali gli italiani non hanno più fiducia nella magistratura».

Dizionario Garzanti della lingua italiana: «Sovversivo è colui che mira a sovvertire un ordinamento politico e sociale, essendo animato da un disordinato intento di ribellione più che da chiare idee rivoluzionarie».

E che dire di un magistrato che dichiara pubblicamente di non sentirsi obbligato ad applicare una legge dello Stato, qualora la ritenga ingiusta?

Il caso porta il nome di Adriano Sansa, presidente del tribunale dei minori del capoluogo ligure. In un commento sulla Stampa il magistrato ha confessato i turbamenti interiori prodotti dall’emendamento «blocca processi» appena varato. Chiude l’intervento con un inquietante «non so se potrò obbedire». É questa l’inevitabile conclusione di un ragionamento che parte da un assunto a dir poco partigiano: «Una sorta di padrone tiene il posto del primo ministro - scrive Sansa -, piega il Parlamento al proprio volere e si libera della giustizia. Nel complesso ci si trova di fronte a una lesione ripetuta e grave delle regole fondamentali della Repubblica». E così il magistrato non può che far suo il triplo «resistere» dell’ex procuratore di Milano Saverio Borrelli e senza giri di parole sostenere che i magistrati «non possono obbedire a leggi fatte per elevare al rango di padrone dei concittadini un solo cittadino e la sua corte di servitori». Parole gravissime per un magistrato, che però non suscitano la minima reazione nell’Anm. Va ricordato che Sansa non è nuovo a uscite del genere. In una intervista nel 2004 definì l’allora esecutivo di centrodestra uno «squallido, pessimo governo», ovvero «brutta gente».

Ma il suo non è certo un caso isolato tra i magistrati, per quanto ancora più esplicito, rispetto a una costante azione politica tesa a respingere leggi sgradite, attaccandosi a cavilli o dubbi di incostituzionalità. Per citare ancora Borrelli, fu sempre lui nel 2001 a dire pubblicamente che il tribunale di Milano avrebbe cercato di neutralizzare sul piano interpretativo i «guasti» legati alle nuove norme internazionali sulle rogatorie. Tanto che il ministro della giustizia Castelli minacciò l’invio degli ispettori a Milano per verificare se ci fossero magistrati che non applicavano la legge.

Una stagione di tensioni cominciata con Mani pulite, e che vide nel 1994 proprio il pool milanese protagonista di un fatto inedito. Quando i quattro magistrati, con Di Pietro come portavoce ufficiale, andarono davanti alle telecamere per prendere pubblicamente posizione contro il decreto Biondi sulla riduzione dei termini della carcerazione preventiva.

Ancora più recentemente, sulla stessa scia, il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro ha sparato contro la riforma della giustizia dichiarando serenamente che anche se fosse diventata legge, per lui sarebbe cambiato poco: «Sono proprio curioso di vedere che sanzioni vorranno infliggermi».

Le polemiche del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro una parte della magistratura vanno avanti da anni. Ecco un riepilogo delle 'esternazioni' più recenti:

25 febbraio 2006 - In un comizio a Milano Berlusconi annuncia che vuole restare in politica fino alla separazione delle carriere dei magistrati e aggiunge: "Giudici e Pm fanno la stessa carriera, bevono lo stesso cappuccino, leggono la stessa 'Repubblica' e 'Unita'".

11 marzo 2006 - Dopo la richiesta di rinvio a giudizio per la vicenda Mills, Berlusconi dichiara:"Ogni volta che ci avviciniamo al voto, torna la giustizia a orologeria (...) Anche per quanto mi riguarda sono sicuro che non si riuscirà a dimostrare nulla di rilevante. E' tutta una cosa che si ferma a questo avvocato, l'ho giurato sulla testa dei miei figli".

21 marzo 2006 - A Sky Tg24, rispondendo a una domanda sugli imprenditori che accusa di avere scheletri nell'armadio, dice:"Tutto quello che riguarda la sinistra viene puntualmente insabbiato da quel cancro della democrazia italiana che è la politicizzazione della magistratura".

5 aprile 2006 - In un'intervista a RTL 102.5 sulla vicenda Mills, Berlusconi dice che "i rappresentanti della magistratura comunista nei miei confronti hanno svolto una persecuzione, mai fatta nei confronti di nessun altro leader politico".

16 maggio 2006 - Nel giorno delle consultazioni per la formazione del governo Prodi, Berlusconi dichiara:"Eh...la magistratura politicizzata...fa male vedere squadre di gente che inventa cose a danno dello Stato e della collettività...ma mi toglierò la soddisfazione di dire a queste persone cosa penso di loro...".

12 dicembre 2007 - Dopo la notizia dell'inchiesta della Procura di Napoli per corruzione, Berlusconi dichiara:"C'é odore di elezioni e di campagna elettorale e subito l'armata rossa della magistratura si rimette in moto".

9 gennaio 2008 - In un'intervista al Corriere della Sera, Berlusconi dice che "il problema grave è costituito da quei magistrati che usano il loro potere non a fini di giustizia ma a fini di lotta politica".

1 aprile 2008 - A Radio 24, durante la campagna elettorale, il leader Pdl dice che "per risolvere la grande palla al piede del paese, quella della giustizia, c'é bisogno di una grande riforma (...) altrimenti non si riuscirà a vincere questo potere dello Stato che, non è un caso che uso la parola potere, non è più solo un ordine".

8 aprile 2008 - In un comizio a Savona, Berlusconi dice che "il Pubblico accusatore dovrebbe essere sottoposto periodicamente ad esami che ne attestino la sanità mentale".

16 giugno 2008 - Parlando dell'emendamento al decreto sicurezza Berlusconi dice:"I miei legali mi hanno informato che tale previsione normativa sarebbe applicabile ad uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me per fini di lotta politica".

COSSIGA: TOGHE MAFIOSE E SOVVERSIVE

Signor Presidente,
mi permetto di scriverLe questa lettera aperta, da ex-capo dello Stato a Capo dello Stato in carica: e so bene quanto siano limitati i poteri del cosiddetto Supremo Magistrato della Repubblica, anche e soprattutto nella sua funzione ormai soltanto, per dirla alla francese, "di tribuna e messaggio". Le scrivo rivolgendomi soprattutto al presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che all'ex-presidente della Camera dei Deputati.

Da "liberale", sono per la più ampia libertà di associazione e per la più ampia libertà di critica, libertà senza le quali non vi può essere un regime di libertà. L'Associazione Nazionale Magistrati non è però un'associazione di cittadini qualunque: essa è quell'associazione - ormai diventata per debolezza delle istituzioni democratiche e della politica una potente lobby politico-sindacale di carattere quasi eversivo -, che raccoglie giudici e pubblici ministeri, cioè coloro che in pratica dicono, al di là ed anche fuori della volontà del Parlamento, che cosa sia legge e che cosa legge non sia. Addirittura, decidono in pratica quasi ciò che sia giusto e giusto non sia, spesso dilettandosi a riscrivere la storia, dettare giudizi morali e politici, e perfino osando trasferire gli stessi in aberranti richieste, ordinanze e sentenze.

Essi costituiscono nell'esercizio e per l'esercizio delle loro funzioni un "ordine indipendente", ma non un "potere", perché essi non sono espressione della sovranità popolare come il Parlamento e il Governo. Cosa che ebbe giustamente e saggiamente a riconoscere all'Assemblea Costituente il "grande leader" del Partito Comunista Italiano, onorevole Palmiro Togliatti, opponendosi a che la magistratura fosse definita un "potere", "perché potere è solo ciò che emana dal popolo sovrano.

Una lobby forte nella politica debole. A ben vedere infatti, si tratta, secondo il nostro ordinamento, di una categoria speciale di funzionari dello Stato, nominati per concorso - concorso che spesso è soltanto una forma di cooptazione familiare o clientelare. Siamo di fronte a una categoria molto ben pagata e in buona parte con assai poca voglia di lavorare e di rendere giustizia ai cittadini, cosa che risponderebbe alle proprie funzioni, e invece carica di molta e disordinata voglia di fare politica!

Con rispetto e amicizia. FRANCESCO COSSIGA

«Totò Cuffaro è stato condannato per un reato ridicolo». Ne è convinto il presidente emerito Francesco Cossiga, elettrizzato dallo scontro tra politica e magistratura che gli sta ispirando una lettera al presidente della Repubblica al quale chiede di abolire il Csm e sciogliere l`Anm come associazione sovversiva.

Perché definisce l`accusa a Cuffaro ridicola? «Quella vera era l`appoggio esterno alla mafia. Non l`hanno potuto condannare per quella e si sono inventati questa».

Fare favori ai mafiosi non è altrettanto grave? «In nessun Paese è reato dire a qualcuno: "tu hai il telefono sotto controllo". Ma stiamo scherzando?».

Ma le intercettazioni servivano all`indagine.

«Le intercettazioni hanno ormai il posto che avevano prima i pentiti. Ma i primi mafiosi stanno al Csm».

Sta scherzando? «Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la Dna e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui usci dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al`ministero della Giustizia».

E` contro i giudici anche nel caso Mastella? «Se in un altro Paese avessero arrestato quasi un intero partito e la moglie e il suocero del ministro della Giustizia avrebbero subito arrestato i giudici. Mi aspettavo che Forza Italia e Silvio Berlusconi sferrassero un duro attacco ai magistrati. Invece l`ordine di Silvio è stato: "Zitti e muti non mettiamo in imbarazzo l`amico Veltroni"».

Perché accusa di eversione Anni e Csm? «19 membri della più potente lobby politica chiedono che venga convocato il braccio secolare per censurare le dichiarazioni di un ministro e di un senatore. Per molto meno io mandai i carabinieri al Csm».

Lo scambio di favori e nomine non è da censurare? «La politica è trattativa. Alla disciplinare del Csm non trattano ("se mi condanni questo non ti assolvo quello")? Era così quando ero presidente. E credo che ora sia peggio».

Luigi de Magístris però è stato trasferito.

«Lui ha fatto un`imprudenza. Che facciamo, indaghiamo sul presidente del Consiglio di sinistra?».

FABRIS: MAGISTRATURA EVERSIVA

Sulla questione giustizia l'Udeur chiede l'intervento del Capo dello Stato.

"Chiediamo - ha detto stasera il capogruppo alla Camera, Fabris - al capo dello stato di intervenire in occasione del plenum del Csm l'8 febbraio con parole chiare perché quello che sta accadendo è di una gravità inaudita".

"Non si può - ha concluso Fabris - usare la clava della giustizia per finalità eversive come sta avvenendo in Campania da parte di un pezzo di magistratura".

TOGHE ROTTE. MAGISTRATURA, UN'ALTRA CASTA.

Un blog per i «ribelli» che propongono: non votiamo alle elezioni dell'Anm: «Magistrati, un'altra casta». L'accusa di Tinti, procuratore a Torino: «Così le correnti si dividono i posti. Il merito non conta».

«È accaduto nella magistratura qualcosa di molto simile a ciò che è accaduto all'esterno, nei palazzi della politica. Gruppi legittimi ma di natura privata, cioè le correnti, decidono su un bene pubblico, la giustizia, proprio come i partiti fanno nelle istituzioni». Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino, uno dei magistrati italiani più esperti sul fronte della lotta ai reati finanziari, traccia nel suo libro fresco di stampa («Toghe rotte», per Chiarelettere, prefazione di Marco Travaglio) un affresco inquietante dei meccanismi che regolano l'autogoverno della sua categoria. Quei meccanismi che avrebbero dovuto preservarne l'autonomia dai «poteri forti» e che, invece, l'hanno trasformata in una Casta, con i propri rituali, i propri compromessi e le proprie spartizioni. E che ora suscitano polemiche all'interno della stessa magistratura, dando vita a nuovi gruppi e a una proposta- choc, l'astensione, in novembre, alle prossime elezioni dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato che rappresenta il 93% dei giudici italiani. C'è anche un blog (www.toghe.blogspot. com), al quale lo stesso Tinti partecipa, che racconta il malessere per «il male che le toghe fanno a se stesse».

LA LOTTIZZAZIONE — «Praticamente tutti i posti di potere sono ormai lottizzati dalle correnti - scrive Tinti - . Il sistema funziona più o meno così: a fare il presidente del Tribunale di Roncofritto ci mandiamo Michele, che è dei Gialli, così loro ci votano Luigi, che è dei nostri, a procuratore di Poggio Belsito. Alle prossime elezioni del Csm possiamo quindi candidare Carmelo…». Tinti descrive nei dettagli il funzionamento dei Consigli Giudiziari, i piccoli Csm regionali che a loro volta «pre-selezionano » i magistrati che poi il Consiglio superiore della magistratura dovrà scegliere per gli incarichi direttivi. «I candidati contattano i loro santi protettori… Le lodi si sprecano, ogni corrente sostiene il suo candidato, che certe volte è espertissimo e altre non ha mai ricoperto quel ruolo ma è proprio quello che si vuole, talvolta è il più anziano talvolta il meno anziano ma molto più bravo, e così via», spiega il magistrato torinese. E sul blog si trova il resto.

I RITARDI DEL CSM — A cominciare dalle parole di Mario Fresa, presidente della Commissione trasferimenti del Csm: «L'irragionevole durata delle pratiche del Csm nei concorsi si riverbera sulla irragionevole durata dei processi». Fresa cita il caso dei posti, rimasti a lungo scoperti, al Massimario della Cassazione (è l'ufficio che raccoglie le sentenze della Corte: in genere ci finiscono magistrati giovani, studiosi e appoggiatissimi da una corrente): «È parso evidente che le che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall'esame dei profili professionali… Il metodo che veniva seguito era quello della spartizione correntizia». C'è poi la proposta - citata e criticata sempre da Fresa - di assegnare nove posti di sostituto procuratore generale presso la Cassazione «secondo una sorta di favore ingiustificato a coloro che hanno ricoperto incarichi associativi (cioè a chi ha rappresentato le correnti, ndr) .

LO SFOGO ONLINE — Sul blog i magistrati si sfogano e ragionano a voce alta: «Molti di noi immaginano - ha scritto Pierluigi Picardi, consigliere di Corte d'Appello a Napoli - che se essi lavorano in maniera pazzesca sia così un po' ovunque o credono che i casi di incapacità organizzativa o sfaticatezza siano marginali ma le cose non stanno così. Certi casi come quello di Bari dove un magistrato ha ritardi nel deposito delle sentenze anche di quattro anni ed è ancora al suo posto, non sono frequentissimi, ma se non riusciamo a colpire le situazioni più evidenti come si può immaginare di affrontare con rigore la normalità?». E ancora: «Il Csm non è in grado di decidere nemmeno su un caso clamoroso come quello di padre e figlio rispettivamente procuratore aggiunto e avvocato penalista; potrei continuare parlandovi di un Tribunale nel quale in un anno il collegio ha deciso 8 (dico otto) cause penali in tutto».
Nel giugno scorso, dieci sostituti procuratori generali di Roma hanno rivolto un appello al vicepresidente del Csm, il senatore Nicola Mancino, sul modo nel quale si intendevano nominare un procuratore aggiunto e un sostituto procuratore generale nella loro città: «La discrezionalità del Consiglio si va mutando in inaccettabile arbitrio».

L'AMMISSIONE. Antonio Patrono, membro del Csm e segretario generale di Magistratura Indipendente, la corrente «di destra», ha poi riassunto così le posizioni sulla lottizzazione interna: «Noi sosteniamo che il correntismo esiste ed è un problema da risolvere tutti insieme; Magistratura Democratica e il Movimento per la Giustizia (la «sinistra» e i «Verdi», ndr) sostengono che esiste ma loro ne sono immuni e riguarda solo gli altri; Unità per la Costituzione (il «centro», ndr) sostiene che forse nemmeno esiste e comunque non è un problema… ».

«COLLEGHI, NON VOTATE» — Sul blog dei «ribelli», nasce così una proposta che non ha precedenti nella storia della magistratura: astenersi in massa dal voto per il Consiglio direttivo dell'Associazione, che sarà rinnovato tra poco più di un mese, il 12 e 13 novembre. Come scrive Stefano Racheli, sostituto procuratore presso la Corte d'Appello di Roma, «una contestazione forte», capace di «rompere col sistema» e di far sentire la voce di una base non più divisa in correnti ma organizzata «come una rete, da persone che non appartengono a nessuno e che non vogliono creare nuove appartenenze ». È presto per dire quanti accoglieranno l'appello. Ma, certo, mai come ora le vecchie correnti (e anche quelle più recenti, come «Movimento per la giustizia» e «I Ghibellini - Articolo 3») appaiono in discussione.

SERIE A E SERIE B — Le correnti e i mali interni della magistratura non sono l'unico oggetto del lavoro che Bruno Tinti ha scritto con la collaborazione di tre, anonimi colleghi. La depenalizzazione del falso in bilancio e la constatazione che la maggior parte dei procedimenti per reati finanziari non possono nemmeno cominciare o si concludono con la prescrizione occupa un capitolo chiave: «Oggi in prigione finiscono solo i poveracci e qualche spacciatore di droga, per poco tempo, e i magistrati come me rischiano la disoccupazione». «E non c'è alcuna differenza tra un governo e un altro - conclude il procuratore torinese - . Da Mani Pulite in poi, la preoccupazione è stata una sola: rendere non punibile la classe dirigente di questo paese».

TOGHE ROSSE

Lo abbiamo visto partecipare ai convegni di partito, stringere la mano al presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenire alla manifestazione dell'Idv di Di Pietro e Travaglio contro il bunga bunga per sbeffeggiare Berlusconi, sedersi sullo scranno di Annozero insieme con Ciancimino, parlare dal palco delle festa bolognese della Fiom. E il dubbio che il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia fosse, diciamo così, "di parte" era balenato nella mente. Ma poi questo dubbio si scontrava con le rassicurazioni e le dichiarazioni dello stesso pm che ha più volte sottolineato come “agli occhi del cittadino il magistrato non soltanto deve essere imparziale ma deve anche apparirlo”.

Ma quando poi sempre lo stesso pm ammette la sua vera inclinazione politica, ecco che ogni dubbio viene spazzato. Il palco dal quale arriva la confessione è quello di Rimini, precisamente quello del VI Congresso nazionale del comunisti italiani. E’ il 30 ottobre 2011.

Ingroia fa il suo comizio. Dichiara che «siamo in una fase critica. Le parti migliori della società devono impegnarsi dentro e fuori le istituzioni per realizzare un’Italia migliore. La magistratura deve essere autonoma e indipendente. La politica deve essere ambiziosa: deve fare la sua parte. C’è tanta stanchezza fra gli italiani. La politica con la ’p’ minuscola chiede alla magistratura di fare un passo indietro. C’è bisogno invece di una politica con la ’p’ maiuscola. Senza verità non c’è democrazia. Fino a quando avremo verità negate avremo una democrazia incompiuta. Legalità senza sconti per nessuno, in armonia con i principi costituzionali. Abbiamo bisogno di eguaglianza. Un’Italia di eguali contro un’Italia di diseguali. - E poi ancora parole in difesa della Costituzione - La Costituzione è sotto assedio. Che fare? Resistere non basta. I magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste.- Infine viene fuori il vero Ingroia - Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni, e non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti e certe stanze del potere lo è, ma io confesso non mi sento del tutto imparziale, anzi, mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Anpi, ma sopratutto perché sono un partigiano della Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgere, so da che parte stare».

Insomma, parole destinate a far scalpore, ma pronunciate comunque, nonostante il pm fosse consapevole di ciò che avrebbero provocato. «Ho accettato l’invito di Oliviero Diliberto pur prevedendo le polemiche che potrebbero investirmi per il solo fatto di essere qui - ha infatti esordito il magistrato di Palermo dal palco dell’assise del Pdci - ma io ho giurato sulla Costituzione democratica, la difendo e sempre la difenderò anche a costo di essere investito dalle polemiche».

La previsione sulle critiche è stata azzeccata. Infatti, dal Pdl sono giunte affermazioni di biasimo nei confronti del reo confesso. Il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchito, ha ringraziato ironicamente il «dottor Ingroia per la sua chiarezza. Sappiamo che le vicende più delicate riguardanti i rapporti tra mafia e politica stanno a Palermo nelle mani di pm contrassegnati dalla massima imparzialità».

Più dure le parole del presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. «Sono gravi e inquietanti le parole di Ingroia che confermano l’animo militante di alcuni settori della magistratura. Da persone così invece che comizi politici ci saremmo attesi le scuse per aver fatto di Ciancimino jr una icona antimafia quando invece organizzava traffici illeciti e nascondeva tritolo in casa. Ingroia conferma i nostri dubbi. E sul caso Ciancimino dovrebbe spiegare molte cose. Porteremo questo scandalo e il suo comizio odierno all’attenzione del Parlamento dove sarà anche il caso di discutere della nostra mozione sul 41 bis che fu cancellato per centinaia di boss al tempo di Ciampi e Scalfaro e che anche ora il partito di Vendola vorrebbe abolire».

«Non era mai accaduto che un magistrato in servizio, già esposto mediaticamente su più di un fronte, prendesse la parola a un congresso di partito per attaccare maggioranza parlamentare e governo. Oggi il dottor Ingroia lo ha fatto con il suo intervento al congresso dell’ultimo partito comunista rimasto,congresso che naturalmente lo ha applaudito in sfregio a qualsiasi principio di separazione dei poteri», sottolinea Giorgio Stracquadanio, deputato del Pdl. Insomma, Ingroia se lo aspettava: le sue parole avrebbe suscitato un vespaio. E così è stato.

Ma non c'è da stupirsi della partigianeria di Ingroia. Qualunque magistrato è partigiano a favore di una Costituzione "catto-comunista" che ha elevato a "dio in terra" la figura del magistrato e che l'andazzo istituzionale ha legittimato la magistratura da organo costituzionale a "Potere costituzionale", pur non avendo alcuna delega rappresentativa del potere del popolo sovrano.

Nel libro, («L'uso politico della giustizia», ed. Mondadori, pag.320), tutti gli aspetti dell'anomalia italiana sono descritti da Cicchitto analiticamente: l'anomalia italiana e il sistema Tangentopoli, la Prima Repubblica e il finanziamento irregolare dei partiti, la mafia, Andreotti Falcone Violante e le cooperative rosse e bianche, Magistratura democratica, l'uso politico della giustizia e Berlusconi, Marcello Dell'Utri e la mafia, l'establishment finanziario-editoriale e i furbetti del quartierino e la Banca d'Italia.

A cominciare dalla scelta fatta da Palmiro Togliatti di fare il ministro di Grazia e giustizia nel primo governo di unità nazionale: «Il segno di un'attenzione, poi risultata crescente, del Pci nei confronti degli apparati dello Stato (magistratura, polizia, carabinieri, esercito, Guardia di finanza, servizi segreti) che doveva fare il suo salto di qualità negli anni Settanta con l'azione condotta da Ugo Pecchioli e successivamente da Luciano Violante».

Mentre «nella magistratura emergeva progressivamente la tendenza a una crescente conquista di influenza, di potere, di immagine nella società italiana», spinte favorite dall'ordinamento giuridico italiano che consente alla magistratura un'autonomia assoluta, e finchè nel 1964 sorge Magistratura democratica, un'associazione di magistrati dichiaratamente di sinistra e che diventa un vero e proprio soggetto politico e si collega al Partito comunista dando un colpo mortale allo Stato di diritto, fondato sulla divisione dei poteri e sulla terzietà del giudice.

È in questo quadro che Cicchitto passa in rassegna la vicenda di Tangentopoli e di Mani pulite, con l'interpetrazione dominante e paradossale di opporre politici colpevoli ad imprenditori vittime, mentre le grandi imprese italiane erano tutt'altro che concusse e dal sistema di Tangentopoli traevano tutti gli utili possibili: «C'è ancora da spiegare - e Cicchitto cita Francesco Cossiga - perché la classe politica fu decimata mentre la classe imprenditoriale fu risparmiata, considerando i corrotti più colpevoli dei corruttori».

Sicchè i nomi di Craxi, Forlani, Andreotti vengono cancellati dalla nomenclatura del paese, mentre Agnelli, De Benedetti, Ligresti neppure vengono sfiorati, «un colpo di Stato legale, nel senso che un ordine autonomo dello Stato, indipendente ma non sovrano, ha surrogato il potere sovrano del Parlamento, ha prevaricato gli altri poteri, ha modificato gli equilibri della vita politica democratica, ha decretato la morte di passati storici, usando come arma di giudizio storico e politico l'indagine giudiziaria».

Ma fu anche un suicidio collettivo. L'operazione contro Andreotti non riuscì soltanto per la determinazione di Luciano Violante, che arrivò a portare i «pentiti» dinanzi alla commissione parlamentare antimafia e ad interrogarli da solo e prima dei giudici, e di Giancarlo Caselli, insediatosi alla Procura di Palermo con l'aiuto di Violante, e del Pds e dello schieramento giustizialista, ma anche perché la Dc si arrese senza combattere: «Quando il fuoco fu concentrato su Bettino Craxi - ricorda Cicchitto - la Dc lo abbandonò al suo destino, ritenendo che consegnando i socialisti ad bestias, le procure si sarebbero accontentate e anzi la Dc si sarebbe liberata di un insidioso concorrente».

Quando Craxi prese la parola alla Camera per spiegare il ruolo svolto dal finanziamento irregolare sul sistema dei partiti, e si poteva ancora salvare la dignità e il ruolo politico del «Parlamento degli inquisiti», il silenzio della Dc e di tutto il gruppo dirigente democristiano segnò la fine senza onore di quel Parlamento e di quel partito. E quando il centro alternativo alla sinistra postcomunista e giustizialista fu inopinatamente reinventato da Silvio Berlusconi con la fondazione di Forza Italia, il circo mediatico giudiziario, alleanza permanente fra alcuni gruppi finanziari-editoriali, un settore della magistratura e il Pds, tornò all'attacco. Berlusconi, che fino al 1993 non aveva avuto a che fare con la giustizia, ha totalizzato dal momento della sua scesa in campo circa quaranta provvedimenti giudiziaria e la Fininvest ha avuto circa quattrocento tra perquisizioni e sequestro di documenti.

Ma Berlusconi, ammaestrato da quello che era avvenuto alla Dc, al Psi e ai partiti laici, non solo si è difeso nei processi, ma si è difeso anche dai processi, nel senso che ha posto dinanzi all'opinione pubblica il problema che l'azione combinata dalle procure e dalle catene editoriali e dal Pds-Ds mirava non solo a distruggerlo sul piano politico-giudiziario e sul piano aziendale-finanziario, ma anche a modificare nuovamente il sistema politico uscito dalle elezioni del '94 e a impadronirsi del potere.

L'operazione non riuscì perché, diversamente da Andreotti e dalla Dc, Berlusconi ha reagito sul piano politico e mediatico e l'offensiva giudiziaria contro Berlusconi è sostanzialmente fallita su entrambi i fronti lungo i quali si era sviluppata, quelli concentrati nel tribunale di Milano e quelli riguardanti i rapporti con la mafia presso i tribunali di Palermo, Caltanissetta e Firenze: «Il teorema giudiziario secondo il quale nella nascita di Forza Italia avrebbe avuto un peso fondamentale nientemeno che l'intenzione del boss mafioso Leoluca Bagarella di dar vita, dopo la fine della Dc, a una nuova formazione politica e in questa chiave avrebbe letto l'impegno di Marcello Dell'Utri di spingere Berlusconi a fondare il nuovo soggetto politico, ha sovrapposto alla vicenda politica uno schema giudiziario del tutto distaccato dalla realtà del nuovo sistema politico italiano».

Ed è sicuramente destinato a far la fine del teorema giudiziario inventato per processare Giulio Andreotti e che, non a caso, i professionisti antimafia della Procura di Palermo avevano pomposamente intitolato «La vera storia d'Italia». Il libro di Fabrizio Cicchitto, nel ricostruire minuziosamente la vera storia dell'uso politico della giustizia, ne è la migliore dimostrazione.

TOGHE CANTERINE. TOGHE CHE RIVELANO SEGRETI D'UFFICIO. TRE MAGISTRATI NEL MIRINO DI WOODCOCK. L'ipotesi del pm: hanno rivelato segreti d'ufficio. Coinvolta anche Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa

«Come è messo quel soggettino di giù?». Scampolo di conversazione carpita tra Augusta Iannini e il suo collega Vincenzo Barbieri. Oggetto del colloquio: le informazioni sulle pratiche disciplinari che riguardano un magistrato. Sempre la Iannini confida al suo interlocutore di essersi informata anche al Csm. Erano i giorni della retata di giugno in casa reale, dell’arresto di Vittorio Emanuele di Savoia. Ma il «grande fratello» di Potenza, attivato sempre dal pm anglonapoletano Henry John Woodcock, continuava a registrate telefonate «interessanti» i cui sviluppi hanno portato all’iscrizione sul registro degli indagati di sette, otto magistrati.

Secondo «L’Espresso» in edicola oggi, l’inchiesta potentina arriva al cuore del ministero di Giustizia, chiamando in causa tre magistrati dirigenti di via Arenula: Vincenzo Barbieri, Augusta Iannini, capo del Dipartimento Affari di giustizia, e Angelo Gargani, vicedirettore del dipartimento Organizzazione giudiziaria. I tre alti dirigenti sarebbero indagati per rivelazione del segreto d’ufficio (Barbieri anche per peculato).

Ma nell’inchiesta del pm Henry John Woodcock sarebbero coinvolti pure magistrati di Roma e Potenza, come il viceprocuratore generale della Repubblica Gaetano Bonomi (interessato ad avere anche lui notizie sulla situazione di Woodcock).

E il fratello di Angelo Gargani, l’europarlamentare di Forza Italia, Peppino Gargani.

Va detto subito che i fascicoli dell’inchiesta potentina sono stati trasferiti per competenza ad altre procure: Roma, Perugia, Salerno e Catanzaro. E che le posizioni dei singoli indagati sarebbero diverse tra loro.

Poche settimane prima della grande retata di giugno, che portò in carcere Vittorio Emanuele di Savoia, il pm Henry John Woodcock aveva arrestato una banda di truffatori. Fonte «Polifemo», il maggior indagato, Massimo Pizza, aveva confermato ai giudici potentini le sue relazioni con monsignor Francesco Camaldo, un alto prelato del Vaticano, il vicecerimoniere capo del Papa. Il quale era finito sotto intercettazione. Ed è stato attraverso monsignor Camaldo che il pm Woodcock ha intercettato Vincenzo Barbieri.

Dalle indiscrezioni raccolte dal giornalista Marco Lillo, sembra di capire che negli atti sottoscritti dal procuratore di Potenza Giuseppe Galante quel «come è messo quel soggettino di giù», pronunciato da Augusta Iannini, si riferisse proprio al pm Woodcock. Ora, che Barbieri fosse informato delle pratiche disciplinari del pm potentino, rientrava nelle sue competenze. La contestazione della procura di Potenza è che Barbieri non poteva rivelare quelle informazioni ad Augusta Iannini. Che replica alle indiscrezioni dell’«Espresso» sottolineando due aspetti. La prima: «Al Csm non ho mai chiesto niente, né formalmente né informalmente». Ma soprattutto ricordando i suoi doveri istituzionali: «E’ sotto la mia responsabilità la vigilanza sui servizi della giustizia penale e civile».

Due altre vicende vedono protagonista Barbieri. In un caso chiede informazioni a un pm romano sulla posizione del figlio di una personalità, finito in carcere per droga. La seconda, quella che ha trascinato nell’inchiesta i fratelli Gargani: Angelo, anche lui al ministero della Giustizia, e l’europarlamentare Peppino. Barbieri, sapendo di essere intercettato, rivela a un suo interlocutore che i due fratelli Gargani erano intervenuti perché il Consiglio di Stato bocciasse la sentenza del Tar che gli aveva dato ragione sul suo diritto ad essere nominato presidente del Tribunale di Civitavecchia. Le prove? Nessuna. Tanto che per gli inquirenti quella telefonata ha il sapore soltanto di una vendetta.

PRIVILEGI, SEGRETI E CONCORSI TRUCCATI

Dimitri Buffa: Da cosa si distingue una corporazione, come quella in toga dei magistrati della penisola, rispetto ai comuni mortali? Dalla abilità nel mantenere riservati i dati sui privilegi, gli emolumenti e le mille prebende che il potere assegna loro.

Per esempio, chi sa quanto guadagna un singolo giudice Costituzionale? E con quale pensione si consola?

E' un vero segreto di Stato che dimostra come la vera casta in Italia siano loro:  i magistrati.

Che siano ordinari o amministrativi, costituzionali o onorari cambia solo l'emolumento non certo l'omertà discreta che avvolge il tutto.

Ora un aneddoto che spiega meglio la materia del contendere: c'era una volta   un avvocato, Tommaso Palermo, difensore civile di molti magistrati in pensione il quale si illudeva che un giorno o l'altro le quiescenze cosiddette di annata sarebbero state perequate. E che per questo motivo bombardava ogni giorno che Dio mandava in terra il Ministero del Tesoro, la Ragioneria dello Stato e la Presidenza del Consiglio per sapere con quali decreti certe categorie di magistrati (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Consulta ecc.) ottengono determinati trattamenti. Non ebbe mai risposta. E nessuno a tutt'oggi sa nulla sul trattamento previsto dalla speciale cassa di previdenza dei magnifici 15 della Consulta, istituita nel 1960 su base volontaria (unico caso nella pubblica amministrazione). Segreto di stato. Altro che Abu Omar. L'ultima volta che, poco prima di morire, il suddetto avvocato Palermo aveva mandato un telegramma all'ufficio pensioni della Presidenza del Consiglio in via della Stamperia  glielo rimandarono indietro con sopra la dicitura "destinatario sconosciuto".

C'è voluto l'ottimo lavoro di Raffaele Costa per districare parzialmente il ginepraio dei privilegi della casta in toga.

Così oggi noi sappiamo che al Consiglio di Stato 419 persone costano 130 miliardi di vecchie lire l'anno: il Presidente ha un lordo annuo di 220 mila euro , l'ultimo dei consiglieri quasi 65 mila.

La Corte dei Conti  ha a ruolo quasi 550 consiglieri. L'ultimo della scala gerarchica guadagna seimila euro  lordi al mese, il primo quasi 20. Poi ci sono le indennità e i fringe benefits. Spesa globale, dipendenti inclusi, almeno 130 miliardi di rimpiante lire ogni anno.

L' Avvocatura dello Stato ha 780 dipendenti che costano 100 milioni di euro  l'anno. Un avvocato generale può arrivare ai 200 mila euro annui, il procuratore di prima nomina a 60 mila.

C'è poi il capitolo Corte Costituzionale,  una vera e propria oasi dove si fa a cazzotti per entrare anche come semplice autista visto che lo stipendio lordo iniziale raramente è inferiore ai 3 mila euro al mese a cui va aggiunta una contingenza che i giornalisti semplicemente si sognano. Per di più lor signori  hanno persino i cosiddetti "assegni Befana" ogni sei gennaio, assistenza scolastica, assistenza estiva e invernale per le vacanze dei bimbi, sussidi persino per i furti subiti in casa. I giudici, sebbene le cifre esatte siano un vero e proprio segreto di Stato, raramente scendono sotto i 250 mila euro lordi annui. Però poi godono di una serie di privilegi che vanno dall'appartamentino con vista sul Quirinale per i fuori sede, all'automobile con autista a vita, a due assistenti di studio,un segretario particolare  e un addetto di segreteria, alla bolletta telefonica a carico della collettività. Che è a vita per gli ex presidenti. Le pensioni per i giudici costituzionali superano i 15 mila euro mensili. Tutto questo ben di Dio costa altri 80 milioni di euro l'anno allo Stato.

Il costo per la collettività degli stipendi dei circa 9 mila magistrati italiani è di più di  1 miliardo di euro. Circa il 30% superiore a quello che la Francia spende per i loro omologhi di Oltralpe. 

Di quella cifra, i  magistrati di Cassazione, da soli, ne assorbono poco meno della metà: sono un esercito fatto di generali, circa 770 unità . A essi si aggiungono altre 2500 toghe che prendono lo stesso stipendio grazie alla scellerata legge che fa fare carriera per anzianità invece che per merito. E che invano il ministro Guardasigilli del governo Berlusconi, Roberto Castelli, cercò di riformare e che il Guardasigilli Clemente Mastella ha invece ripristinato con tutte le garanzie, le prebende e i privilegi di casta. In media un giudice di Cassazione guadagna più di 150 mila euro l'anno. Cui si aggiungono diverse indennità di funzione che variano da persona a persona. Per di più le loro retribuzioni sono agganciate a quelle dei parlamentari in un continuo trascinamento reciproco: quando aumentano le une lo fanno anche le altre. Comunque, secondo i dati ufficiali rilevati dal Csm, su 9246 magistrati italiani, meno di 350 risultano in servizio presso le dodici sezioni civili o penali che compongono la Suprema Corte. Gli altri hanno la qualifica o lo stipendio ma fanno altro. E ringraziano il '68 in toga che si concretizzò nella famosa, anzi famigerata, legge Breganza, quella che abolì il merito per la progressione in carriera. Che però fu varata dieci anni prima di quegli anni che qualcuno si ostina considerare formidabili.

E a proposito di privilegi, benché non sia mai stata applicata, la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988 varata sull'onda dell'emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane sono riuscite anche a stipulare  un accordo molto vantaggioso con le assicurazioni. Siglato da una parte dall' ANM e dall'altra  dalla  BNL Broker Assicurazioni : con soli 138 euro e 60 all’anno, si sono così messi al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di errori giudiziari. Eventualità invero remota visto che  la legge voluta da Vassalli e Craxi ( cui gli interessati dimenticarono di attestare eterna gratitudine) mette a carico della collettività l'eventuale errore per colpa grave del singolo. Ma nella vita non si sa mai. 

Come se non bastasse la casta del partito dei giudici, ora ci sono  nuovi privilegi e nuovi privilegiati che bussano alle porte dell'assistenzialismo di stato: i giudici onorari.

E nel 2005 la spesa pubblica per i giudici di pace  ha assorbito risorse per  135 milioni di euro all’anno. Se poi venissero accolte le richieste di “stabilizzazione” della categoria per almeno 4.500 unità (sulle circa novemila in servizio), si registrerebbe un ulteriore aggravio per la collettività pari a 142 milioni di euro.

Naturalmente a simili trattamenti non corrispondono, come è sotto gli occhi di tutti, risultati di eccellenza. Un  rapporto del Consiglio d’Europa , a inizio 2005, ha assegnato le “pagelle” alle toghe dei diversi Stati membri.

I dati che sono fermi al 2002, ma dopo è andata anche peggio, parlano di uno stipendio dei giudici italiani superiore del 30 per cento a quello dei colleghi francesi.

La nostra spesa pubblica per il pianeta giustizia risulta fra le più elevate, benché altri Paesi europei abbiano tempi molto meno biblici per la definizione di cause e processi: Svezia, Germania e Olanda  svolgono ad esempio le cause civili in meno di metà tempo di quanto necessario in Italia per procedimenti di analogo impegno.

Molti scaricano la colpa su un'altra categoria superprivilegiata di questa casta fra le caste: i magistrati fuori ruolo. Nel 2004 il loro numero era di ben 728, mentre altri 1.182 risultavano assegnati ad incarichi extragiudiziari.

E qui il privilegio si incrocia con il potere politico che il partito dei giudici sta assumendo nel tempo: questi fuori ruolo spesso sono in uffici legislativi e scrivono quindi le leggi che poi altri colleghi applicano dopo che il Parlamento le ha supinamente approvate. Altri  sono consiglieri del governo, e quindi condizionano il potere esecutivo e altri ancora, per la precisione due per ciascuno membro della Consulta, di fatto scrivono le sentenze della Corte costituzionale facendo il lavoro sporco di ricerca giurisprudenziale e orientandola secondo i desiderata degli interna corporis. Fra l'altro i magistrati ordinari distaccati presso la Corte Costituzionale oltre ad avere lo stipendio da consiglieri di Cassazione godono di altre indennità e privilegi.

Qualche anno fa destò un certo scandalo alla Consulta quando si seppe che alcuni di loro prendevano indennità altissime di fuori sede pur vivendo a Roma, ma conservando la residenza fuori dalla capitale. Nessuno li potè citare per truffa e neanche la corte dei conti potè chiedere i danni  in quanto la Corte costituzionale ha una propria autonomia amministrativa nell'ambito della quale può fare quello che crede. Sempre a spese del contribuente.

Last but not least, i concorsi per diventare magistrati negli ultimi venti anni hanno registrato scandali a non finire finiti sotto la lente, in questo caso meno severa, di altri magistrati.

Esclusi i concorsi truccati recenti, il più famoso fu quello  del 1991 denunciato da due esclusi, l'avvocato Pier Paolo Berardi  di Asti e Teresa Calbi di Civitavecchia. A sua volta figlia di un giudice di Cassazione. Venne fuori che si correggevano elaborati in meno di tre minuti e che alcuni presentavano evidenti segni di riconoscimento  mentre altri non erano neanche stati corretti benché scartati. Tra gli elaborati finiti sotto inchiesta anche quello di un ex giudice costituzionale e di un magistrato che divenne segretario generale del CSM.

Alla corte dei privilegi

Uno stipendio doppio di quello del capo dello Stato. Appartamento di servizio. Assistenti. Liquidazioni da favola. Auto con chauffeur anche dopo la fine del mandato. La vita dorata dei giudici costituzionali

La carica di giudice costituzionale è molto ambita. Non a caso per scegliere quelli di nomina parlamentare i partiti si azzuffano per anni. A causa certo della delicatezza del ruolo, visto che la Consulta è chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi, a decidere sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, ad ammettere o respingere le richieste di referendum. Ma anche per la grande appetibilità dell'incarico, per il quale scendono in pista parlamentari di grido, docenti di chiara fama, illustri giuristi e principi del foro. Tutti desiderosi di scalare il colle del Quirinale dove ha sede la Consulta e di conquistare lo scranno. Che non significa solo indossare la toga suprema tra le alte magistrature della Repubblica, ma anche aggiudicarsi appannaggi e benefits principeschi. A cominciare dallo stipendio.

Quanto guadagnano i designati? 416 mila euro lordi nel caso del semplice giudice, addirittura 500 mila il presidente. Una cifra che fa impallidire il compenso del presidente della Repubblica, inchiodato a 218 mila euro e umilia quello del presidente del Consiglio che, sommando indennità parlamentare (146 mila euro), stipendio da premier (altri 55 mila) e indennità di funzione (poco più di 11 mila) è riuscito a malapena a superare i 210 mila euro l'anno. Ma alla Corte costituzionale gli alti livelli retributivi non portano benefici solo per i nove anni previsti dal mandato. Scaricano effetti miracolosi anche sulla liquidazione e il trattamento pensionistico dei magistrati. Anche nei casi di cessazione anticipata dall'incarico.

L'esempio più eclatante è quello di Romano Vaccarella. Professore di diritto processuale civile e difensore in vari processi di Silvio Berlusconi, proprio grazie al sostegno del Cavaliere era stato eletto dal Parlamento alla Corte nell'aprile 2002. Sarebbe dovuto restare in carica fino al 2011, ma lo scorso anno, polemizzando con il governo Prodi, si è dimesso. Con quali risultati? Ricongiungendo alla stregua di qualsiasi dipendente pubblico i suoi periodi lavorativi all'università con le annualità della Consulta, Vaccarella è riuscito ad arrivare a 46 anni di anzianità lavorativa. Circostanza che gli ha permesso di riscuotere una superliquidazione di 1 milione 200 mila euro lordi (circa 850 mila netti) che si sarebbe solo sognato se fosse rimasto semplice professore. Un vero record, ma non isolato. Trattamenti di questo livello sono una regola per i giudici. E si allineano alle altre ricche dotazioni garantite dalla Corte: un folto staff di assistenti-portaborse, appartamenti di servizio, auto gratis e autisti ad personam praticamente a vita. Ma quanto ci costano questi giudici? Com'è regolato il loro trattamento economico?

Di quali benefits godono esattamente? La Corte costituzionale costa ogni anno circa 50 milioni di euro. A parte la modesta entrata legata alla vendita di sue pubblicazioni (7 mila 800 euro), tra le voci attive di bilancio ci sono solo le ritenute del trattamento di quiescenza sulle retribuzioni del personale (900 mila euro) e quelle dei giudici (450 mila). Per il resto si regge completamente sul contributo dello Stato che per il 2007 è stato di circa 46 milioni di euro (47 milioni nel 2008).

Di queste risorse per i giudici si spendono circa 6 milioni per le retribuzioni e 4 per le loro pensioni (i trattamenti in corso sono 24, vedove comprese). Come organo costituzionale, al pari di Camera, Senato e presidenza della Repubblica, la Consulta organizza autonomamente attraverso l'Ufficio di presidenza (tre giudici più il segretario generale) le sue attività e dispone a proprio piacimento delle risorse economiche (il 90 per cento se ne vanno in spese fisse), senza la minima interferenza esterna. La struttura amministrativa (circa 220 persone) è divisa in vari servizi (studi, gestione del personale, ragioneria, eccetera) che supportano l'attività della Corte ed è guidata da un segretario generale, nominato dalla presidenza con incarico temporaneo tra alti magistrati o esperti. 

In questo universo burocratico approdano i giudici al momento della nomina. In carica per nove anni, i fortunati vengono per un terzo designati dalle tre magistrature superiori (Cassazione, Corte dei conti, Consiglio di Stato), per un altro terzo dal Parlamento in seduta comune e per il resto scelti direttamente dal presidente della Repubblica. Si insediano cominciando a contare sulla ricca retribuzione che per legge è equiparata a quella del primo presidente della Corte di Cassazione aumentata però della metà. In totale, fanno appunto 416 mila euro. Un premio aggiuntivo va poi al presidente, al quale viene riconosciuta una indennità di rappresentanza pari a un quinto della retribuzione del giudice: sono altri 80 mila euro circa, che fanno lievitare la retribuzione a quasi 500 mila. A chi non piacerebbe riscuotere un simile appannaggio?

Alla Consulta gran parte dei giudici ci riescono perché, tranne poche eccezioni, quasi tutti riescono a scalare il supremo scranno. Il presidente non viene infatti scelto dai membri della Corte in base ai meriti, ma tenendo conto dell'anzianità di carica. Per questo si continua ad assistere a un tourbillon di nomine, anche per brevissimi periodi. Qualche esempio: per soli otto mesi sono stati presidenti Annibale Marini, Piero Alberto Capotosti e Gustavo Zagrebelsky; per 4 mesi Valerio Onida; per 3 mesi Giuliano Vassali e Francesco Paolo Casavola; addirittura per appena 44 giorni Vincenzo Caianiello, presidente dal 9 settembre al 23 ottobre del 1995. Pochi giorni, ma poco importa. L'essenziale è che lo stipendio corra. Naturalmente accompagnato dagli altri appannaggi. A cominciare dallo staff.

Il giudice può contare su una segreteria composta di tre persone, una delle quali assunta anche dall'esterno. Tutto qui? No, perché l'eletto ha poi diritto ai cosiddetti assistenti di studio, da lui scelti fiduciariamente. Si tratta di persone specializzate, professori universitari e magistrati (attualmente i distaccati dal Csm sono una quarantina) che fanno ricerche e allestiscono fascicoli sulle delicate questioni che la Corte è poi chiamata a dirimere. In origine questi assistenti erano quattro e per tutti e 15 i magistrati della Consulta. Ma con gli anni i loro ranghi si sono infoltiti: nel 1961 sono diventati uno per ciascun giudice; dall'84, anno in cui si è registrato un vero boom, i magistrati si sono autoassegnati ciascuno addirittura tre assistenti che, oltre a continuare a riscuotere lo stipendio dell'amministrazione di provenienza, incassano pure una discreta indennità dalla Corte: 33 mila 690 euro l'anno (oltre il cellulare gratis) se lavorano a tempo pieno, più di 25 mila se impiegati a tempo parziale. Questi assistenti dovrebbero restare alla Corte al massimo nove anni, quelli del mandato del giudice che li chiama. Ma lasciare il palazzo e i suoi privilegi non è facile, così scaduto il novennio molti fanno di tutto per restare accettando persino una ricollocazione nel cosiddetto "ossario", termine con il quale viene ormai definito l'ufficio studi.

Come mai questo andazzo? Perché prestigio a parte, l'impegno alla Consulta non è poi così massacrante. I giudici infatti lavorano a settimane alterne (senza contare che per tutto il mese di luglio e fino al 20 settembre di regola si fermano del tutto). In quella in cui sono impegnati (l'altra viene definita manco a dirlo "settimana libera") arrivano in sede il lunedì pomeriggio per la camera di consiglio, il martedì fanno udienza pubblica, dalla mattina seguente discutono le cause e scrivono sentenze. Il giovedì alle 13 finisce tutto, raramente i lavori si trascinano nel pomeriggio. Ma se accade niente paura, i giudici possono tranquillamente ritirarsi e fare la siesta nei confortevoli pied-à-terre, 2-3 stanze con bagno e angolo cottura, di cui sono dotati (anche quelli residenti a Roma) al quinto piano della Consulta o nel vicino palazzo di via della Cordonata. Un punto d'appoggio che consente di evitare strapazzi e soprattutto di risparmiare soldi per l'albergo o l'affitto di un appartamento.

Come stabilito dall'ufficio di presidenza i giudici costituzionali hanno poi diritto a una carta di libera circolazione sulle ferrovie; al rimborso dei viaggi aerei e dei taxi; a una tessera Viacard e a un apparato telepass per la libera circolazione sulle autostrade. Non potevano poi certo mancare il cellulare e il computer e nemmeno il telefax, anche a casa e a spese della Corte, come l'utenza telefonica fissa dell'abitazione privata.

Poi c'è il capitolo autovettura. Ai giudici è riconosciuto il rango di ministro. E come quest'ultimo hanno diritto a una macchina di servizio con ben due autisti personali, a disposizione sia a Roma che nella città di residenza. Ma mentre il ministro perde il privilegio una volta cessato dall'incarico, il giudice costituzionale conserva l'auto (solitamente di grossa cilindrata, Audi, Lancia e Alfa Romeo) e il diritto ai servizi di uno chauffeur anche quando va in pensione, sia che abiti o lavori a Roma come Leopoldo Elia (cessato dalla carica di presidente nel lontano maggio del 1985) e Antonio Baldassarre (ex presidente della Rai, titolare di un avviatissimo studio legale, recentemente indagato nell'indagine sulla cordata da lui rappresentata per l'acquisizione di Alitalia), sia che risieda fuori dalla capitale. In situazioni come questa o l'autista viene distaccato in loco (è il caso di Gustavo Zagrebelsky che vive in Piemonte) o raggiunge l'emerito in auto dalla capitale (succede con Valerio Onida a Milano).

Insomma, un servizio completo, con qualche ulteriore stonatura. Come nel caso di Francesco Paolo Casavola, presidente in pensione dal 1995 e da allora dotato dalla Consulta della sua brava vettura con autista. Solo che Casavola cumula: dal 1998, come presidente della Treccani, dispone anche di un'altra macchina di servizio. Interessanti anche le clausole fissate dalla Consulta per l'utilizzo delle auto. Ciascun giudice ha diritto a una dotazione di carburante: 405 litri mensili per quelli in carica, 360 per gli emeriti. Con la Corte che si fa carico di tutte le altre spese, a cominciare da quelle per il garage e per un servizio di manutenzione mensile, per la tassa di circolazione, l'assicurazione, il furto, l'incendio, il soccorso stradale e persino il rinnovo delle patenti degli autisti in servizio.

Infine, il ricco capitolo delle liquidazioni e delle pensioni. Il periodo durante il quale il giudice ha ricoperto la carica, sia svolgendo il mandato pieno di nove anni che quello ridotto in conseguenza di una cessazione anticipata, è utile alla pensione. Il mandato del giudice costituzionale è assimilato infatti a un rapporto di pubblico impiego e, ai fini pensionistici, è ricongiungibile, secondo la normativa fissata per i pubblici dipendenti, con i servizi prestati presso lo Stato o con ogni altro periodo di lavoro subordinato. 

È proprio grazie a queste ricongiunzioni e agli alti livelli retributivi concessi a giudici e presidenti che si registrano alla Corte i casi di superliquidazione (la buonuscita viene calcolata sulla base dell'ultimo stipendio moltiplicato il numero degli anni di lavoro) come quello di Vaccarella.
Un caso non isolato: Gustavo Zagrebelsky, giudice dal settembre del 1995 e presidente della Consulta dal 28 gennaio al 13 settembre 2004, per esempio, ricongiungendo gli anni della carriera universitaria come professore ordinario con i nove di Corte ha alla fine accumulato 38 anni di anzianità lavorativa. Circostanza che gli ha permesso di riscuotere una liquidazione di 907 mila euro lordi, al netto ben 635 mila.

E i giudici che vengono dal libero foro e che facendo semplicemente i liberi professionisti non hanno mai lavorato per lo Stato e non hanno altri periodi di lavoro dipendente da ricongiungere, come vengono liquidati?

È il caso di Fernanda Contri, giudice dal 1996 al 2005: la sua liquidazione, calcolata solo per il periodo trascorso alla Consulta, le ha fruttato circa 222 mila euro lordi. Davvero ragguardevole considerando che si tratta solo di nove anni di lavoro. Quanto alle pensioni, anche su di esse le ricche retribuzioni fanno sentire effetti portentosi. Romano Vaccarella, ricongiungendo gli anni di università con quelli alla Consulta, può riscuotere 25.097 euro lordi mensili (pari a 14.288 euro netti); Zagrebelsky 21.332 euro lordi (12.267 euro netti), mentre Fernanda Contri si porta a casa ogni mese un assegno di 10.934 euro lordi (netti: 6.463) che per soli nove anni di mandato fanno impallidire persino le vituperate pensioni dei parlamentari che, con un periodo di anzianità identico, riscuotono "appena" 4.351 euro mensili.

Davvero una grande performance quella della Contri. E nemmeno l'unica. Con soli nove anni di anzianità lavorativa alla Corte, essendo equiparata a un pubblico dipendente, l'avvocato-giudice nemmeno avrebbe avuto diritto alla pensione. Il minimo di anni richiesto a uno statale per riscuotere l'assegno dopo le riforme degli anni Novanta è stato infatti portato a 20 anni. Come ha fatto allora a spuntare l'appannaggio? Per la Contri è stata applicata un'apposita leggina che ha portato il requisito dell'anzianità minima per la pensione richiesta ai giudici costituzionali provenienti dal libero foro solo a nove anni. Guarda caso, proprio quello che a lei serviva.

Le toghe della Procura Generale Militare  presso la Cassazione tengono in media 6 udienze l'anno.

Giudici militari, viaggio premio dopo 2 mesi di ferie.

Un terzo dei magistrati in Spagna per un convegno. Prevista anche una diaria di 80 euro.

Stremati da dieci settimane di pausa estiva, che per consuetudine comincia intorno al 10 luglio e si trascina fino all'ultima decade di settembre, i magistrati militari hanno deciso di tuffarsi di nuovo nel lavoro con un convegno internazionale. Nella bellissima Toledo. Dove, per attrezzarsi ad affrontare al meglio i mesi finali dell'anno quando sono attesi a volte perfino da tre udienze al mese (tre al mese!), sbarcano oggi in trentadue: un terzo di tutti i giudici con le stellette italiani. Perché mandare una delegazione di due o tre persone se tanto paga lo Stato? I viaggetti in comitiva, si sa, sono dalle nostre parti una passione antica. Basti ricordare certe migrazioni di massa a New York per il Columbus Day. O la trasferta di un gruppo di deputati regionali siciliani in Norvegia (con un codazzo di musicisti di un'orchestrina folk, trenta giornalisti, quattro cuochi, un po' di mogli...) per vedere come i norvegesi avessero organizzato un mondiale di ciclismo: totale 120 persone. O ancora la spedizione di Bettino Craxi a Pechino («andiamo in Cina con Craxi e i suoi cari», ironizzò Giulio Andreotti) finita con mille polemiche sulla scelta di tornare con una sosta in India per far visita al fratello Antonio, discepolo del santone Sai Baba, e una strepitosa interrogazione parlamentare di Renato Nicolini con domande tipo: «Vuole il presidente dirci quali siano le attrazioni di Macao e di Hong Kong più consigliabili al turista italiano al fine di sprovincializzarne la mentalità? »

Va da sé che, con questi precedenti, i giudici con le stellette hanno deciso che non era proprio il caso di fare gli sparagnini. E appena hanno saputo che nell'antica capitale della Castiglia organizzavano un congresso internazionale, si sono dati da fare. Certo, il tema del simposio («La legge criminale tra guerra e pace: giustizia e cooperazione in materie criminali negli interventi internazionali militari») non è una leccornia. Ma Toledo è Toledo. L'Alcazar! Il fondaco dell'Alhóndiga! Il Castillo de San Servando! La Plaza de Zocodover! La casa e i quadri del Greco tra cui la celebre «sepoltura del conte di Orgaz»! Fatto sta che la delibera del 5 giugno scorso era assai invitante: le spese del convegno (350 euro a testa, compresi il materiale didattico e i pasti all'Accademia di Fanteria), più le spese di viaggio e pernottamento, più il «trattamento di missione internazionale», più una indennità forfettaria giornaliera di un'ottantina di euro erano infatti a carico del ministero.

Un salasso? Ma no, avrebbe risposto la successiva delibera del 3 luglio.

Nonostante Padoa Schioppa stia sempre lì a pianger Miseria, diceva il documento, “sono state individuate disponibilità finanziarie, che consentono di coprire la spesa per la partecipazione al predetto congresso di tutti i magistrati.

Tutti? Crepi l'avarizia: tutti. Cioè 32. Tra i quali l'unico (unico) invitato come relatore, Antonino Intelisano. Vi chiederete: costi a parte, come farà la Giustizia militare a reggere per ben tre giorni senza un terzo dei suoi pilastri, dato che i giudici, da Vipiteno a Lampedusa, sono 103? Rassicuratevi: reggerà. Anche quando presidiano il loro posto di lavoro, infatti, non è che i nostri siano sommersi da cataste di fascicoli come i colleghi della magistratura ordinaria. Anzi.

I giudici della Procura Generale Militare presso la Cassazione, per dire, hanno dovuto sobbarcarsi nel 2006 (assistiti da 35 dipendenti vari, per circa metà militari e circa metà civili) sei udienze: una ogni due mesi, da spartire in quattro. I tre del Tribunale di Sorveglianza militare, che contano su 32 assistenti a vario titolo e hanno competenza sull'unico carcere militare rimasto aperto, quello casertano di Santa Maria Capua a Vetere do ve sono recluse solo persone in divisa condannate dalla giustizia ordinaria per reati ordinari, hanno un solo detenuto militare per reati militari: Erich Priebke, condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine.

Quanto ai dati complessivi, lasciano di sasso: i 79 magistrati «con le stellette» (in realtà non le portano per niente: sono giudici come gli altri solo che hanno scelto una carriera parallela) addetti ai nove tribunali sparsi per la penisola (Roma, La Spezia, Torino, Verona, Padova, Napoli, Bari, Cagliari e Palermo) e i loro 17 colleghi delle tre corti d'Appello (Roma, Napoli e Verona) sono chiamati infatti a lavorare sempre di meno. Al punto che nel 2006 hanno emesso, tutti insieme, un migliaio di sentenze su temi spesso irrilevanti se non ridicoli: circa 300 in meno dei verdetti penali (poi ci sono i civili) di un tribunale ordinario minore come quello di Bassano del Grappa.

Un esempio di carico di lavoro? Il presidente della Corte Militare d'Appello di Roma, Vito Nicolò Diana, quando dirigeva la sezione distaccata di Verona (dal 1992 a poco fa) aveva ottenuto non solo un alloggio di servizio nel cuore del centro storico della città scaligera (aiuto concesso solo ai militari che guadagnano stipendi assai minori) ma perfino il permesso di abitare nella capitale, in riva non all'Adige ma al Tevere. Insomma, una situazione assurda. Tanto che, dopo la prima denuncia del Corriere, i ministri della Difesa e della Giustizia, Clemente Mastella e Arturo Parisi, avevano scritto al giornale convenendo che si trattava d'un quadro «inaccettabile» e assicurando che «nel quadro del disegno di legge relativo alla riforma dell'Ordinamento Giudiziario» già approvato dal Consiglio dei ministri, erano stati decisi tagli drastici, «riducendo il numero complessivo degli Uffici Giudiziari Militari, giudicanti e requirenti, di ben due terzi: cioè da 12 a 4 (3 Tribunali e un'unica Corte d'Appello, senza Sezioni distaccate)». Bastarono tre giorni, però, perché il progetto venisse stralciato e quei buoni propositi fossero abbattuti come birilli dal vento delle proteste corporative.

Adesso, «per capire », vorrebbero fare una commissione di studio. La terza, dopo quella del 1992 varata dal ministro della Difesa Salvo Andò e quella del 2003/2004 presieduta dal procuratore generale Giuseppe Scandina. Nel frattempo la quota dei magistrati con le stellette che hanno tempo in abbondanza per gli incarichi extragiudiziari è salita al 36%, contro il 3% dei giudici ordinari. E il lavoro degli uffici, grazie a tutte le cose che sono cambiate a partire dall'abolizione del servizio di leva obbligatorio, ha continuato a calare, calare, calare. Fino a dimezzarsi quest'anno rispetto perfino al 2006. Benedetto Roberti, uno dei giudici che con Sergio Dini e pochi altri invoca da anni una riforma, ricorda che nel 1997, quando faceva il Gup a Torino, arrivò da solo a 1.375 sentenze. Sapete quante ne ha emesse quest'anno il giudice che fa quello stesso lavoro? Tenetevi forte: 28.